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L'anno senza estate
L'anno senza estate
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E-book271 pagine3 ore

L'anno senza estate

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Info su questo ebook

Comincia a piovere sul sentiero che porta ai piedi del Monte Adula, la vetta più alta del Canton Ticino. Francesco Salemi, sessantotto anni, scivola in un burrone. L’unica testimone della sua fine è la ventenne Sara Gandolfi.
Francesco è un industriale di successo, proprietario di un’azienda di posateria in Brianza e grande amante della montagna. Ha conosciuto Sara un anno prima, nel bar di Milano in cui lei lavorava. Per lui era un periodo di stanchezza: deluso dai figli che lo affiancavano in azienda, cercava forze nuove per superare la crisi, e con un colpo di testa ha assunto quella ragazza senza qualifiche né esperienza.
Sara, che ha sempre arrancato nella vita, non può credere alla propria fortuna. Come nuova assistente di Francesco getta, però, scompiglio tra gli eredi di casa Salemi. Riporta alla luce odi sopiti e insofferenze verso un padre brillante ma autoritario. La situazione precipita quando Francesco si traferisce a Lugano; uno spostamento fisico e non solo. Sara lo segue, aggrappandosi come può all’ancora di salvezza che rappresenta, ma non è affatto detto che lui voglia condurla in un porto sicuro.

LinguaItaliano
Data di uscita28 set 2020
ISBN9788831285209
L'anno senza estate
Autore

Bérénice Capatti

Bérénice Capatti ha scritto libri per bambini e adolescenti (Vi presento Klimt e Gauguin e il colore dei tropici, Edizioni Arka; Noi nella corrente, Rizzoli; L’incredibile tesoro di Gian del Mare, ESG). Questo è il suo primo romanzo per adulti, che ha avuto il sostegno della fondazione Pro Helvetia. Alla scrittura affianca l’attività di editor e traduttrice. Vive a Lugano.

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    L'anno senza estate - Bérénice Capatti

    L’anno senza estate

    di Bérénice Capatti

    Copyright 2020 Gabriele Capelli Editore

    Gabriele Capelli Editore

    ISBN 978-88-31285-20-9 (EPUB)

    Immagine di copertina: Matteo Catanese on Unsplash

    Editing: Dada Montarolo

    Prima edizione GCE ottobre 2020

    Borsa letteraria Pro Helvetia 2014

    Pubblicazione sostenuta da: Fondazione svizzera per la cultura Pro Helvetia

    La casa editrice Gabriele Capelli Editore beneficia di un sostegno strutturale dell'Ufficio federale della cultura per gli anni 2016-2020.

    Questo ebook è concesso in uso per l’intrattenimento personale. Questo ebook non può essere rivenduto o ceduto ad altre persone. Se si desidera condividere questo ebook con un’altra persona, acquista una copia aggiuntiva per ogni destinatario. Se state leggendo questo ebook e non lo avete acquistato per il vostro unico utilizzo, si prega di tornare su Smashwords e di acquistare la propria copia. Grazie per il rispetto al duro lavoro di questo autore.

    Ringraziamenti

    Ringrazio Alberto Capatti del caloroso appoggio, Roberto Losengo per l’indispensabile consulenza giuridica, Ernesto Streit che mi ha dedicato il suo tempo spiegandomi di Exit, Dada Montarolo a cui devo osservazioni preziose e naturalmente Gabriele Capelli per aver creduto in questo romanzo.

    Uno speciale ringraziamento va a Pro Helvetia, che mi ha sostenuta nella scrittura con una borsa letteraria.

    A Paolo

    Il Vecchio morì sul sentiero per la capanna Quarnei all’inizio di giugno.

    Sara raccontò che voleva arrivare ai piedi dell’Adula per mostrarle il ghiacciaio e fermarsi a pranzo nel rifugio. La giornata pareva incerta quando erano partiti da Lugano e le previsioni non escludevano piovaschi verso sera, ma era una camminata senza grandi difficoltà, un’ora e mezza al massimo con un dislivello di cinquecento metri. Sarebbero stati di ritorno per metà pomeriggio.

