Le invasioni barbariche in Italia
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Le invasioni barbariche in Italia - Pasquale Villari
Pasquale Villari
Le invasioni barbariche in Italia
Pubblicato da Good Press, 2022
EAN 4064066069131
Indice
PREFAZIONE
LIBRO PRIMO DALLA DECADENZA DELL'IMPERO ROMANO FINO AD ODOACRE
CAPITOLO I La caduta dell'Impero
CAPITOLO II I Barbari
CAPITOLO III La riforma dell'Impero — Diocleziano e Costantino — L'agitazione religiosa — Ariani ed Atanasiani — Neoplatonismo — Giuliano l'apostata — Il vescovo Ulfila, e la conversione dei Goti
CAPITOLO IV Gli Unni
CAPITOLO V Teodosio
CAPITOLO VI Arcadio ed Onorio — Rufino, Stilicone ed Alarico
CAPITOLO VII Dalla morte di Alarico alla costituzione del regno dei Visigoti nella Gallia
CAPITOLO VIII Galla Placidia — L'invasione dei Vandali in Africa
CAPITOLO IX Attila e gli Unni — La battaglia di Châlons — Il generale Ezio — Papa Leone I
CAPITOLO X Massimo Imperatore — I Vandali saccheggiano Roma — Ricimero, Oreste ed Augustolo
LIBRO SECONDO GOTI E BIZANTINI
CAPITOLO I Odoacre
CAPITOLO II Teodorico e gli Ostrogoti in Italia
CAPITOLO III Il regno di Teodorico
CAPITOLO IV Fine del regno di Teodorico — Governo di Amalasunta
CAPITOLO V Giustiniano e Belisario — La guerra vandalica — Il principio della guerra gotica
CAPITOLO VI Roma assediata dai Goti — I Bizantini vittoriosi entrano in Ravenna
CAPITOLO VII Desolazione dell'Italia — S. Benedetto fonda il suo Ordine
CAPITOLO VIII Totila re dei Goti — Belisario torna in Italia, ed occupa Roma — Suo ritorno a Costantinopoli e sua morte
CAPITOLO IX La disputa dei Tre Capitoli — Ritorno di Narsete in Italia — Disfatta di Totila e di Teja — Fine del regno ostrogoto
CAPITOLO X Morte di Giustiniano e di Belisario — Nuove difficoltà in cui si trova l'Impero — Narsete, richiamato a Costantinopoli, non obbedisce
LIBRO TERZO I LONGOBARDI
CAPITOLO I Guerra dei Longobardi contro i Gepidi — Loro venuta in Italia e loro conquiste — Morte di Alboino — Elezione di Clefi e sua morte — Interregno — Duchi — Divisione delle terre — Il Papa si rivolge la prima volta per aiuto ai Franchi (580)
CAPITOLO II Ricostituzione della Monarchia — Elezione di Autari — Sue guerre coi Bizantini e coi Franchi — Matrimonio con Teodolinda — Condizione dei vinti
CAPITOLO III Ordinamento del regno longobardo e del governo bizantino
CAPITOLO IV Gregorio I — Agilulfo sposa Teodolinda e pacifica il regno — Gregorio I fa pace coi Longobardi di Spoleto — Agilulfo assedia Roma — L'imperatore Maurizio è deposto; viene eletto Foca — Morte di Gregorio I e di Agilulfo — S. Colombano
CAPITOLO V Rotari re — Eraclio imperatore — Guerra persiana — Maometto — L' Ecthesis — L'editto di Rotari
CAPITOLO VI Grimoaldo re — Lotta e poi accordo tra Papa e Imperatore — Costante II in Italia — Morte di Grimoaldo — Bertarido — Cuniberto — Conversione dei Longobardi al cattolicismo — Liutprando
CAPITOLO VII Sollevazione di Ravenna e delle città dell'Esarcato contro l'Impero — Filippico imperatore — Ribellione in Roma
CAPITOLO VIII Liutprando, Gregorio II e Leone III — La lotta per le immagini — Liutprando ne profitta ed assale il Ducato romano — Il Papa si rivolge la prima volta ai Franchi — Non potendo avere da essi aiuto, si riavvicina ai Longobardi
CAPITOLO IX Venezia e Napoli
LIBRO QUARTO I FRANCHI E LA CADUTA DEL REGNO LONGOBARDO
CAPITOLO I I Merovingi e l'origine dei Carolingi
CAPITOLO II Carlo Martello e le prime origini del Feudalismo — Il Papa si volge per aiuto ai Franchi
CAPITOLO III Pipino eletto re dei Franchi, consacrato dal Papa per mezzo di S. Bonifazio — Il Papa, minacciato da Astolfo, va in Francia a chiedere aiuto
CAPITOLO IV Pipino e i Franchi vengono in Italia e vincono i Longobardi — Donazione dell'Esarcato e delle Pentapoli al Papa — Muore Astolfo — Desiderio re dei Longobardi — Disordini in Roma — Elezione di Paolo I e sua morte
CAPITOLO V Nuovi e gravissimi tumulti in Roma — Elezione di Stefano III — Matrimonio di Carlo re dei Franchi con Desiderata — I nemici del Papa sono oppressi — Stefano III muore
CAPITOLO VI Elezione di Adriano I — Condanna e morte dell'Afiarta — Discesa di Carlo re dei Franchi in Italia — Disfatta dei Longobardi, assedio di Pavia — Carlo va a Roma, dove passa la Pasqua del 774
CAPITOLO VII Formazione del regno franco in Italia — Congiure e ribellioni contro il Papa, che chiede aiuto a Carlo — Questi torna in Italia, e celebra in Roma la Pasqua del 781
CAPITOLO VIII Irene governa in Costantinopoli — Carlo sconfigge di nuovo i Sassoni — Torna in Italia e sottomette il Friuli e Benevento — Combatte gli Avari — Dispute religiose — Morte di Adriano I e suo carattere
CAPITOLO IX Elezione di Leone III — Ambasceria franca a Roma — Irene imperatrice — Gravi tumulti in Roma — Il Papa a Padeborn — Suo ritorno a Roma — Carlo viene a Roma, dove è coronato imperatore dal Papa, il giorno di Natale 800
INDICE ALFABETICO
INDICE DELLE MATERIE
PREFAZIONE
Indice
Il fine che mi sono proposto nello scrivere questo libro è assai modesto, ma è anche assai difficile a raggiungere. Il lettore giudicherà se sono riuscito. Io dirò solo in che modo sorse in me l'idea di accingermi all'opera.
