L'uomo senza sonno
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L’assassino si nutre delle tue paure
Secondo dopoguerra. Bruno ha tredici anni e vive in un orfanotrofio vicino a Salerno, sottoposto alle continue angherie degli altri ragazzi.
Solo l’amicizia con Nino, il nuovo arrivato che prende a difenderlo, riesce a rendere tollerabile la sua permanenza nell’istituto. L’estate porta con sé un momento di libertà per tutti i ragazzi: Bruno e Nino saranno scelti per andare a lavorare insieme nella tenuta degli Aloia, una ricca famiglia del circondario. È qui che Bruno conosce Caterina, una strana bambina che vive all’ultimo piano della casa e che lo guida a esplorare i recessi dell’imponente edificio. Il gioco assume però ben presto contorni sinistri: Bruno inizia a essere tormentato da incubi inspiegabili, che al risveglio lo lasciano profondamente spossato.
Il ritrovamento, all’interno della proprietà degli Aloia, di alcuni cadaveri in avanzato stato di decomposizione, getta sulla villa e su chi la abita ombre inquietanti. A chi appartengono quei corpi? E perché tutti sembrano a conoscenza di qualcosa che non deve essere rivelato?
Questo romanzo è la storia di un’amicizia, di ricordi spezzati e di un brutale assassino che si nutre di paure. È la storia di Bruno e dell’estate in cui divenne l’uomo senza sonno.
Un’antica villa dall’atmosfera inquietante.
Due ragazzi che provengono da un orfanotrofio.
Una verità sepolta pronta a riemergere dal passato.
Hanno scritto dei suoi libri:
«Un libro consigliatissimo a tutti gli amanti del thriller e del noir.»
Milano Nera
«La sua scrittura è sempre molto fluida e i colpi di scena ben dosati e mai banali.»
MangiaLibri.com
Antonio Lanzetta
Vive a Salerno. Ha iniziato a scrivere fantasy/young adult, poi ha virato verso il thriller, prima con il racconto breve Nella pioggia, finalista al premio Gran Giallo di Cattolica, e poi con Il buio dentro, romanzo tradotto in Francia, Canada e Belgio. Il buio dentro è stato anche citato dal «Sunday Times» come uno dei cinque migliori thriller non inglesi del 2017.
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Anteprima del libro
L'uomo senza sonno - Antonio Lanzetta
1
Salerno, 2010
Bruno aprì gli occhi e i pagliacci sulla carta da parati gli sorrisero. Nasi rossi e labbra blu. Distese le gambe in avanti, schiacciò la nuca contro lo schienale della poltrona ed emise un gemito. Poteva sentire il lamento delle ossa, lo stridio delle vertebre logore. Se la figlia avesse saputo che passava le notti in quel modo, sgattaiolando nella stanza della nipotina mentre il mondo dormiva offuscato da un cielo color pece, l’avrebbe fatto rinchiudere in quella casa per anziani che aveva visto su internet.
La notte era fatta per riposare, ma quelli come lui non dormivano.
Non dormivano mai.
Strinse la mano della bambina mentre la Morte scolpiva il suo volto nel buio.
Marina. Uno splendido nome, pensò. Apparteneva al mare, e se chiudeva gli occhi poteva sentire le onde che si infrangevano contro gli scogli del porto, la spuma che divorava il litorale.
Sorrise.
Marina non poteva percepire gli artigli della notte che grattavano sul vetro per entrare, e questo era un bene. Non li avrebbe sentiti finché ci fosse stato lui a proteggerla.
Finché lui fosse stato in vita.
Si alzò con cautela, e una sensazione sgradevole, una pressione alla base dello stomaco che gli toglieva il respiro, lo trascinò fino alla finestra.
Palazzi uguali, file di auto uguali parcheggiate ai lati della strada, gli alberi scossi dal vento, il silenzio, una sagoma accarezzata dal neon di un lampione.
L’uomo gli sorrise.
Indossava un completo della domenica anche se non era domenica. Giacca, camicia, una cravatta dal nodo stretto e un cappello a tesa larga che gli copriva la parte superiore del viso. Se ne stava lì a fissarlo come se fossero buoni amici, ma si sbagliava. Loro non erano amici, e qualcosa nel suo sorriso lo disturbava, qualcosa di brutto che lo faceva sentire nel posto sbagliato. Lontano da tutto ciò che amava. Lontano e solo.
