L'impero. La vendetta dell'aquila
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I suoi romanzi sono epici
Un grande romanzo storico
Dopo il trionfo nella campagna di Dacia, i soldati della Cohors Tungrorum ritornano all’interno del grande accampamento romano ai confini del Vallo di Adriano. La situazione però è caotica, nessuno ha voglia di tributare loro alcun onore. Le altre legioni romane sono stanche e col morale a pezzi dopo mesi di combattimenti senza tregua contro i barbari nei territori del Nord. Gli alti comandi dell’esercito imperiale non hanno dubbi: la Cohors Tungrorum, anziché riposare, deve dare il suo contributo, ripartendo subito per una nuova missione. Obiettivo: recuperare lo stendardo della Sesta legione, l’aquila di bronzo, venerato come fosse una reliquia. Per Marco Valerio Aquila e i suoi compagni inizia un’altra avventura in regioni ostili e lontane dall’impero, all’insegna di combattimenti feroci.
Una serie dal successo epico
«Un grande romanzo storico da uno dei maestri del genere. Non vedo l’ora di leggere il seguito.»
«Una di quelle storie che ti fanno entrare pienamente nell’atmosfera dell’epoca.»
«Imperdibile per gli amanti della storia romana e delle imprese epiche.»
Anthony Riches
È laureato in studi militari. Ha tenuto nel cassetto per dieci anni il primo romanzo della serie L’impero, rielaborandolo fino alla versione che è stata pubblicata con successo e che ha scalato le classifiche mondiali in breve tempo. La Newton Compton ha pubblicato La spada e l’onore, La battaglia dell’Aquila perduta, Lunga vita all’imperatore, Sotto un’unica spada, Un eroe per Roma e La vendetta dell'aquila.
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Anteprima del libro
L'impero. La vendetta dell'aquila - Anthony Riches
Prologo
«Silenzio! Silenzio per il re!».
Re Naradoc dei Veniconi accennò un sorriso a quel comando rituale, solitamente rivolto alla rumorosa folla di guerrieri che affollava la sala del trono quando dava udienza al suo popolo. A quei tempi, quando i nobili della tribù si riunivano per rendere omaggio al loro sovrano, la sala si riempiva del rumore degli uomini che facevano a gara per essere visti e sentiti, ciascuno accompagnato da mezza dozzina dei più grossi e temibili membri del proprio seguito. Tutti avevano il corpo ricoperto dei vorticosi tatuaggi blu che erano il tratto distintivo della tribù e ognuno lasciava le armi davanti all’immensa entrata ad arco, sotto lo sguardo vigile della guardia del re. I campioni tatuati di ciascun clan socializzavano tra loro mentre aspettavano l’arrivo del sovrano; amicizie e ostilità trovavano espressione in scambi faceti che tutte le parti sapevano sarebbero culminati in rapide punizioni se non si fossero limitati alle parole, per quanto velenose. Una mazza ferrata, che l’arcigno Brem dal capo rasato, zio di Naradoc nonché tutore della volontà reale, batteva sulle solide assi del pavimento, faceva piombare nel silenzio i capi clan riuniti. Girandosi come un sol uomo, si inchinavano verso il trono sul quale Naradoc aveva già preso posto e, con un gesto regale, mostrava di accettare la loro obbedienza.
Ma non quel giorno. Mentre la sala era avvolta dal fumo dei fuochi che, come al solito, la scaldavano, l’ampio spazio davanti al trono del re era vuoto. Era stato Brem a suggerire di tenerlo sgombro per quell’udienza; l’espressione dell’uomo più anziano era stata imperscrutabile quando si era espresso in merito alla morte da infliggere all’ospite indesiderato.
«Sarebbe meglio non versare in pubblico il sangue di quest’uomo, mio re. I Selgovi non prenderanno alla leggera il suo assassinio, nonostante sia stato disonorato e bandito».
Naradoc aveva annuito alla saggezza della proposta e quindi acconsentito a che non vi fosse nessuno nella sala della Zanna, a parte un manipolo di guardie la cui fedeltà era fuori questione, il minimo per garantire la loro sicurezza.