Non si può negare che dopo la costituzione del regno d'Italia molto si è da noi progredito nello studio della storia. Ne sono una prova il gran numero di Archivi storici, che si pubblicano in ogni regione; le Deputazioni e Società di Storia patria, che sorgono per tutto; la grande quantità di documenti, che ogni giorno vengono alla luce; i progressi che han fatto la paleografia, la diplomatica, la filologia classica e la neo-latina, la storia del diritto, il metodo e l'erudizione storica in genere. Con tutto ciò libri che narrino gli avvenimenti del passato in modo facile e piano, agevolmente leggibili, i quali una volta erano assai numerosi in Italia, e servivano di modello alle altre nazioni, vanno oggi divenendo fra noi sempre più rari. Pure è certo che le ricerche d'archivio si fanno per poter sempre meglio e più sicuramente scrivere le narrazioni destinate alla gran maggioranza dei lettori.[1] Noi invece passiamo dai libri scolastici, che si leggono a scuola, e poi si gettano via, ai libri d'erudizione, che servono solo ai dotti di mestiere o, come oggi li chiamano, specialisti.
È facile capire qual grave danno tutto ciò debba recare alla nostra letteratura, alla nostra cultura; massime se si riflette, che la storia in genere, e quella dell'Italia in ispecie dovrebbe essere un mezzo non solo d'istruzione, ma anche di educazione nazionale, contribuendo efficacemente a formare il carattere morale e politico del nostro paese. Cesare Balbo, animato sempre di nobile patriottismo, deplorò in tutta la sua vita che noi non avessimo una storia popolare d'Italia, tale che tutti potessero leggerla con piacere e profitto. Egli si provò più volte a scriverla, ma rimase come sgomento dinanzi alle molte difficoltà che incontrava. Oggi, dopo la pubblicazione di tanti nuovi documenti, dopo tante nuove e così sottili dispute, le difficoltà sono cresciute piuttosto che scemare. Alcune di esse possono dirsi intrinseche alla natura del soggetto; altre invece dobbiamo riconoscerle conseguenza del nostro modo di trattarlo e dell'indirizzo che abbiam preso nei nostri studi.
Arduo assai deve certo riuscire il narrare in modo facile e chiaro la storia d'un paese che fu nel passato diviso in tanti Stati diversi, ciascuno dei quali ebbe il suo proprio carattere, le sue proprie vicende. Nel mezzogiorno abbiamo una monarchia feudale; nell'Italia centrale lo Stato della Chiesa, con un governo che è diverso da ogni altro, e la cui storia si collega con quella di tutta quanta l'Europa; più al nord abbiamo la moltitudine infinita dei Comuni e delle Signorie. Come, dove trovare un filo conduttore, che guidi chi scrive e chi legge? Queste difficoltà, è ben vero, non s'incontrano solamente in Italia; anche la Germania è stata sempre divisa e suddivisa. Nè sarebbero difficoltà insuperabili, se noi stessi non le rendessimo per colpa nostra anche maggiori; il che avviene in molti e diversi modi. In tutte quante le nostre scuole, in tutte le nostre pubblicazioni ci occupiamo oggi quasi esclusivamente di storia italiana. È divenuto poco meno che impossibile il vedere fra di noi apparire un libro sulla storia della Riforma, della Rivoluzione francese, della Germania, dell'Inghilterra, della Spagna, delle nazioni estere in generale. Ma la nostra storia è così strettamente connessa con quella di tutta l'Europa, che senza studiar l'una non è possibile comprendere l'altra. Chi infatti potrebbe mai intendere la storia italiana del Medio Evo, senza quella della Germania, o indagare le origini prime del nostro Risorgimento, senza occuparsi della Rivoluzione francese? Chi potrebbe farsi un concetto chiaro della Contro-Riforma in Italia, senza aver prima compreso la Riforma di Lutero? Ne segue perciò che, se questa tendenza verso un'erudizione esclusiva ed unilaterale ci fa sempre più diligentemente indagare ed esaminare i particolari problemi della storia italiana, ci rende invece assai difficile comprenderne il carattere generale, e valutare con giusto criterio la vera parte che noi abbiamo avuta nella civiltà del mondo. Più di una volta ci tocca infatti l'umiliazione di vedere gli stranieri scrivere sulla storia dell'Italia antica, medioevale o moderna libri migliori dei nostri: e da essi la nostra gioventù deve apprendere la storia del proprio paese. Pur troppo questi libri, non ostante la molta dottrina ed il buon metodo, sono scritti non di rado con uno spirito ostile all'Italia; il patriottismo degli autori li spinge naturalmente ad esaltare la loro patria a danno della nostra. E così ne segue che si diffondono anche fra di noi sul carattere morale e politico degl'Italiani, sull'intrinseco valore della nostra civiltà, della nostra letteratura idee e giudizi poco esatti, che ci nocciono assai, facendoci perdere la giusta coscienza di noi medesimi.
Non lieve ostacolo a scrivere una storia nazionale che, pur essendo patriottica e popolare, sia imparziale, viene anche dalle relazioni in cui l'Italia si trova colla Chiesa. Noi abbiamo scrittori guelfi e scrittori ghibellini: i primi vorrebbero sempre lodare i Papi, giustificando tutto quello che fecero; i secondi vorrebbero invece sempre biasimarli, cercando di porre in ombra la parte, certo grandissima, che ebbero nella storia del nostro paese. A questo s'aggiunga l'abbandono in cui sono fra di noi gli studi religiosi, la storia della teologia e del Cristianesimo. E come si può senza di essi comprendere la storia d'un popolo, che ha fondato la Chiesa cattolica, d'un popolo la cui vita religiosa fu così intensa, così strettamente unita con la sua vita politica, letteraria, artistica e civile?
