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Il volo della brussata
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E-book291 pagine3 ore

Il volo della brussata

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Info su questo ebook

Dall'anno Mille in avanti il Mar Mediterraneo sarà il testimone della prorompente crescita di Genova e di Venezia. Entrambe alla ricerca della corona di Regina del Mediterraneo, diventeranno presto avversarie e per tre secoli alterneranno a brevi periodi di pace, continue contese, schermaglie e vere guerre. Il decennio 1370-1380 sarà l'ultimo periodo di scontro tra le due potenze e terminerà con la Guerra di Chioggia. Un epilogo dal quale Genova ne uscirà talmente indebolita da non riuscire più a riproporsi con la medesima passata autorevolezza. E proprio dall'ultimo decennio l'autore preleverà diverse vicende storiche, ricostruendole a suo modo ed all'insegna di un'ilarità tipicamente veneziana. Un fantomatico gruppetto di "Agenti Speciali" della Serenissima sarà il comico protagonista della trama che sarà spesso e puntualmente interrotta dal racconto di altre vicende di quegli anni o dei secoli precedenti.
LinguaItaliano
Data di uscita30 set 2021
ISBN9791220360579
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    Anteprima del libro

    Il volo della brussata - Fabio Bortolini

    La goccia che fece traboccare il vaso

    Faceva ancora molto caldo a Famagosta in quella luminosa mattinata del 12 ottobre 1372.

    La grande piazza antistante la nuovissima cattedrale gotica di San Nicola era una vera e propria Babele di mercanti giunti da ogni angolo del pianeta. Erano trascorsi pochi mesi dall’incoronazione a Re di Cipro del quindicenne Pietro II di Lusignano ed ecco manifestarsi un nuovo appuntamento nobiliare per questo imberbe adolescente: la corona di Re di Gerusalemme. Un titolo puramente nominale visto che Gerusalemme, da anni, era saldamente in mano ai Musulmani. Ma qualsiasi evento accadesse a Cipro in quei tempi, prevedeva la sistematica ed interessata partecipazione di folte delegazioni diplomatiche provenienti da ogni nazione di quell’inquieto scacchiere che era il Mediterraneo. E le ragioni erano ben intuibili considerando la felice posizione geografica dell’isola, che Madre Natura aveva posto di traverso alle rotte commerciali da e per l’Oriente.

    «Co tutti sti benestanti stamatina ghe ze veramente bei schei da ciapàr!» Livio Brussato, meglio conosciuto come il PiantaLeoni, un facoltoso mercante veneziano emergente, si fregava le mani pregustando l’eccezionale volume di affari che lo attendeva nelle ore a venire mentre dispiegava al vento, come tovaglie da adagiare sui tavoli, le preziosissime sete di cui erano composti i gonfaloni e le bandiere usciti dalla sua bottega di Campo San Giacomo dell’Orio.

    «Mi no vedo l’ora de tornar casa!» gli fece eco Claudio dei Sandoli dal suo banco di alici marinate sistemato proprio di fronte a quello del Brussato.

    «Go ciapà tanto de quel fredo co quea burasca ad Aleppo che, a distansa de vinti giorni, go ancora i postumi de na bea bronchitina!»

    Il dei Sandoli era alla fine di uno dei suoi tanti tour commerciali che lo vedevano impegnato, durante la bella stagione, nei porti dell’Oriente a piazzare i suoi famosi bussolotti di alici marinate, considerate una vera leccornia da quelle popolazioni. La domanda di alici marinate era incessante e, per ovvia legge di mercato, consentiva allo smaliziato mercante poliglotta di applicare ricarichi irriferibili sul prezzo di vendita finale. E dire che la materia prima, le alici, era comperata per una miseria presso un anziano pescatore di Chioggia.

    Le campane della cattedrale iniziarono il loro festoso concerto mentre all’imboccatura della piazza, preceduta da un drappello formato da cento trombettieri, comparve la testa del corteo regale. Era il giovanissimo re di Cipro, in sella ad un irrequieto morello dal manto luccicante, che apriva la lunga processione degli invitati. Immediatamente dopo seguivano i rappresentanti di due delle maggiori potenze del secolo: l’ambasciatore di Genova Paganino D’Oria ed il bailo di Venezia Marino Malipiero, quest’ultimo considerato dal re di Cipro quasi un secondo padre. Con enorme fatica, tra due ali di folla festante, il corteo riuscì a raggiungere il sagrato della cattedrale, arrestandosi proprio in prossimità dei banchi del Brussato e del dei Sandoli.

