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Guida curiosa ai luoghi insoliti della Romagna
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E-book334 pagine4 ore

Guida curiosa ai luoghi insoliti della Romagna

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Info su questo ebook

Le storie più strane e misteriose della regione, raccontate dalle sue città, dai suoi palazzi e dalle sue vie

Un viaggio nelle storie e nei luoghi più bizzarri, una guida per chi ama la Romagna e non ne è mai veramente sazio

Ci sono aspetti della Romagna che tutti noi conosciamo: la riviera, le città turistiche come Rimini, Ravenna e Forlì, la piadina. Ma questa non è che la superficie. Dietro di essa esiste una Romagna nascosta, ricca di meraviglie, stranezze e storie misteriose.
Dalla casa natale di Vincenzo Monti al sepolcro di Dante, un’arca marmorea a lungo privata delle ossa del poeta, dalla Terra del Sole, quasi un sogno di Cosimo I de’ Medici, alla chiesa di Polenta, a cui Carducci dedicò una famosa ode, passando da un’antica domus, dalla casa museo di Raffaele Bendandi, lo scienziato che voleva predire i terremoti, da Palazzo Milzetti, dalla casa di Mussolini a Predappio, da Villa Saffi e da tanti altri luoghi: un itinerario affascinante attraverso la Romagna più nascosta, uno sguardo approfondito sulle piccole cose che, meno rumorose dei grandi eventi della storia, hanno caratterizzato la vita della regione. Un racconto dettagliato, animato dall’amore per un territorio al tempo stesso conosciuto e ancora da scoprire.
Paolo Cortesi
È scrittore e saggista. Il suo romanzo Il patto ha riscosso un notevole successo di critica e pubblico. Tra i numerosi libri pubblicati con la Newton Compton ricordiamo: Misteri e segreti dell’Emilia Romagna; Forse non tutti sanno che in Emilia Romagna…; Guida insolita ai misteri, ai segreti e alle curiosità dell’Emilia Romagna, Luoghi segreti da visitare in Romagna, Le grandi profezie che hanno cambiato la storia e l’ebook L’ultimo incubo di Kafka.
LinguaItaliano
Data di uscita27 ott 2022
ISBN9788822764089
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    Guida curiosa ai luoghi insoliti della Romagna - Paolo Cortesi

    LA ROMAGNA

    DEGLI SCRITTORI

    La casa di Marino Moretti a Cesenatico (foto di Fotographer481 su licenza CC BY-SA 4.0).

    CASA MIA SUL CANALE

    La casa museo di Marino Moretti a Cesenatico (Forlì-Cesena)

    Nessuno scrittore, nessun poeta è stato tanto affezionato e legato, direi riconoscente, alla sua casa quanto Marino Moretti.

    Ne ha scritto in molte occasioni e, ogni volta, come se parlasse di un amico, o di una sorella. Per Marino Moretti, infatti, la «vecchia casa sul canale» era molto più di un edificio: era «suscitatrice e madre» di ricordi, in cui trovare «la verità di me stesso e dell’arte», come scrisse in una splendida prosa intitolata Casa mia sul canale, compresa nel volume Tempo felice (1929).

    Moretti si rivolge direttamente alla casa come se dialogasse con un’amica: «Non mi spiace di non aver avuto orgogli, povera casa, per te. Scricchiolavi, e un giorno coi miei risparmi t’ho rassettata, ma senza ringiovanirti troppo, senza abbellirti, senza appenderti al collo un monile. E ora mi sei più cara perché mi appari immutata così, vedi, come non muta l’anima mia».

    La casa non fu solo luogo degli affetti, ma protagonista nella delicata trama familiare: «Casa mia sul canale» scrisse il poeta, «ora penso che, quando mia madre morì ed io restai solo col padre, ti rivelasti a noi come cara massaia e fosti tu la famiglia e ci proteggesti e amasti stringendoci insieme forte nelle tue braccia invisibili».