Pensando e ripensando a tutto ciò, mi parve che dovesse in Italia riuscire assai utile una collezione di volumi, che trattassero separatamente, in modo popolare, i vari periodi della storia d'Italia, sotto i suoi molteplici aspetti, e con essa anche la storia dei vari popoli civili. Di siffatte collezioni ogni regione d'Europa e gli Stati Uniti d'America ne hanno oggi parecchie; perchè non potremmo, non dovremmo noi averne almeno una? Mi decisi quindi a farne la proposta all'egregio editore comm. Hoepli, che l'accolse con favore, e si pose all'opera.
Due volumi sono già venuti alla luce. Il primo è una nuova edizione del ben noto libro del conte Balzani sulle cronache italiane, da lui riveduto e corretto. Il secondo è una storia del nostro risorgimento pubblicata dal prof. Orsi del Liceo M. Foscarini di Venezia. Altri tre volumi non tarderanno molto, io spero, a veder la luce. Uno, già quasi compiuto, è del prof. Errera, dell'Istituto Tecnico di Torino, sulla storia delle scoperte geografiche. Il prof. Salvèmini del Liceo Galileo di Firenze, ed il prof. Brizzolara dell'Istituto Tecnico di Reggio Calabria scrivono sulla storia moderna dell'Europa. Altri volumi sono in preparazione.
E per contribuire anch'io, come meglio posso, all'opera comune, pubblico ora questo primo volume di storia italiana, nel quale mi occupo delle invasioni barbariche. Non è un libro erudito, nè scolastico, e neppure di storia generale e filosofica, come il Sacro Romano Impero del Bryce, o le Rivoluzioni d'Italia del Quinet. I fatti debbono qui essere narrati nella loro cronologica successione e logica connessione, senza discutere o dissertare, e, per quanto è possibile, senza annoiare. Mi sono, com'è naturale, servito delle opere recentemente pubblicate, come quelle del Bury, del Malfatti, del Bertolini, del Dahn, del Mühlbacher, dell'Hartmann,[2] e più di tutte di quella dell'Hodgkin. Non ho trascurato alcuni autori più antichi come il Gibbon, il Tillemont ed il Muratori, che non invecchia mai; nè ho tralasciato di ricorrere alle fonti. Ma le citazioni, salvo casi eccezionali, sono di regola escluse. Credevo dapprima che lo scrivere questo piccolo volume, che si occupa d'un periodo solo della storia d'Italia, quando questa non era anche divisa e suddivisa, dovesse riuscirmi comparativamente agevole; ma ho dovuto pur troppo accorgermi che anch'esso era, per me almeno, assai difficile. Non mi sono però mancati aiuti e consigli preziosi di due dotti colleghi e carissimi amici, i professori Achille Coen ed Alberto Del Vecchio, ai quali mi è grato manifestar pubblicamente la mia vivissima riconoscenza. Nè posso dimenticare il giovane e valoroso professor Luiso, che volle aiutarmi rivedendo le bozze di stampa.
Se questi primi volumi incontreranno il favore del pubblico; se esso vorrà essere indulgente verso le imperfezioni inevitabili in un'impresa, che fra di noi può dirsi nuova; e se non ci verrà meno la cooperazione degli studiosi, noi crediamo che la nostra collezione potrà riuscire utile alla cultura del paese, ed agevolare non poco la via a scrivere sempre meglio quella storia nazionale e popolare d'Italia, tanto desiderata e tanto desiderabile. Siamo in ogni modo persuasi, che una raccolta quale noi l'abbiamo ideata è oggi non solo utile, ma anche necessaria al nostro paese più che ad ogni altro. E crediamo che, quando pure fossimo condannati a non riuscire, l'impresa verrebbe assunta da altri più fortunati di noi, perchè risponde ad un vero bisogno dell'ora presente. Il materiale storico che si è raccolto, e va ogni giorno più aumentando, è immenso; nè deve rimanere il privilegio e la proprietà di pochi dotti, ma deve essere coordinato e reso accessibile a tutti. Solo così potremo riuscire ad infondere nel paese la coscienza di ciò che esso fu ed è veramente, la cognizione sicura della parte che l'Italia ebbe, di quella che può e deve oggi avere nella storia e nella civiltà del mondo.
LE
INVASIONI BARBARICHE
IN ITALIA
LIBRO PRIMO DALLA DECADENZA DELL'IMPERO ROMANO FINO AD ODOACRE
Indice
CAPITOLO I La caduta dell'Impero
Indice
Perchè cadde l'Impero Romano? La risposta che subito si presenta è questa: i Romani eran corrotti e dalla corruzione infiacchiti; i barbari, più rozzi, erano anche più morali e più forti. Quando passarono il Reno e il Danubio, la vittoria non poteva essere dubbia; l'Impero doveva crollare, una società nuova doveva formarsi. Ma perchè mai si corruppe e s'infiacchì un popolo, che per tanti secoli era stato l'esempio della disciplina, della virtù e della forza; che aveva saputo conquistare il mondo? La corruzione non era la causa, era la conseguenza, il primo segno della decadenza già cominciata. L'Impero, che Tito Livio già vedeva piegarsi sotto il peso della sua stessa grandezza, non poteva durare eterno.