Dietro di sé sentiva il rumore di quattro uomini che prendevano posto in versioni più piccole del trono disposte ad arco: suo zio, fratello, cugino e nipote, resti di una famiglia reale tristemente decimata dalle perdite subite dalla tribù nella lotta contro Roma, due anni prima. Guardandosi attorno, vide l’atrocemente sfigurato cacciatore Brem che ormai si faceva chiamare Cicatrice; era rimasto ferito in modo così grave nella battaglia in cui era morto il fratello di Naradoc che nessuno pensava che le sue ferite si sarebbero mai rimarginate. Credendolo morto, i romani lo avevano lasciato sul campo date le scarse possibilità che potesse essere venduto come schiavo. La cicatrice che gli copriva metà del volto, una parte bianca e il resto di una raccapricciante sfumatura rossastra, gli conferiva un aspetto così spaventoso che il re stesso non finiva mai di stupirsi che l’uomo avesse radunato attorno a sé una ventina di giovani donne della tribù. Nel corso dell’ultimo anno le aveva trasformate in una sorellanza di cacciatrici, la cui risoluta ferocia nel catturare e torturare i romani dei forti provocava in gran parte dei guerrieri che combattevano al loro fianco un’inquieta combinazione di desiderio non corrisposto (poiché le Volpi erano note per la loro castità e, mormoravano alcuni uomini, l’attrazione reciproca) e imbarazzo nel trovarsi in presenza di donne che traevano piacere dal tagliare gli organi sessuali ai prigionieri e cucirne i resti essiccati alle cinture.
Quando il silenzio fu completo, il re aspettò ancora un momento prima di rivolgere una domanda dietro di sé, ricalcando consapevolmente lo stile di suo fratello Drust negli anni che avevano preceduto la malaugurata decisione di entrare in guerra al fianco dei Selgovi.
«Chi è il primo, ciambellano?».
La decisione di andare in guerra, rifletté Naradoc, quella che aveva portato alla morte di Drust in battaglia, una morte da guerriero celebrata nei canti, una morte gloriosa con una dozzina di soldati romani caduti attorno a sé, ma pur sempre una morte, che gli aveva lasciato un trono che sembrava fatto apposta per Drust e sul quale lui continuava a sentirsi a disagio. Brem rispose alla domanda e, all’orecchio di Naradoc, la voce dello zio fu brusca, carica di disapprovazione, sia nel tono che nell’inflessione, per la presenza del visitatore.
«Un visitatore da oltre i confini delle nostre terre tribali, mio signore, un nobile selgovo che è venuto a chiedere il nostro aiuto. Vieni avanti, Calgus!».
Aspettarono in silenzio mentre la scarna figura avanzava strascicando i piedi attraverso la sala vuota, affiancato da irriducibili guerrieri, gli unici uomini rimasti fedeli all’ex re selgovo. I tendini delle caviglie gli erano stati recisi da un vendicativo ufficiale romano, due anni prima, stando a quanto si diceva; ferite ormai sanate ma che lo avevano lasciato incapace di procedere se non a un passo lento e strascicato. Una mezza dozzina delle sue guardie personali venivano dietro di loro con la mano sull’elsa della spada, veterani della guerra contro Roma che, Brem gli aveva detto più di una volta, avrebbero dato la vita senza pensarci per difenderlo. Raggiunta l’estremità della pedana reale, Calgus si esibì in un profondo inchino reggendosi ai suoi accompagnatori. La sua voce era più flebile dell’ultima volta in cui aveva parlato nella grande sala, ma Naradoc avvertì la durezza dell’acciaio nei suoi toni rauchi e soffocò un brivido involontario al pensiero dell’inganno e dell’astuzia di cui l’ex re selgovo era stato capace un tempo.
«Re Naradoc, ti ringrazio per avermi ricevuto nel tuo palazzo reale. Vengo al tuo cospetto come re dei Selgovi, chiedendo il tuo aiuto come un sovrano a un suo pari. In cambio ti offro…».
«Re dei Selgovi, dici?». Naradoc infuse disprezzo nella domanda, scuotendo la testa mentre forniva la propria versione. «Un mendicante mezzo storpio e i suoi ultimi due servitori. Un sovrano un tempo potente nonché l’uomo che ha fatto tremare il giogo di Roma su questa terra, è vero, ma Roma continua a governare a sud del vallo più settentrionale e tu sei ridotto a supplicante del popolo venicone».
Zittito il selgovo con la sua interruzione, il re venicone si appoggiò allo schienale di legno intagliato del trono con un sorriso maligno, girandosi per condividere con la famiglia il proprio divertimento.
«Hai ancora fegato, te lo concedo, Calgus, ex re dei Selgovi. Ho saputo che adesso è tuo fratello minore a governare la tribù e che ha chiesto la pace con i romani per risparmiare al vostro popolo i violenti maltrattamenti inflitti dalle legioni da quando avete perso la sfortunata guerra contro l’impero. Ho saputo che ti è vietato tornare nel tuo ex regno, pena la morte, per aver dato inizio a una guerra che non potevi mai sperare di vincere su territorio romano. Eppure ti presenti qui…». Scosse la testa meravigliato dalla faccia tosta del selgovo. «Qui, nel cuore del potere della tribù dei Veniconi, incurante della sconfitta a cui hai condotto mio fratello Drust con le tue lusinghe e la malriposta fiducia nella tua capacità di sconfiggere le legioni di Roma in battaglia. Questo, sono costretto ad ammetterlo, dimostra grande audacia da parte tua».
