Torno per dirvi tutto
Di Lory Muratti
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Info su questo ebook
Lory Muratti ha un dono oscuro: chi è stanco di vivere vede in lui il complice ideale. È un “facilitatore di suicidi”, votato ad accompagnare le anime alla deriva che lo riconoscono come un possibile traghettatore. Un “dono” che Lory ha ereditato dal padre, Andrea Muratti, sulla cui recente morte decide di indagare, combinando in un gioco di autofiction i piani della realtà e dell’immaginazione.
Tra Parigi, il Lago di Bled in Slovenia, Vienna e Praga, nel suo periplo esistenziale e narrativo Lory trova una compagna di viaggio, o qualcosa di molto simile, nella misteriosa Ecli, una ragazza che si guadagna da vivere calandosi nei panni di “angelo custode” per uomini facoltosi, sfiniti e soli – una “escort del sonno” per le loro notti tormentate.
In questo scenario Lory dovrà fare i conti con il proprio lato oscuro divenuto ormai ingombrante, con il passato della sua famiglia che torna potente e inaspettato, con i nemici invisibili di un tempo, con la vera identità di Ecli e con la figura del padre, un grande burattinaio che sembra guidare i suoi passi anche oltre la morte.
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Anteprima del libro
Torno per dirvi tutto - Lory Muratti
citazione
«Io sono Lazzaro, vengo dal regno dei morti,
Torno per dirvi tutto, vi dirò tutto»
T.S. Eliot
1 - Viola
Viola è vestita di rosso e vola verso Milano.
A una ventina di metri da lei, inchiodato al suolo, ci sono io che trascino un trolley pronto a esplodere e resto indietro perché non mi veda.
Viola è in attesa di un miracolo e si muove nervosa al controllo bagagli. Quando si ferma in coda stringendo telefono e passaporto, lo fa come se stesse cercando di aggrapparsi al bordo di una finestra per non cadere, sospesa nel vuoto, al trentaquattresimo piano di un grattacielo. L’unico grattacielo di Parigi, quello in cui ieri sera ci saremmo dovuti incontrare superando corridoi dove i miei pensieri si aggirano ancora.
Arrivato in largo anticipo sull’appuntamento che ci eravamo dati, ho affrontato i pavimenti di marmo dell’hotel muovendomi come un fantasma. Un fantasma claudicante e non visto dal vetturiere che correva ad aprire sportelli per attempate signore, dal concierge sommerso di valigie rivendicate da medici in partenza. Invisibile ai più tranne a coloro in cui sono inciampato mentre tagliavo la grande hall diretto verso gli ascensori.
La mia immagine riflessa nello specchio ha accompagnato l’apertura delle porte scuotendomi. Profumi d’Oriente, liberati da scialli di donne che salivano in stanza a rifarsi il trucco, hanno avvolto anche me mentre un uomo che rideva scomposto mi ha messo paura.
Ristrutturazioni da poco terminate nell’hotel più alto di Parigi, a Porte Maillot dove un tempo i parchi restituivano la corsa di un bambino e ora è terra di congressi, appuntamenti di lavoro, lingue straniere e costosi drink a sottolineare l’illusione del volo.
Un volo di parole condivise che avrei mancato ma che, una volta fuori dall’ascensore, mi era parso di poter ancora spiccare.
La ragazza all’ingresso dello sky bar mi fissava pronta a chiedere chi fossi. La lista dei tavoli prenotati era già stata riordinata e si stagliava bianca sul leggio color noce di fronte a lei. Precisa e di poche parole, non avrebbe comunque avuto soddisfazione.
Facendole notare che tutti i tavoli alle sue spalle sarebbero rimasti liberi ancora per un po’, ho evitato di svelarmi. Un gesto accompagnato da un incedere sicuro, di fronte al quale anche lei ha dovuto convenire che non c’era motivo di attendere. Ha quindi accennato un sorriso lasciandomi passare, perfetta introduzione al vuoto che era pronto ad accogliermi.
Viola si trovava ancora impegnata sul set e, per almeno un paio d’ore, sarei stato al sicuro. Arrivata in città per lavoro, aveva ieri in programma un ultimo servizio fotografico.
«Quanto vorrei che lo fosse davvero» mi aveva scritto la sera precedente ricordandomi il nostro appuntamento. Impaziente e piacevolmente rassegnata all’idea di non potersi sottrarre a ciò che ci stava accadendo, aveva spedito diversi messaggi per assicurarsi che fossi proprio io la persona che aspettava di trovare sulla sua strada.
«E invece hai rovinato tutto», si sarà detta non vedendomi arrivare.