Esso aveva formato l'unità civile e morale del mondo antico, la quale era stata necessario apparecchio alla costituzione delle nazionalità. Per vivere e prosperare, queste hanno infatti bisogno di essere in relazione fra di loro, di sentirsi come parti diverse d'una stessa famiglia. Ma il loro sorgere rendeva impossibile l'esistenza del mondo antico, il quale riconosceva l'assoluto predominio d'una civiltà sola, al di fuori della quale tutti erano barbari. Se perciò da una parte, e vista da lontano, la caduta dell'Impero ci apparisce come qualche cosa d'inaspettato e straordinario; da un'altra reca maraviglia invece la sua lunga durata. Sotto una forma o l'altra, noi lo vediamo infatti sopravvivere a sè stesso in tutto il Medio Evo. E più tardi ancora tenta, sebbene invano, di rinascere dalla tomba, prima con Carlo V, poi con Napoleone I. Il vero è che l'unità dell'Europa e la diversità dei popoli che l'abitano sono due fatti innegabili del pari, dai quali risultano le vicende della storia moderna.
Roma era stata una città, un municipio, che aveva cominciato col conquistare e romanizzare le popolazioni vicine, con esse l'Italia, con l'Italia quasi tutto il mondo allora conosciuto. Ma il dominio d'una città sola sopra un così vasto territorio, sopra genti così diverse, imponendo a tutte lo stesso governo, la stessa legislazione, la stessa lingua ufficiale, doveva, con l'estendersi, incontrare difficoltà sempre maggiori. Era stato comparativamente facile assimilare le popolazioni romane; ma l'Africa, la Spagna, la Rezia, la Gallia resistettero invece sempre più ostinatamente. E una difficoltà nuova s'incontrò nell'Asia Minore e nella Grecia, dove per la prima volta i Romani trovarono una civiltà superiore alla loro. Conquistato colle armi il paese, furono essi conquistati dalla cultura greca, cui dovettero assimilare la propria, per diffonderle ambedue nel mondo. E così, quando l'Impero fu giunto al Reno ed al Danubio, esso non aveva più nessuna vera unità intrinseca, corrispondente a ciò che di fuori appariva. Non era uno Stato, non era una nazione; era un amalgama di popoli diversi, uniti insieme dalla forza, e sottomessi alla stessa civiltà. Al di là dei confini c'era un paese vastissimo, abitato da popolazioni bellicose e barbare, che s'avanzavano minacciose come un fiume che straripa.
Da un tale stato di cose, la società romana fu profondamente turbata. E prima di tutto ne fu alterata la costituzione stessa dell'esercito, che era stato lo strumento principale della conquista e della fondazione dell'Impero. Una volta, così osservava giustamente il Gibbon, gli eserciti della Repubblica erano formati di proprietari e coltivatori del suolo, i quali pigliavano parte alle assemblee, votavano le leggi di Roma, e la difendevano colle armi. Il benessere della patria era immedesimato col proprio. Una battaglia vinta era la loro fortuna, una battaglia perduta era la loro rovina personale. Tutti gl'interessi morali e materiali, consacrati dalla religione, si univano a fare di essi cittadini e soldati eroici, che dopo la guerra tornavano tranquilli e modesti ai loro campi. Chi potrebbe mai supporre che gli abitanti della Rezia, della Spagna, della costa africana potessero combattere con lo stesso ardore, con la stessa fede, per difendere una potenza alla quale si sentivano spesso estranei o avversi? Questi eserciti mandati a difendere confini sempre più estesi, più lontani e continuamente assaliti, divennero di necessità eserciti stanziali. Chi era chiamato a farne parte, abbandonava il luogo nativo, i campi, se ne aveva, i quali perciò spesso restavano incolti, e rimaneva sotto le bandiere, in paese straniero, fino a che gli bastavano le forze. Di qui il bisogno sempre maggiore e le difficoltà sempre crescenti di trovar nuove reclute, che bisognava allettare con nuovi privilegi, con paghe maggiori. E quindi l'uso d'accogliere sotto le bandiere perfino gli schiavi, ma sopra tutto i barbari, che ben presto formarono la parte maggiore degli eserciti romani. La guerra divenne così un mestiere, e la forza delle armi risiedeva più nella disciplina che nel patriottismo. Pure tale era la potenza di questa disciplina, tale il fascino maraviglioso che il nome sacro di Roma e dell'Impero esercitava sugli animi, che di elementi così diversi si riuscì a formare un esercito formidabile, il quale, per più secoli ancora, continuò ad operare miracoli.
A mantenere questo esercito numeroso e lontano occorrevano spese enormi. Era perciò necessario d'aggravare il paese di tasse. A poco a poco l'occupazione continua della Curia e dei Decurioni nei Municipi si ridusse a cavar denari da popolazioni già dissanguate. Costretti ad essere responsabili di ciò che occorreva, anche se i contribuenti non potevano pagarlo, il loro ufficio, una volta ambito come un onore, divenne un peso da cui ognuno cercava liberarsi, perfino con la fuga, con l'esilio volontario. E così anche qui l'interesse privato, che in altri tempi era immedesimato col pubblico, si trovava ora con esso a conflitto: principio inevitabile di debolezza e di decadenza morale in tutte le società.
Le continue guerre andarono sempre più aumentando il numero degli schiavi. I capi degli eserciti avevano accumulato enormi fortune, al pari dei fornitori di esso, e dei governatori delle province. I ricchi divenivano sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri, e l'usura li riduceva alla miseria. Questi finivano allora col mettersi alla dipendenza dei vasti possessori di terre, sotto forma di coloni più o meno attaccati alla gleba, pagando un affitto sulle terre che erano state già loro proprietà. Ne nacque una vera questione agraria-sociale, causa non ultima delle guerre civili e della totale decadenza. La classe media fu distrutta, e si formò quella dei latifondisti, che furono possessori di più diecine di migliaia di schiavi, di trenta, di quaranta miglia quadrate di terre, quasi d'intiere province. Il latifondo, che di sua natura tende ad ingrandirsi, aggregandosi le terre vicine, porta seco la cultura estensiva dei campi, esaurisce la fertilità del suolo, e ne diminuisce il prodotto. Così l'Italia non bastò più a se stessa, al suo esercito, anche il grano della Sicilia essendo scemato. E cominciò a dipendere dall'Africa, senza il cui aiuto correva pericolo d'essere affamata.
