Storia di un'anima
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Storia di un'anima - Ambrogio Bazzero
Ambrogio Bazzero
Storia di un'anima
EAN 8596547481041
DigiCat, 2023
Contact: [email protected]
Indice
ANIMA.
NEL MIO COMPLEANNO.
ULTIMO GIORNO DELL'ANNO 1876.
ULTIMO GIORNO DELL'ANNO 1877.
SCHIZZI DAL MARE
CARTA SCIUPATA.
OMNIBUS.
LO STABILIMENTO DEI BAGNI.
L'ONDA.
PACE.
MARINAI.
MARINARE.
IDILLIO.
REQUIEM.
IDILLIO.
FANCIULLE CANTANTI.
IDILLIO.
FANCIULLE MESTISSIME.
MATTINA.
MEZZOGIORNO.
SERA.
NOTTE.
VIRGO POTENS.
DESERTO.
LONTANO LONTANO.
FIABA.
VERA PACE.
LA DONNA?
I MORTI?
PLATONISMO?
SUICIDIO?
POESIA.
GENOVA.
FIORELLINI.
NOTTE STELLATA.
STELLE CADENTI.
AL TRAMONTO.
BARCANERA.
L'ANCORA.
O CARO BIMBO.
CONVOGLI.
L'OSTERIA.
I MONTANARI.
INFELICISSIMO.
BUONA VENDEMMIA! BUON RIPOSO!
LAGRIME E SORRISI
CORRISPONDENZE.
DALL'OROPA.
I.
II.
III.
IV.
DALL'OROPA.
I.
BIELLA.
II
SUI MONTI.
I.
II
DA RECOARO.
I.
II.
SANT'ANNA.
IL CONVENTO DI PONTIDA.
FONTANELLA.
MONTI E LAGO.
CHIARAVALLE
I.
II.
MALINCONIE
NATALE IN FAMIGLIA.
NATALE.
LA STELLA DEI RE MAGI.
QUARESIMA.
ANIMA.
SCHIZZI DAL MARE, ACQUERELLI.
LACRIME E SORRISE—CORRISPONDENZE.
MALINCONIE DI UN ANTIQUARIO.
MILANO
FRATELLI TREVES EDITORI
1885.
AMBROGIO BAZZERO
Erano i tempi della nostra Vita Nuova.
Con questo titolo uscì nel 1876 a Milano un giornale letterario sostenuto in parte dai raminghi scrittori dell'antica Palestra letteraria e da altri nuovi venuti. Furono e l'uno e l'altro due bagliori, più che due fuochi, ma a quella vampa molti giovani si conobbero a tempo, molte volontà si sgranchirono, molti ingegni si accesero. Poi venne la vita vera per alcuni, l'oblìo per altri, la morte per i migliori.
Fu in quell'anno ch'io conobbi Ambrogio Bazzero, il primo dei nostri morti,
Non molto alto di persona, di capelli rari per grave malattia sofferta qualche anno prima; con bei baffi rossicci, di fattezze regolari, parlava con una voce chiara, ora argutamente, ora in tono di profonda tristezza. Mobile, nervoso, fuggevole, caro, fu il più attivo, il più ordinato, il più candido di quella babilonia che si diceva per burla Amministrazione della Vita Nuova.
Il Bazzero era nato il 15 ottobre 1851 a Milano, da una ricca famiglia. L'essere ricco non nocque a lui, come nuoce a molti che la troppa fortuna confonde e stanca, perchè il denaro non gl'impedì mai di studiare e di fare del gran bene alla povera gente.
Fin da fanciullo, dice un santo libricciuolo che mi fu dato di consultare, Ambrogio mostrò animo così pietoso, che non osava far male a una formica. D'inverno spargeva miglio e briciole di pane sul davanzale della finestra e godeva a vedere gli uccelli che venivano confidenti a mangiare. Era così semplice ne' suoi gusti che un fiore, un frutto, un bambino, un cagnolino rapivano subito la sua attenzione e bastavano a consolarlo e a rallegrarlo.