    Raccontò poi che aveva guidato lei per la stretta strada che si inerpicava nella val Malvaglia, fino alla fine dello sterrato dopo le poche case di pietra dell’abitato di Cusiè. Nello slargo che fungeva da parcheggio c’erano due macchine soltanto.

    Si erano inoltrati tra i larici scavalcando i rivoli d’acqua, sul sentiero che saliva lentamente. Il Vecchio procedeva di buon passo, così disse Sara, appoggiandosi appena al bastone di legno che lo accompagnava nelle camminate semplici degli ultimi tempi, un regalo dei nipoti. Il premio di consolazione lo chiamava arricciando il labbro in una smorfia. Era silenzioso, questo sì, ma si poteva pensare che fosse il ricordo delle vette conquistate un tempo a mettergli addosso quella malinconia.

    Usciti dal bosco, si erano fermati al torrente livido che scendeva da una parete di roccia, oltre il quale sorgevano le solitarie costruzioni dell’alpe. Sara si era seduta su un masso, stringendo le ginocchia al petto per fare scudo alle raffiche di vento e sbirciava il cielo che si era fatto di piombo.

    «Guarda quelle.» Francesco indicava due capre che combattevano in un recinto metallico, si allontanavano e tornavano alla carica, testa avanti, finché le corna cozzavano, ancora e ancora. A un tratto la lotta era cessata, dovevano aver risolto in qualche modo la questione.

    «Non si capisce chi abbia vinto» aveva osservato, perplesso.

    Sara si sfregava le mani. «Ci dev’essere per forza un vincitore?»

    L’aveva guardata per un attimo appena, divertito, o forse no, forse solo sorpreso di quel tono ruvido. «Fammi indovinare. In questo momento vorresti rosolarti su una spiaggia dorata.»

    Un mezzo sorriso le si era disegnato sulle labbra. «Andiamo?»

    Dopo aver attraversato il ponte si erano incamminati su per il sentiero ripido che tagliava la montagna.

    «A volte mi dimentico che hai vent’anni» aveva detto Francesco, scuotendo la testa come a concludere un qualche pensiero inespresso.

    «E tu com’eri, a vent’anni?» lo aveva pungolato lei.

    «Un vecchio giaguaro già allora, lo sai.» Gli piaceva giocarci, con quella definizione che si portava dietro fin da ragazzo, ma Sara era certa che fosse sempre stato uno di quelli che vuole sbranare il mondo, ti fanno la posta in silenzio e prima che te ne accorga ti hanno tolto di mezzo. Con il tempo gli era rimasto appiccicato soltanto il nome Vecchio, giaguaro era stato sottinteso, e poi forse anche lui aveva spuntato un po’ gli artigli.

    Nel primo tratto pareva rinvigorito, quasi che lasciarsi il bosco alle spalle e trovarsi tra l’erba e i bassi arbusti verso i duemila metri, alle soglie di quella che per lui era la vera montagna, avesse scacciato almeno in parte il malumore. Forse era l’aria rarefatta a fargli animo.

    «Manca solo una mezz’ora» le aveva spiegato, voltandosi a guardarla. «Ci asciugheremo al rifugio, se si mette a piovere. Stando alle previsioni dovrebbe venir giù poco o nulla.»

    Come se le avesse evocate, le prime grasse gocce avevano macchiato la terra. Sara spiegò che le pareva di avergli sentito un leggero affanno nel respiro, niente di più. Niente che lasciasse presagire. Ma con l’infuriare del vento e l’acquazzone che li incalzava non poteva essere certa di nulla.