Tutto il vasto territorio dell'Impero era disseminato d'un gran numero di città, molte delle quali, colonie civili o militari. Queste città erano ordinate a similitudine della capitale, colle loro assemblee, coi loro magistrati, le scuole, i tempii, i bagni, gli acquedotti, le caserme, gli anfiteatri. Esse erano congiunte tra di loro da una rete di strade, che è fra le opere più maravigliose di tutta l'antichità. Partendo dal Foro Romano, in mille direzioni diverse, arrivavano ai confini. Ad ogni cinque o sei miglia si trovava un numero sufficiente di cavalli, per tenere fra loro in pronta comunicazione tutte le parti dell'Impero. La campagna affatto deserta, sparsa qua e là di ville o masserie, era coltivata da schiavi e coloni, che non differivano molto fra di loro. La sera si riducevano nelle città o nelle ville. Anche l'industria, assai limitata, era affidata agli schiavi, che arrivarono ad un numero sterminato. Il Gibbon afferma che ai tempi di Claudio la popolazione dell'Impero contava 120 milioni, dei quali 60 erano schiavi. Ma anche senza dar piena fede a queste cifre, è certo che più d'una volta le ribellioni degli schiavi condussero l'Impero all'orlo dell'abisso.
Alla testa d'una tale società si trovava un sovrano con assoluto potere, e sotto di lui spadroneggiavano l'esercito ed i latifondisti. L'esercito volle ben presto fare e disfare, o almeno approvare esso gl'imperatori, dividendosi qualche volta in partiti, e proclamandone più d'uno nel medesimo tempo; il che fu causa di assai gravi e spesso sanguinosi conflitti. I latifondisti avevano i più alti uffici dello Stato, divenuti ereditari nelle loro famiglie, e si trovavano alla testa d'una numerosa burocrazia. Abitavano nelle città insieme con una plebe di nullatenenti oziosi, alla quale, perchè non tumultuasse, era necessario far larghe e continue distribuzioni di grano, allettandola con spettacoli e giuochi: panem et circenses. Se a tutto ciò s'aggiunge che in una società così vasta, divisa e disorganizzata, quegli stessi barbari che la minacciavano al confine, erano già in maggioranza fra gli schiavi e nell'esercito, si capirà facilmente che ormai non c'era più forza umana che potesse evitare una spaventosa catastrofe.
A tutte queste cause civili, militari, economiche di divisione e debolezza, s'aggiungeva non ultima la questione religiosa. Il Cristianesimo s'avanzava trionfante dall'Oriente, annunziando il principio di una nuova rivelazione, d'una nuova vita morale. La sua teologia nasceva, è vero, dall'innesto della filosofia greca col Vangelo; ma esso mirava alla distruzione del Paganesimo, su cui l'Impero era fondato. Il monoteismo era la negazione del politeismo; la rivelazione non s'accordava con la filosofia antica. Il Cristianesimo condannava la forza e la violenza, proclamava tutti gli uomini, tutti i popoli uguali innanzi a Dio, e l'Impero aveva, colla forza e colla violenza, sottomesso tutti i popoli a Roma. Il Cristianesimo inoltre sottoponeva la Città terrena e degli uomini alla Città celeste e di Dio. Per esso la vita sociale in questo mondo aveva valore solo come apparecchio alla vita d'oltre tomba. La società, la patria, la gloria, tutto ciò per cui Roma era stata grande, per cui aveva vissuto, che più aveva ammirato, perdeva il suo valore. E così non si trattava solo di sostituire una religione ad un'altra; si trattava di demolire i principii fondamentali di una filosofia, di una letteratura, di una civiltà intera, di tutto un mondo morale, per sostituirvene un altro. È facile immaginarsi qual profondo sovvertimento tutto ciò dovesse portare nell'animo dei Romani, quali profonde ferite vi dovesse lasciare. E si capiscono perciò le feroci persecuzioni, più crudeli che mai da parte dei migliori e più convinti imperatori. Ma il sangue dei martiri sembrava solo innaffiare la nuova pianta, per farla crescere più rigogliosa. Tutti gli oppressi accoglievano con ardore la nuova fede, che valendosi delle vecchie istituzioni romane, fondava una Chiesa universale, la quale s'impadroniva rapidamente di tutta la società. Abbatteva gli antichi altari, per costruirne dei nuovi; trasformava gli antichi tempii; fondava ospedali, istituti di beneficenza, scuole, che erano tante fortezze destinate a demolire sempre più la vecchia società. La caduta dell'Impero non spaventava punto i Cristiani, perchè menava seco la caduta del Paganesimo. La stessa venuta dei barbari, la più parte già convertiti, appariva loro come provvidenziale, perchè destinata a punire quelli che ancora adoravano gli Dei falsi e bugiardi, che tenevano sempre aperto il tempio di Giano.
Che tutto ciò portasse un profondo disordine morale, che gli uomini dell'antica società si abbandonassero allo scetticismo, alla disperazione, ai vizi più bassi ed osceni, non è da far maraviglia. Ma pur grande veramente doveva esser sempre la vitalità dell'Impero, se potè continuare a resistere più secoli, respingendo l'un dopo l'altro i ripetuti assalti delle numerose orde barbariche. Di questa sua vitalità, non solo materiale ma anche morale, fu prova la diffusione e la importanza in esso assunta dalla filosofia stoica, che venne di Grecia, ma ebbe in Roma un suo proprio carattere pratico, col quale tentò assumere la direzione della vita, pigliando quasi il posto della religione. Difficilmente nella storia del mondo si troverebbe un tentativo più nobile, più eroico e più disperato ad un tempo, di quello fatto dagli stoici. In mezzo alla unione forzata di tanti popoli, alla fusione e confusione di tante religioni, di tante forme diverse del Paganesimo, che crollava da ogni lato, essi cercarono di rinnovarlo e salvarlo dagli assalti vittoriosi del Cristianesimo, fondandosi sul concetto, sul culto della più pura, disinteressata virtù. Rinunziando alla speranza d'una vita futura, ad ogni ricompensa in questo o nell'altro mondo, disprezzando la gloria presso i posteri, non curando la opinione dei contemporanei, raccomandavano la virtù come fine a sè stessa, scopo unico della vita, come quella che trovava in sè ogni compenso, sgorgava spontanea, irresistibile dal cuore dell'uomo. La serena tranquillità con cui gli stoici affrontavano la morte, per difendere la giustizia, parve un momento divenir contagiosa, quasi volessero con una nuova serie d'eroi rinnovar la gloria dell'antica Roma. Ma pur troppo non era che un tentativo filosofico, il quale non poteva esser che l'opera di pochi spiriti eletti. Non era sperabile che penetrasse nelle moltitudini e le esaltasse, come faceva il Cristianesimo, che parlava a tutti e di tutti s'impadroniva. Pure fu come un baleno, che per breve tempo illuminò di luce vivissima l'Impero, e che più tardi sembrò ripetersi novamente colla diffusione del Neoplatonismo, predicato da Plotino e da Porfirio.
