141° Reggimento e altre storie
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141° Reggimento e altre storie - Giorgio Ressel
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141° Reggimento
Sono Giulio Rapetti, capitano in congedo del Regio Esercito Italiano, uno che è passato attraverso due anni d'inferno sempre in prima linea ed è riuscito a portare a casa la pelle. Altri 650 mila italiani, compreso mio fratello Stefano, non ce l'hanno fatta.
Dato il clima politico attuale, con tutte queste camicie nere in circolazione, non so se vedrò mai pubblicato il presente documento, ma ho deciso lo stesso di scriverlo. Se non altro, sarà per me uno sfogo e fisserà come in una fotografia le emozioni e i ricordi che conservo nella mente. E forse riuscirà anche a mitigare certe ossessioni che mi tormentano.
Ai primi d'aprile del 1915, quando era ormai chiaro che l'Italia sarebbe entrata in guerra al fianco di Francia e Inghilterra, Stefano s'offrì volontario in fanteria. Aveva appena diciannove anni e mezzo, ma venne subito accettato. Noi di famiglia avevamo fatto di tutto per dissuaderlo, ma lui era stato contagiato dalla malattia dei fanatici interventisti che si riempivano la bocca di patria, sacro suolo, terre irredente, onore e gloria
e così via.
Il 23 maggio la sua tradotta per la fronte giulia giunse a Codroipo, un paese della pianura friulana. Il giorno successivo il suo reggimento attraversò il confine. Ma preferisco far descrivere a lui stesso quel momento memorabile.
Caro fratellone,
come avrebbe detto il grande Cesare, il dado è tratto! Alla mezza notte del 24 (ma già l'avrai saputo leggendo i giornali) noi della Terza Armata siamo partiti intonando canti patriottici dagli attendamenti distanti pochi chilometri dal confine, e siamo entrati nelle amatissime terre irredente della Venezia Giulia. Uff, era ora! Non ne potevamo più di marce e riviste, di presentat-arm e di attenti-a-dest, di passo
e di cadenza
. Sul confine ci siamo sfogati un po', dando fuoco a qualche garitta di doganieri e schiodando e poi calpestando le tabelle con l'aquila bicipite e le immagini di Cecco Beppe.
Ma non ci siamo limitati a queste bravate: abbiamo già occupato Cormons e il ponte di Pieris, un paesetto sulla riva sinistra dell'Isonzo. Da qui passerà tra poco buona parte delle nostre splendide truppe. Il morale è eccellente e tutti dicono che la guerra durerà poco: forse qualche settimana, al massimo un paio di mesi.
E poi potremo dire di aver portato a compimento l'opera iniziata dai nostri avi, gli eroi del Risorgimento. A pensarci mi vengono i brividi. Capisci adesso? Se non mi fossi offerto volontario, avrei rischiato di perdermi l'ultima guerra patriottica, quella che completerà l'unificazione del Paese! Adesso ti saluto: tanti bacioni a tutti e a presto. Di' alla mamma di non preoccuparsi per me: andrà tutto bene, ne son certo!
Stefano
Riguardo la durata della guerra, mio fratello era stato tragicamente ottimista: ben presto si sarebbe reso conto che le poche settimane previste sarebbero diventate mesi, e i mesi sarebbero diventati lunghi anni.
Ma che poteva saperne Stefano? Lui non faceva altro che riferire le voci che circolavano tra gli ufficiali del suo reggimento, i quali ripetevano le convinzioni assurde e del tutto infondate che s'erano messi in testa tutti i capi militari: dai tenentini di prima nomina ai generali di Corpo d'Armata, a Cadorna (il Comandante Supremo), su su fino a Zupelli (il Ministro della Guerra), e allo stesso Salandra (il Capo del Governo). La prova di quanto affermo è che non ci s'era neppure preoccupati d'ordinare alle fabbriche l'equipaggiamento invernale.