Questa semplicità di gusto egli conservò sempre, e passeggiando con lui, era curioso il vedere come egli sapesse rilevare il bello e il grottesco nelle cose più comuni, nel saltellare elastico d'un passerotto sull'erba, o nel subito atteggiarsi d'un gatto, o nei ghirigori d'un'inferriata, o nella frase volante d'un vetturale, o in un proverbio di contadini, dei quali sapeva ingegnosamente imitare la cadenza e i fiori del linguaggio.
Dopo il Liceo, in cui fu suo caro maestro Leopoldo Marenco, studiò legge privatamente, cosa di cui si lamentava sempre per non aver potuto apprendere nel libero consorzio universitario la scienza della vita e una maggiore sicurezza di sè stesso. E veramente in lui a trent'anni tremava ancora il fanciullo.
Il pensiero era libero e audace, ma la volontà paurosa. Di questo squilibrio di forze, fra l'occhio che vede e la mano che non osa, egli si querelava spesso con me durante il nostro viaggio di piacere a Firenze e a Venezia, e spesso ne piange anche in questo libro, che è la storia dell'anima sua. Più che i codici amava le sue armi antiche di cui aveva in casa una ricca collezione, i suoi elmi, le sue spade rugginose, le celate, gli stocchi, gli archibugi a ruota. Nè minore era il suo entusiasmo per ogni altra sorta d'anticaglia, mobili, stipi, poltrone, inferriate, tappeti, e non già per moda, come usarono poi molti dei nostri ricchi, ma per il sentimento che gli faceva credere d'abbracciare in quelle cose lo spirito di più generazioni. Alle anime generose è poca soltanto una vita.
Io me ne accorsi in quel nostro viaggio del 1876. Era la prima volta che si spiccava il volo dalla casa, e freschi entrambi di studi e di affetti, corremmo a contemplare le porte del paradiso, il campanile di Giotto, e poi San Marco e la laguna. Quali giorni nella mia vita e come sento che molta parte della vita di lui è rimasta come trasfusa in me! Quando entrando nella sala del Bargello a Firenze, vide una stupenda raccolta di fucili d'ogni tempo, egli gettò un grido di gioia e per poco non mi abbracciò, senza chiedermi pure se io avessi mai letta la sua monografia: Sopra gli archibugi a ruota ch'egli aveva pubblicato a vent'anni.
Nella sala della Morte a Firenze, volle provarsi la veste, il cappuccio e la buffa della compagnia. A Parma pagò il chierico perchè si lasciasse mettere in testa l'elmo e brandisse la spada di Alessandro Farnese, giù nella cripta al chiarore delle torcie. A Ferrara, entrando nella celletta di Sant'Anna, mi accorsi ch'egli tremava di commozione, e pallido lo vidi uscire dal carcere ove fu chiuso il povero amante di Parisina. E intanto preveniva nuove emozioni desiderando, sognando Venezia e i quadri del suo Tintoretto, sul quale aveva due anni prima scritto il suo prediletto dramma.
Non so dire se più dell'arte egli amasse la libera natura, Fin da fanciullo ebbe sotto gli occhi i malinconici dintorni del suo Limbiate e i grandi boschi di pino silvestre che coprono una vasta zona dell'alto Milanese, luoghi di caccia una volta e di sontuose villeggiature, oggi ingiustamente abbandonate. Per quei boschi, nati nell'ingrato solco della sodaglia, i sentieri si avviluppano in un inestricabile labirinto di selve, fra eserciti agglomerati di conifere, sottili, diritte, vicine, che quasi si toccano, che tolgono la luce del cielo o la lasciano solamente biancheggiare fra ciuffo e ciuffo pallidamente. E scendono e salgono le viottole in un mare di eriche e di felci. Stride la gazza, passa a volo, e va squassando le ali a posarsi sull'orlo d'un laghettone, in cui la piova del bosco si riversa in uno stagno viscido e giallastro che dorme nel silenzio verde della pineta. Tu vai e vai per miglia e per ore e non trovi che solchi, avvallamenti e nuovi eserciti di pini scaglionati su una vetta, talchè ora ti pare d'essere a un valico alpino, ora in un parco reale, ora in un deserto. Non una voce odi, non un fiato, se non è quello del vento che passa al disopra: o tutto a un tratto lo scoppio aspro d'un fucile e il frascare d'un cane. Vai ancora. Il bosco si schiarisce.