Trovare al mio posto un biglietto di scuse, le avrà fatto pensare a una fuga codarda, anche se voglio credere di aver solo rimandato il nostro momento.
È questo che proverò a scriverle, ho pensato sedendomi accanto alle vetrate. Racchiuso in trasparenza dentro la grande miniatura della città, avrei trovato le parole per dirle che non l’avrei incontrata.
Era l’inizio di settembre quando lei mi apparve per la prima volta davanti alla libreria Shakespeare&Co al 37 di Rue de la Bûcherie. Come d’abitudine, sostavo sotto lo sguardo attento della fondatrice che mi scrutava dal primo piano mentre io immaginavo di varcare la soglia del negozio in un pomeriggio del 1951. Attardarmi in quella pratica mi aiutava in genere a dimenticarmi di tutto e a viaggiare nel tempo. Quel giorno fu invece il presente a prendere il sopravvento.
«Non fosse per tutti questi turisti a spezzare l’atmosfera, si potrebbe pensare che la sagoma in cartone appiccicata alla finestra sia la vera Sylvia Beach» aveva esordito Viola accostandosi leggera.
Io mi voltai e mi bastò un istante per capire che il nostro non sarebbe stato solo un breve scambio di cortesie.
Dopo alcuni giorni di solitudine, faticavo sempre a distinguere il reale dall’immaginato. Decisi così di prendere tempo per abituarmi a quella nuova presenza mentre i volti attorno a noi si mescolavano tra foto posate e finti sorrisi. Viola non si mosse, restò lì a osservare l’ingresso assieme a me. Mi bastò questo per chiederle se volesse seguirmi all’interno della libreria che forse lei non conosceva e che io, le dissi, ero convinto di avere a lungo frequentato assieme agli altri Portatili
, in una vita precedente.
«Chi sono i Portatili?» chiese lei sottovoce accettando di avventurarsi oltre l’ingresso.
«Difficile dirlo con certezza» le risposi accompagnandola per gli stretti corridoi del piano terra. Volevo eludere una domanda alla quale io stesso l’avevo condotta.
Non avevo ancora fatto i conti però col suo sguardo. Uno sguardo che, lo scoprii in quel momento, non lasciava spazio ad alcuna incertezza. Stava lì e ti fissava sovvertendo le regole del silenzio. Una sensazione che non potevi ignorare e che, fra le pareti scricchiolanti presagi dell’antico negozio, mi portò a dire:
«Un Portatile è in grado di rendere la propria opera abbastanza leggera da poter essere trasportata ovunque lui decida di andare. Vale per ogni arte, ma vale soprattutto per la vita».
«Può quindi la vita essere un’opera d’arte, secondo te?» mi chiese lei afferrando un libro.
«L’opera per eccellenza a parer loro e mi trovano del tutto d’accordo.»
«E come dovrebbe essere un Portatile? Dimmi» continuò sfogliando pagine a caso per fingersi distratta.
«Uno spirito libero, irresponsabile, insolente» dissi imitando i suoi gesti per poi accostarla e confessarle in un orecchio: «Si dice che proprio in questa libreria furono gettate le basi di quella che sarebbe stata la più importante e forse l’unica società segreta di tutta la letteratura europea».
«Una società segreta?» chiese lei girandosi per guardarmi più da vicino. Poi si slacciò il soprabito e mi invitò a salire la breve scala che portava al piano superiore.
«La società Shandy» le dissi chiedendomi se fosse giusto svelarne il nome così.
Ispirato non tanto al famoso personaggio di Stern quanto a una bevanda alcolica piuttosto in voga all’inizio del secolo scorso, quel nome nascondeva invero molto di più e proprio per questo veniva serbato con cura dai membri della congrega.
Mi confortava nel mio slancio la convinzione che qualunque Shandy, se avesse potuto vedere Viola, l’avrebbe senz’altro considerata una potenziale e perfetta cospiratrice.
In quella che era una congiura culturale senza precedenti, cospirare tanto per cospirare era infatti l’attività preferita da coloro che animavano la società sotterranea, ed era proprio quello che anch’io e l’affascinante sconosciuta stavamo iniziando a fare. Una ragione sufficiente a parlarle di quei tempi per arrivare infine a parlare di noi.
«Quali artisti erano coinvolti?» chiese Viola sfilandosi la fascia che le tratteneva i lunghi capelli castani lontano dal viso.
Raccogliere secoli di bellezza non può in ogni caso prepararti a un gesto così armonioso e stanco. Tentennai guardandola; sentivo già con chiarezza quel preludio a cosa avrebbe potuto portare. Lei attendeva impaziente.