Bruno era sempre stato solo.
L’uomo alzò un braccio, quasi a salutarlo, e Bruno scoprì i denti in un ghigno ferale. Poi si voltò. Osservò Marina nel lettino e la vita gli scivolò davanti agli occhi. I sogni, le speranze, le paure. Il ragazzo che era stato e l’uomo che era diventato. Infilò una mano nella tasca della giacca da camera e il becco di un uccellino di legno gli affondò nel palmo. Un tepore gli risalì lungo il braccio fino al gomito e lui raddrizzò la schiena. Voci soffuse di un altro tempo, in un altro mondo, gli riempirono la testa come parole sussurrate dagli innamorati. Ascoltò le loro storie senza scomporsi, senza togliere gli occhi dalla strada.
L’uomo con il cappello era ancora lì, ma aveva smesso di sorridere.
Un ronzio elettrico, la pelle che si increspava sulle braccia. L’aria parve vibrare e il silenzio che ammantava il quartiere divenne pesante.
Bruno fece un respiro, poi posò l’uccellino sul davanzale e tornò al suo posto. Seduto su una sedia scomoda, con le ossa che gli chiedevano pietà, la mano stretta a quella della bambina e la morte che si faceva largo nella sua testa.
Domani, si disse, domani andrà meglio.
Bruno chiuse gli occhi e aspettò che l’alba bagnasse di sangue il giorno.
Parte prima
Sono solo tagli
2
Bruno si svegliò prima degli altri ragazzi.
Sapeva che sarebbero venuti a cercarlo e non voleva farsi prendere. Si rigirò sul materasso, attento a non far cigolare la rete della brandina. Osservò i corpi nascosti sotto le coperte, ne ascoltò i respiri e mise i piedi sul pavimento. Per non perdere tempo, la sera prima si era coricato già vestito. Una camicia di due taglie più grande e pantaloni corti con le cuciture logore. A tredici anni era più alto degli altri ospiti dell’istituto, superava le suore ed era solo questione di tempo, ne era certo, perché raggiungesse in altezza anche padre Mario. Aveva braccia e gambe lunghe ed era secco come un albero scheletrico: in quegli stracci che indossava lo sembrava ancora di più.
Lo Spaventapasseri. Era così che lo chiamavano gli altri.
Prese le scarpe e senza perdere di vista il suo vicino si rannicchiò sul pavimento e scivolò sotto il letto. Guardò le chiazze di urina sul materasso, che chissà quante volte era stato girato, e attese. Lì sotto si sentiva al sicuro, lo spazio ristretto, l’odore della polvere. Era come stendersi in una bara, chiudere il coperchio sulla faccia e restare al buio. Ascoltare il tonfo del battito del cuore, aspettare di restare senz’aria.
Conosceva bene quella sensazione perché l’aveva provata, l’estate precedente, quando padre Mario aveva mandato lui e altri due ragazzi a lavorare alle onoranze funebri. La guerra era finita, diceva il prete, e tutti dovevano dare una mano, anche loro. A Bruno non era dispiaciuta la cosa, amava quel posto. Il profumo dei fiori, il marmo freddo, il silenzio che non riusciva a trovare all’istituto. Non c’era nessuno che lo insultasse, nessuno che volesse picchiarlo. Doveva solo starsene lì a lucidare le casse, tutto il giorno. Se solo non gli fosse venuto in mente di chiudersi dentro una di esse, non sarebbe stato cacciato via dal becchino. Non sarebbe ritornato all’orfanotrofio con una nuova stranezza per la quale essere preso in giro.
Un fruscio lo strappò ai suoi pensieri. Un rumore di passi, qualcuno che bisbigliava. Bruno strizzò le palpebre, sentì che si stavano muovendo, che erano vicini.
Strinse le scarpe in una mano e serrò l’altra in un pugno. Forse avrebbe potuto fare a botte. Era più alto di loro, aveva le braccia lunghe. Se fosse riuscito a colpirne uno, gli altri si sarebbero spaventati e lo avrebbero lasciato in pace. Lui però non sapeva tirare pugni e loro erano troppi per affrontarli da solo.
Poi qualcosa gli afferrò la caviglia e iniziò a tirare. Dita che affondarono nella carne come artigli.