Marco Aurelio fu la vivente e più splendida personificazione dello Stoicismo, il quale salì con lui sul trono imperiale. Indifferente alla gloria, disprezzatore d'ogni materiale ed appariscente grandezza, amico della giustizia e della virtù, era nemico della guerra. Ma quando i confini dell'Impero furono minacciati dai Marcomanni, che insieme con altri barbari avevano passato il Danubio, egli assunse il comando dell'esercito, e combattendo fino alla morte con valore di gran capitano, li respinse e disfece. Nè durante il conflitto tralasciò le sue meditazioni filosofiche; ma ritirandosi la sera nella tenda, continuava a scrivere quei Pensieri che rimasero immortali. «Nessuno, dice il Renan, scrisse mai con uguale semplicità, per solo suo uso, senza volere altri testimoni che Dio. Il suo pensiero morale, puro, libero da ogni legame sistematico o dommatico, si sollevò ad un'altezza che non fu mai superata. Ed il suo libro, il più puramente umano che sia stato mai scritto, visse d'una eterna giovinezza.» Nè egli fu il solo dei veramente grandi Imperatori. Dalla morte di Domiziano all'ascensione di Commodo al trono (96-180 d. C.), noi troviamo, con Nerva, Traiano e i due Antonini, una serie di sovrani che rappresentano la giustizia, la sapienza e la virtù chiamate a governare il mondo. Il Machiavelli, repubblicano, aspro nemico di Cesare, esaltato lodatore di Bruto, è pieno della più entusiastica ammirazione per quel periodo dell'Impero. Il Gibbon afferma, che se gli fosse chiesto, in qual tempo mai, durante tutta la storia del mondo, il genere umano fu più felice, non saprebbe indicarne un altro. Ma egli, che qui appunto sorvola più che mai sulle crudeli persecuzioni dei Cristiani, per parte d'alcuni di questi medesimi imperatori, è pur costretto ad aggiungere, che tutto dipendeva allora dalla volontà d'un uomo solo e dall'esercito. Infatti prima e dopo di tali imperatori, ve ne furon dei pessimi. E subito le forze disorganizzatrici, che solo per breve tempo poterono rimanere latenti, si scatenarono, portando alla superficie quella corruzione e decomposizione sociale, che non poteva più essere fermata, e che doveva inesorabilmente aprire la via ai barbari.
CAPITOLO II I Barbari
Indice
L'assalto improvviso che nel 114 a. C. dettero i Cimbri, i quali si avanzarono con un impeto inaspettato, disfacendo ripetutamente i Romani, aprì a questi la prima volta gli occhi sul pericolo che li minacciava dalla Germania. C. Mario, è vero, in due grandi battaglie (102 e 101 a. C.), li disfece compiutamente, e per circa mezzo secolo i confini rimasero tranquilli. Ma Giulio Cesare, dopo molte vittorie, si trovò anch'esso di fronte ad un esercito germanico, comandato da Ariovisto che, passato il Reno, era penetrato nella Gallia, combattendo valorosamente. Cesare lo disfece e lo inseguì al di là del fiume. Ma ivi trovò come un mondo nuovo: un popolo numeroso, bellicoso e quasi nomade; una società in tutto profondamente diversa dalla romana; un clima assai rigido; un suolo pieno di paludi e di boschi, senza possibilità di approvvigionamenti, infesto all'avanzarsi d'un esercito romano. Col suo sguardo penetrante, col suo grande senno pratico, capì subito, che non era il caso di pensare ad una stabile conquista, molto meno a romanizzare quelle genti, e si ritirò novamente al di qua del Reno.
Dopo la sua morte, i Romani non imitarono la prudenza del valoroso capitano. Ripassarono il Reno, penetrarono nel cuore della Germania; vi portarono le loro leggi, la loro amministrazione, le loro tasse. E la conseguenza fu una tremenda insurrezione capitanata da Arminio, che distrusse un esercito di tre legioni. Il console Varo ed i principali suoi ufficiali, per non sopravvivere al disastro e al disonore, si dettero la morte (9 d. C.). Arminio era stato educato nell'esercito romano; insieme col fratello aveva in esso valorosamente combattuto, ed era stato colmato di onori. Ad un tratto, tornato fra i suoi, messosi alla testa della insurrezione, aveva tratto in agguato gli antichi commilitoni, dei quali si fingeva sempre amico, e si era scagliato contro di essi con un impeto addirittura feroce. I prigionieri romani furono mutilati, impiccati, trucidati. A molti furono cavati gli occhi, fu strappata la lingua, insultandoli con ogni specie d'ingiurie più sanguinose. Venne perfino disseppellito il cadavere del Console, per poterlo insultare. Anche Marbodio, capo dei Marcomanni e nemico di Arminio, che aveva cercato di fondare un regno a similitudine delle istituzioni dei Romani, dai quali era stato educato, e dei quali si dichiarava fido alleato, venuta l'ora del pericolo, si manifestò nemico aperto. Da tutto ciò appariva evidente, che nelle popolazioni germaniche v'era un odio istintivo, inestinguibile contro i Romani; che nè i benefizi, nè la educazione o la disciplina militare potevano in modo alcuno estinguere. Germanico fu mandato a vendicare la disfatta di Varo, ma le vittorie del valoroso capitano furono pagate ad assai caro prezzo. Nel clima, nei boschi, nelle paludi, più di tutto nell'odio persistente delle popolazioni, trovò ostacoli sempre maggiori. Una formidabile tempesta, distrusse una parte non piccola dell'esercito, che si ritirava dalla parte del mare.