Al di là scorgi un non so che di bianco. È un cimitero abbandonato, sepolto nel verde, dove vorresti sdraiarti tutto supino, colle mani in croce, e chiudere gli occhi, e dormire, dormire nel seno molle della madre terra.
Fra questi boschi era solito errare il giovinetto colla mente accesa dai tanti romanzi storici che noi tutti in quegli anni abbiamo avidamente cercati. E il bosco a lui pareva d'un subito che si popolasse di cavalieri erranti, armati di ferro, di donzelle bionde e di tutti i più bei fantasmi che uscivano soltanto al tocco degli antichi liuti.
I boschi non soffrono d'anacronismo e a chi le chiama bene vengono incontro anche le vergini amadriadi.
Il romanticismo vinceva negli anni che corrispondono alla giovinezza d'Ambrogio Bazzero le sue ultime battaglie, accompagnando il frastuono delle battaglie vere per la patria. Tutti abbiamo avuto, qual più qual meno, qualche castello nel cuore e una spada di Toledo nel pugno. I più giovani, i più timidi erano i più leggieri alle immaginazioni. Il Bazzero, d'ingegno facile, senza le noiose distrazioni del bisogno, con un'anima semplice, con tanto medioevo appiccato alle pareti del suo studio, potè meglio di molti altri ricreare quel mondo morto intorno a sè. Nè lo ricreava per sola vaghezza d'antiquario, come si disse, ma perchè gli pareva che in quel mondo astratto i suoi sottili ideali respirassero meglio che nell'aria grossa della realtà pregna di cose. Da questo raccoglimento uscì il suo Buondelmonte, l'Angelica Montanini e l'Ugo, in cui la conoscenza dei tempi e dei costumi è così ricca e precisa e i rapporti così studiati nella lontananza dei tempi, che il lettore moderno, sorpreso dal gran numero delle evocazioni rimane confuso, e accusa d'oscurità e di confusione un'arte che ha il difetto di essere troppo minuziosamente precisa.
Ma chi ha tanta pazienza di rileggere e d'aspettare che l'impressione si snodi trova cento luoghi d'ammirare e finisce col sentire in sè la forza e l'anima dei tempi. Nell'Ugo specialmente, romanzo che stancò lo stesso autore, l'impressione finale è propriamente quella di sentirsi sotto il peso cupo del più cupo secolo della nostra storia, il decimo.
Chi più di tutti sentiva il fascino di queste risurrezioni era l'autore, quando si svegliava dalla sua meditazione con tutte le prove vive e parlanti intorno a sè dell'opera sua.—Chi può capire la potenza di certe mie pagine?—scriveva nel libro dell'Anima, in un sincero abbandono con sè stesso; non fa meraviglia, quindi, che al vedere gli amici suoi impassibili o indifferenti, il pubblico non curante, la critica scempia e ingiusta, provasse tanto dispetto da buttar via la penna, da chiudere i libri negli scaffali, da maledire le sue armi, le sue notti perdute. Erano i mesi dello sconforto: poi ritornava da capo, e avrebbe vinta la partita, son certo, se la morte non avesse voluto vincere prima di lui.
* * *
Di questi scritti che non fanno parte del presente volume, e che bene o male appartengono già al pubblico da molti anni, dirò soltanto quel che importa per la migliore conoscenza dello scrittore, augurando che la devozione di chi volle raccolti questi primi fogli consigli a tentare una nuova raccolta anche di quelli.
Lasciando stare qualche piccolo tentativo troppo giovanile e troppo acerbo, ch'egli pubblicò in privata edizione, mi pare che coll'Angelica Montanini tentasse veramente di scendere nel campo letterario(1).