«Aiutatemi a prenderlo, si è messo qui sotto!», gridò una voce a cui subito se ne aggiunsero altre. Il latrato di cani affamati, il ruggito del branco. Bruno provò a resistere. Si aggrappò al letto e strinse i denti, ma quelle mani erano troppo forti. Gli mancò l’aria quando sentì il pavimento scivolare sotto la pancia. Venne tirato fuori dal nascondiglio e costretto a rialzarsi in un coro di risate stridule. Stavano ridendo tutti di lui, anche quelli che non partecipavano e si preparavano per la giornata come niente fosse. Bruno sapeva bene che erano felici di non trovarsi al suo posto, che quella cosa non stesse capitando a loro, e non li biasimava.
«Portatemi lo Spaventapasseri qua», gridò Onofrio mentre si metteva la maglia. Era arrivato all’istituto da meno di un anno, con un sorriso cattivo sempre stampato in faccia e la pelle così scura che pareva sempre sporco. Tra i ragazzi della sua camerata, Onofrio era quello che sembrava provare più piacere nell’umiliarlo.
«Guardate», gridò il ragazzo indicandolo. «Si è pisciato addosso».
Bruno abbassò gli occhi, vide una chiazza scura sui pantaloni di velluto e si morse il labbro. Il suono delle risate divenne assordante. Fece per liberarsi, ma qualcuno gli sferrò un pugno allo stomaco costringendolo a piegarsi in due. Anche da quella posizione, Bruno era più alto dei suoi aguzzini. Avrebbe voluto schiacciarli. Calpestarli come formiche.
Poi Onofrio gli strappò le scarpe di mano e lui non fece niente per riprendersele. Rimase lì a piangere mentre il ragazzo si sbottonava i pantaloni, tirava fuori l’uccello e si svuotava la vescica. Bruno continuò a piangere anche dopo, in mensa, quando le suore lo costrinsero a sedersi con i vestiti bagnati insieme a tutti gli altri.
«Zitto e mangia», gli urlò contro suor Gelsomina, spingendogli la testa sulla ciotola di latte e pane raffermo. Bruno non riusciva a trattenere i singhiozzi, qualcosa nella testa glielo impediva. Sapeva come sarebbe andata a finire se non si fosse controllato. Le monache avrebbero chiamato padre Mario e lui l’avrebbe chiuso nella cantina. Odiava quando lo mettevano nei sotterranei, si sentiva morire, lì sotto.
Suor Gelsomina gli prese un orecchio tra le dita e tirò forte. Bruno emise un gemito.
«Ma perché non la pianti, grandissima zoccola?».
La voce giunse come un tuono. Fece calare un manto gelido di silenzio sopra gli orfani, le suore e i tavoli puzzolenti di cibo. Tutti si fermarono, anche il tempo si fermò. Suor Gelsomina tirò il capo all’indietro, come se le avessero dato un ceffone. Guardò prima Bruno poi il resto della sala. Le tremava un labbro, sembrava si sforzasse di dire qualcosa senza trovare le parole.
«Che cosa hai detto?», chiese la monaca.
Silenzio.
Suor Gelsomina scattò in piedi e la testa di Bruno dondolò come una molla. «Allora? Ripetilo… come mi hai chiamata?».
Bruno teneva gli occhi fissi sulla chiazza di piscio dei pantaloni. Aveva smesso di piangere però, e questo era un bene.
«Uh, san Nicola». Suor Gelsomina si fece il segno della croce poi gridò: «Ripetilo!».
Bruno sentì un rumore. Una sedia che veniva spostata. Girò appena il capo e vide un ragazzo. Un tipo basso con delle strane cicatrici sul viso. Bruciature, erano segni di bruciature. Non lo aveva mai notato prima, doveva essere nuovo, uno di quelli di passaggio che venivano messi nell’istituto in attesa di essere trasferiti da qualche altra parte.
«Ho detto», scandì il ragazzo, «che la devi piantare, grandissima z-o-c-c-o-l-a! Hai capit’ mo’?».
Suor Gelsomina aveva capito, e sicuramente aveva capito anche padre Mario, che se ne stava in piedi sulla porta con la faccia da rapace e gli occhiali sottili sulla punta del naso.
