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L'amore della vita
L'amore della vita
L'amore della vita
E-book174 pagine2 ore

L'amore della vita

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Info su questo ebook

Otto racconti della vita di frontiera, dalla penna dell’autore che più di tutti ha reso immortale queste ambientazioni.
Nel 1907 London era già celebre per Zanna Bianca e Il richiamo della foresta, e si preparava ad affinare stile e tematiche scrivendo il suo capolavoro Martin Eden, ma ancora rimaneva legato alla lotta dell’uomo con la natura e agli scenari sperduti.

Scritti durante gli anni del Klondike e della corsa all’oro, questi racconti restituiscono in poche pagine i temi e le atmosfere dei capolavori di Jack London.
LinguaItaliano
Data di uscita24 apr 2015
ISBN9788899403010
L'amore della vita
Autore

Jack London

Born in San Francisco, Jack London (1876–1916) shoveled coal, pirated oysters, sailed with a sealing schooner, and worked in a cannery as a youth. In 1897, London traveled to the Yukon to join the Klondike gold rush, an experience that inspired many of his later works. Best known for The Call of the Wild (1903), he wrote and published more than fifty volumes of essays, novels, and short stories, and was one of the most popular authors of his era.   

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    Anteprima del libro

    L'amore della vita - Jack London

    Jack London, L’amore della vita

    1à edizione Landscape Books, aprile 2015

    Collana Aurora n° 3

    © Landscape Books 2015

    Traduzione: L. Viscardini, riveduta e corretta dall'edizione Barion, 1932

    L'editore ha cercato con ogni mezzo i titolari dei diritti della traduzione senza riuscire a reperirli;

    rimane ovviamente a disposizione per l'assolvimento di quanto occorra nei loro confronti.

    ISBN 978-88-99403-01-0

    In copertina: rielaborazione di Frederic Remington, Cowboy, progetto grafico il Quadrotto

    Realizzazione editoriale a cura di WAY TO ePUB

    JACK LONDON

    L’amore

    della vita

    Presentazione dell’opera

    La collana Aurora si propone di recuperare classici ormai dimenticati e introvabili della letteratura italiana e internazionale, con un breve apparato critico di approfondimento.

    Uscito nel 1907 come raccolta di otto storie brevi pubblicate nei mesi precedenti su varie riviste, L'amore della vita è la settima raccolta di racconti di London, settima in sette anni da quando, nel 1900, si fece conoscere con Il figlio del lupo (anche questo prossimamente nella collana Aurora).

    Nel frattempo, London ha già conosciuto la fama di romanziere con Il richiamo della foresta e Zanna Bianca, usciti rispettivamente nel 1903 e nel 1906. Negli otto racconti ritroviamo tutti i temi e le ambientazioni del primo London, e queste storie brevi rappresentano una testimonianza tantopiù importante perché, di lì a poco, l'autore sperimenterà nuove strade espressive – è dell'anno successivo il romanzo fantapolitico Il tallone di ferro, mentre due anni dopo pubblicherà Martin Eden, compimento della sua crescita artistica – e per qualche tempo abbandonerà la forma racconto.

    Negli otto racconti che state per leggere ritroviamo, come si diceva, la tundra e le piste ghiacciate del Klondike, la gente di frontiera, e soprattutto il rapporto dell'uomo con la Natura, rappresentata sia dagli agenti atmosferici come il gelo de L'alloggio di un giorno, sia dagli animali, e in particolare dall'immancabile cane Lupo di Lupo Bruno, in tutto e per tutto parente stretto di Zanna Bianca e Buck de Il richiamo.

    I (numerosi) racconti di London hanno oggi, almeno nel mercato italiano, subito il triste destino di tutta la narrativa breve, e se non sono introvabili vengono raccolti in mastodontici volumi antologici che non rendono giustizia alle storie e alla loro collocazione nel giusto contesto, sia storico che di evoluzione della poetica dell'autore.

    Per questo Landscape Books ha deciso di pubblicare i racconti di Jack London nelle raccolte originarie, e mantenendo in ciascuna raccolta l'ordine scelto per la prima edizione in lingua originale. In questo volume troverete quindi gli otto racconti nello stesso ordine con cui li avreste trovati nell'edizione Macmillan del 1907.

