I rintocchi di Galusè
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Anteprima del libro
I rintocchi di Galusè - Roberto Brughitta
prefazione
Volendone definire lo stile letterario, potremmo dire che Roberto Brughitta è un narratore di vita
. Vita che, come inesauribile sorgente, si dirama negli infiniti rivoli di piccole e grandi storie. A questa fonte Roberto si abbevera e invita i lettori a fare altrettanto con una narrazione che ci parla entusiasticamente di luoghi, tradizioni, persone.
Le fonti, si sa, delle volte possono essere avvelenate ed è intorno a un tragico fatto del passato che si sviluppano le vicende de I rintocchi di Galusè
. Siamo a Tonara nei primi anni Ottanta; la placida esistenza di Giacu il sonaggiargiu
(artigiano creatore di campanacci per animali da pascolo) è turbata dall’inaspettato ritorno in paese di Atalaia, la sorella un tempo tanto amata, con cui i rapporti si sono bruscamente interrotti anni prima. L’arrivo della donna, che porta con sè il figlio Luciano, sarà destinato a cambiare il corso della vita di Giacu e lo costringerà a fare i conti con un passato del quale è fin lì stato all’oscuro.
Accompagnano la storia i rintocchi cadenzati dei campanacci di Giacu, che Roberto descrive con la sensibilità e l’efficacia che gli sono proprie. Vero e proprio linguaggio ancestrale dalle misteriose inflessioni che avvicinerà Luciano a uno zio all’apparenza cosi diverso da lui.
Con I rintocchi di Galusè
, Roberto si discosta sensibilmente dai suoi precedenti lavori. Benché nella costruzione dei personaggi siano presenti molti dei tratti distintivi del suo stile, i loro archetipi risultano alla fine differenti per via di un’inusuale durezza e, verrebbe da dire, cattiveria
. Così come, nel suo insieme, appare differente il pathos drammatico del racconto, lontano dalle atmosfere rassicuranti e consolatrici di altre sue opere.
Ne I rintocchi di Galusé
, tuttavia, Roberto offre al lettore una storia, bella e crudele allo stesso tempo, raccontata con la schiettezza e la naturalezza tipiche dell’appassionato narratore di vita
quale lui è.
Michele Demontis
1
Pietro avanzava lentamente maledicendo la nebbia che da circa venti minuti aveva iniziato a salire dal fondo della vallata.
Si recava dal suo amico d’infanzia per comunicargli una novità importante. Non sapeva se a Giacu Sau avrebbe fatto piacere, anzi era sicuro del contrario, ma non poteva lasciarlo all’oscuro di un fatto così rilevante. No, non poteva proprio!
Giacu era l’ultimo abitante del rione di Ilalà, una località che ormai poco alla volta era stata abbandonata dai suoi residenti. Situata nella zona più bassa della valle, godeva di davvero poca luce solare. Sole i cui raggi riuscivano ad arrivare comunque in fondo alla vallata, ma filtrati dai numerosi castagni secolari, in ogni caso non vecchi come quello che si ergeva sulla collina che costeggia la strada asfaltata che da Tonara porta al paese di Sòrgono, che a quanto dicono sia addirittura millenario.
Quasi tutta la popolazione si era ormai stabilita nel rione di Teliseri, quartiere appena più in alto di Ilalà. Ma alcuni avevano optato per le zone più alte: Toneri e Arasulè, il quale nome significava infatti altare del sole. La cosa sorprendente era che in ognuno di questi rioni si parlava un dialetto differente, e addirittura si usavano vocaboli del tutto diversi per non farsi capire dagli altri. Anche Pietro da qualche anno si era trasferito in un quartiere più soleggiato, anche perché aveva aperto un’officina meccanica, e da allora si era dimenticato del forte odore di umidità che impregnava quella zona ormai deserta dove si ostinava a voler vivere il suo amico. Per questo motivo ora faceva fatica a respirare, non era più abituato al potere che l’umido esercita sul corpo umano. Le ossa dolevano, i movimenti diventavano lenti e un forte senso di soffocamento chiudeva la gola.