La tonaca sibilò come un drappo scosso dal vento quando camminò in mezzo ai tavoli. Tutti chinarono il capo, anche le suore. Tutti tranne il ragazzo nuovo. Bruno avrebbe voluto avvisarlo, dirgli che bastava così, che non era necessario difenderlo. Lui non poteva sapere cosa sarebbe accaduto, lui non era mai stato nella cantina. Ma non riusciva a parlare. Trattenne il fiato e chiuse gli occhi. Si sentiva in colpa. Sarebbe stato sicuramente punito a causa sua. Poi la colpa si trasformò in panico, quando avvertì una mano che gli stringeva il braccio.
«Vieni», sibilò il prete tra i denti gialli.
Bruno si alzò, senza opporre resistenza. Sapeva che non sarebbe servito a nulla. Camminò a piedi nudi sul pavimento perché le scarpe erano rimaste di sopra, bagnate dal piscio di Onofrio. Raggiunse padre Mario e lo seguì al piano di sotto senza dire una parola. Gradino dopo gradino, fino alla cantina. Il corridoio era illuminato da candele e l’incenso, mischiato alla muffa, rendeva l’aria irrespirabile.
Il ragazzo che lo aveva difeso davanti a tutti lo aspettava in una stanza minuscola, senza maglietta, inginocchiato su una striscia di sale grosso e con la faccia rivolta contro il muro. Bruno ebbe un tremito: la fase iniziale della penitenza. Veniva prima del buio, prima della notte rinchiusi nelle cantine, e faceva male.
Faceva male più di ogni altra cosa.
Il prete l’afferrò per la nuca e lo spinse in avanti, costringendolo a inginocchiarsi.
«Spogliati», ordinò, e Bruno lo fece lentamente. Gli tremavano le mani e non riusciva a sbottonare la camicia. Padre Mario non aveva fretta, se ne stava lì e aspettava. Con gli occhi che contavano le costole, i peli delle braccia, ogni minuscola fibra del suo corpo. Fino a scrutare l’anima.
Rimase a torso nudo, le spalle magre scosse da un brivido. I denti presero a battere. Girò appena il capo e vide che il ragazzo lo stava fissando. Se aveva paura, non lo dava a vedere. La sua faccia era strana, le cicatrici sembravano le piaghe dei lebbrosi nelle storie del Vecchio Testamento.
Poi padre Mario armeggiò con la cinghia. La teneva appesa a un chiodo nel muro. Cuoio duro e borchie ricoperte da croste di sangue secco. Se la fece scivolare sul palmo di una mano e un fruscio risuonò nella stanza. Bruno deglutì un grumo di saliva e lame. Si sentiva morire.
«Questa è la via di Cristo», disse il prete.
La prima sferzata fu tutta per lui. Padre Mario emise un gemito di soddisfazione quando calò il colpo sulla sua schiena. Bruno non gridò subito. Il dolore, quello vero, arrivò dopo il bruciore, dopo la sensazione che la carne stesse andando a fuoco. La seconda cinghiata sferzò la schiena del ragazzo con le cicatrici, che reagì allo stesso modo. Incassò il colpo senza lamentarsi. Vacillò, le ginocchia che sfregavano sul sale, i denti affondati nel labbro.
Bruno lo guardò e lui soffiò l’aria fuori dalle narici come un toro. Una vena gli si gonfiò nelle tempie, poi si voltò e gli fece l’occhiolino.
Il suo nome era Nino, e da quel giorno nella cantina lui e Bruno sarebbero diventati una cosa sola.
3
L’istituto non era una vera scuola, o almeno non come quell’altra a Capaccio, destinata ai ragazzi che, a differenza loro, avevano una famiglia. A Pietra di San Michele erano le suore a tenere le lezioni. Insegnavano a leggere, a scrivere, a far di conto, a conoscere la storia e a pregare. A volte in orfanotrofio si pregava così tanto che Bruno aveva paura di diventare prete come padre Mario. Un vecchio viscido con i ciuffi di peli neri che sbucavano dalle orecchie e quello sguardo che faceva sentire Bruno sempre nudo, vulnerabile, come se la sua vita fuori dal seminterrato non avesse senso e il freddo, il dolore e il sapore del sangue tra i denti fossero tutto ciò che aveva.