Fece una pausa per osservare l’uomo davanti a sé, fermo tra i due guerrieri che lo avevano portato alle porte della Zanna.
«Be’, o grande audacia o altrettanto grande stupidità». Fece segno ai guerrieri. «Mettetelo in ginocchio».
Ferro acuminato lampeggiò alla luce del fuoco quando le guardie appostate colsero di sorpresa i fedeli di Calgus e affondarono i lunghi coltelli, sguainati in silenzio, nella schiena e nella gola dei guerrieri selgovi in un turbinio di violenza che fece trasalire il re, nonostante fosse stato lui a ordinarlo. In un lampo indistinto di ferro baluginante, i due uomini morirono senza neanche snudare le armi; i loro cadaveri sanguinanti furono spinti a terra davanti all’esiliato re selgovo, il quale chiuse gli occhi e scosse la testa, portandosi una mano all’attaccatura del naso. Un brutale spintone lo mandò a finire dritto sul freddo pavimento di pietra della sala, con le mani che allargarono le pozze di sangue che si riversava dai cadaveri dei suoi uomini.
Naradoc gli rivolse un cenno del capo, un mezzo sorriso in segno di approvazione dell’inerme prostrazione dell’altro.
«Così va meglio. Adesso vediamo il vero Calgus, spogliato di ogni pretesa di nobiltà o potere. Eccoti qui a strisciare nel sangue dei tuoi ultimi due amici al mondo, ombra impotente dell’uomo che un tempo affermavi di essere. Ebbene, dimmi, un tempo re e adesso mendicante, cosa credevi di ottenere venendo qui? Quale bizzarro ragionamento ti ha portato ad aspettarti altra accoglienza che il ferro affilato, dato il tuo ruolo nella tragedia che si è abbattuta sul mio popolo due anni fa?».
Calgus si issò faticosamente sulle ginocchia, asciugandosi il sangue dei compagni sul logoro mantello che lo avvolgeva. I lunghi capelli rossi avevano perso intensità da quando era stato azzoppato, ed erano striati di grigio, ma chiunque l’avesse conosciuto all’apice del suo potere, ai tempi in cui la sua sanguinosa rivolta aveva messo a dura prova la morsa dell’esercito romano sulla Britannia settentrionale, avrebbe riconosciuto all’istante il luccichio nei suoi occhi.
«E i miei saluti a te, Naradoc, re dei Veniconi. Ti ringrazio per la generosissima accoglienza», agitò le mani verso i cadaveri davanti a sé, «e per avermi sbarazzato del fardello di quei due. In verità, avevano cominciato a perdere fascino e acume, anche se avrei auspicato una fine più clemente per trovare sollievo dalla loro presenza. Riguardo al perché sono venuto da te, la risposta è molto semplice. Possiedo qualcosa da cui credo che la tua tribù possa trarre beneficio, un simbolo del potere romano su cui pochi uomini riescono a mettere le mani. Ho ancora l’aquila imperiale della vi legione, strappata ai loro ranghi in battaglia quando li abbiamo sopraffatti all’inizio della guerra. La perdita di un simile oggetto è per loro un disastro e se a possederlo è un uomo come te sarebbe come sale su una ferita aperta, ora che si sono resi conto che l’accampamento sul vallo costruito dal loro imperatore Antonino probabilmente non durerà oltre la fine dell’estate. Ho sentito dire che le legioni sono in rivolta per essere state mandate così a nord e costrette ad affrontare le ire dei tuoi guerrieri, la legittima collera che li ha già portati ad abbandonare questo vallo più settentrionale già due volte. Immagino che se entrerai in possesso dell’aquila sarà la goccia che farà traboccare il vaso».
Smise di parlare e abbassò le natiche sulla parte posteriore delle gambe rovinate, dai muscoli rattrappiti per la mancanza di significativo esercizio. Naradoc si agitò leggermente sotto lo sguardo calcolatore dell’uomo e scosse adagio la testa.