    La cerimonia prevedeva che il re facesse il suo ingresso nella cattedrale in sella al suo destriero, accompagnato dall’invitato straniero più prestigioso e tutto lasciava pensare che il compito di tenere le briglie spettasse al bailo di Venezia. Marino Malipiero, infatti, si avvicinò alla testa del morello ma, al momento di impugnare le briglie, venne spinto con prepotenza dall’ambasciatore di Genova, finendo, con gran sconquasso, tra i bussolotti di alici marinate del dei Sandoli.

    «Cialtrone di un veneziano! – esclamò con tracotanza Paganino D’Oria, impossessandosi delle briglie – Questo è un privilegio da ambasciatore!»

    La ressa ed il clamore della folla erano tali che pochi si accorsero di quella grave prepotenza e l’incoronando re proseguì nel suo percorso, facendo il suo ingresso nella cattedrale.

    Marino Malipiero venne aiutato a rialzarsi dal dei Sandoli e si ricongiunse al corteo, tentando di nascondere il ribollire della sua ira.

    Non era certo l’onore di tenere le briglie del cavallo del re il vero obiettivo dei due contendenti. Il vero obiettivo era il controllo dell’isola di Cipro.

    Come nasce un conflitto

    Terminata la cerimonia dell’incoronazione, giunse la sera a Famagosta. E con la sera, il grande palazzo reale si illuminò a festa per ospitare i cinquecento invitati alla grande cena che Pietro II di Lusignano offriva per festeggiare la sua incoronazione a re di Gerusalemme.

    Nell’immenso salone, illuminato a giorno da enormi bracieri ardenti, erano collocati dieci lunghi tavoli, ognuno da cinquanta posti, imbanditi con le migliori pietanze dell’isola.

    In un angolo del salone la nutrita delegazione veneziana era tutta raccolta attorno al bailo Marino Malipiero dal volto ancora rosso fuoco per l’onta subìta qualche ora prima.

    «Stasera ghe a femo pagar cara!» sbottò con impazienza Livio Brussato il PiantaLeoni.

    «Calma fioi! No dovemo esser troppo precipitosi! Prima ze megio informar el nostro Doge e atènder disposizioni.»

    Nonostante il grave torto patito, l’animo moderato della diplomazia, seppur a stento, prevaleva nelle reazioni a caldo di Marino Malipiero.

    Dall’altro lato del salone stazionava baldanzoso il gruppo dei genovesi, anche loro tutti raccolti intorno a Paganino D’Oria. Il loro umore era ovviamente l’opposto di quello dei veneziani: pacche sulle spalle seguite da sonore e grasse risate.

    Era da un secolo e mezzo che le due Repubbliche Marinare, con l’unico obiettivo di prevalere nei commerci del Mediterraneo, continuavano a scontrarsi e già ben tre guerre erano scoppiate tra le due rivali. L’ultimo grande scontro vent’anni prima, sul mare di Navarino, dove proprio Paganino D’Oria, allora al comando delle galere genovesi, si era imposto sui veneziani costringendoli a chiedere la pace.

    Anticipato da un rullo di tamburi e scortato dalla nobiltà cipriota, fece il suo ingresso nel salone il re di Cipro nonché, da qualche ora, di Gerusalemme.

    Pietro di Lusignano si piazzò accanto al tavolo centrale e con ampi gesti delle braccia invitò tutti i commensali a prendere posto a tavola.

    Fu un attimo. L’ambasciatore di Genova si diresse nel posto a lui riservato a capotavola ma, nel momento di sedersi, un gesto rapido di mano furtiva gli tolse la sedia dal sedere. Mancandogli l’appoggio, Paganino D’Oria istintivamente si aggrappò ai lembi della candida tovaglia di Fiandria peggiorando di molto la situazione. Piatti, bicchieri, bevande e pietanze, tutto venne trascinato verso l’ambasciatore in un enorme fragore di vetri infranti.

    In sala esplose l’ilarità. Nessuno, nemmeno il re di Cipro, riusciva a trattenersi dal ridere mentre Paganino D’Oria, con le vesti inzuppate di ottimo vin di Cipro, tentava invano di rialzarsi scivolando di continuo sull’untuoso pavimento. La mano rapida e furtiva che aveva sottratto all’ultimo secondo l’appoggio al nobile deretano di Paganino D’Oria era stata quella del dei Sandoli, invero non nuovo a simili gesti.

    Il gruppo veneziano pensava di aver semplicemente pareggiato i conti con l’increscioso avvenimento del mattino davanti alla cattedrale. Ma si sbagliava di grosso. Le mani del folto gruppo di Genovesi corsero ognuna all’elsa delle spade che vennero sguainate minacciosamente. Ma come? I Genovesi erano giunti a festeggiare il Re di Cipro armati delle proprie spade?? Mai si era visto a Famagosta un così becero comportamento.