    Il sentiero correva a strapiombo sul torrente Orino; lì la pioggia era diventata una cortina d’acqua che offuscava tutto e trasformava la terra in una fanghiglia viscida. Le aveva gridato «Avanti, ci siamo quasi» indicando davanti a sé, ma poco dopo si era quasi fermato.

    «Tutto bene?» gli aveva chiesto attraverso lo scroscio assordante. Nessuna risposta.

    Ai soccorritori e poi ad Angelica, Sara raccontò che lo aveva visto barcollare appena e poi scivolare lungo la china scoscesa, mentre con le mani cercava disperatamente di artigliare il terreno. E giù era sceso, due, tre, cinque metri, finché non aveva incontrato un arbusto che forse avrebbe potuto arrestare la caduta; ma non era riuscito ad aggrapparsi e anzi aveva battuto la testa violentemente su una pietra, per poi sdrucciolare inerte verso le acque furiose. Il corpo era stato trascinato dalla corrente fino ad arenarsi tra le rocce sulla riva.

    Sara era rimasta lì, incapace di fare un passo di più, la bocca spalancata in un grido muto. Aveva sfilato il telefono dalla tasca pur sapendo che non prendeva, senza poter distogliere lo sguardo dal corpo scomposto, mentre la nausea le risaliva dallo stomaco.

    A forza di nervi si era riscossa ed era corsa su, fino al pianoro, alle prime case di pietra dell’alpe Quarnei. Aveva picchiato come una furia alle porte, inutilmente. Era sola nel silenzio spettrale, nella nebbia che aleggiava nascondendo le pietraie intorno. A un tratto il cartello che indicava il rifugio le era apparso davanti. Si era dannata a correre, slittando più volte, fino a intravvedere una falda di tetto grigio in cima.

    Ne aveva attraversato l’ingresso di corsa, zuppa e inzaccherata, per poi salire pestando gli scarponi fino al primo piano. Farfugliava senza fiato «Aiuto, aiuto».

    L’elicottero del soccorso svizzero non poteva arrivare lassù con quella nebbia. Sara era tornata nel punto in cui il vecchio era scivolato e lì aveva atteso che qualcuno venisse dalla valle. Era rimasta tutto il tempo a guardare il corpo immobile con la gamba destra ripiegata in fuori ad angolo retto tra le rocce, in fondo, continuando a ripetere ossessivamente che doveva essersi spaccato il ginocchio.

    C’era voluta più di un’ora perché i soccorritori arrivassero e constatassero la morte di Francesco Salemi. Ce n’erano volute tre perché le nubi si diradassero, permettendo all’elicottero della Rega di posarsi.

    Una volta a bordo, Sara aveva scostato appena il telo blu che ricopriva il corpo. Il viso terreo era cosparso di chiazze violacee. Con l’indice aveva sfiorato l’acqua accumulata in un’occhiaia e si era ritratta con orrore, colta da sussulti tanto violenti che le facevano fare movimenti inconsulti, uno scatto del braccio, la testa che si piegava.

    «L’avevi detto» ripeteva come soggiogata da un incantamento che non poteva combattere. «L’avevi detto.»

    Si era sentita avvolgere le spalle da una coperta e premere sulla schiena un braccio forte.

    «Meglio così?» le aveva domandato qualcuno accanto.

    Non era riuscita neppure ad annuire. Aveva chiuso gli occhi, sentendo la voce tiepida di Francesco che sussurrava Vorresti rosolarti su una spiaggia dorata....

    *

    Delle montagne Sara non sapeva quasi nulla fino a un anno prima, quando Francesco Salemi per lei era ancora un estraneo e tutto doveva succedere. Le Alpi erano parole vuote imparate alla scuola elementare – di cui ricordava soltanto il ritornello ma con gran pena le reca giù – e l’unica gita in altitudine era stata al Santuario di Oropa, a un’altezza che il Vecchio avrebbe definito con sufficienza collinare. Allora era convinta che nessuno avrebbe potuto costringerla ad arrancare in salita senza una reale necessità.