Comunque ormai mancava poco, stava finalmente arrivando in fondo alla valle, dove le poche case rimaste in piedi stavano per essere sopraffatte da uno spesso strato di muschio e rigogliose felci. L’abitazione di Giacu era situata subito dopo uno dei tanti ponticelli che permettevano di superare i vari torrenti che scendevano giù dal monte Margianeddu. In tutta la zona, infatti, regnava un particolare frastuono dovuto alla velocità con cui l’acqua rimbalzava contro i massi di scisto levigati dalla corrente.
Nonostante il persistente rumore, un leggero rintocco arrivò all’orecchio di Pietro, segno che Giacu era in casa. Mentre si avvicinava alla dimora dell’amico, il suono cambiò leggermente di tonalità: Giacu stava accordando un campanaccio che di lì a breve sarebbe finito appeso al collo di un animale. Di quale bestia si sarebbe trattato però, ancora non ne era sicuro, avrebbe dovuto prima vederlo.
Pietro pur vivendo da sempre nella zona aveva imparato a riconoscere i campanacci solo dalla forma. I tondi, solitamente più leggeri e fini, erano realizzati per pecore e agnelli, della stessa forma ma di dimensioni più grandi venivano indossati dalle maschere carnevalesche tipiche barbaricine. Quello tondo pesante si realizzava per i bovini. Anche quello quadrato veniva utilizzato spesso per le mucche. Quello lungo e leggero invece veniva usato prevalentemente per i cani da caccia, mentre quello più pesante per capre e bovini. Insomma, c’era una vasta scelta e Giacu, come pochi altri abitanti della zona, era uno specialista sia nella realizzazione che nell’accordatura.
Gli allevatori infatti volevano sempre lo stesso suono per il proprio bestiame. Dovevano poterlo riconoscere a distanza, al buio o durante quelle particolari giornate dove la nebbia del mattino tardava a scomparire. Il cortile dell’abitazione era ben curato, così come d’altronde tutto il resto della dimora, era l’unica casa che ancora dava segni di vita.
C’è nessuno in casa? Cercavo un Sonaggiargiu
, gridò Pietro una volta dentro la corte, alludendo alla professione dell’amico. Giacu si affacciò dalla piccola finestra che aveva i vetri rossastri, Che accidenti ci fai in zona a quest’ora. Non avrai mica nostalgia dei reumatismi. Oppure devi comunicarmi qualche disgrazia. Non si sarà per caso sentita nuovamente male tzia Filomena?
Filomena era la madre di Giacu, ultimamente il diabete le aveva fatto qualche scherzo e per tale motivo si erano dovuti recare due volte in ospedale. Giacu odiava andare in città. La definiva come un luogo dove c’era troppo chiasso e troppa gente vestita meglio di quanto si potesse permettere.
Stai tranquillo, tua madre gode di ottima salute e dottor Cao la segue quotidianamente
.
Quello poi!
esclamò Giacu mentre toglieva alcuni piccoli rettangoli di lamiera e un piccolo campanaccio che erano adagiati sopra una sedia. Siediti e dimmi. Non saresti sceso fin quaggiù se non fosse qualcosa d’importante. Avresti aspettato domenica, quando sarei salito a Tonara
.
Pietro prese un bel respiro e sotto lo sguardo fisso dell’amico d’infanzia riuscì finalmente a dire: Atalaia è in paese
.
La presa della mano destra di Giacu divenne lasca e il campanaccio d’ottone grezzo che teneva stretto, andò a cozzare sonoramente sull’antico pavimento in cotto.
2
Nicola era al secondo bicchierino di mirto quando vide passare Atalaia davanti alla grande vetrata del bar. Per un attimo pensò di avere le allucinazioni, perché prima di arrivare al digestivo si era scolato tre bicchieri di birra.
Si passò i pugni sugli occhi e con dei decisi movimenti semicircolari li sfregò, quindi dopo essersi lisciato per due volte la folta barba si diresse velocemente verso l’uscio del locale e, scostando una sbiadita tenda verde antimosche, diresse lo sguardo nella direzione che aveva visto prendere dalla donna.