    La casa fu, a lungo, una specie di sacrario della memoria della madre di Marino, Filomena, morta a 67 anni nel 1922 e alla quale il poeta era straordinariamente legato. Stanze e mobili furono, dopo la sua scomparsa, come reliquie che Marino custodiva con una dedizione un po’ inquietante e che mostrava agli amici più cari: «Qui era il letto della mamma, egli m’annuncia a voce bassa», scrisse Ugo Ojetti, in un capitolo del suo Cose viste dedicato ad una visita a casa del poeta di Cesenatico. «Lungo il muro pende ancora il cordone del campanello; là sta ancora confitta una stampetta a colori che le era cara, col volto di Gesù dalla Cena di Leonardo. Accanto ad esso, in una teca di vetro, una statuetta di cera di Santa Filomena, lunga un palmo; poi, dentro una cornice, un ricamuccio in lana, d’una grande croce nera e di tre parole maiuscole ‘A mia madre’, ed è un altro dono d’un’ammiratrice lontana la cui carta da visita sta lì tra vetro e cornice. Tutto è lindo e ordinato come in un parlatorio di monache il quale ha la sua tavola e il suo divano e le sue sedie e i crocè sulle spalliere e le sante immagini, ma sembra vuoto».

    Moretti descrive la sua casa natale (dove vivrà tutta la sua lunga vita, dove tornerà sempre al termine di numerosi e anche lunghi soggiorni all’estero e in Italia) indulgendo sulle «vecchie stanze», sui «mattoni corrosi», sui «segni di umidità alle pareti» e sul «cigolio delle porte (a ognuna il suo cigolio)»; ma la casa, in realtà, non era così malridotta e meschina.

    Era, invece, una casa a due piani abbastanza grande per essere degna di un borghese, anzi di un imprenditore, perché il padre del poeta, Ettore, era computista, cioè ragioniere comunale; ma possedeva barche da trasporto che affittava.

    Marino non ignorava che avere «la casa di proprietà», come scrisse, faceva della sua «una delle migliori famiglie» di Cesenatico, il paese di pescatori sul mare in cui era nato il 18 luglio 1885.

    Senza la casa avremmo avuto quel particolare gusto dell’aristocrazia familiare che mi faceva capire, a me bimbo, tutta l’importanza d’essere nato nella stessa stanza dov’era nato mio padre? Ci saremmo sentiti così uniti nella nostra qualità di famiglia assai rispettabile e con quel senso patriarcale che fa pensare al tizzo che non si spegne, alla perpetuità sacra del lare?

    Insomma: non erano tante le famiglie nella Cesenatico di fine Ottocento che avevano domestica e balia, come i Moretti.

    La casa di Marino si trovava su quella che era via Mazzoni quando vi nacque il poeta; oggi (dal 1981) è giustamente intitolata a lui.

    L’aveva comprata suo nonno paterno Salvatore (1818-1892), originario di Pesaro, che era capitano marittimo e proprietario di grosse barche da trasporto, chiamate trabaccoli.

    Da Salvatore passò al figlio, Ettore (1849-1928), padre di Marino, che erediterà la casa alla morte del genitore. L’altro figlio maschio di Ettore, Olindo, si era suicidato nel 1904, a ventidue anni; pare in seguito al rifiuto di un suo amico a cui si era dichiarato innamorato.

    Fino alla seconda guerra mondiale, la casa Moretti non era la prima della schiera che si affaccia sul porto-canale, come appare oggi, bensì la seconda a partire dalla strada che conduceva al ponte, ancora esistente. Lo scrisse in verso anche il poeta: «perdute ch’ebbe le compagne a lato».

    Risalente alla prima metà del xix secolo, la casa della famiglia Moretti ospitò in una sua parte, fino al 1928, la bottega, un po’ bazar, un po’ salsamenteria, di un tale Domenico Gusella. Si trovava nell’ampia sala al piano terra, a sinistra dell’ingresso, che ora contiene la biblioteca del poeta: durante la visita, la guida vi dirà che le tre alte nicchie nel muro che ora accolgono, su scaffali, i libri appartenuti al poeta, furono scansie in cui venivano allineati i prodotti in vendita. I mobili della stanza furono acquistati dal poeta a Firenze, alcuni da un antiquario, altri dall’amico intimo Aldo Palazzeschi, quando questi si trasferì da Firenze a Roma.