    In quel sabato mattina di fine aprile, del resto, poteva ancora poltrire, perché il suo turno al bar cominciava alle due e mezzo. Ed era ciò che faceva, sdraiata sul letto, scrutando il soffitto della stanza. Una lunga crepa scendeva ramificandosi sulla parete di fondo, accanto alla finestra.

    Alzandosi a sedere, osservò la casa rimasta a metà, oltre il cortile d’asfalto del condominio. L’erba l’aveva invasa e i rampicanti strisciavano già sui pilastri, ma non erano ancora arrivati alla struttura del tetto coperta in parte di plastica ondulata. Quella mezza costruzione aveva un che di rassicurante perché offriva una possibilità, tra i parallelepipedi dei palazzi che annullavano l’orizzonte. Forse avrebbe trovato una nuova vita, un giorno, e sfoggiato una bellezza inattesa.

    Un rubinetto stridette al piano di sopra. Quella stanza era stata una benedizione, quando l’aveva trovata un anno e mezzo prima a un prezzo stracciato, e Jasmina era stata una buona coinquilina finché non aveva conosciuto Nic.

    La sentì cinguettare, strascicando le ciabatte nel corridoio. Lo sciacquone scrosciò oltre la parete, ed ecco dal bagno la voce secca di lui, che non si dava mai la pena di parlare piano.

    Quel giovedì, di ritorno dalla scuola serale, Sara aveva trovato Jasmina nella vasca da bagno, rannicchiata, uno zigomo tumefatto, a fissare il sapone con occhi vuoti. Si era inginocchiata sul pavimento per accarezzarle i capelli.

    «Se prova a mettere ancora piede qui dentro» aveva detto con la voce arrocchita dalla rabbia, «lo denuncio.»

    Sapevano tutte e due che non lo avrebbe fatto, perché chi di loro non aveva niente da rimproverarsi? Di sicuro lui non se ne sarebbe stato zitto sulle posate che Sara faceva sparire al bar: c’era un intero servizio di coltelli nel cassetto della cucina, per non parlare degli acidi di Jas. E poi cosa volevi che gli facessero per un paio di schiaffi? Anzi, a denunciarlo, andava a finire che lui si incazzava il doppio ed era la volta buona che ammazzava Jasmina a calci. Eppure sentirlo di nuovo lì, a fare il padrone, era insopportabile.

    Scivolò fuori dal letto, percorse il corridoio così com’era, in calzoncini da basket e maglietta, ed entrò in cucina. Non aveva paura.

    Jas era seduta al tavolo chiaro dell’Ikea. Lo zigomo cominciava a tirare sul giallognolo mentre il labbro sembrava essersi un po’ sgonfiato.

    «Te l’avevo detto, no?» abbaiò Sara. «Ti avevo detto che questo pezzo di merda qui non ci deve più entrare.»

    Nic si voltò di scatto dai fornelli, l’accendino in mano. «Pezzo di merda a chi?» Il circolo d’oro all’orecchio gli luccicò nel movimento. Sembrava malato alla luce bianca del neon.

    «Prova a indovinare.»

    Sulle prime lui non la aggredì come si era aspettata, anzi, indietreggiò di un passo. «Mi ha fatto perdere il controllo» balbettò. «Sono uscito di testa.» Rivolse un’occhiata a Jasmina; guardarla sembrò in qualche modo dargli coraggio. «E tu che cazzo c’entri?»

    «Vedi un po’... Mi sono ritrovata l’amica con la faccia a pezzi.»

    «Non ha bisogno di un avvocato» replicò lui con il tono che saliva. «O sbaglio?» Si voltò verso Jasmina. «Ce l’avremo tra i piedi anche quando scopiamo, d’ora in poi, ’sta qui?»