Cadorna aveva delle strane idee sul modo più efficace d'affrontare il nemico, e le sue teorie sull'attacco frontale le aveva esposte in una specie di manuale noto come Libretto rosso
che aveva fatto stampare e distribuire in gran numero di copie a tutti i quadri dell'esercito. Un vero peccato che tali teorie s'ispirassero ai metodi napoleonici di condurre la guerra e non tenessero conto di tutte le innovazioni che erano state introdotte nel frattempo.
Si trattava dunque di metodi vecchi di oltre un secolo, concepiti e sperimentati quando non esistevano né le mitragliatrici, né le bombe a mano, né i gas asfissianti, né i lanciafiamme, per non parlare dei telefoni da campo, delle automobili, dei carri armati e degli aeroplani.
Grave motivo di angustia per Cadorna e il suo fedele Stato Maggiore era il fatto che i chepì di panno delle truppe non fossero abbastanza rigidi e s'afflosciassero sulle teste dei soldati per mancanza di un sostegno di cartone. Questione trascurabile era invece che i nostri fanti mancassero totalmente di elmetti protettivi di metallo. I primi arrivarono (con parsimonia) solo verso la fine dell'anno...
Con questo non intendo affermare che solamente l'esercito italiano avesse fatto dei gravi errori e fosse quasi del tutto impreparato al momento dell'entrata in guerra. Mi pare significativo, per esempio, ricordare l'assurda querelle scoppiata in Francia nel 1914: gli ufficiali al fronte si erano resi conto che i pantaloni rossi dei soldati erano un po' troppo vistosi e permettevano ai cecchini tedeschi di inquadrare nei loro mirini degli spendidi bersagli.
Era stata fatta allora richiesta di sostituire tale indumento con uno equivalente grigioazzurro o grigioverde, ma quotidiani e parlamento erano insorti scandalizzati, affermando che le pantalon rouge c'est la France!
e che sostituirlo con uno di diverso colore (e quale colore!) sarebbe equivalso a perpetrare un vero e proprio oltraggio alla nazione.
Ma non lasciamo fuori la Germania da questa gara di idiozie criminali: gli Alti Comandi tedeschi, forse in ricordo di Waterloo, pretendevano che gli ufficiali facessero marciare le truppe verso le trincee nemiche in ranghi serrati, e coll'accompagnamento di trombe e tamburi. Obbedendo a tali direttive, i poveri soldati del Kaiser erano stati sterminati dalle mitragliatrici belghe e francesi più facilmente di pecore al pascolo, ma rigorosamente a suon di musica.
Gravi errori dunque se n'erano fatti, ma tutto questo accadeva nel 1914, nei primi mesi o forse solo nelle prime settimane dallo scoppio del conflitto. Da allora all'entrata in guerra dell'Italia era trascorso quasi un anno, un periodo prezioso per meditare sulle tragiche esperienze degli eserciti già impegnati nei combattimenti e che avrebbe dovuto garantire che tali errori non si sarebbero ripetuti. Ma Cadorna che faceva? Li leggeva i giornali? Ascoltava ciò che gli riferivano gli addetti militari italiani a Parigi e a Berlino? Si direbbe proprio di no: o non ascoltava o non capiva. E mio fratello me lo confermò nella sua seconda lettera.
Caro Giulio,
come va con voi? State tutti bene? Io me la passo discretamente anche se comincio a sentire la vostra mancanza, ma di licenza per ora non se ne parla! Mi sono fatto parecchi amici qui, e non puoi immaginare lo spirito di corpo che si crea tra le persone quando condividono gli stessi ideali, gli stessi pericoli, la stessa vita giorno e notte.
Gli austriaci si sono arroccati poco oltre il confine: hanno avuto molti mesi per preparare le loro difese e devo ammettere che hanno fatto davvero un buon lavoro. Hanno eretto solide fortificazioni, scavato trincee e camminamenti, steso tre file di reticolati, piazzato cannoni e mitragliatrici in punti strategici assai ben difesi. In somma, non sarà proprio una passeggiata il compito che c'aspetta. Ma li faremo sloggiare, quei crucchi! E gli faremo assaggiare la punta delle nostre baionette.