    L’ampia finestra che adesso illumina la stanza fu la vetrina della bottega che veniva aperta sulla strada e a essa si accostavano i compratori.

    Scrisse Marino:

    Accanto alla porta d’ingresso c’è, lo sai bene, la ricca bottega di paese che vende di tutto, fruste e cipolle, fiammiferi e spago, civaie e baccalà, e sull’ora del mezzodì e a sera per l’ora di cena tutte le donnette della contrada sciamano come api verso il prodigioso alveare; tutte con una bottiglietta in mano che sarà riempita solo a metà dell’olio dorato o verdastro, se non v’è qualcuna che torna indietro coi cartoccetti dello strutto o del lardo.

    Marino scrisse che, alla bottega del pizzicagnolo, Garibaldi «si rifornì, pare, di salami e prosciutti e non credo pagasse in contanti», quando, con i suoi volontari reduci da Roma, arrivò a Cesenatico il 2 agosto 1849, e sequestrò barconi per tentare di raggiungere Venezia via mare (non ci riuscì). La notizia, tuttavia, non è certa e forse il poeta inventò un episodio storico con cui arricchire l’antica sua «casetta di paese», o propose una memoria familiare chissà quanto veritiera.

    Uno spazio veramente caratteristico della casa di Moretti è il corridoio d’ingresso, lungo e stretto, sul quale si aprono le stanze al pianterreno, e a metà del quale parte la scala che conduce al piano di sopra.

    Moretti appese alle pareti del corridoio, ma anche della scala che porta al primo piano, diverse stampe che gli venivano regalate dagli amici. Sono incisioni di varie epoche che raffigurano città o paesaggi legati al donatore, di cui recano tutte la firma e una dedica al poeta. Marino chiamava questa la parete dell’amicizia.

    In fondo al corridoio c’è il cortile interno (il «cortile murato con placide mura»), uno spazio non grande, ma caratteristico e molto amato dal poeta: «quante memorie care / questo stretto recinto anche ci serba».

    Marino Moretti in una foto degli anni giovanili.

    Nel cortile, con il pozzo, le piante di rose e di calicanto («Io molto amo il calicanto fatto piantare dalla mia povera mamma nel 1911 o 12»), visse fino al 2003 la più che centenaria tartaruga Cunegonda che, nonostante il nome, era di sesso maschile. L’animale fu regalato a Moretti nel 1935 da un amico in modo veramente insolito. La tartaruga, di oltre sette chili, venne messa in una scatola di legno forato, assieme ad una foglia di lattuga e ad un biglietto: «Si chiama Cunegonda ed è maschio». Poi il pacchetto venne spedito per posta e recapitato a Moretti, che in terza persona raccontò in proposito: «Un amico gli aveva promesso uno stupendo pavone e gli manda invece una brutta testuggine. Così fanno qualche volta gli amici».

    Altro spazio fondamentale nella casa (e nell’anima) di Moretti è la cucina. Per scriverne, Marino fece una curiosa eccezione, usando termini dialettali, lui che non parlava romagnolo e anzi lo comprendeva poco. Ma la cucina, cioè la cusèna, era da secoli il cuore vivo e caldo della casa e della famiglia; era il luogo, reale e ideale, in cui la famiglia si riuniva per il rito della condivisione del cibo e della parola. E dunque Marino poteva parlarne solo usando i termini della arcaica lingua di Romagna, quel dialetto che sua madre, la signora maestra e moglie di un notabile di Cesenatico, non volle che il figlio prediletto imparasse e tantomeno parlasse.

    Marino Moretti ricordò, nei suoi scritti autobiografici, «un gran cucinone, con un’arola non più alta delle seggiole»: l’aròla è il piano, in mattoni, che sta sotto al grande camino e sul quale si trovano gli spazi per cucinare i cibi, con le fiamme alimentate da più fuochi a legna; spesso vi è anche un piccolo forno. Il termine romagnolo, aròla, ha la sua radice etimologica nel latino ara: l’altare, e questo ci conduce ad un passato remotissimo in cui il fuoco domestico era sacro, prima ancora che necessario alla vita familiare.