Bruno odiava pregare. Ave Maria. Atto di dolore. C’era qualcosa di sbagliato nei versi, qualcosa che gli ricordava lo scricchiolio dei gradini che portavano alla cantina. Non aveva nulla di cui pentirsi, niente per cui chiedere perdono, e se avesse potuto, avrebbe dato fuoco alla piccola parrocchia dell’istituto. Sarebbe rimasto lì a guardare le fiamme che la divoravano dalle fondamenta fino a ridurla a un cumulo di resti carbonizzati, proprio come quelli della vecchia casa nel bosco. Bruno saliva spesso all’ultimo piano dell’orfanotrofio per ammirarla. Un ammasso di ruderi anneriti e cenere spazzata via dal vento.
«Vedi dove metti i piedi, Spaventapasseri!». Una voce lo strappò ai suoi pensieri. Bruno stava spazzando il cortile con gli altri orfani quando andò a sbattere con la schiena contro quella di un altro ragazzo.
«Scusa», disse, facendosi da parte.
Il sole si infilava in mezzo ai rami degli alberi costringendolo a socchiudere le palpebre. Si guardò intorno, a disagio. Seduti all’ombra di un portico, Onofrio e due compagni lo stavano fissando con uno strano sorriso sulla faccia. Bruno strinse il manico della scopa, chinò il capo e puntò dritto verso l’angolo del cortile più lontano da loro. Stare da solo era l’unico modo per sentirsi al sicuro. Il silenzio non giudicava le persone, era di conforto, una carezza sul viso. Bruno raggiunse il retro dell’edificio percorrendo un sentiero scavato nel terreno fino al cimitero dell’istituto, un piccolo campo con lapidi storte ricoperte di muschio in cui erano sepolte le suore. Lasciò cadere la scopa e si mise a strappare erbacce per ripulire le tombe.
«Perché lo fai?», disse una voce alle sue spalle, e lui si sentì morire. Tremava al pensiero che Onofrio e gli altri l’avessero seguito fino a quel luogo isolato. Chiuse gli occhi, contò fino a cinque.
«Ue’, sei sordo?», chiese ancora la voce. «Hai sentito cosa ho detto?».
Bruno riaprì gli occhi e si voltò piano. Nino, un corpo ossuto in mezzo alle lapidi, con le braccia incrociate sul petto e il volto ricoperto di cicatrici.
«No», rispose, e il ragazzo fece una smorfia.
«No cosa?»
«Non sono sordo».
«Ah… allora sei scemo». Nino sorrise.
«Non sono nemmeno scemo». Bruno raddrizzò la schiena e sostenne per un attimo lo sguardo dell’orfano.
«Ci stanno le suore qua sotto?». Nino indicò il terreno e lui annuì. «A me fanno schifo le cape di pezza».
«Anche a me», fece Bruno.
«Allora chi te lo fa fare a pulire?».
Bruno si strinse nelle spalle. «Perché sono morte», disse. «E i morti meritano rispetto».
Bruno e Nino passarono il resto del pomeriggio a ripulire le lapidi. Strapparono erba e rampicanti fino a quando non suonò la campana per la cena. Erano sporchi e sudati, ma sorridevano.
«Grazie per avermi aiutato», disse Bruno.
«Prego», fece Nino. «Non è che avevo di meglio da fare».
«Non parlavo delle tombe, ma dell’altro giorno in mensa». Bruno si grattò il collo. «Mi dispiace… insomma, non dovevi farlo. Me la so cavare».
Nino sbuffò. «Ho visto come te la cavi».
Entrarono nel refettorio, presero un piatto e una forchetta dalla credenza all’ingresso e andarono a sedersi a un tavolo in fondo alla sala. Bruno sentiva che Onofrio lo stava fissando, gli occhi neri che gli bucavano la schiena, e si morse il labbro.
«Che vuole quello da te?», chiese Nino, e lui sussultò.
«Chi?»
«Lo stronzo». Nino si voltò a lanciare un’occhiata. «Il tizio che ti guarda sempre storto, quello con la faccia da culo».
«Faccia da culo», ripeté Bruno. «Onofrio… credo di essergli antipatico».
«Ci ero arrivato da solo. Cosa gli hai fatto?»
«Non lo so… forse è perché prendo voti più alti ai compiti».
Nino inarcò un sopracciglio. «Sei bravo nelle cose di scuola?».
Bruno annuì. Era bravo, soprattutto in latino, ma non poteva darlo a vedere. Se prendeva un voto alto o se una suora gli diceva che aveva fatto un buon lavoro, finite le lezioni doveva correre a nascondersi dai compagni del dormitorio.
