Da Quarto al Volturno: Noterelle d'uno dei mille
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Anteprima del libro
Da Quarto al Volturno - Giuseppe Cesare Abba
personaggi
Parma, 3 maggio 1860. Notte
Le ciance saranno finite. Se ne intesero tante che parevano persino accuse. Tutta Sicilia è in armi: il Piemonte non si può movere; ma Garibaldi? – Trentamila insorti accerchiano Palermo: non aspettano che un capo, Lui! Ed egli se ne sta chiuso in Caprera? – No, è in Genova – E allora perché non parte? – Ma Nizza ceduta? dicevano alcuni. E altri più generosi: – Che Nizza? Partirà col cuore afflitto, ma Garibaldi non lascierà la Sicilia senza aiuto.
I più generosi hanno indovinato. Garibaldi partirà, ed io sarò nel numero dei fortunati che lo seguiranno.
Poco fa, parlavo di quest’impresa coll’avvocato Petitbon. Egli che l’anno scorso, nella caserma dei cavalleggieri d’Aosta, pregava con noi che nascesse la rivoluzione nel Pontificio o nel Napoletano, dacché Villafranca aveva troncata la guerra in Lombardia, non potrà venire con noi, e si affligge. Ha la madre ammalata. Ci lasciammo colla promessa di rivederci domani, e se ne andò lento e scorato per via dei Genovesi. Mentre io stavo a guardarlo, mi venivano di lontano, per la notte, rumori d’ascie e di martelli. E gli odo ancora. Ma i cittadini non si lagneranno della molestia, perché la fretta è molta. Si lavora anche di notte a piantare abetelle, a formar palchi, a curvar archi trionfali, per la venuta di re Vittorio. Verrà dunque il Re desiderato fra questo popolo, che, ora sei anni, vide cadere Carlo terzo duca, pugnalato in mezzo alla via. Io ero allora scolaro di quattordici anni, e ricordo il racconto che dell’orribile caso ci fece il padre maestro Scolopio. Frate raro, biasimava l’uccisore ma non lodava l’ucciso.
Che Carlo terzo fosse quel duca, che prima del quarantotto, fu in Piemonte ufficiale di cavalleria? Se fu, vi lasciò tristo nome. Intesi narrare che una notte, in Torino, due ufficiali burloni, di gran casato, amici suoi, lo affrontarono per celia, mentre discendeva da visitare un’amica. Pare che ne restasse così atterrito, che i due dovettero palesarsi, tanto che non morisse dalla paura. E allora egli minacciò che guai a loro, se un dì fossero capitati a passare per i suoi Stati. – Se mai, rispose uno dei due, pianteremo gli sproni ne’ fianchi ai cavalli, e salteremo di là da’ tuoi Stati senza toccarli. – Povero Duca! Ora ne’ suoi Stati viene Vittorio. Gran fortunato questo Principe! Chi vuol fare qualcosa per la patria, sia pure non amico di re, deve contentarsi di dar gloria a lui. Parma gli farà grandi accoglienze, e noi non saremo più qui.
Parma, 4 maggio. Alla stazione
Gli ho contati. Partiamo in diciassette, studenti i più, qualcuno operaio, tre medici. Di questi uno, il Soncini, è vecchio, della repubblica Romana. Dicono che nel treno di Romagna troveremo altri amici, fiore di gente. Ne verranno da tutte le parti.
Si fanno grandi misteri su questa partenza. A sentire qualcuno, neanco l’aria deve saperla. Ci hanno fatto delle serie raccomandazioni; ma intanto tutti sanno che Garibaldi è a Genova, e che andrà in Sicilia. Attraversando la città, abbiamo dato e pigliato delle grandi strette di mano, e avuto dei caldi auguri.
4 maggio. In viaggio
Non so per che guasti, il treno s’è fermato. Siamo vicini a Montebello. Che gaie colline, e che esultanza di ville sui dossi verdi! Ho cercato coll’occhio per tutta la campagna. È appena passato un anno, e non un segno di quel che avvenne qui. Il sole tramonta laggiù. In fondo ai solchi lunghi, un contadino parla ai suoi bovi. Essi aggiogati all’aratro tirano avanti con lui. Forse egli vide e sa dove fu il forte della battaglia? Ho negli occhi la visione di cavalli, di cavalieri, di lance, di sciabole cavate fuori da trecento guaine, a uno squillo di tromba; tutto come narrava quel povero caporale dei cavalleggeri di Novara, tornato dal campo due giorni dopo il fatto. Affollato da tutta la caserma, colla sciabola sul braccio, col mantello arrotolato a tracolla, coi panni che gli si erano sciupati addosso, lo veggo ancora piantato là in mezzo a noi, fiero, ma niente spavaldo.