    Lei si passò una mano tra i capelli giallo paglierino con un sospiro esasperato, guardò gli altri due per un breve attimo, e infine spinse indietro la sedia facendo rumore. «Finitela, mi avete rotto.» Perfino in quel momento la sua voce conservava un fondo di dolcezza.

    Sara rimase dov’era, a guardare le sue pantofole sparire nel corridoio. Le ci sarebbero volute scarpe chiodate, anziché quelle ridicole babbucce rosa, non se ne rendeva nemmeno conto. Nic si era voltato verso la portafinestra e si stava accendendo una sigaretta. I pantaloni gli cascavano dalle anche; aveva qualcosa di macilento nelle gambe filiformi e nelle spalle che sporgevano, aguzze.

    «Sei marcio» sibilò rivolta alla sua schiena, e uscendo sbatté la porta i cui vetri vibrarono, minacciando di rompersi.

    Entrata in camera, infilò i jeans e la maglia abbandonati sulla sedia la sera prima, poi si piantò davanti allo specchio scheggiato che aveva recuperato al bar dove lavorava. Fissò la maschera dura nel riflesso, un viso pallido dagli occhi opachi.

    Jas, oltreché un’idiota, era anche un’ingrata. Era stata Sara a medicarle le ferite, a consolarla e aspettare che si addormentasse fin quasi all’alba. Aveva ascoltato i racconti rotti dal pianto e perfino tenuto il cellulare acceso a lezione, la sera prima, caso mai l’amica avesse avuto bisogno. Ma quando si affacciò nella sua camera, trovò Nic sdraiato sotto di lei sul letto, un materasso posato su due bancali di legno. Le accarezzava il viso, e pareva impossibile che avesse potuto sfigurarla a forza di schiaffi.

    Sara rimase immobile un istante, incapace di pronunciare una sillaba. Poi si mosse in fretta per non vedere più. Infilò gli scarponcini nell’ingresso e afferrò la felpa che era appesa al gancio dietro la porta.

    «Vuoi andartene all’obitorio in diretta?» sibilò, sentendosi bruciare la gola. «Vacci pure, cretina. Ma ricordati che al tuo funerale non ci vengo.»

    Scendendo le scale rasente i muri grigi, il grumo di rabbia che aveva dentro s’indurì, diventando un sasso che premeva contro le pareti dello stomaco. Con quel sasso avrebbe voluto colpire Jasmina facendole male più di Nic. Di tipi come lui ce n’erano milioni al mondo, e ce ne sarebbero sempre stati finché avessero trovato pelli cedevoli e cuori molli.

    Fuori, respirò l’umidità, calandosi in testa il cappuccio della felpa e ficcando le mani nelle tasche. Non c’erano ancora avvisaglie di primavera. Imboccò via Oglio e attraversò il mercato. Sgusciando tra i corpi arrivò in corso Lodi, dove si fermò a comprare un kebab. «Molta cipolla e salsa piccante» chiese al turco dietro il bancone.

    Uscì dal minuscolo negozio con il panino in mano e, aggirando un gruppo di slavi che vociavano intorno ad alcuni sacchetti pieni di roba, arrivò al ponte sulla ferrovia. Da lì la vista spaziava sulle rotaie. Sara svoltò davanti alla stazione e imboccò lentamente una delle due scale che scendevano verso i binari. A metà strada si mise a sedere su un gradino, stringendosi alla ringhiera di metallo. Era lì che andava quando non sopportava più il mondo né sé stessa dentro quel mondo.

    Il cartellone pubblicitario era nuovo: la ragazza in bikini bianco dell’ultima volta aveva lasciato il posto a un SUV cromato, una bestia scura che schiacciava la strada e il resto intorno. Doveva calmarsi, calmarsi e aspettare. Non avrebbe mai trovato una sistemazione economica come la stanza che le subaffittava Jas, e le mancavano ancora tre mesi per finire il corso all’istituto tecnico commerciale. Soltanto dopo l’estate, a ventun anni, con la maturità in mano, avrebbe potuto immaginare una vita diversa.