L'azione di questo dramma ha luogo a Siena alla fine del secolo XIV, durante la guerra di Siena contro Firenze. Il dramma è dedicato a Leopoldo Marenco, che con una parola d'affetto aveva cambiato, come dice la dedica, in speranza il tormento ineffabile dell'arte. Molte sono le esuberanze e le inesperienze in questo lavoro, che è congegnato sopra un odio di parte e sopra una spada, e manca in molte parti quella chiara prospettiva dei caratteri e delle cose che è tanto necessaria sulle scene. Evidente è l'imitazione del Guerrazzi.
Al Guerrazzi, per le lettere sue all'autore, è dedicato il Tintoretto(2). La tela di questo dramma è più distesa, più ben dipinta e qua e là tocca ad una larghezza quasi di poema storico. Chi lo giudicasse soltanto dal punto di vista della teatralità potrebbe trovarlo anche una meschina cosa, ma noi sappiamo da un pezzo che teatralità è parola volgare, buona per un successo, e che quasi sempre finisce là dove l'arte comincia, mentre non c'è parola nei drammi de Bazzero, che non sia collocata senza una sicura convinzione artistica. Quei grandi artisti del cinquecento, voglio dire il Vecellio, il Sansovino, lo Schiavone, il Tintoretto e quel grande ludibrio che fu messer Pietro Aretino, si muovono in una scena sfarzosa, piena di colori, e parlano un linguaggio che arieggia il classico del Vasari e del Cellini. Nel Tintoretto ha voluto il Bazzero rappresentare gli sforzi d'un uomo alla conquista delle due più grandi gioie della vita, l'arte e la famiglia, contro tutte le minaccie della fortuna e della volgarità. Al Tintoretto vien sciupato il nome dall'Aretino, e tolta la figliuola diletta dalla peste. Eccone le ultime scene:
Infierisce la peste in Venezia. Due commessari di sanità vestiti in nero e sdrusciti, salgono dal mare al terrazzo ov'è la casa del Tintoretto:
PRIMO (salendo, grida al basso). Ohe, maledetta ciurma, legate la gondola chè l'onda non la rovesci.
SECONDO. È tanto piena! Pescare i morti non s'è mai dato.
PRIMO. Pesca i vivi, pesca i morti, è tutt'una; quello che non si è mai dato in dieci notti che faccio questo mestiere da corvo, si è pescare qualche borsuccia d'oro.
SECONDO. Senza il fiasco e la gonnella fanno pietà anche i morti.
PRIMO. Orsù, ci hanno chiamato con tanta furia (ridendo). Date qua….. (si avvia alla porta del Tintoretto, e vi dà un calcio). Messeri e madonne! (apre ed entra cantacchiando).
SCENA V.
TINTORETTO e i due COMMESSARI.
TINT. (stringendosi alla figlia). Chi siete?
PRIMO. (accennando la morta). È questa sola? (al secondo). Togli su, e fa presto.
TINT. (con feroce lamento). Voi non me la toccherete!
SECONDO. Tutti matti così questi pittori! (gli fanno forza).
PRIMO. Guarda, se c'è qualcosa…. (dà un piede nella cesta di fiori e la rovescia).
TINT. Indietro, villano barattiero!
PRIMO. È il mestier nostro così!
TINT. Tu vuoi rubare? Ruba, dà fuoco, saccheggia, ma lasciami la figlia! (ruggendo, s'accinge alla disperata difesa dell'amatissimo corpo).
SECONDO. Noi siamo ai servigi della Repubblica. Mettete senno, o vi chiamiamo due alabardieri (s'avvia all'uscio).
TINT. La violenza a me?
PRIMO. È tempo sprecato (cinicamente)…. Ci chiamerete voi, quando vi accorgerete che vostra figlia ell'è come tutte le creature di carne ed ossa, destinate alla terra. Adesso le fate mille baci, ma domani….
TINT. (come chi scopre una terribile verità). Domani?… Ah!
PRIMO. E non so se avremo tempo.