Negli ultimi anni della sua vita, Augusto si era persuaso che l'Impero doveva fermarsi al Reno ed al Danubio, senza pensare a nuove conquiste, e lo raccomandò nel suo testamento. Lungo i due fiumi venne infatti costruita una linea di fortificazioni, e l'Impero si attenne generalmente al savio programma. Solo Traiano, lasciatosi vincere dall'ambizione della gloria, passò il Danubio, avanzandosi vittoriosamente. E se più tardi, rinsavito anch'esso, tornò indietro, la Dacia, al di là del fiume, restò sempre provincia romana, il che fu un grave errore, come poi si vide. Infatti la difesa del Danubio, che facilmente si poteva fortificare, venne trascurata, perchè esso non segnava più i confini dell'Impero, che s'erano portati innanzi fino alla Dacia orientale, dove non era ugualmente agevole fortificarli. Tuttavia, per circa duecentocinquant'anni dopo la disfatta di Varo, gli assalti dei barbari vennero sempre vittoriosamente respinti. Questa difesa anzi fu la costante occupazione dell'Impero, e quasi la sua principale ragione di essere.
Ma chi erano, che cosa volevano questi barbari, che assalivano con tanta persistenza? Vissuti una volta, come è generalmente ammesso, nell'Asia, insieme con coloro che più tardi furono i Greci ed i Romani, avevano con essi fatto parte di quella che venne dai moderni chiamata la famiglia ariana. Dopo un periodo di vita in comune, si divisero, partendo per direzioni diverse. Il clima più mite, il suolo più fertile, la posizione geografica più fortunata, la vicinanza dei Fenici e degli Egiziani, fecero fare un rapido progresso a quelli tra di essi che andarono nella Grecia e nell'Italia. Lo stesso non poteva seguire in Germania, dove invece, per le avverse condizioni del suolo e del clima, per il nessun contatto con popoli civili, s'andò formando, in un periodo di molti secoli, una società affatto diversa, che ai Romani poteva apparire di selvaggi. Non erano però selvaggi, ma barbari, e per poco che fossero mutate le condizioni in cui si trovavano, potevano, al contatto colla civiltà, come poi avvenne, progredire rapidamente.
Giulio Cesare è il primo che ci dia su di essi qualche notizia precisa. Li trovò, esso dice, in uno stato seminomade, con un'agricoltura affatto primitiva. Vivevano della caccia, della pesca, sopra tutto del prodotto degli armenti, loro cura principale. Il latte, la carne, il formaggio erano il loro cibo consueto. Adoravano il sole, la luna, il fuoco, le forze della natura, tutto ciò che vedevano, e da cui ricevevano benefizio. Pieni di grossolane superstizioni, di costumi crudeli, non avevano ancora un ordine sacerdotale. Ma il fatto che sopra tutti richiamò la sua attenzione, si fu il vedere che queste popolazioni, in continuo moto, non conoscevano la proprietà privata della terra, la quale era invece posseduta collettivamente dai villaggi, anzi dalle parentele, Cognationes come esso le chiamava, Sippen come le dicono i Tedeschi. Appena si fermavano, i Magistrati o sia i loro capi, dividevano fra di esse il terreno occupato. E dopo un anno, le costringevano ad andare altrove, dividendo di nuovo, nello stesso modo, il terreno. Le case erano specie di capanne da potersi facilmente decomporre e trasportare, come proprietà mobile, sui carri, colle masserizie, coi vecchi ed i fanciulli. Era un genere di vita che educava mirabilmente alle armi. La caccia, le razzìe, le guerre coi vicini, per acquistar nuove terre, erano la loro occupazione continua, il bisogno costante d'una gente, la quale con la sua rozza agricoltura esauriva subito il terreno che aveva occupato. Cesare restò assai maravigliato in presenza d'un genere di vita tanto diverso da quello dei Romani, e ne chiese spiegazione agli stessi barbari. Gli risposero, che vivevano a quel modo, perchè una troppo assidua cura dei campi non li dissuefacesse dalla guerra, ed una costruzione più accurata e solida delle case, non li rendesse inabili a sopportare il freddo ed il caldo. Ed ancora perchè la disuguaglianza delle fortune e l'avidità del possedere non arricchisse i potenti, spogliando i deboli; si evitasse quella cupidigia da cui hanno origine le fazioni e le guerre civili; si mantenesse con la equità soddisfatta la plebe, che vedeva i suoi campi uguali a quelli dei più potenti.[3] È difficile credere che questo fosse proprio il linguaggio dei barbari. Ma è di certo il concetto che più o meno sorgeva allora in tutti, paragonando la società romana alla barbarica.