    Il sapore della carne grassa e speziata in bocca la restituì al mondo. Si asciugò il sugo che le colava sul mento e guardò un treno che stava rallentando lungo i binari sotto di lei. Ne scesero poche persone. Un uomo si attardò sul marciapiede; doveva essere sulla sessantina, con i capelli brizzolati e il portamento sicuro. Dalla tasca del soprabito sfilò il telefono, che si portò all’orecchio camminando verso l’uscita. Sara lo osservò e per un momento le parve quello che veniva ogni tanto al bar Orinbocca, un imprenditore, come le aveva detto una collega tra due cappuccini. Ma forse non era lui. Si confondevano tutti, quegli uomini con il passo sicuro, il completo scuro, il portamento che strillava Io conto.

    Una goccia di pioggia le cadde sul viso. Ingoiò gli ultimi bocconi di kebab, si pulì con il tovagliolo che lo avvolgeva e sotto la pioggia risalì sul ponte. Mancava mezz’ora per attaccare con il turno.

    Nell’atrio della metropolitana i cingalesi avevano già sostituito le aste da selfie con gli ombrelli, ma di acqua ne venne poca. Quando emerse in via Manzoni, la pioviggine si era arrestata; il pavé, che un tram tagliava sferragliando, era ricoperto da una patina lucida di acqua. Rimase un momento a osservare la lunga via che da due secoli rappresentava il cuore nobile di Milano e pensò a sua madre che un tempo decantava la Quinta Strada come se ci fosse nata. Più volte, da bambina, l’aveva sentita pronunciare Manhettan, lasciando intendere una consuetudine che ora pareva soltanto ridicola. Del resto Stella si era sempre inventata una vita che non aveva, incapace com’era di dare una forma qualsiasi a quella che le era stata data.

    S’incamminò lungo la sua prosaica Quinta Strada. Le sfilarono accanto la piaga violacea del mendicante seduto davanti alla chiesa, la vetrina di un negozio d’alta moda. Entrò all’Orinbocca passando dal cortile. Nell’angusto spogliatoio ripeté i gesti meccanici che aveva imparato: la giacca nell’armadietto, il grembiule stretto intorno alla vita.

    «Buongiorno, capo» disse, varcando la soglia della sala con le dita alla tempia in un saluto militare.

    Christian chinò appena la testa.

    «Tutto ok?» chiese Sara.

    «Dormito niente questa notte» rispose. «Matteo si è svegliato sei volte. Tu, invece, hai la solita faccia da angioletto.»

    Lei indugiò per un attimo sugli occhi tanto bolsi di lui da essere quasi socchiusi. «Perché sono giovane» ghignò. «Non hai più il fisico...»

    «Non spingermi a dimostrartelo» la sfidò Christian.

    Il gestore del bar Orinbocca incantava le clienti con uno spiccato accento toscano e il tatuaggio che gli sbucava dalla manica rimboccata. Sara aveva avuto modo di vederlo tutto, quel groviglio di disegni in cui a un serpente s’incatenava una barca, poi un delfino e infine una rosa, una sera che si erano ritrovati nella stessa camera. Non aveva chiesto che cosa significasse, quella volta, che poi era stata l’unica.

    Adocchiò il Fernet Branca dell’uomo che sfogliava il giornale al bancone e sorrise. Si divertiva a sfottere Christian perché teneva tra i liquori due o tre di quei residui di altri tempi – fossili alcolici, li chiamava lei –, benché lui le avesse fatto notare che li vendeva quanto e più del Montenegro.

    Della sera in cui erano andati a letto insieme non avevano più riparlato. Lui lasciava intendere che non gli sarebbe dispiaciuto ripetere, ma Sara ne faceva una questione di sopravvivenza: non poteva permettersi di perdere quel lavoro; e così, mentre lo vedeva flirtare con altre donne, strofinava il bancone finché non aveva

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