    L’arola di casa Moretti è un esempio non comune di cucina ottocentesca romagnola, intatto nella sua struttura. Accanto ad essa, oltre ad un canterano «dalla patina nera con gli sportelli che ricordavano le porte delle chiese barocche», c’era la matra, che in dialetto romagnolo indica la madia, l’imponente mobile – tradizionalmente trasmesso da madre a figlia – in cui si conservavano farina e pane, al quale era applicato un’asse mobile, che quando non la si usava poteva essere alzata in verticale e fissata al corpo della madia, e che fungeva da tagliere – tulìr, in dialetto – su cui si stendeva la pasta nei giorni di festa, o si impastava la piadina.

    La matra bassa sui piedini a sghembo, più corti di dietro per darle una posizione leggermente inclinata e tetragona ai colpi d’impasto, aveva i quattro regoli riportati sulla faccia anteriore a formare il rudimentale ornato di una coppia d’angoli coi vertici in su. Si capiva che questo era il mobile principale e più antico della cucina e della casa: il più antico e il più sacro.

    La cusèna, nelle parole di Moretti, è un luogo fantastico, nel quale ogni oggetto, ogni scorcio suscita ricordi, non tutti davvero fedeli alla realtà vissuta, ma evocatori di un universo struggente, malinconico eppure dolcissimo, nel quale la sola ragione possibile è quel prodigioso ineffabile inganno che chiamiamo poesia.

    Al primo piano, l’ambiente più prezioso per accostarsi all’anima di Moretti poeta è lo studio. E di questa stanza, veramente significativo è l’angolo dove si trova – oggi come un tempo – la scrivania sulla quale Moretti scrisse quasi tutte le sue opere. Essa è collocata davanti alla finestra e la luce arriva da destra, così che la mano getta ombra sulla pagina. È una scomodità evidente, che Ojetti notò nella sua visita: «Marino, non le dà fastidio, quando scrive, la luce da destra?».

    La risposta rivela non tanto la tecnica quanto la poetica di Marino Moretti:

    Ha ragione: è una tavola incomodissima, e scrivere su questa macchia d’ombra invece che sulla carta bianca è un gran fastidio. Ma su questo tavolino troppo alto, su questa sedia troppo bassa, su questa logora cartella, dentro quest’ombra della mia mano io ho scritto tutti i miei libri. Mi ci sono abituato oramai. Non so scrivere in un altro luogo, non so scrivere in un altro modo. L’abitudine è tanta che io non scrivo mai col lume. Quando la luce del giorno si spegne e la mia mano non mi fa più ombra, obbedisco e smetto di scrivere.

    E senza fare della psicanalisi troppo acrobatica, c’è un altro dettaglio emotivo, se non psicologico, che salta all’occhio. Il tavolo da lavoro di Moretti era del tutto simile a un banco di scuola. Lo segnalò Ojetti: «La tavola che presso la finestra fa da scrivania a Marino Moretti è stretta quanto un banco di scuola». La madre del poeta, l’adorata Filomena, era maestra elementare e Marino fu anche suo allievo per un anno scolastico. Non è senza senso supporre che il poeta volle continuare inconsciamente a sentirsi alunno della mamma e il suo lavoro di scrittore restò, inconsapevolmente ma tenacemente, lo svolgimento del compito scolastico sotto lo sguardo amoroso e amato della mamma–maestra, di cui teneva la fotografia appesa sulla scrivania: gli bastava alzare gli occhi dal foglio per vederla, sopra di lui, come quando in classe passava tra i banchi a controllare i quaderni aperti.

    La camera da letto custodisce l’ampia poltrona regalata al poeta dall’amico Alfredo Panzini. E c’è anche una valigia, quella «valigia monumentale, trionfale: di cuoio, d’autentico cuoio» che Marino usava nei suoi viaggi e che, dopo alcuni anni, era «rivestita d’un numero stupefacente di etichette d’alberghi: ovunque sbucava fuori l’insegna d’un Palace, d’un Savoy, d’un Excelsior, d’un Bristol, d’un Italie, d’un Europe, d’un Royal, d’un Beaurivage, d’un Bellevue: angoli di paradiso, specchi di lago, culmini eccelsi, tramonti marini, avanzi di templi, rovine, piramidi. Ed era come se la mia valigia fosse il campionario illustrato dei piaceri e della bellezza del mondo».