– Dunque, e Novara?
– Novara la bella non c’è più! Siamo rimasti mezzi per quei campi…
E narrò di Morelli di Popolo, colonnello dei cavalleggeri di Monferrato morto, di Scassi morto, di Govone morto, e di tanti altri, lungo e mesto racconto.
– E i Francesi?
– Coraggiosi! – rispondeva egli – ma bisognava sentirli come i loro ufficiali parlavano di noi!
Io lo avrei baciato, tanto diceva con garbo.
Povero provinciale di quei di Crimea, richiamato per la guerra, aveva a casa moglie, figliuoli e miseria. Non amava i volontari: gli pareva che se fossero rimasti alle loro case in Lombardia, egli non si sarebbe trovato lì, con trent’anni sul dorso e padre, a dolersi della pelle messa in gioco un’altra volta. Del resto non si vantava di capire molto le cose: ciò che piaceva ai superiori, piaceva a lui: tutto per Vittorio e pazienza. Avessimo due o tre centinaia d’uomini come lui, buoni a cavallo e a menar le mani, quando saremo laggiù!
Nella stazione di Novi
Si conoscono all’aspetto. Non sono viaggiatori d’ogni giorno; hanno nella faccia un’aria d’allegrezza, ma si vede che l’animo è raccolto. Si sa. Tutti hanno lasciato qualche persona cara; molti si dorranno di essere partiti di nascosto.
La compagnia cresce e migliora.
Vi sono dei soldati di fanteria che aspettano non so che treno. Un sottotenente mi si avvicinò e mi disse:
– Vorrebbe telegrafarmi da Genova l’ora che partiranno?
Io né sì né no, rimasi lì muto. Che dire? Non ci hanno raccomandato di tacere? L’ufficiale mi guardò negli occhi, capì e sorridendo aggiunse:
– Serbi pure il segreto, ma creda, non l’ho pregata con cattivo fine.
E si allontanò. Voleva chiamarlo, ma ero tanto mortificato dall’aria dolce di rimprovero con cui mi lasciò! È un bel giovane, uscito, mi pare da poco, da qualche collegio militare; alla parlata, piemontese. Non so il suo nome e non ne chiederò. Innominato, mi resterà più caro e desiderato nella memoria.
Genova, 5 maggio. Mattino
Ho riveduto Genova, dopo cinque anni dalla prima volta che vi fui lasciato solo. Ricorderò sempre lo sgomento che allora mi colse, all’avvicinarsi della notte. Quando vidi accendere i lampioni per le vie, mi si schiantò il cuore. Fermai un cittadino che passava frettoloso, per chiedergli se con un buon cavallo, galoppando tutta la notte, uno avrebbe potuto giungere prima dell’alba a C..., al mio villaggio. Colui mi rispose stizzito, che manco per sogno. Quella notte fu lunga e dolorosa; e ora come posso dormire tranquillo, benché lontano dai miei e a questi passi?
Ieri sera arrivammo ad ora tarda, e non ci riusciva di trovar posto negli alberghi, zeppi di gioventù venuta di fuori. Sorte che, lungo i portici bui di Sottoripa, ci si fece vicino un giovane, che indovinando, senza tanti discorsi, ci condusse in questo albergo. La gran sala era tutta occupata. Si mangiava, si beveva, si chiacchierava in tutti i vernacoli d’Italia. Però si sentiva che quei giovani, i più, erano Lombardi. Fogge di vestire eleganti, geniali, strane; facce baldanzose; persone nate fatte per faticare in guerra, e corpi esili di giovanetti, che si romperanno forse alle prime marcie. Ecco ciò che vidi in una guardata. Entravamo in famiglia. E seppi subito che quel giovane che ci mise dentro si chiama Cariolato, che nacque a Vicenza, che da dieci anni è esule, che ha combattuto a Roma nel quarantanove, e in Lombardia l’anno passato. Gli altri mi parvero, la maggior parte, gente provata.
Più sul tardi
Stamane il primo passo lo feci da C... al quale farò conoscere i dottori di Parma, che a lui, studente di medicina, sarebbero cari, se potesse venire con noi.
– Tu vai in Sicilia! – esclamò, appena mi vide.
– Grazie! Tu non mi hai detto mai parole più degne.
– È una grande fortuna! – soggiunse pensoso e dopo lunghi discorsi prese la lettera che gli diedi per casa mia. Egli la porterà soltanto quando si sappia che noi saremo sbarcati in Sicilia. Se si dovesse fallire, voglio che la mia famiglia ignori la mia line. Mi aspetteranno ogni giorno, invecchiando colla speranza di rivedermi.