    L’AMORE DELLA VITA

    Questo sarà il risultato di tutto:

    Essi hanno vissuto, hanno lottato;

    Tale del gioco l’imancabil frutto.

    Pur se la posta vi avran lasciato.

    I due uomini scesero, zoppicando penosamente, la riva del fiumicello; colui che camminava davanti barcollò un momento fra gli scogli aguzzi. Erano stanchi, sfiniti; le loro facce avevano quell’espressione indurita di pazienza, che viene dalle privazioni sopportate per lungo tempo. Portavano entrambi sulle spalle due pesanti coperte di lana, assicurate da cinghie di cuoio, le quali, incrociandosi sulla fronte, aiutavano a sostenere il carico, e in mano tenevano un fucile. Camminavano curvi, le spalle e la testa piegate in avanti, gli occhi a terra.

    «Avessimo almeno un paio di quelle cartucce che stanno nel nostro nascondiglio» disse il secondo. La sua voce suonò cupa e monotona; parlava senza alcun entusiasmo, e il primo, che già entrava nella corrente lattiginosa e schiumeggiante fra le rocce, non rispose.

    L’altro lo seguì alle calcagna. Non si erano tolti nemmeno le scarpe, poiché l’acqua era gelida, tanto gelida, che faceva doler le caviglie e intirizzire i piedi. A tratti, spruzzava loro fino ai ginocchi, e tutti e due si reggevano a fatica.

    Colui che veniva dietro, sbiettando sopra un sasso levigato, fu lì lì per cadere; ma si riprese con uno sforzo violento e mandò un’aspra esclamazione di dolore. Si sentì mancare, e, nella vertigine, stese in fuori la mano libera, annaspando, come cercasse un appoggio nell’aria. Quando si fu rimesso, fece un passo in avanti, ma scivolò di nuovo, e di nuovo per poco non cadde. Allora, rizzatosi, guardò l’altro, che non aveva neppur voltato il capo.

    Stette così fermo un buon minuto, come indeciso. Poi gridò forte:

    «Senti, Bill, mi sono slogato una caviglia!».

    Bill, senza badargli, continuò ad avanzare, barcollando nell’acqua lattiginosa. L’uomo lo guardò allontanarsi; benché il suo viso fosse, come sempre, privo di espressione, gli occhi sembravano ora quelli di un cervo ferito.

    Il compagno si arrampicò sulla riva opposta e proseguì dritto il cammino, senza voltarsi. L’uomo, fermo in mezzo alla corrente, lo seguì un momento con lo sguardo, mentre la lingua usciva a inumidire le labbra tremanti e i baffi ispidi e bruni diventavano sempre più agitati.

    «Bill!» urlò finalmente.

    Era il grido implorante dell’uomo forte, preso dall’angoscia; ma Bill non girò la testa.

    L’uomo lo vide salire, col suo passo malfermo e grottesco, su per il lento pendio, verso la linea delicata che la bassa collina disegnava sull’orizzonte; e il suo sguardo poté seguirlo finché quello ne oltrepassò la cima e disparve. Allora egli volse intorno gli occhi smarriti e considerò lentamente la parte di mondo che gli rimaneva ora che Bill se n’era andato.

    Vicino all’orizzonte, il sole calava indistinto, oscurato di nebbie e vapori informi, che davano una strana impressione di massa e di densità senza contorni. Portando tutto il peso del proprio corpo su una gamba, l’uomo cavò l’orologio. Erano le quattro d’uno degli ultimi giorni di luglio o dei primi di agosto (non sapeva bene la data precisa). All’ingrosso, dunque, il sole segnava il nord-est.

    Guardò al sud, e pensò che al di là di quelle squallide alture c’era il lago del Grande Orso e che, pure in quella direzione, il Circolo Artico si tagliava aspramente la via attraverso i deserti del Canada. Il fiumicello in cui diguazzava era un affluente del fiume Coppermine, che, con un largo giro a nord, andava a gettarsi nel Golfo della Coronazione e nell’Oceano Artico. Egli non c’era mai stato, ma sapeva tutto ciò per averlo visto, una volta, su una carta della Compagnia della Baia di Hudson.