TINT. Fermatevi!… (va al letto di Maria, e la guarda e la tocca con ansia paurosa)…. Quel pallore è tremendo!…. (imprecando e supplicando). Natura tristissima, che crei questi angioli per disfarli nel modo il più sozzo! Una figlia farà ribrezzo al padre? (ai Commessari)…. Voglio tenere il mio tesoro, finchè potrò (baciandola sicuramente)…. Ora posso ancora baciarla.
PRIMO. Ripasseremo ancora.
TINT. Quando?
PRIMO. Domani.
TINT. No!… (Anche la lupa, che vegliò il lupicino trafitto, abbandona la tana ai corvi! Io fuggirò'?…) (combattendo fiera battaglia, facendosi per crudelissima necessità mansueto). Io stesso la recherò sulle mie braccia, le farò posto nella gondola, l'adagerò tranquilla…. Le conserverete i fiori e il drappo bianco?… Io l'accompagnerò fin dove andrete: poi quando il commessario mi scaccerà… apparecchiate due fosse vicine….
PRIMO. Messere (gli tende la mano….)
TINT. (si china, cieco dal dolore, toglie dal cofanetto una collana, fa per darla al commessario)…. No!… È la collana di mia figlia! Ed io non sono degno di baciarla!… (va ad una cassa, con subito pensiero toglie una borsa). Prendete: è l'oro di re Filippo. Regnate nella taverna e sulle donne vostre!… (i Commessari soddisfatti, escono sul terrazzo, e discendono al mare).
SCENA VI.
TINTORETTO solo.
(baciando la figlia) È l'ultimo bacio nella casa dove se' nata! (la compone, le si inginocchia vicino, si solleva). È l'ultima alba!… Guarda se ancora luccica la tua stella!… (la drizza sui guanciali, le alza la testa, e fissa pel finestrone…. Dal terrazzo si vedrà sfilare sull'acqua un'immensa processione di lumi, lentissima, imponente)…. Che è?… È il funerale di Tiziano! (chinandosi sulla figlia). Tutto è finito! Famiglia ed Arte!
SCENA ULTIMA.
MARCO(3), dalla scala di terra, sale al terrazzo, lo attraversa frettolosamente e giunge all'uscio: sta in sospeso per la gioia: trova semiaperto ed entra…. Il TINTORETTO gli viene incontra, reggendo la figlia sulle braccia.
TINT. Non è più tua! Ella è d'Iddio e dei posteri!
* * *
L'Ugo, che l'autore dedica alla sua prima amarissima delusione, è la prima parte d'un romanzo sul secolo X, che vide la luce nella Vita Nuova. Il genere astruso dell'argomento e dello stile stancò i lettori del giornale abituati al facile leggere. Raccolto poi in un volume, la critica l'addentò colla sua solita inconsulta voracità(4). Il Bazzero ne restò tanto conturbato che non volle più continuare. Rileggendolo in questi mesi ho risentito ancora il sentimento faticoso della prima volta, ma se l'affetto non mi fa velo, credo che vi siano in queste 130 pagine, cinquanta almeno degne d'un grande scrittore. E non sarebbero poche per un libro! Che tempi fossero quelli ch'egli vuole descrivere, ce lo dice presto in un modo vivo e incisivo:
"Erano quelli i tempi in cui un cavaliere noverava, come un sellaio, le fibbie e i chiodi della sua sella da battaglia e neppure sbagliava in un sopranome a quegli arnesi e forse forse moriva senza tutto avere appreso il paternoster dalla bocca della madre o del chierico: tempi in cui, io credo, che la natura non si sarebbe messa su via fallata, se avesse ai priminati delle famiglie baronali dato a vece di cranio addirittura un elmo, a vece di lingua una lama, e per cervello qualcosa di bollente che fuori uscisse e fosse mostruoso cimiero. Io non so se ancora allora i bambinelli si tormentassero colle fasce: se così fosse stato, non mi sarebbe punto di maraviglia se anche trovassi nelle cronache che la madre di Garmario saluzzese, madonna Sandra, torturasse le membra del suo figliuolo, serrandole in una bandiera insanguinata, o che il padre di Forcone da Ivrea recasse al castello per la bisogna materna della sua moglie Ageltruda la soprasberga