    I nobili ciprioti iniziarono ad indirizzare rabbiosamente tutto il loro sdegno contro la delegazione genovese che, capeggiata da Paganino D’Oria e infischiandosene delle proteste, avanzava minacciosa con le spade in pugno verso il gruppo dei veneziani.

    Ad accompagnare il momento sempre più drammatico cadde il silenzio in sala.

    I due gruppi rivali erano oramai prossimi al contatto, quando da sotto il tavolo, nascosto dalla pesante tovaglia, emerse improvvisamente Livio Brussato il quale, come un toro inferocito, sorprese alle spalle Paganino D’Oria immobilizzandolo con un braccio intorno al collo.

    «Mimorti, desso te fasso far la fine de Icaro» gli sussurrò con perfidia all’orecchio.

    Con la mano sinistra lo afferrò per il colletto della giacca mentre con la mano destra, tirandolo su per la cinta delle brache, lo alzava a mezz’aria.

    L’ambasciatore genovese, eroe di mille battaglie, rimase così: trattenuto e con il corpo parallelo al pavimento per qualche istante, la spada ancora stretta in pugno e tesa in avanti, quasi come stesse indicando un percorso.

    Ed il percorso era purtroppo per lui dei più drammatici: le mani del furioso veneziano fecero leggermente dondolare il corpo del nobile genovese per poi scagliarlo, come un proiettile, giù dal finestrone centrale del palazzo.

    Tutta la delegazione genovese, incredula, accorse sul davanzale del finestrone per vedere dove era finito l’ambasciatore, le cui grida disperate squarciavano il silenzio di quella placida serata. Mai mossa si rivelò per loro più infausta. Rianimati dall’assalto attuato a sorpresa dal Brussato, i giovani veneziani si precipitarono tutti alle spalle dei genovesi scaraventandoli, uno ad uno, giù dal balcone. L’intera delegazione della Superba aveva concluso la serata con la schiena spalmata sui letamai delle regie stalle cipriote.

    Isola di Tènedo, l’antefatto

    Cara lettrice, caro lettore, portate pazienza, lasciamo per un attimo Cipro, la delegazione genovese intenta a ripulirsi dalle conseguenze dell’imprevisto tuffo e tutto ciò che (è prevedibile) scaturirà dalle vicende narrate poc’anzi. Una cosa appar sicura: la miccia era stata accesa! E chissà quali fragorose deflagrazioni squarceranno il riposante clima di questo romanzo.

    Non sarebbe però giusto raccontare la storia dell’ultimo conflitto tra Genova e Venezia, trascurando dettagli importantissimi e frutto di accadimenti degli anni precedenti. E tra questi c’è la vicenda di Tènedo, la minuscola isola, già diventata famosa durante la guerra di Troia per essere stata scelta dai Greci come nascondiglio in attesa che lo stratagemma di Ulisse facesse il suo effetto.²

    Tènedo è una vera e propria sentinella sul traffico commerciale in entrata e in uscita dal Mar Nero, situata com’è all’ingresso dello stretto dei Dardanelli, angusta via d’acque che consente il passaggio tra Mediterraneo e il mare dove si specchia Costantinopoli, il Mar di Marmara. E Costantinopoli (o Bisanzio che dir si voglia), nel secolo che sto narrando, non se la passava affatto bene. Il suo imperatore, Giovanni Paleologo, oberato dai debiti, si era rivolto nel 1352 al Doge di allora, Andrea Dandolo, per chiedere un prestito di ventimila ducati da restituire dopo dieci anni in unica soluzione. La Serenissima lo aveva concesso all’interesse annuo dell’otto percento e chiedendo in pegno l’isola di Tènedo.

    I dieci anni passarono ma del rimborso del prestito neanche l’ombra.

    La salute finanziaria di Bisanzio continuava a peggiorare e Giovanni Paleologo, indebitato fino al collo e con alle porte l’impero Ottomano sempre più minaccioso, decise, nel 1369, con un’ultima disperata mossa, di recarsi in Vaticano da Papa Urbano V per chiedere un aiuto economico.

    Era la mattina della vigilia di Natale quando la galea di Giovanni Paleologo si accostò al molo di Ostia, dove era ad attenderlo una carrozza papale per condurlo a Roma. Da poco più di un anno Guillaume de Grimoard, duecentesimo pontefice col nome di Urbano V, aveva riportato in Roma la cattedra di San Pietro dopo sessant’anni di cattività ad Avignone.