«Facciamo così», disse Nino. «Tu mi fai i compiti e io ti salvo il culo da quelle merde».
«Va bene», rispose Bruno, poco convinto. Nino era piccolo e magro. Forse aveva coraggio da vendere e non piangeva quando padre Mario lo faceva scendere nelle cantine e lo prendeva a cinghiate, però Onofrio era crudele e forte. Il più forte di tutti.
Bruno non immaginava che Nino facesse sul serio, e nemmeno gli altri lo avrebbero mai pensato. Il giorno dopo la correzione dei compiti di matematica, alcuni ragazzi avevano atteso Bruno nel corridoio e lo avevano tirato per la camicia fino a un’aula vuota, dove Onofrio lo stava aspettando.
«Spaventapasseri, togliti le scarpe e dammele», gli aveva ordinato mentre si sbottonava i pantaloni. Bruno si era limitato a obbedire, come faceva sempre, perché non aveva senso opporsi, poi era arrivato Nino e la situazione era cambiata. Senza dire una parola si era avventato contro Onofrio e gli aveva sferrato una ginocchiata nelle palle. Con una mano gli aveva stretto la gola e con l’altra l’aveva preso a schiaffi, così forte che in confronto le sferzate di padre Mario erano carezze.
«Il prossimo che rompe lo spacco», disse rivolgendosi al gruppo di ragazzi e lasciando Onofrio a terra a contorcersi. Era bastato quello a cancellare anni di violenze. Bruno iniziò a sentirsi leggero. Imparò cosa significava attraversare i corridoi dell’istituto senza aver paura degli altri. Tutto quello che gli restava da fare era cercare di non incrociare mai lo sguardo di padre Mario, per evitare che gli venisse voglia di insegnargli la via di Cristo in cantina, o che lo facesse con Nino. Si trattava di stringere i denti per un altro paio di settimane, poi la scuola sarebbe finita e presto sarebbero arrivati i paesani per prenderli e metterli a lavorare.
«Ci pagano?», gli chiese Nino mentre lui gli spiegava cosa sarebbe capitato a giugno.
«Non lo so. Forse fanno un’offerta all’istituto».
«Col cazzo che mi spezzo la schiena per loro, allora. Se le mungessero da soli quelle quattro vacche di merda che hanno».
«Pensa però che per tre mesi potrai andare via da qui. Non dormire in una camerata, non sentire la puzza delle suore».
«È vero, le suore puzzano di culo».
«E poi non è detto che devi finire per forza in una fattoria. In realtà, potresti essere scelto per lavorare in un posto bellissimo, come è successo a me la scorsa estate».
«Ah sì?». Nino lo guardò incuriosito. «E sentiamo… quale sarebbe questo posto magnifico dove sei stato?».
Bruno pensò al buio, al freddo, al silenzio e sorrise.
«Le pompe funebri».
4
Dopo le celebrazioni per sant’Antonio da Padova, i ragazzi vennero costretti a lavarsi e vestirsi bene. Poi si adunarono in fila, come i cadetti di un’accademia militare. Il petto in fuori e la schiena dritta. I più forti vennero scelti dagli allevatori. A Onofrio toccò una serra a Paestum, e questo strappò un sorriso a Bruno. A nessuno piaceva lavorare nelle serre. I paesani passavano davanti a lui e Nino, li squadravano, poi andavano oltre. Forse era per i lividi, pensò Bruno toccandosi uno zigomo dove la mano ruvida di padre Mario aveva lasciato un’escoriazione. Era ormai certo che nessuno li avrebbe presi e che si sarebbero dovuti accontentare di fare i garzoni per qualche macellaio a Pietra di San Michele o di badare alle pecore sulle montagne di Bellosguardo, quando arrivò un furgone impolverato. Il tizio che lo guidava disse di chiamarsi Gennaro. Era un gigante con le braccia pelose e un sorriso sdentato. Lanciò un’occhiata a lui e Nino, poi si rivolse a padre Mario e fece un cenno d’assenso con il capo.
Il prete si sistemò gli occhiali sulla punta del naso con un dito e guardò Bruno con disprezzo.