dell'inimico bucata e ribucata a colpi di spada: l'avo Attone da Susa legò con sacramento ai nascituri dal suo Rogerio il lembo stracciato a morsi della sozza camicia che vestiva nella torre della fame. Messer Adalberto era primogenito, ed aveva avuto madre come l'ebbe Garmario, padre come quello di Forcone, ed avo della taglia di Atto. Finchè vissero i suoi, imparò che nelle sale feudali l'agnello santo del perdono ci sta figurato solo per spasso di qualche frate dipintore, il quale fa il mestiere, è pagato, e se ne va dal ponte: imparò che negli steccati dei giuochi d'arme, se le cadute da cavallo v'incarnano gli anelli di maglia nelle membra, perchè la lancia dell'avversario vi coglie, è meglio che quelli vadano fino al cuore a condensarvi dentro tutto l'odio, e questa vi avesse passato fuor fuora, senza accorgervi di provare vergogna! Imparò che le dita ci furono date da natura per contare le vendette da farsi: segnar croce colla penna è da monaco, tagliare colla spada da cavaliere: si vive collo usbergo maledetto, si muore coll'abito immacolato di qualche monistero."
Ugo è un tessuto di scene, una successione di quadri storici, di figure riprodotte dalle cronache, di atteggiamenti che sembrano scolture, di truci spettacoli, incisi con uno stile di ferro.
La lettura non ne è facile come dell'elegante prosa del D'Annunzio e della lucida scuola degli Abruzzesi, ma è una prosa nutrita di studii e di forti riflessioni, che durerà, io mi lusingo, nel giudizio dei buongustai, più del tempo che dura una moda.
Ecco come il Bazzero vi dipinge le sue figure.
Dopo aver letto sono tubae il bando pasquale ai vassalli, l'araldo Guidello e il chierico Ingo, poco lieti delle mancie ricevute, si allontanano così:
"E mossero giù dalla scalea della chiesa. La piazzuola della curte era deserta. Essi presero ad uscire dalla viuzza fiancheggiata dalle casucce dei montanari, oggi boscaiuoli, domani alle giornate d'armi, sempre poveri e sempre irosi. Intorno all'edera frusciavano con volo tortuoso le nottole; gli usci erano chiusi, gli arconcelli delle finestre lucenti di strisce rosse dal sotto in su, che venivano dai focolari posti in mezzo alle stanze; sullo sfondo si vedeva una montagna già sfumata nella nebbia del crepuscolo.
I nostri due procedevano silenziosi, e, benchè sotto la protezione del loro signore, pure affrettavano il passo e sulla punta dei piedi.
E l'uno calava il cappuccetto sulla testa tonsurata e nascondeva la pergamena sotto la tonaca, e l'altro storceva una mano all'indietro ad assicurarsi che la tromba non percuotesse coll'elsa della spada o col pugnale: e quegli guardava sospettoso le pieghe del drappo ventilante dallo strumento del compagno, come se da quelle dovesse uscirgli il malanno: e questi imprecava il calzolaio che aveva fatto pel chierico scarpe così disacconce per suolo sospettato.
Passavano e guardavano. Quelle tavolacce di quercia parevano fatte apposta per spalancarsi ad un'insidia: da quegli arconcelli i tizzoni che erano sui focolari con maledetta furia potevano essere sbatacchiati nella strada. Basta! il santo patrono tenesse buoni i gloria!"
Così descrive un pranzo nel castello:
"Come voleva la cortesia delle usanze, i messeri furono convitati. Entrarono in una sala assai rozza, ma spaziosa, col tavolo fumante di mezzi capretti arrostiti, colle seggiolone coperte di pelli di lupi. Scinsero le spade, rumorosamente gittandole in un mucchio, allentarono le fibbie delle piastre e delle maglie, si lasciarono andare giù sui panconi, pure nessuno mise le mani nel tagliere, perchè un posto, e il più eminente, rimaneva vuoto. Nè attesero a lungo: si sollevò l'usciale della sala, e un paggio, affacciando mezza persona, annunziò:—Madonna Imilda.