    Il suo sguardo ripercorse le linee del paese che lo circondava. Ma lo spettacolo non era incoraggiante. Dappertutto, delicati orizzonti e basse colline brulle. Non c’erano alberi, e nemmeno arbusti, né erba; nulla, all’infuori di quella desolazione paurosa e terribile, che improvvisamente gli mise lo sgomento negli occhi.

    «Bill!» bisbigliò, «Bill!» ripeté poi più forte.

    Piano piano, egli si accasciava nell’acqua lattiginosa, quasi che l’immensità l’opprimesse, schiacciandolo e annichilendolo brutalmente nel suo orrore sublime. Cominciò a tremare, come per un accesso di febbre, finché il fucile gli sgusciò di mano, schizzandolo. Questo valse a riscuoterlo; egli lottò con la paura, si diede uno scossone e riafferrò l’arma, cercandola a tentoni nell’acqua. Per togliere una parte del peso alla caviglia offesa, passò il fardello tutto sulla spalla sinistra. Poi s’incamminò verso la sponda, lento e prudente, chinandosi con pena.

    Raggiuntala, non si fermò. Con una disperazione che diventava pazzia, immemore della fatica, si trascinò su per il pendio, fino alla cima dell’altura, al di là della quale era scomparso il compagno, ancor più comico e grottesco di colui che poco prima vi era passato, zoppicando e camminando a sbalzi. Ma dalla cima non vide che una piccola valle, senza vita. Riuscì di nuovo a vincer la paura, spinse il suo carico ancora più in là sulla spalla sinistra, e si abbandonò giù per il pendio.

    Il fondo della valle era imbevuto d’acqua, che il muschio fittissimo tratteneva alla superficie, come una spugna. A ogni passo, l’acqua gli zampillava sotto i piedi e, appena alzava la gamba, un rumore di pompa aspirante accompagnava il movimento, come se il muschio fosse riluttante a lasciare la presa. Egli si fece la strada da muschio a muschio, seguendo le orme dell’altro uomo, lungo e attraverso i banchi rocciosi che uscivano come isolette dal mare di muschio.

    Benché solo, egli non si sentiva sperduto. Sapeva che, andando avanti, sarebbe arrivato là dove abeti e pini ornavano fitti, ma piccoli e intristiti, la riva di un lago; al titchinnichilie, nella lingua del paese, cioè alla terra dei piccoli arbusti. E in quel lago si gettava un fiume, piccolo anche lui, ma per nulla lattiginoso, nella cui corrente crescevano delle canne; di questo si ricordava bene, ma non degli alberi.

    Egli ne avrebbe seguito il corso, fin dove quel primo ramo si divideva, davanti a un burrone, poi avrebbe attraversato questo, e, trovato un altro fiumicello, che scorreva a est, lo avrebbe seguito fino al punto in cui si gettava nel fiume Dease. Là, finalmente, avrebbe trovato un nascondiglio sotto un canotto rovesciato e coperto da un mucchio di pietre. E in quel nascondiglio ci sarebbero state munizioni per il suo fucile scarico, ami, corde, e una grossa rete, tutto il necessario, insomma, per cacciare e accalappiare la selvaggina. Vi avrebbe trovato anche della farina, non molta, un pezzo di lardo e delle fave.

    Bill sarebbe stato là ad attenderlo, ed essi avrebbero remato insieme giù per il Dease, sempre verso il sud, fino al lago del Grande Orso. E ancora verso il sud, avrebbero attraversato il lago, e raggiunto il Mackenzie, e avanti a sud, sempre più a sud, lasciando che l’inverno li rincorresse invano, il ghiaccio si formasse nelle correnti, e le giornate si facessero cortissime e fredde. E spingendosi sempre, sempre più a sud, sarebbero arrivati a un posto della Compagnia della Baia di Hudson, dove avrebbero potuto scaldarsi. Là gli alberi diventavano alti e rigogliosi, e c’erano viveri a volontà.