«Siamo a metà degli anni Venti e i protagonisti di questa storia sono personaggi come Edgar Varése, Paul Morand, Marcel Duchamp, Jacques Rigaut… ah quel Rigaut!» risposi sovrappensiero.
«Non lo conosco, era uno scrittore?»
«A dire il vero non si considerava tale e, per dirla con parole sue, scriveva solo per vomitare» le dissi mentre provavo a orientarmi fra gli innumerevoli scaffali alla ricerca di qualche titolo Shandy.
«Dici che potrei leggere qualcosa di suo?» mi chiese lasciando la stanza nella quale eravamo entrati.
Oltre una nuova soglia, si annidavano centinaia di volumi e, nella parete opposta, la grande finestra affacciata sulla piazzetta antistante l’ingresso lasciava entrare la fine dell’estate. Claudicanti supporti in legno sorreggevano vecchi materassi. Nascosti da copriletti colorati, si proponevano come appoggio per chi desiderava soffermarsi in lettura e diventavano la notte giaciglio per giovani scrittori che non avevano altro luogo in cui andare a dormire.
Mi guardai attorno e individuai il ripiano dal quale avrei estratto il testo che stavo cercando. Tornai da Viola e glielo porsi dicendo:
«Ti suggerirei di partire da qui».
Prendendo il libro, si portò tanto vicina che potei registrare d’un fiato il suo profumo. Un brivido la attraversò mentre leggeva ad alta voce il titolo dell’opera: Agenzia generale del suicidio.
Stringeva la copertina fra le mani inarcando le gambe e buttando le caviglie all’esterno come sostenuta da un differente tipo di equilibrio. Una posa strana, irreale.
«Miniaturizzare per i Portatili significava anche occultare e in un certo senso liberare» le dissi cingendole le spalle.
Un gesto a cui mi pento ancora oggi di essermi lasciato andare e che al contempo sento il desiderio di replicare quando, restando lontano, la osservo camminare per l’aeroporto.
Supero a mia volta il controllo bagagli e mi accorgo di averla persa di nuovo. Mi fermo e giro più volte su me stesso sperando che non mi veda proprio in questo momento. La cerco in affanno e la ritrovo grazie all’abito rosso che indossa per farsi coraggio e per provare a convincere sé stessa di essere davvero così forte. Stringe un caffè americano nella mano destra, con la sinistra riposiziona la tracolla. Guarda per terra uscendo da un bar. Si dirige verso il gate e io continuo a seguirla nonostante il mio volo sia quasi in partenza. Spero che farlo mi aiuti a ignorare il dolore che mi accompagna e la consapevolezza che, dove sono diretto, c’è solo il passato ad attendermi.
Vorrei concentrarmi su questo momento e riuscire a trattenerlo, ma so che ciò non sarà possibile. Mi concentro allora sul futuro che Viola porta addosso con il solo desiderio di evitarlo. In un eterno, provvisorio presente, mi concentro su di lei. Penso solo a lei che non ho la forza di fermare e che ieri non ho avuto il coraggio di aspettare. Penso a lei per non pensare a quello che dovrò affrontare.
«Il signore prende qualcosa?» mi ha chiesto il cameriere dalle altezze dell’ultimo piano dell’hotel. Una voce a cui non desideravo associare alcun volto, ipnotizzato com’ero da una grigia Parigi disposta tutt’attorno a togliermi il fiato.
Un semicerchio di cristallo tracciava in un abbraccio il confine ultimo tra il vuoto e lo sky bar. Tetti di zinco a farmi immaginare fughe improvvise e amanti equilibristi nel cuore della notte. Non riuscivo a staccare gli occhi dal mare di palazzi haussmaniani, accatastati come scogli.
«Mi perdoni, desidera che le porti qualcosa da bere, signore?» insisteva il ragazzo mentre io pensavo che in effetti era proprio un ragazzo e che io invece non lo ero già più. È stato a quel punto che mi sono girato per ordinare un calice di bianco e tornare subito a concentrarmi sull’orizzonte. Mi restava da scrivere il biglietto che attendeva intonso nella tasca interna della giacca. L’avevo comprato a misura perché potesse starmi sul cuore durante il tragitto fino all’Hyatt Regency. Lo spazio che avevo deciso di concedere al mio messaggio era di poche righe e mi dovevano bastare. Il danno ormai era fatto. Non avrei incontrato Viola.
Ti sto per dire qualcosa che non ti piacerà.