Pur troppo difettiamo un po' di mitragliatrici e cannoni di grosso calibro, ma tutti dicono che le fabbriche su al nord stan lavorando a pieno regime e che presto avremo in abbondanza tutto ciò che ci serve. Siamo un Paese povero ma tenace, e il morale è sempre elevato. E altrettanto lo è la voglia di vincere e di liberare i nostri compatrioti che soffrono sotto il tallone dell'Austria-Ungheria.
L'altro giorno abbiamo tentato un assalto per espugnare le trincee nemiche, che distano dalle nostre appena un centinaio di metri. Dopo un lungo bombardamento delle nostre artiglierie (è durato più di un'ora), è arrivato l'ordine d'attacco. Siamo balzati fuori dalle trincee al suono delle fanfare, coi fucili spianati e urlando Savoia!
. Gli austriaci hanno fatto immediatamente fuoco colle loro mitragliatrici e molti dei nostri sono stati colpiti, ricadendo nelle trincee.
Ci sono stati dei morti, ma la maggior parte han riportato solo ferite leggere. Nonostante quel muro di pallottole siamo andati avanti: non uno dei nostri s'è fermato per paura o viltà! Ma quando siamo arrivati al filo spinato, abbiamo dovuto arrestarci. Eravamo sicuri che i tiri dei nostri cannoni lo avessero in gran parte distrutto e in vece, in mezzo al fumo e alla polvere, lo abbiamo trovato ancora lì quasi intatto. E siccome non avevamo neanche le pinze tagliafili, ci siamo dovuti ritirare sotto l'implacabile fuoco nemico.
Con un po' di fortuna avremmo potuto farcela, ma non importa: la prossima volta andrà sicuramente assai meglio. Un abbraccio a tutti, e tenete duro: vinceremo noi. Vostro
Stefano
Mio fratello aveva cominciato a rendersi conto che la guerra sarebbe stata ben più dura e ben più lunga di quanto lui si sarebbe aspettato e, anche se non lo diceva chiaramente, si domandava come fosse possibile che gli Alti Comandi non si fossero preoccupati di fornire lui e i suoi compagni di banalissime cesoie. Ma le sorprese non erano finite e il peggio doveva ancora venire.
Nel frattempo, nei territori dell'isontino conquistati al nemico s'era diffusa una vera e propria psicosi da spie. Le popolazioni locali non s'erano mostrate precisamente entusiaste dell'occupazione italiana, e in ispecie nelle zone rurali avevano dato evidenti segni di poca simpatia e scarsa collaborazione col nuovo venuto.
I contadini, forse sobillati dai preti locali, non vedevano di buon occhio gl'italiani, e questo aveva portato a spiacevolissimi episodi di giustizia
tanto rapida quanto sommaria, con casi di fucilazione di presunti delatori e informatori degli austriaci sulla base di labili indizi.
S'era giunti a episodi tragicomici quando il generale Cavaciocchi aveva ordinato che venissero ammazzati tutti i piccioni viaggiatori e domestici esistenti nella zona e che quelli morti non potessero essere né venduti né trasportati salvoché non fossero stati precedentemente spennati.
La battaglia dell'Isonzo, fatta scatenare da Cadorna il 7 luglio, s'era risolta in un completo fallimento. Era stata iniziata senza la necessaria preparazione e aveva mandato a morte decine di migliaia di giovani senza che questo sacrifizio avesse portato il minimo giovamento.
Da allora in poi, le battaglie dell'Isonzo scatenate dal generalissimo dovettero essere numerate per distinguerle (ben undici in tre anni). Ognuna di queste avrebbe dovuto essere quella decisiva, ognuna avrebbe dovuto rappresentare lo sforzo finale per assicurarsi la vittoria e concludere la guerra. Tutte si risolsero in inutili massacri, in vere e proprie ecatombi che immolarono centinaia di migliaia di giovani vite al dio della stupidità e della presunzione.
Dopo il primo fallimento, Cadorna sentiva lo spettro della sconfitta aleggiare sul suo capo e voleva a tutti i costi riabilitarsi agli occhi del Paese e sopra tutto del governo. Temeva forse di essere silurato? Probabile.