    Il 4 aprile 1978, Moretti (che sarebbe morto poco più di un anno dopo, il 6 luglio 1979) firmò il testamento pubblico con cui destinava al Comune di Cesenatico la sua biblioteca e il suo archivio. La sorella del poeta, Ines, il 27 febbraio 1980 donò al Comune la casa di Marino e i mobili che conteneva, per farne un istituto culturale e consentire «a studiosi e visitatori di poter accedere alla libreria, agli autografi, all’archivio, ai cimeli lasciati dallo scrittore Marino Moretti» e anche «a conservare, nella sua interezza e integrità la casa in cui nacque, visse e si spense lo scrittore Marino Moretti, e con essa l’ambiente materiale e spirituale in cui Egli si formò, ai margini della sua Cesenatico, di fronte al porto canale da cui la narrativa e la sua poesia trassero più volte ispirazione».

    Oggi, l’abitazione che fu di Moretti è una bellissima casa museo che conserva gli ambienti, ma anche l’atmosfera in cui visse e scrisse il poeta. La casa ha una sua dimensione raccolta, quieta; non è una galleria di mobili dimenticati che stanno invecchiando o di gelidi oggetti che emergono opachi dal passato: è una casa che potrebbe essere di nuovo abitata, da una famiglia numerosa, da un momento all’altro; così come ci si aspetta di vedere entrare, nella camera in cui osserviamo un libro o una stampa, Marino silenzioso, quasi esitante, come un nonno discreto.

    Casa Moretti, istituto diretto con intelligente passione da Manuela Ricci, offre ai visitatori visite guidate condotte da personale capace e attento. Da giugno a settembre, la casa museo è aperta tutti i giorni, compresi i festivi, dalle 16,30 alle 22,30. Negli altri mesi, è aperta solo il sabato, la domenica e giorni festivi, con lo stesso orario. Consiglio di contattare sempre il museo (tel.: 054779279) prima della visita per verificare orari e accessibilità.

    Sarebbe, infatti, un vero peccato arrivare a Cesenatico e trovare chiusa la casa di Marino Moretti, che così ne scriveva: «Ricordati che in queste poche stanze è la tua vita e che altrove tu non sei tu».

    IL CUORE E LO STIPENDIO

    La casa natale di Vincenzo Monti ad Alfonsine (Ravenna)

    Vincenzo Monti fu il più fortunato dei poeti italiani. Non intendo parlare della sua fortuna letteraria, ma della fortuna vera e propria, di quella ineffabile misteriosa caratteristica che pare proteggere e favorire chi ne è dotato: intendo proprio dire che Monti, nonostante i suoi tanti scivoloni, le sue tante bassezze, la sua malsicura dignità di intellettuale, cadde sempre in piedi, anzi non cadde affatto ma, sotto tutti gli opposti regimi di cui fu di volta in volta sostenitore sfegatato, collezionò onori, autorità e un sacco di soldi.

    Nel tempo in cui la propaganda si faceva in versi e con il codice mitologico, fu propagandista della monarchia e della repubblica, di re Luigi xvi e di chi lo ghigliottinò, del papa e di chi lo cacciò da Roma, di Napoleone e di chi lo sconfisse. E riuscì sempre a salvare la pelle e la faccia, restando poeta ammirato, usando sempre e solo una giustificazione: Servivo con entusiasmo chi comandava, non farlo sarebbe stato rischioso.

    Monti visse tra Settecento e Ottocento (tra il 1754 ed il 1828, per l’esattezza) ma ha tutti i tratti di una figura simbolica perenne, quella di chi vive identificandosi con il potere costituito, qualunque esso sia, e che sopravvive a ogni mutamento di governo, perché ciò che può cambiare è la forma, la modalità, ma non la natura del potere. Insomma, Vincenzo Monti ci suggerisce una profonda riflessione, attualissima, sull’autentica essenza e funzione dell’autorità e dunque dello Stato.

    La casa di Vincenzo Monti ad Alfonsine (foto di Canali Laura su licenza CC BY-SA 4.0).