Soltanto ieri non avrei potuto immaginare di sentirmi così, ma le ultime ore sono state per me sconvolgenti e non sono più sicuro di riuscire a fare ciò che ti avevo promesso. Questa sera non potrò essere con te.
Ti raggiungerò a Vienna la prossima settimana, sempre che tu lo voglia ancora. Perdonami, se puoi.
Imprigionato dai suoni dell’aeroporto, la osservo sprofondare nella lettura di un libro, è in attesa dell’imbarco.
Approfitto di una folta comitiva di anziani giapponesi per celarmi nel loro brusio. Mi confondo nel calpestio incerto con cui ondeggiano intorno e vado a sedermi un blocco di poltrone più in là. Il mio volo sarà ormai sul punto di partire. Incapace di avvicinarla, non sono nemmeno in grado di allontanarmi da lei.
Viola ripone il libro e si alza a fatica come fosse stata trafitta da un’intuizione. Sa che dove è diretta non c’è più niente ad attenderla. Sente che a Milano non c’è più niente da fare. Scrive veloce sul cellulare e si immette nella fila di passeggeri che sciamano dormienti. Quando sento vibrare il telefono nella tasca interna della giacca, capisco che il messaggio è per me:
Ieri notte non ho chiuso occhio e ti ho odiato. Essere venuto di persona in hotel a lasciarmi uno stupido biglietto non compensa la tua assenza, ma non ho niente da perdere perciò va bene, vediamoci a Vienna. Ti aspetto alla sfilata di cui hai l’invito e che ora non potrò evitare.
Alzo rapido lo sguardo, ma lei è ormai di spalle. Vista da qui, è il contorno di un miracolo mancato che una parte di me insegue, mentre l’altra rifugge spaventata. Quasi avesse presagito possibili imprevisti, Viola aveva in ogni caso posto le basi perché potessimo ritrovarci.
«Ti va di bere qualcosa?» mi aveva chiesto uscendo dalla libreria nel giorno del nostro primo incontro e un attimo dopo eravamo seduti in una caffetteria distante pochi passi. Per circa un paio d’ore lei si raccontò senza concedere alcuno spazio ai tormenti che la abitavano e che era di certo abituata a mascherare. Non so se lo avesse programmato, ma avrebbe iniziato a mostrare le sue profondità soltanto la sera successiva.
Ci saremmo rivisti sulla Rive Gauche per fare dentro e fuori da vecchie brasserie. Bevevamo un bicchiere e andavamo nella successiva scambiando storie per ricostruire chi eravamo o chi fingevamo di essere. Viola, al posto di fare la modella, avrebbe desiderato essere una pittrice. Io invece avrei voluto non essere me.
«Se non ci fosse sempre qualche problema da risolvere, dipingerei giorno e notte» mi disse riferendosi al padre malato e a un fratello difficile. La madre se n’era andata alcuni anni addietro. «Ma una cosa positiva c’è: con quello che guadagno, riesco a pagare la casa, le cure per mio padre e posso sistemare le cose quando Arthur combina qualche casino. Fino a che non toccherà a lui occuparsi di tutto.»
Una frase strana alla quale decisi di non dare peso. Parole che tornano quando penso che non potrò sottrarmi al mio compito una seconda volta e che a Vienna dovrò esserci per lei.
È quella la nuova meta che la attende, una volta lasciata Milano. È lì che salirà in passerella per una giovane stilista sua amica. Ospite preziosa di una sfilata a cui farà seguito un party dove non vuole ritrovarsi da sola.
Mi chiedo se tornerò a essere me stesso per quella data. Un dubbio che lascia modo ai miei demoni di affacciarsi un istante. Sento il passato farsi prossimo e il presente scivolare sullo sfondo.
Viola intanto si allontana oltre l’imbarco e il suo splendido corpo si assottiglia in silhouette. Il mio nome negli altoparlanti ricorda a tutti i presenti dove sono diretto.
«Il signor Muratti è atteso all’imbarco del volo per Praga, ultima chiamata per il signor Muratti.»
Io però non mi muovo. Resto ancora fermo a immaginare i nostri piedi nudi sopra spiagge bianche e deserte. I mari, le mani e gli occhi che corrono indaffarati. Gli occhi che immagino nostri quando immagino Viola, ormai lontana.
Penso al motivo del mio viaggio e al passato che ora spetta a me tenere in vita. La voce amplificata decide di darmi una nuova ultima chance
così mi alzo. Non posso perdere questo volo.
Andrea Muratti si è spento a Praga.
Mio padre non c’è più e questa volta è lui ad avere bisogno di me.