    Tali erano i pensieri dell’uomo, mentre si sforzava di andare avanti. Ma se dura era la lotta del corpo, più dura ancora, forse, era quella della mente, che tentava di persuadersi che Bill non l’aveva abbandonato, che certamente Bill l’avrebbe atteso al nascondiglio. Egli era costretto a persuadersi di ciò, ché altrimenti sarebbe stata inutile la lotta, e avrebbe dovuto buttarsi giù e morire. E mentre il disco offuscato del sole scendeva lentamente a nord-est, egli si rappresentò più volte ogni passo della loro fuga verso il sud davanti all’inverno che li incalzava. E la sua mente passò in rivista tutti i viveri del nascondiglio e le provviste del posto della Compagnia della Baia di Hudson.

    Da due giorni non aveva mangiato; da un tempo molto più lungo, poi, non aveva potuto saziarsi. Spesso egli si fermava, raccoglieva manciate di bacche pallide di muskeg, e le metteva in bocca, masticava e inghiottiva. Una bacca di muskeg non è che un seme chiuso in una goccia d’acqua; in bocca l’acqua si scioglie, e il seme che si mastica è duro e amaro. L’uomo sapeva che quelle bacche non nutrivano, ma le masticava pazientemente, con una speranza più forte della ragione e della stessa esperienza.

    Alle nove, per aver battuto il pollice in una roccia sporgente, egli barcollò e cadde dalla stanchezza e dalla debolezza. Restò così per un po’, sdraiato sul fianco, immobile. Poi si liberò delle cinghie, e, pesantemente, riuscì a mettersi seduto. Non era ancora del tutto buio, ed egli poté, a quella luce di tardo crepuscolo, tastare fra le rocce, in cerca di muschio asciutto. Quando ne ebbe un mucchietto, accese il fuoco, un fuoco che covava fumoso, e ci mise una latta di acqua a bollire.

    Sciolse il fardello, e, prima di tutto, contò i fiammiferi. Ce n’erano sessantasette; per esserne sicuro, li ricontò tre volte. Poi ne fece diversi mucchietti, avvolgendoli in carta oleata, e mettendone una parte nella borsa da tabacco, vuota, un’altra nella fodera del berretto, una terza sotto la camicia, sul petto. Quando ebbe finito, lo prese un dubbio, ed egli li levò tutti e li contò di nuovo. Erano ancora sessantasette.

    Mise le scarpe inzuppate ad asciugare al fuoco; quantunque di grossa pelle, erano a pezzi. Le calze, tagliate da una coperta di lana, erano bucate in vari punti, e i piedi nudi sanguinavano.

    La caviglia gli batteva violentemente, ed egli l’esaminò. Si era gonfiata fino a diventar grossa come il ginocchio. Stracciò una lunga striscia da una delle due coperte, e la legò ben stretta. Poi fece altre strisce e se le avvolse intorno ai piedi, perché gli facessero da scarpe e da calze. Bevve la tazza d’acqua bollente, caricò l’orologio, e si sdraiò fra le coperte.

    Dormì come morto. La breve oscurità di mezzanotte venne e svanì; riapparve il sole a nord-est, o per lo meno il giorno spuntò da quella parte, perché il sole era completamente nascosto da nuvole grigie.

    Alle sei, si svegliò sdraiato tranquillamente sul dorso. Guardò diritto al cielo grigio, e capì di aver fame. Mentre si girava, appoggiandosi sui gomiti, udì uno sbuffare sonoro, e vide una giovane renna che lo fissava con curiosità. L’animale era a non più di cinquanta piedi; istantaneamente, egli ebbe la visione di un pezzo di renna che arrostiva sul fuoco, e ne sentì il sapore. Stese meccanicamente la mano a prendere il fucile scarico, mirò e fece scattare il grilletto. La renna sbuffò, diede un balzo indietro e scappò fra le rocce, battendo gli unghioni.

    L’uomo bestemmiò e gettò lontano il fucile; poi, gemendo ad alta voce, diede un balzo per rimettersi in piedi. Ma fu invece una faccenda difficile e lunga; le sue giunture erano come gangheri arrugginiti, che si muovevano a fatica dopo molte frizioni; e il chinarsi o l’alzarsi gli costava uno sforzo

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