La seconda offensiva dell'Isonzo ebbe inizio il 18 luglio e terminò il 4 agosto. Non dette risultati diversi dalla prima e il Comandante Supremo si giustificò dando la colpa all'insufficienza di truppe, materiali, armi e munizioni.
Peccato che se ne fosse reso conto solo dopo aver scatenato quella falcidie. Ma a quel punto una cosa almeno era assodata: non era opportuno prendere altre iniziative bellicose prima dell'arrivo di divisioni fresche e di nuovi armamenti. Così per due mesi abbondanti mio fratello poté tirare il fiato, anche se doveva starsene rintanato in trincea.
Fratello caro,
rieccomi a mandarti notizie dal fronte. Le lettere che ricevo da voi mi sono di gran conforto e ringrazio di avere qualcuno che mi scrive, al contrario di tanti miei compagni che non ricevono mai posta. D'altronde, quando non si sa leggere né scrivere tutto è più difficile e più complicato.
Ma veniamo a noi. Spero che la mamma si sia rimessa da quei dolori allo stomaco. Probabilmente è un fatto di nervi: lei ne è sempre stata soggetta. E con gli altri, tutto bene? A proposito, complimenti vivissimi per la tua laurea. Spero di non aver mai bisogno di un avvocato, ma in caso succedesse adesso so a chi rivolgermi. Quando lo fai l'Esame di Stato?
Adesso ti parlo un po' di me. Nelle scorse settimane io e i miei commilitoni ce la siamo vista brutta. Come avrai saputo, c'è stata di nuovo battaglia da queste parti. E che battaglia! Non puoi immaginare cosa significhi star sotto il tiro del nemico qui in Carso.
Non è come sulla fronte franco-tedesca: lì ci sono vaste pianure, campi di terra coltivata e tanto fango. Qui no. Qui ci sono sconfinate pietraie ed enormi rocce calcaree affioranti sul terreno, e quando i proiettili delle artiglierie e le bombe a mano le colpiscono, non si formano crateri dove è possibile ripararsi.
Qui siamo inchiodati in posizioni completamente allo scoperto, e tutte le volte che le rocce vengono centrate dal fuoco nemico si frammentano in massi, pietre, sassolini e schegge che ci ricadono addosso e spesso ci schiacciano trasformandoci in masse informi e sanguinolente.
Oppure franano su di noi e c'imprigionano sotto uno strato grigio, duro e tagliente che impedisce qualunque movimento. Il peggio è che nel mio settore di fronte non facciamo il minimo progresso: si va avanti a ondate, una due tre quattro volte, ma come il mare si arresta contro gli scogli, così le nostre divisioni s'infrangono contro la barriera insuperabile delle fortificazioni e dei reticolati austriaci.
Adesso però è passata e tutto quel che è successo poche settimane fa sembra quasi un brutto sogno. Io sono stato beccato alla gamba da una scheggia di shrapnel, ma la ferita è stata davvero superficiale. Così, dopo qualche giorno nelle retrovie per rimettermi in sesto, eccomi di nuovo qui.
E lo sai che è successo? Grazie a quella scalfittura sono stato promosso caporale. In somma, anche gli avvenimenti più negativi possono portare qualcosa di buono. A proposito, non dirlo alla mamma che m'hanno ferito: sai come lei s'impressioni facilmente.
Qui la vita è una vera noia, non c'è niente da fare tutto il giorno tranne che aspettare e dormire. Di notte invece stiamo in guardia contro possibili attacchi di sorpresa, ma finora non ce ne sono stati. Penso che gli austriaci siano più stanchi di noi e non abbiano granché voglia di combattere. Li capisco: in fondo fanno la guerra da dieci mesi più di noi. Ogni tanto andiamo a piazzare qualche tubo di gelatina vicino ai loro reticolati, ma anche se ne distruggiamo un po', il giorno dopo li risistemano meglio di prima.
Quel che m'ha colpito, quando sono stato in ospedale e ho avuto occasione di scambiare qualche parola colla gente del posto, è che a loro sembra importare ben poco di essere redenti
. Dicono che sotto l'Austria-Ungheria venivano trattati bene, in ispecie i contadini, e che non avevano alcun desiderio di cambiare.