Apparve la figliuola di messer Ildebrandino e della morta Adelasia, di vaga persona e di animatissimo viso, in stretta gonna oscura, cinta su da uno saccheggiale, e coperta il capo dai lati con un velo appuntato: s'avanzò salutando i convitati, e, al cenno fattole dal padre, s'assise al suo posto. A destra aveva messer Ugo, a sinistra il suo parente Oberto.
Ildebrandino così la salutò:—Valenti, udite: la figliuola mia sa assai bene di leuto e canta di Carlomagno e dei paladini: operate in modo che il suo strumento abbia una corda anche per voi, e la sua bocca una voce per le vostre imprese. Amabilissima figlia, abbiateci grazia!
Di poi i convitati presero l'invito non da scherzo, come ai dì nostri, e se da quegli assalti alle vivande dovevasi trarre augurio per la domane, in verità era buonissimo. La sola fanciulla non aveva tagliere dinnanzi e non partecipava all'allegrezza epulona: il che era richiesto dal suo decoro verginale."
Notate quanto spavento in questa descrizione d'un assalto al castello;
"Imilda era nella cappella da un pezzo e così pregava, quando nella corte ecco un grido spaventato, e un altro! Imilda si alza in piedi tremante, corre sotto un finestrone aperto.—I nemici!—ascolta la voce del vecchio Federigo:—Salvate madonna!—ed ecco ancora:—Fuoco! fuoco!
La vergine, come a luogo di rifugio, si butta ai piedi dello altare, scongiurando con fiero rimorso:—O Signore, salvate mio padre! Come vi ho pregato? È il mio castigo dunque così pronto?—ed ode ancora un rumore di pugna, e uno sbattersi fragoroso di porte, e un correre affrettato su nelle stanze, e voci diverse, e tra tutte una irosissima che comandava:—Balestrate fuoco nelle finestre!—e un'altra,—Se tutto arde, che ci rimane di bottino?
—Combattete!—gridava Federigo agli uomini del castello:—Giuratemi!
Alla fantasia della fanciulla si presentò tutto il castello invaso da una turba di lupi e da un torrente di fuoco; e qua sotto alle scuri si sfasciavano gli usci: e qua si massacravano i servi: qua si sforzavano gli scrigni: dappertutto si portava ruina: e le fiamme divampavano più e più, alimentate dai cadaveri friggenti: e il fumo soffogava assalitori e assaliti. Chi precipitava dalle finestre: e chi dalle finestre entrava: chi si trascinava a morire sulla soglia, per avere fiato: chi impedito nella fuga o nella corsa di conquisto da qualche ferito pregante, gli faceva somma grazia o di una stoccata o di una maledizione… Venivano, venivano i furibondi! La camera del padre era deserta: lo scalone, il corritoio, o stanzone dell'arme….—O Signore! la fanciulla se li immaginò al lume delle torce incendiarie nell'andito lunghissimo che conduceva alla cappella! Venivano, venivano!… Almanco le fossero già alle spalle, l'avessero già afferrata: ella, si sarebbe trascinata all'altare, chiamando la Madonna! Ma oh come invece erano lenti e terribili! E che portava quel mostro? Dio! la non vedesse! Portava una testa sanguinosa!… O padre! O Ugo!…
La povera vergine, esterrefatta dall'atrocissima visione, si rinversò con abbandono ai piedi dell'altare.—Non sia vero!
Fu scossa. Di nuovo la voce:—Balestrate fuoco nelle finestre!—E un'altra:—Sulle vetriere c'è su dipinta la croce: lì è la cappella.—Ancora la prima:—Sconficcate le inferriate!
Imilda non ascoltò più, ed aggrappandosi ai gradini, discinse le chiome, le scompose, con quelle si velò il volto per pudicizia, poi ancora, ma più rassegnata, scongiurò:—E se vuoi mandarmi la morte, fa che non sia vergognosa!"