Pochi minuti dopo, Bruno e Nino si ritrovarono seduti sul furgone di Gennaro ad ascoltare i suoi racconti della guerra in Abissinia. Mostrò loro il segno di un taglio sull’avambraccio, dicendo che era stata una lancia a farglielo, e poi il buco a una spalla.
«Mi hanno sparato tre volte», disse.
«Gli africani?», chiese Bruno, e lui si mise a ridere.
«Ma quali africani… quelli al massimo mi tiravano le freccette. I tedeschi! Sono stati loro a spararmi. Una pallottola è passata proprio di qua, vedi? Un poco più sotto e tornavo alla terra insieme ai vermi».
«Perché vi hanno sparato, i tedeschi?»
«Perché? Perché quando il maresciallo Badoglio disse alla radio che c’era l’armistizio, noi iniziammo a mettere lo zucchero nei motori dei loro aerei. Dovevi vedere quanto erano belli quando precipitavano».
«I tedeschi sono venuti anche all’istituto».
«E che volevano?»
«Non lo so, gridavano. Io avevo otto anni, credo, e non ci capivo molto. Non parlo la loro lingua».
Gennaro rise e gli assestò una manata sulla coscia. «Quanti ne hai adesso?»
«Di cosa?»
«Di anni, professore».
«Tredici».
Gennaro fece un fischio. «E sei già così alto?»
«Anche voi siete alto, signore».
«Vacci piano con questo signore, guaglio’… il Signore è uno solo e sta in cielo».
«Scusatemi». Bruno chinò il capo e Gennaro gli mollò un’altra manata.
«Ue’, sto scherzando… bene, almeno le cape di pezza ve l’hanno insegnata l’educazione. Al signor Aloia piacerà questa cosa, però non parlarmi come faresti con un vecchio o un ricco. Non sono nessuno dei due».
«Chi è questo signor Aloia?», chiese Nino, che fino a quel momento era rimasto in silenzio a fissare il mondo fuori dal finestrino.
Gennaro guardò il ragazzo per un istante e tamburellò con le dita sul volante.
«Gli Aloia sono la famiglia più importante del paese», disse. «Io lavoro per loro, e adesso anche tu. Sei brutto e forse pure mal nutrito. Alla tenuta c’è tanto da fare, ma ti piacerà. Alla fine dell’estate mi ringrazierai per averti caricato su questa ferraglia».
Nino tornò a guardare fuori dal finestrino e disse: «Lo spero».
5
Per arrivare a casa degli Aloia si doveva prendere la via del mare. Una strada stretta nella morsa dei boschi, tra distese di campi incolti e bruciati dal sole. Pietra di San Michele era un ammasso di case storte e incassate nella pancia della montagna.
«Quella è la Testa del Ciclope». L’uomo schiacciò un dito contro il parabrezza e indicò una parete rocciosa a picco sul mare. «Lì sopra», disse. «Quel buco grosso è l’occhio e sotto ci sta la bocca».
«A me sembrano solo grotte», disse Nino.
Bruno invece era rapito. A guardarle bene, sembrava che quelle pietre fossero state messe una sopra l’altra per formare il volto del gigante. Un guardiano silente che scrutava il mare.
«I tedeschi avevano piazzato l’artiglieria proprio su quelle rocce», continuò l’uomo. «Pensavano che gli americani sarebbero sbarcati sulla spiaggia, e invece quelli scesero più a nord e li presero alle spalle».
Poi Gennaro scalò la marcia e svoltò a un bivio. Il furgoncino prese un sentiero battuto che si infilava in mezzo agli alberi e conduceva nella boscaglia. La strada era sconnessa ma l’uomo non ridusse la velocità e si ritrovarono a ballare, seduti uno vicino all’altro, fino a un cancello rivestito da un tappeto d’edera.
La casa era imponente, la più grande che Bruno avesse mai visto. Più grande dell’istituto, che era stato il suo unico mondo per tredici anni. Sul fianco sinistro, una torre assediata da rampicanti puntava dritto contro il cielo, e poi c’erano le finestre. Finestre ovunque, con persiane di legno tinte di blu e fioriere colme di gerani. Era tutto così strano, così insolito. Perfino l’aria che si respirava in quel luogo aveva un sapore diverso.
«Il giro è finito», disse Gennaro. «Il padrone è fuori per lavoro. Dentro c’è solo la governante».
Gennaro saltò giù dal veicolo e si avviò verso la casa.