Ma allora, tutti quei discorsi sulle popolazioni succubi dello Straniero? Tutte quelle invettive contro il nemico giurato degl'Italiani, che li affama e li schiavizza?
Gli ufficiali ci dicono che quelli sono contadini ignoranti, gente amorfa che non capisce niente, non ha un filo d'idealismo e pensa solo a riempire la propria pancia. Ma allora noi per chi combattiamo? Gli ufficiali ci ripetono che i veri patrioti sono a Trieste, in Istria e in Dalmazia, ma intanto noi siamo qua, a rischiare la pelle per gente che non ne vuol sapere di noi.
Tu che ne pensi, Giulio? Lo so che io e te siamo assai diversi, che a te piace fare il cinico e il prammatico, mentre io sono forse un ingenuo e un sognatore. Ma è mai possibile che tanti di noi, quelli che si son offerti volontari, si siano illusi e ingannati fino a questo punto? Mi sento più tosto depresso. Spero di ottenere presto una licenza e t'assicuro che ne sento un gran bisogno. Un grande abbraccio a tutti voi.
Stefano
In autunno Cadorna si sentì in dovere di fare un nuovo tentativo per sfondare le linee austriache, scatenando così la Terza Battaglia dell'Isonzo. L'obiettivo dichiarato era la conquista di Gorizia e, se fosse stato raggiunto, avrebbe fatto allontanare la spada di Damocle dell'esonero dalla testa del generalissimo. Sfortunatamente per lui e per i tanti soldati inutilmente morti e feriti, sacrificati alla sua ambizione e alla sua incapacità, tutto si risolse nell'ennesima carneficina organizzata, che colpì equamente entrambe le parti in lotta. A parte ciò, nessuna significativa variazione sul controllo del territorio conteso ebbe luogo.
Come se la cavò stavolta Cadorna per giustificarsi? L'ineffabile generale pensò bene di tirare in ballo le nefaste influenze dei pacifisti e dei neutralisti che agivano principalmente a Roma, in Parlamento, ma anche tramite i giornali e i partiti di Sinistra, specialmente i Socialisti che a onor del vero avevano accettato la guerra come un male inevitabile e nelle loro azioni politiche s'erano attenuti alla formula un po' ambigua di non aderire né sabotare
.
Secondo Cadorna, in vece, tali personaggi avevano minato irreparabilmente il morale delle truppe, ed era da attribuire principalmente a loro la lunga serie d'insuccessi e fallimenti che le armate del Regio Esercito Italiano avevano collezionato in sei mesi di guerra.
Storie d'industriali che s'erano arricchiti con forniture militari d'assai scarsa qualità ne circolavano parecchie tra i soldati e, se bene alcune fossero infondate o almeno esagerate, molte altre non lo erano affatto. Non era più probabile che fossero queste vergognose speculazioni a minare il morale dei militari più tosto che i discorsi di qualche pacifista, ivi compreso papa Benedetto XV? Ma non risulta che Cadorna se la sia mai presa cogl'industriali disonesti.
Arriviamo così al primo inverno di guerra. Era ormai chiaro che la pace era rinviata come minimo alla primavera 1916. Le armate contrapposte avevano davanti a loro almeno tre mesi di calma, durante i quali avrebbero approfittato per leccarsi le ferite e per ricostituire le scorte di materiali e di uomini (trattati dagli Alti Comandi come stupidi automi, sacrificabili senza pensarci troppo). E bisognava organizzarsi per permettere alle truppe di superare più o meno indenni i rigori del clima invernale del Trentino, del Friuli e della Venezia-Giulia.
Già durante l'estate gravi epidemie di tifo e colera avevano colpito i militari schierati lungo i confini. L'igiene era scarsa, ma almeno faceva caldo. Cosa sarebbe accaduto col freddo se non si fosse provveduto adeguatamente?
Una fase di calma assoluta era seguita a una d'attività frenetica e Stefano aveva adesso