Mi abbattei nel signor Senatore, che mi conobbe giovinetto.
Egli mi ha detto che in Genova si è radunata una mano di faziosi, i quali oggi o domani vogliono partire, per andare a far guerra contro Sua Maestà il Re di Napoli. Non sa più in che mondo viva: e se il governo di qui non mette la mano sopra quegli sfaccendati perturbatori... Basta, spera ancora! Scaricava così la collera che gli bolliva; ma a un tratto si piantò, domandandomi se per avventura fossi anch’io della partita. Io non risposi. Allora certo d’aver colto nel segno, cominciò colle meraviglie, poi colle esortazioni. Come? Poteva essere che il mondo si fosse girato tanto, da trovarsi a simili fatti un giovane, uscito dal fondo d’una valle ignota, allevato da buoni frati, tiglio di gente quieta, adorato dalla madre...? Poi passò alle minacce. Avrebbe scritto, si sarebbe fatto aiutare da quanti del mio paese sono qui; mi avrebbe affrontato all’imbarco, per trattenermi... E io nulla. Ultima prova, quasi piangendo e colle mani giunte, proruppe: Ma che cosa vi ha fatto il re di Napoli a voi, che non lo conoscete e andate a fargli guerra? Briganti! Eppure un suo figlio verrà con noi.
*
Desinammo in quattro, né allegri né mesti, e restammo a tavola pensando ognuno lontano, secondo il proprio cuore tacevamo. A un tratto il dottor Bandini, che m’era di faccia, si levò ritto, cogli occhi nella parete sopra di me. V’era un ritratto. Pisacane! Io lessi alto una strofa stampata a piè dell’immagine di quel precursore, una delle strofe della Spigolatrice di Sapri. Al ritornello, il dottor Bandini mi fu sopra colla sua voce potente e lesse lui:
Eran trecento, eran giovani e forti
E sono morti!
Tornò il silenzio di prima. Ed io pensai alla notte che si fece sulle due Sicilie, dopo l’eccidio di Sapri. Oh! allora, come deve essere parsa fuori d’ogni speranza una ripresa d’armi, a quella povera gente laggiù. Ai profughi si affacciò il sepolcro in terra straniera, e il regno fu tutto un carcere.
Quarto, presso la Villa Spinola. 5 maggio,
a un’ora di notte
Ho bevuto l’ultimo sorso.
Strana coincidenza di date! Partiremo stasera. Chi fra quanti siamo qui non ripensa che oggi è l’anniversario della morte di Napoleone?
In mare. Dal piroscafo il Lombardo. 6 maggio mattino
Navigheremo di conserva, ma intanto quelli che montarono sul Piemonte furono più fortunati. Hanno Garibaldi. I due legni si chiamano Piemonte e Lombardo; e con questi nomi di due provincie libere, navighiamo a portare la libertà alle Provincie schiave.
Noi del Lombardo siamo un bel numero. Se ce ne sono tanti sul Piemonte, arriveremo al migliaio. Chi potesse vedere nel cuore di tutti, ciò che sa ognuno della nostra impresa e della Sicilia! A nominarla, sento un mondo nell’antichità. Quei Siracusani che, solo a sentirli cantare i cori greci, mandarono liberi i prigionieri di Nicia, mi parvero sempre una delle più grandi gentilezze che siano state sulla terra. Quel che oggi sia l’isola non lo so. La vedo laggiù in una profondità misteriosa e sola. E Trapani?
Mi vibrano bene nella mente, in questi momenti, le parole di quel volontario che fu in Crimea. «Appoggiammo a Trapani, raccolta laggiù su d’una punta squallida, città colma di mestizia fin sopra i tetti. Venivano, sulle barche, dei poveri straccioni a venderci frutta, girando stupefatti attorno alla nostra nave. – Che cosa siete? ci chiedevano.»
«Piemontesi.»
«E dove andate?»
«In Crimea, alla guerra.!
«In Crimea, alla guerra! ripetevano chinando il capo, e se ne andavano pieni di compassione».
Vedremo Palermo? Vedremo la piazza dove fu fatto l’Auto da fé di fra Romualdo e di suor Gertrude? Il Padre Canata ce lo lesse nel Colletta in iscuola; e leggendo pareva che schiaffeggiasse la plebe e i grandi, che banchettarono cogli occhi sul rogo.
Ricordo più dolce, mio padre narrava che Panno della fame, 1811, essendo egli fanciullo, la gente si nutriva di certe mandorle grosse come un pollice, portate di lontano… di lontano… dalla Sicilia. – E che cosa è la Sicilia? – domandavamo noi fanciulli. E lui – Una terra che brucia in mezzo al mare.