    E a Roma, in quel Natale, nella primitiva basilica di San Pietro, erano confluiti i vescovi di mezza Europa per ritornare a celebrare, finalmente, la nascita del bambin Gesù nella città eterna. A quel sinodo non poteva certo mancare il vescovo di Castello, Paolo Foscari, accompagnato per l’occasione da un alto esponente del governo veneziano, il sovramassèr ducale Guido Scarpa da San Piero in Volta, Camerlengo de Comùn, in buona sostanza una sorta di ministro delle finanze della Serenissima.

    Fu nel corso della messa di mezzanotte, durante l’omelìa del papa, che il sovramassèr ducale bisbigliò con discrezione all’orecchio di vescovo Paolo Foscari una breve domanda:

    «Ciò, eminensa, ma quel signor co la corona in testa, là in prima fila, me par de averlo già visto»

    «È Giovanni il Paleologo, l’imperatore di Costantinopoli» sussurrò sommessamente il vescovo veneziano.

    Prontamente, le sinapsi cerebrali di Guido Scarpa, passarono in modalità contabile:

    «Dunque… vintimìa ducati… 8 percento… disdotto anni… Mt=C (1+i)… alla diciottesima… Se no sbaglio, vansèmo quasi 80.000 ducati da quel basabanchi!»

    La Santa Messa proseguì cullata dalla soavità dei canti gregoriani ed alla fine tutti gli invitati ritornarono ai loro appartamenti nella grande foresteria messa a disposizione dal pontefice.

    Tutti tranne Guido Scarpa che raggiunse furtivo l’ufficio postale del Vaticano, l’unico ufficio in tutta Europa in grado di spedire i suoi piccioni viaggiatori 24 ore su 24.

    «Spedisca questo a Venezia, Palazzo Ducale» chiese il sovramassèr all’impiegato di turno porgendogli un piccolo cilindretto di carta.

    Dalle voliere papali venne prelevato il piccione più pratico della rotta Roma–Venezia e, una volta inanellata la zampetta con il dispaccio, venne liberato nel cielo di Roma.

    Una faticosa ricerca condotta presso l’archivio dei Frari ha consentito, a questo umile cronista della vicenda, di trovare, ancora ben custodito, il messaggio originale. Eccolo, cari lettori, ve ne faccio volentieri omaggio.

    Roma 25 dicembre 1369

    Avisare Doge Andrea Contarini presensa a Roma de quel bogiasamorti di Giovanni Paleologo, imperadòr bizantino stop

    Grazie a prossimo trabochèto portarò presto debitore a Venezia per atteso regolamento pendense stop.

    Viva San Marco!

    Guido Scarpa da San Piero in Volta

    Il giorno dopo, al banchetto offerto da Papa Urbano V, il vescovo di Castello, ben istruito nottetempo dal sovramassèr ducale, avvicinò Giovanni Paleologo preannunciandogli che Venezia, volendo tener protetta Costantinopoli dai pericoli di un’occupazione ottomana, non solo era disposta a prorogare il vecchio prestito ma anche ad offrirgli nuove finanze fresche. Si trattava ovviamente di un tranello…

    E fu così che Giovanni Paleologo, tutto contento, ospitò vescovo e sovramassèr nella sua galea imperiale dando ordine di dirigere la sua prua verso la Serenissima.

    Dopo una decina di giorni di navigazione, grazie ai favori di Eolo, la galea dell’imperatore raggiunse il molo di Piazza San Marco dove il Doge, Andrea Contarini, con il suo drappello di cento trombettieri, lo attendeva assieme a tutti i membri del Consiglio dei Dieci. Fatti gli onori di casa il Doge invitò l’imperatore a seguirlo a Palazzo Ducale.

    «Caro Imperatore, sicuramente sarà provato dal lungo viaggio in mare. - gli disse mentre salivano lo scalone che conduceva agli appartamenti ducali - Si rinfreschi e si riposi nello speciale appartamento che le abbiamo riservato» continuò il Doge indicando una, invero modesta, porticina di legno.

    Leggermente dubbioso per quell’uscio così anonimo ed angusto, Giovanni Paleologo spinse con cautela la porta ma, una volta aperta, gli arrivò improvviso nel sedere un potente calcione che lo proiettò a terra.

    Eh no, cari lettori, non si trattava affatto dell’appartamento, vista isola di San Giorgio, che l’imperatore di Costantinopoli si attendeva. Era una vera e propria cella carceraria: quattro mura imbiancate di calce, un pavimento in fredda pietra d’Istria, un tavolaccio accostato al muro ed un secchio d’acqua con un

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