Camminava con passo spedito, e svoltò a destra prendendo il viottolo in discesa. Nicola uscì dal locale e provò a seguirla, ma riuscì a vederla solo per un attimo, poi la ragazza si infilò tra le fauci spalancate dello spesso portone in legno della chiesa patronale e lì fu inghiottita. A Nicola bastò solo osservarne per un attimo l’andatura per essere sicuro che si trattasse di lei, e per poco il piccolo bicchiere di vetro che teneva tra le dita, non si frantumò a causa della forte pressione.
Non fece in tempo a rientrare nel bar e a riprendere posto accanto al bancone che dall’ingresso fecero la loro comparsa Giacu e Pietro. Capì subito che l’amico sapeva che sua sorella era in paese.
Facci due caffè
, disse Giacu alla giovane barista prima di incrociare lo sguardo dell’amico barbuto.
L’hai saputo anche tu?
disse poi rivolto a Nicola, mentre prendeva in mano il contenitore dello zucchero in attesa che le tazzine fumanti facessero il loro ingresso.
L’ho appena vista entrare in chiesa, pensavo di sognare. Da quanto manca? Più di dieci anni di sicuro
.
Giacu versò un po’ di zucchero nel denso liquido scuro, da anni ne aveva dimezzato la dose. Ordine del dottor Cao. Undici almeno, più o meno. Non pensavo che avesse il coraggio di farsi rivedere da queste parti
, disse dopo aver bevuto tutto d’un fiato il caffè.
Sicuramente avrà saputo che vostra madre la settimana scorsa è stata ricoverata per qualche giorno. Magari si è preoccupata e non conoscendo la gravità della situazione ha pensato di verificare di persona. Tzia Filomena è anche sua madre Giacu, non puoi impedirle di venirla a trovare
. Pietro disse questo pur sapendo di andare incontro all’ira dell’amico d’infanzia. Non si sbagliò di molto, anche se era sicuro che la calma apparente di Giacu fosse dovuta al fatto di essere in un locale pubblico con almeno una decina di persone al suo interno. La maggior parte di loro poi, conosceva bene la situazione.
"Dopo tutti questi anni si sveglia e decide di venire a trovare sua madre? Che se ne fosse rimasta in continente a fare la gran dama. E comunque, vuoi che non siano rimaste in contatto? Mia madre ha sempre saputo in quale regione, città o paese fosse andata a vivere. Va almeno una volta al mese alla posta, sicuramente le spedisce formaggi e salumi o chissà cos’altro. Solo io sono sempre restato all’oscuro di tutto, ma per mia scelta. Dammi un mirto!" disse poi il Sonaggiargiu rivolto alla ragazza dietro il bancone.
Nicola lo invitò ad abbassare la voce e a sedersi con lui in un tavolino accanto, mentre Pietro restava in piedi e continuava a sorseggiare lentamente il caffè soffiando dentro la tazzina.
Nicola provò a calmare l’amico: Come poteva tornare dopo che l’hai trattata in quel modo? Io ero convinto che al massimo l’avremo rivista per il funerale di tzia Filomena, che spero arrivi il più tardi possibile. Non che tu non avessi ragione, però avrebbe dovuto avere proprio una bella faccia tosta a tornare
.
Giacu mandò giù il bicchierino di mirto in due sorsate. Certo che avevo ragione, ci ha fatto vergognare tutti quella sciagurata. Nostro padre è morto certamente di dolore e lei non si è degnata neppure di mandare un telegramma. Voglio vedere se ha il coraggio di passare a casa della madre sapendo che io potrei arrivare da un momento all’altro. Per quello è andata in chiesa, sa che a quest’ora, con il bello o con il cattivo tempo, la trova inginocchiata al solito banco. Sicuramente la ospiterà la cugina del cuore. Sempre che non se ne riparta subito. Sarebbe l’unica cosa giusta da fare
.
Pietro nel frattempo aveva raggiunto i due amici al tavolino. Arrivò con un bicchierino di limoncello stretto nella mano destra.
Cosa hai deciso di fare?