    Vincenzo nacque in un paesino a una dozzina di chilometri da Ravenna, Alfonsine. Lo strano nome si deve ad Alfonso Calcagnini, che alla fine del xv secolo, curò la bonifica di quelle terre, un tempo paludose. Figlio di gente non ricchissima ma benestante, Vincenzo sembrò destinato alla carriera ecclesiastica, che nella Romagna pontificia era garanzia di un posto sicuro nella società. E dato che quel ragazzino era sveglio e capace di parlare e scrivere bene, era quasi automatico immaginarlo, come minimo, segretario di un cardinale. Però il giovane, a vent’anni, lasciò l’ambiente dei preti e si iscrisse all’Università di Ferrara, dove studiò, poco e male, diritto e medicina: evidentemente non aveva ancora le idee chiare sul suo futuro.

    Le aveva, invece, chiarissime sul suo rapporto con il potere; a vent’anni scrive un endecasillabo a cui sarà fedele per tutta la vita: «Servirò e canterò per chi comanda».

    Come tantissimi giovani di talento della seconda metà del xviii secolo, dalla provincia si spostò a Roma in cerca di un mecenate. Era il 1778, e a Roma c’era un papa romagnolo, Pio vi da Cesena, dunque Monti pensò che quello era il momento buono per tentare il successo nella città santa. E a Roma Monti cominciò la sua carriera di abilissimo, suadente verseggiatore. Nel 1779 fu dissotterrato, per caso, presso Tivoli, un busto di Pericle; Vincenzo scrisse una lirica in cui affermava che, in confronto a quella di Pio vi, l’età di Pericle era «ignobile». Sembra una barzelletta, e invece ottenne un successo strepitoso che lo fece diventare il poeta del momento e gli aprì le porte di casa del potente nipote del papa, Luigi Braschi Onesti, di cui divenne il segretario, a dodici scudi al mese. Non è inopportuno tenere la contabilità professionale di Vincenzo Monti: vedremo che, per lui, la produzione poetica avrà sempre un tariffario che rappresentava non solo la sua fonte di reddito, ma anche la valutazione oggettiva della sua arte.

    Nel 1781, pubblicò La bellezza dell’universo, un poemetto in terzine che ripercorre tutto il creato, dalle stelle fino agli insetti, passando per l’uomo che è, manco a dirlo, il capolavoro divino.

    In quell’ultimo scorcio del Settecento accadono cose inaudite: esplode il 1789 come un’eruzione vulcanica che nessuno aveva osato pensare possibile. A Roma, la paura e la rabbia sono al parossismo; la Francia appare come l’Anticristo, tutti i valori millenari su cui era fondata la società (gerarchia, obbedienza, religione cattolica, classismo) sono stravolti. Per i romani è troppo: non è pensabile che si parli di uguaglianza, di libertà; loro non le vogliono perché non le hanno mai provate e dunque non sono possibili. In quei giorni, sulla statua di Pasquino si possono leggere epigrammi come questo:

    St’uguajanza che voi sempre ce dite,

    ‘sta libertà che a tutti predicate

    qui non ce piace un corno; lo capite?

    Per unicce alle vostre buggerate,

    bisogna aritrova’ genti stordite,

    e noi non semo quelli che cercate.

    Altre pasquinate sono più truculente:

    O Santo Padre, dateci licenza

    d’ammazzar tutti quanti li Francesi;

    e se poi ci mettete l’indulgenza,

    andremo sino nelli lor paesi

    per estirparne affatto la semenza.

    Ma quando i francesi arrivano a Roma, le cose si rivelano un tantino più complicate. Nel 1796, Napoleone entra in Italia dopo aver sbaragliato piemontesi e austriaci. In primavera la Romagna pontificia (si chiamavano le Legazioni) è perduta. Il 19 febbraio 1797, con il trattato di Tolentino, papa Pio vi rinuncia alle terre che ha perso sotto il rullo compressore francese: Ferrara, Bologna, Ravenna, Forlì, Cesena.

    Quando il pericolo non era imminente, tra gennaio e agosto 1793, Monti aveva scritto La Bassvilliana, un poemetto il cui curioso titolo derivava da Nicolas-Jean Hugou

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