«Pia!», chiamò a gran voce.
Nino scese e gli tenne la portiera aperta. Appena Bruno mise i piedi a terra, l’amico gli prese un braccio e lo costrinse a chinarsi.
«Ascolta», gli sussurrò. «Ci ho pensato, e secondo me dovremmo andarcene».
«Andarcene? Vuoi tornare all’istituto?»
«No, scemo… quale istituto. Io dico andare via, scappare… questa è la nostra occasione per essere liberi. Possiamo andare dove vogliamo, nessuno ci verrà a cercare».
Bruno avvertì una morsa al petto. Guardò l’amico e non seppe cosa rispondere. L’idea di scappare non gli piaceva. Non gli piaceva affatto. Se padre Mario li avesse scoperti, per loro sarebbe stata la fine. Si morse il labbro. Pensò alla cantina, all’odore di sangue e muffa, alla prima volta che vi era stato rinchiuso. Era solo un bambino e gli faceva male la schiena per le cinghiate. Quanti anni aveva? Quattro? Cinque? Era buio e lui si sentiva solo. Non ricordava nemmeno perché il prete l’avesse picchiato e sbattuto lì sotto. Nino sembrò leggergli qualcosa negli occhi e gli sorrise.
«Rilassati, non dobbiamo farlo oggi», disse, poi afferrò il sacco di patate in cui aveva messo le sue cose e andò dietro a Gennaro. «Però tu pensaci…».
«Ci penso», disse a voce bassa Bruno. Prese la borsa sul retro del furgone e si bloccò. Avvertì un formicolio alla nuca e l’aria intorno a lui sembrò immobile. Un attimo prima gli era parso che gli uccelli stessero cinguettando, e adesso tutto taceva. Nessun suono, solo silenzio.
Poi alzò il capo, guardò verso la casa e vide qualcosa muoversi all’ultimo piano.
Lo spostamento veloce di una tenda, pensò. O qualcuno nascosto dietro di essa.
Qualcuno che lo stava osservando.
6
Pia si muoveva silenziosa in cucina. Era piccola e magra, le guance scavate e i capelli così sottili che si riusciva a intravedere il cuoio capelluto. La donna li osservava, tra una faccenda e l’altra, spostando gli occhi neri dalle loro facce ai fornelli in una strana danza di sguardi che fece sentire Bruno a disagio.
Sembrava non avesse mai visto orfani in vita sua.
«Chi ti ha conciato così?», chiese mentre gli metteva un piatto di spaghetti al sugo sul tavolo. Bruno pensò alla sua faccia, ai segni delle violenze, e gli parve di sentire la pelle che bruciava. Fece per aprire la bocca, cercò di trovare le parole per spiegare quanto fosse buia la cantina dell’istituto, poi Nino si schiarì la voce.
«Devo ringraziare mio padre, signo’», disse l’amico con una semplicità che lo lasciò senza fiato. «Beveva e fumava… gli piaceva addormentarsi con la sigaretta in bocca e una notte ha bruciato la casa. Ci ha bruciati a tutti».
Bruno avvertì un peso allo stomaco, fece un respiro e un senso di inquietudine gli riempì la gola. Arrotolò una forchettata di spaghetti e se la ficcò in bocca. Gli tremava la mano.
«Buonissimi!», disse cercando di cambiare argomento, e la sua voce gli suonò così stupida che si pentì d’aver parlato.
«Lo vedo», rispose Pia. «Mangia tutto, che sei deperito».
«Subito», si affrettò a rispondere, mandando giù la pasta quasi senza masticare.
Nino gli diede un colpetto sul braccio.
«Con calma», gli sussurrò, e Bruno smise di ingozzarsi. Doveva rilassarsi, si disse. Non era più all’istituto, dove bastava poco per finire in cantina.
Al buio. Inginocchiato sul sale.
Pia non smetteva di fissarlo e il suo volto spigoloso non tradiva emozioni. Le braccia distese lungo i fianchi erano magre e ricoperte da fasci di vene sporgenti. Bruno non riusciva a capire cosa stesse pensando la governante, ma si sentì vulnerabile, come carne viva esposta al sole.
«Ho preparato la stanza a fianco per dormire», disse la donna. «La mattina ci svegliamo presto. Abbiamo un sacco di faccende da sbrigare».
«Va bene», disse Bruno. «All’orfanotrofio