Ed è il concetto che domina anche più esplicitamente nella Germania di Tacito, la fonte principale che abbiamo, per conoscere un po' più da vicino quelle popolazioni. Le notizie che ci dà Cesare sono poche e frammentarie, ma chiare e precise, suggerite dalla sua osservazione, dalla sua esperienza personale. Tacito invece ci dà addirittura un breve trattato sul paese. Non sappiamo con certezza se egli lo avesse davvero visitato. In ogni modo ne vide, se mai, una piccola parte, e le notizie che ci dà sono il più delle volte di seconda mano, cavate da Cesare, che egli chiama summus auctor, e da altri, che erano stati oltre Reno. A ciò si aggiunge, che il suo scritto ha uno scopo, anzi una tendenza politica e morale visibilissima. Egli s'era persuaso (simile in ciò agli scrittori del secolo XVIII) che i popoli primitivi, più vicini allo stato di natura, sono perciò, come erano stati gli antichi Romani, più puri, più onesti e valorosi di quelli che una civiltà raffinata ed artificiale ha corrotti, come era seguito ai Romani del suo tempo. Ispirato da un ardente patriottismo, con un sentimento quasi profetico della rovina che minacciava l'Impero, voleva scongiurarla col ricondurre i suoi connazionali all'antica virtù. E quindi descriveva con entusiasmo, esaltava, idealizzava la vita, i costumi dei barbari. Egli è certo un grande storico e pensatore; ma, a differenza di Cesare, sempre chiaro, sobrio e preciso, è anche un manierista, il cui stile vigoroso, ma spesso anche oscuro, si presta a molte e diverse interpetrazioni. Ciò ha dato luogo a dispute infinite, massime quando egli non va pienamente d'accordo con Cesare, il che gli succede spesso. Ma siffatte divergenze hanno un'assai facile spiegazione. Tacito scriveva un secolo e mezzo dopo di Cesare, ed a suo tempo la Germania s'era non poco mutata. Il lungo contatto avuto dai barbari coi Romani, l'avere in questo mezzo trovato chiuso il passaggio del Reno e del Danubio, quando forse altre popolazioni li sospingevano dall'oriente, tutto questo cominciò a rendere impossibile quella vita seminomade dei tempi di Cesare, e li costrinse a prendere sulla terra occupata una dimora, in parte almeno, più stabile.
Comunque sia di ciò, Tacito descrive anch'esso gli abitanti della Germania in uno stato di barbarie, ignari delle lettere dell'alfabeto, con scarsa conoscenza dei metalli, tanto che ne facevano poco uso anche nelle armi; con nessuna conoscenza della moneta, della quale solamente coloro che erano ai confini avevano appreso l'uso dai Romani. Occupati anch'essi, come i loro antenati, principalmente nella caccia e nella guerra, lasciavano per quanto potevano la cura della casa e la cultura dei campi alle donne ed ai vecchi. Si cibavano tuttavia, più che altro, del prodotto dei loro armenti. Conoscevano il frumento e ne cavavano una bevanda, che usavano invece del vino. Temperati in tutto, meno che nel bere e nel giuoco, non vestivano più di sole pelli, ma usavano mantelli di lana. Le loro antiche divinità avevano cominciato ad assumere una forma personale, e Tacito cerca assomigliarle alle romane. Il Tius (Dyaus vedico), Dio supremo del cielo luminoso, divenuto, pel carattere bellicoso del popolo, anche Dio della guerra, è da lui confuso con Marte, e messo perciò in secondo luogo; in primo egli pone invece Wuotan (l'Odino dell'Edda), il Dio dell'aria e delle tempeste, che chiama Mercurio. Donar,[4] figlio di Wuotan, Dio dei fulmini e dei tuoni, dotato di forza prodigiosa, è confuso ora con Ercole, ora con Giove. Queste e le altre poche divinità hanno passioni umane, lottano fra di loro, si mescolano alle querele degli uomini. Ad esse s'aggiungeva una quantità di demoni, che popolavano l'aria, la terra, l'acqua, i boschi, i monti. Un ordine sacerdotale, che Cesare non aveva trovato, si era adesso già formato. Per placare le loro divinità, i barbari usavano anche sacrifizi umani. E quindi non si può credere a ciò che Tacito dice poco dopo, che cioè essi non costruivano tempii ai loro Dei, quasi per non profanarli con un culto materiale, adorandoli invece, come in ispirito, nei boschi, quali esseri invisibili e presenti.[5]
Questi barbari, come già accennammo, avevano ora preso dimora alquanto più stabile sulle terre che occupavano. Ma non conoscevano ancora le città, che ad essi sembravano prigioni, nelle quali «anche i più feroci animali si sarebbero infiacchiti.»[6] Le case non erano più mobili capanne di solo legno; ma l'uso del cemento e dei mattoni era sempre ignoto. Poste, come anche oggi vediamo nei villaggi della Svizzera, del Tirolo, della Germania, le une separate dalle altre, eran circondate da piccoli orti, che insieme con esse appartenevano alla famiglia che vi abitava.[7] E qui si può notare un primo passo verso la proprietà privata, immobiliare. La terra rimaneva però sempre proprietà collettiva del villaggio divenuto più stabile. Non si mutava luogo ogni anno, ma solo quando la necessità di emigrare lo imponeva, sia che fosse del tutto esaurita la fertilità dei campi, e che perciò non bastassero più alla popolazione, sia che le conseguenze di qualche guerra sfortunata costringessero a cercare altra sede. Ma dentro il territorio occupato dal villaggio, o come alcuni dicono la Marca, la mutazione era continua. In che modo poi la terra occupata venisse divisa, e la cultura si avvicendasse, e le famiglie mutassero il terreno che coltivavano, Tacito lo accenna in un luogo, che è dei più oscuri, interpetrato perciò in non meno di sei modi diversi. E la confusione delle molteplici interpetrazioni fu non poco aumentata dal volere in esso cercare, non solamente ciò che lo scrittore aveva voluto dire, ma quello anche di cui non aveva parlato, e che forse ignorava.
Dopo aver detto, che i barbari non conoscevano l'usura, la quale tante rovine aveva portato nella società romana, Tacito continua: «le terre sono occupate da tutti, secondo il numero dei coltivatori, fra i quali vengono divise; e questa divisione è resa più agevole dalla vastità del terreno che occupano. D'anno in anno si mutano i campi messi a cultura, e sempre ne avanza una parte (quella probabilmente abbandonata al pascolo). Non rimangono confinati in breve spazio, non si adoperano a mantenere la fertilità della terra. Si contentano del solo frumento, senza coltivare pometi, prati artificiali o giardini.»[8] Il villaggio aveva dunque perduto l'antica mobilità dei