Mi duole di non poter trascrivere tutti i punti in cui mi pare che la vita e l'arte si stringano in una forma tutta di getto. Qualche scena feroce è tale da far inorridire, come là dove descrive la morte di Guidinga, che in odio al marito, nuda, oscenissima e sanguinante, si rotola giù di gradino in gradino, percuotendo quasi a morte il frutto esecrato che porta nelle viscere: e la vendetta che trae il marito, mostrando all'antico amante di lei il cadavere della donna senza lume accanto, senza frate, senza croce fra le mani! Dicono le cronache che solesse venire poi la madonna perduta e ripetesse la condanna: Voi non credete in Dio! Da questa donna era nato Ugo; e crebbe cupo, angosciosissimo. «In vent'anni tre volte ho sorriso,—esclama—quando la prima volta su un'altissima cima vidi all'orizzonte sorgere il sole e vidi che avvolgeva anche me ne' suoi raggi; quando suonò la tromba che mi chiamava all'armi, quando… Non è riso, è sogghigno! Ebbene sogghigno oggi in cui mi trovo tanto deserto….»
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Come nel Tintoretto, così in molti dolori dell'Ugo il Bazzero descriveva i suoi. Quell'anima dolce e tenerissima, che non sapeva far male a una formica, caricò i suoi personaggi di feroci furori e quasi li incaricò delle sue vendette. È un mistero che molte pagine del presente volume spiegheranno.
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Anch'egli amò la sua donna, ma noi come tutti gli altri. Amò troppo castamente, e sacrificò all'ideale più che non sia permesso alla debole natura umana. Fenomeno strano è questo che in un tempo, in cui dal languido romanticismo l'arte e con essa il sentire si avviavano verso il godimento pagano del realismo, strano fenomeno veramente è il vedere questo solitario rifugiarsi nel deserto, con un'immagine sola soavissima nel cuore, meno donna alla fine che luminosa e innocente visione, ch'egli adorò estatico come quel d'Assisi adorò la Vergine sua, «Vi dirò (troverete negli Schizzi dal mare), che una fanciulla bionda, la mia fanciulla che mi cantava le poesie d'Iddio e dell'amore, mi ha fatto piangere e mi ha ammalato a letto. Mi offriva vaniglie, viole del pensiero, versi francesi e sorrisi di santa Cecilia, l'organista.»
A noi non è permesso di togliere il velo di cui egli volle circondata Lidia, una bionda straniera, assai colta, che viveva del suo lavoro, la quale, prima non potè corrispondergli perchè stretta da un'altra promessa; e sciolta questa, quando forse poteva farla sua, egli o non seppe o non osò contraddire a un'autorità ch'era dover suo di rispettare. Poco importa a noi di sapere come scoppiasse in quel cuore, dopo un'alba ridente d'amore, un tumultuoso uragano, che lo spinse fino all'orlo dalla morte. Più che una lotta fra vivi, fu una lotta di fantasimi creati dal desiderio e dalla volontà in cozzo, sostenuta coll'energia dell'anacoreta, voluta per forza, inasprita dalle istigazioni feroci della natura. Questa è la storia dell'Anima, che egli scrisse giorno per giorno, nel silenzio del suo studiolo, e che noi confidiamo a tutte le anime delicate che sanno accogliere ogni dolore umano con umana carità. A chi ci domandasse l'utilità di una pubblicazione di questo genere, noi non sapremmo rispondere nulla, perchè certe cose si appannano solo a toccarle colla punta delle dita.
Immaginiamoci invece il fondo della pineta vastissima colle sue ombre folte: e innanzi al pensiero del vergine giovinetto una immagine di donna, esule da una patria infelice, Lidia: immaginiamoci il vecchio cimitero del villaggio con tutti gli accozzi della rovina, e il fido cane che parla all'amico poeta co' suoi grandi occhi onesti: poi è a pensare un'anima per indole molto religiosa, anche quando la mente non crede più ai misteri sacri del pane e