2 - Gli invisibili
Ti ricordi quando eravamo sani di mente?
Spendevamo intere giornate ascoltando suoni che nessuno conosceva, al di fuori di noi. Non avevamo prove che qualcun altro li avesse già scoperti o sentiti prima, e questo era più che sufficiente a farci credere che fossero nostri. Ora potranno essere soltanto miei?
Ogni gesto mi appare confuso e pieno di fatica. Immagino che ciò accada perché la mia coscienza sta iniziando a permearsi dell’idea che non ci sei più. In queste ore ho provato a convincermi di star bene, ma non è servito. Tu non hai mai saputo dire certe cose e io porto il peso di chi, non potendo fingere con se stesso, è obbligato a fingere col mondo.
Passo dopo passo mi avvicino alla realtà e l’unica cosa che mi sia di conforto nel percorso è sapere che non ti avranno mai. Avere la certezza che ora non potranno più arrivare a te e che almeno tu sei libero, finalmente.
L’uomo dinoccolato tiene in mano un cartello con scritto il mio nome e si fa spazio fra la gente. Ho l’impressione di aver camminato fin qui da Parigi. Ci raggiungiamo. Lui mi guarda e non dice una parola.
«Dobrý den» dico io avventurandomi per dargli il buon giorno.
L’uomo risponde attaccando a parlarmi nella sua lingua. Mentre afferra le valigie, abbozza addirittura un sorriso.
«Nemluvím česky» chiarisco chiedendogli se possiamo invece parlare inglese. La sua espressione si tramuta però in delusione quindi di nuovo in silenzio. Fuori dall’aeroporto un cielo gotico ci attende.
Lo specchietto del taxi mi restituisce uno sconosciuto. Più mi osservo, più perdo la rotta. Mentre l’auto scende verso il centro, immagino come sarebbe la mia vita se fossi un manager arrivato in città per affari. Un uomo qualunque, più nero magari, più in tinta con l’aria di Praga, ma senza misteri insinuati in ogni angolo dello sguardo. Al pensiero di quello che sono invece diventato, suoni lontani, misti a ricordi annebbiati di mio padre, tornano a sommergermi. Vecchie armonie mescolate al rumore del tempo mi accompagnano da quando ho lasciato Parigi salendo in aereo per ultimo. Un volo preso in corsa con tanto di riapertura del portellone anteriore. Operazione che mi è costata il sentito rimprovero di uno steward, indispettito oltremodo da quella che deve aver letto come inopportuna predisposizione all’avventura.
Sprofondato nel sedile fra altri due passeggeri, ho fatto quindi del mio meglio per ignorare i continui sguardi di lato, ma non c’è stato niente da fare. Incapace di abbandonarmi e riposare, ho ceduto più volte al ricordo delle modulazioni distanti che sentimmo una mattina d’estate, tanti anni fa. Ci raggiunsero all’improvviso nel grande parco di un hotel, durante un soggiorno nel Sud della Francia. Solo più tardi avremmo scoperto che si trattava di alcuni ospiti alle prese con dei prototipi di hang, uno strumento in metallo che produceva note molto risonanti. A piedi nudi sui sassi dei viali scomposti che conducevano alla spiaggia, ci avventurammo per vedere fino a dove il loro suono ci avrebbe condotti. Quando io restavo indietro, tu mi venivi a prendere. Mi sorridevi tendendomi la mano. Erano i giorni della nostra complicità, quando ci nascondevamo per non pensare a mia madre.
Nessuno sarebbe stato pronto a scommettere su noi due, a quel tempo, e siamo invece riusciti a superare la tempesta senza cadere mai. Avremmo del resto recuperato più tardi.
Il tassista mi scarica al 432 di Újezd.
Miloš ha provveduto a mandarmi un’auto per accertarsi che mi avrebbe visto prima che il suono della Moldava e dei suoi spiriti mi facesse smarrire come accade d’abitudine ogni volta che arrivo in città.
Abbandonato come un pacco su un marciapiede di Malá Strana, accendo una sigaretta di fronte al luogo che ha accolto le ultime ore di Andrea.
Sorrido nel ritrovare la struttura più dimessa di come la ricordavo e inizio a pensarla in relazione a lui. La facciata elegante e priva di eccessi stilistici richiama la vita che mio padre ha sempre provato a condurre agli occhi del mondo. La somiglianza più profonda è però all’interno, dove innumerevoli storie si annidano in un labirinto di porte, scale e cortili.
La memoria rigetta immagini a caso e, ovunque io mi giri, non riesco a vedere altro che il suo profilo. Frammenti impazziti che provo a rallentare e