Nell’anno 1857, Panno d’Orsini, d’Agesilao, di Pisacane, su per le colonne di via Po in Torino, lessi scritto col carbone: «Sicilia è insorta, all’armi, fratelli». Chi sa da qual mano furono scritte quelle parole? E se le scrisse un esule come sarà felice se per avventura è con noi.
*
Genova nelle ore supreme fu ammirabile. Nessun chiasso: silenzio, raccoglimento e consenso. Alla Porta Pila, v’erano delle donne del popolo che, a vederci passare, piangevano. Di là a Quarto, di tanto in tanto, un po’ di folla muta. A piè della collina d’Albaro alzai gli occhi, per vedere ancora una volta la Villa, dove Byron stette gli ultimi giorni, prima di partire per la Grecia: e il grido di Aroldo a Roma mi risonò nelle viscere. Se vivesse, sarebbe là sul Piemonte, a fianco di Garibaldi, inspiratore.
– Questo villaggio è Quarto?
– Sì.
– Dov’è la villa Spinola?
– Più avanti.
Tirai avanti. Ecco la villa.
Biancheggiava una casina di là da un gran cancello, in un bosco oscuro, nella cui profondità, pei viali, si movevano uomini affaccendati. Dinanzi, sullo stradale che ha il mare lì sotto, v’era gran gente e un bisbiglio e un caldo che infocava il sangue. La folla oscillava: Eccolo! No, non ancora! Invece di Garibaldi usciva dal cancello qualcuno che scendeva al mare, o spariva per la via che mena a Genova. Verso le dieci la folla fece largo più agitata, tacquero tutti; era Lui!
Attraversò la strada e per un vano del muricciolo rimpetto al cancello della villa, seguito da pochi, discese franco giù per gli scogli. Allora cominciarono i commiati. Ed io che non aveva lì nessuno, mi sentii negli occhi le lagrime. Avviandomi per discendere mi abbattei in Dapino, mio condiscepolo di sei anni or sono. Aveva la carabina sulla spalla. Fui lì per abbracciarlo; ma gli vidi a fianco suo padre e un suo fratello, e mi cadde l’animo. Temei d’assistere ad una scena dolorosa, perché mi pareva che quel padre, che io so tanto amoroso, fosse venuto per trattenere il figliuolo; e due passi più sotto v’erano le barche, e una turba silenziosa come di ombre sfilava giù in quel fondo. Invece ecco il padre e il fratello abbracciare l’amico mio, e… mi si fa un nodo alla gola.
Qui accanto dicono d’un altro che non conosco. Sono Veneti, giovani belli e di maniere signorili.
– Sapete che la madre di Luzzatto venne a cercarlo?
– Da Udine?
– O da Milano, non so. Corse di qua, di là, da Genova alla Foce, dalla Foce a Quarto, chiedendo, pregando, e tanto fece che lo trovò.
– E lui?
– E lui la supplicò di non dirgli di tornare indietro; perché sarebbe partito lo stesso, col rimorso d’averla disobbedita.
– E la mamma?
– Se n’andò sola.
*
Non si vede più terra
La barca sulla quale ieri sera mi toccò montare, dondolava stracarica. I barcaiuoli per farci stare che non si capovolgesse, ci pregavano di guardare, verso Genova, certe luci verdi e rosse che splendevano nella notte. Come fossimo bambini! Verso le undici da una barca già in alto, udimmo una voce limpida e bella chiamare: «La Masa!». E un’altra voce rispose: «Generale!». Poi non s’udì più nulla.
Intanto le ore passavano; eravamo cullati dall’onda e mi addormentai. All’alba fui destato, e vidi due navi maestose, lìterme dinanzi a noi. Tutte le barche furono spinte verso quelle. Mi volsi addietro. Genova e la riviera apparivano laggiù incerte, in un velo vaporoso: ma là oltre, i miei monti esultavano alti e puri, dominando la scena!
Una brezzolina increspava le acque; sulle navi si faceva un gran vociare; era una tempesta di chiamate, di apostrofi e anche di sagrati, che lasciavano il segno nell’aria come saette, fu una mezz’ora di gran furia a chi facesse più presto a imbarcarsi; e anch’io potei finalmente agguantare una gomena e salire. Ho sempre negli occhi un giovane, che in quel momento vidi convulso dibattersi in fondo ad una delle barche, tenuto a stento da tre compagni. Che fosse pentito o il mal di mare l’avesse ridotto in quello stato?
*
Si odono tutti i dialetti dell’alta Italia, però i Genovesi e i Lombardi devono essere i più. All’aspetto, ai modi e anche ai discorsi la maggior parte sono gente