«Mi sono ritrovato a chiedermi, Calgus, mentre parlavi, perché avverta una netta sensazione di disagio in tua presenza. E poi ho avuto la risposta. Tu sei un serpente, puro e semplice, un subdolo e infido rettile in cui riporre fiducia solo a grandissimo rischio personale. Tu mi offri un’aquila romana?». Il re agitò una mano sprezzante. «Puoi tenertela. I romani sono un popolo determinato, un popolo vendicativo e so fin troppo bene che non smetteranno di dare la caccia a questo simbolo perduto del loro potere fino a che non sarà recuperato, qualunque sia il costo in termini di sangue. So anche che la loro vendetta su chiunque ne sia trovato in possesso sarà più spietata e causerà morti dieci volte superiori alle loro perdite stimate. Manderebbero una legione a punirci se credono che questo simbolo del loro potere sia in mano nostra. E se la nostra fortezza è impenetrabile a qualsiasi attacco, ci sono decine di nostri insediamenti che non sarebbero in grado di opporre resistenza. No, Calgus, puoi tenerti la tua aquila, come vorrei ti fossi tenuto per te l’invito a mio fratello Drust di unirsi alla rivolta che non solo gli è costata la vita ma ha anche sottratto alla mia tribù migliaia di guerrieri. Ricordo fin troppo bene le tue parole in questa stessa sala in cui siedo adesso, quando gli hai promesso sia bottino che libertà eterna dalla minaccia romana. E quale ricompensa ha portato al mio popolo la tua guerra? Solo disastro e la pessima notizia che mi ha costretto su un trono che Drust avrebbe dovuto occupare per anni a venire».
Emise uno sbuffo di scherno, scuotendo rabbioso la testa.
«E adesso, dato che sei il triste guscio vuoto dell’uomo che eri un tempo, ti congedo. Adesso vattene altrimenti rischierai la mia implacabile ira…». La sua espressione dura si trasformò lentamente in un cupo sorriso quando Calgus si guardò attorno con aria impotente. «Ma, naturalmente, non hai dove andare, con il tuo popolo contro e i tuoi ultimi sostenitori ormai morti. E sono certo che non resterai sorpreso dalla mia intenzione di tenermi i tuoi cavalli, che sospetto siano stati rubati alla mia tribù. Perciò, quali alternative hai adesso, eh, Calgus? Come risolviamo questa spiacevole situazione in cui ti sei cacciato? I miei uomini potrebbero aiutarti a raggiungere le porte, ma poi? Nessuno nel mio regno ti sfamerà per pietà, questo posso assicurartelo. Il tuo nome non è molto amato da queste parti. Forse la cosa migliore che posso fare è offrirti il sollievo di una rapida morte piuttosto che il prolungato disagio dell’inedia, o perfino dell’essere fatto a pezzi dai lupi quando sarai troppo debole per resistere. La scelta sta a te, Calgus. Prendi tutto il tempo che ti serve…».
Il selgovo alzò lo sguardo su di lui con un sorriso benigno e Naradoc assunse un’espressione sospettosa.
«Messo di fronte alla scelta di una morte lenta e una rapida, è nella natura di un uomo cercare una terza via, non credi?». Lo storpio alzò una mano per prevenire un’eventuale replica, continuando a sorridere davanti al repentino sconcerto del re. «Sapendo che il mio ponderato approccio rischiava di incontrare una reazione tanto ostile, ho preso la precauzione di preparare con cura il terreno nel corso di diversi mesi di attente trattative con gli uomini dal cui potere dipendi. Rimarresti deluso dalla facilità con cui i miei servitori hanno potuto fare la spola con i miei messaggi tra i nobili schierati dietro di te, Naradoc, e ancora più sgomento dalla prontezza con cui hanno accolto i miei suggerimenti su come meglio governare la tua tribù».
Il re balzò in piedi, puntando un dito tremante sulla figura inginocchiata davanti a sé.
«Tagliategli la testa!». Venne avanti, serrando il pugno. «Farò inchiodare le tue orecchie alle travi del tetto, figlio marcio di una puttana deforme! Getterò le tue viscere ai miei cani perché ci giochino! Ti…».
Si interruppe a metà frase, scioccato nel sentire l’improvvisa e inquietante puntura del freddo ferro sulla nuca. Calgus lo guardò beffardo, inclinando la testa da un lato per imitare quella che era stata la postura del re fino a un momento prima.
«Come spesso succede, il momento più terrificante della tua vita può arrivare quando meno te lo aspetti, eh, Naradoc? Io ho provato il mio al fianco di tuo fratello, quando mi sono accorto che il campo romano che stavamo assaltando altro non era che un’esca per attirarci in una trappola, esca a cui il tuo venerato fratello non è stato capace di resistere proprio come un cane attirato dall’odore di una cagna in calore. Era un uomo caparbio e sciocco, Naradoc, e se fosse stato un po’ più avveduto forse avrebbe ancora quella corona sulla testa, con te seduto alle sue spalle, una posizione più consona alle tue limitate capacità. E invece adesso stai provando quella sensazione che ti allenta le viscere causata da una spada puntata alla schiena, dove dovrebbero esserci prodi nobili schierati dietro di te, se tu avessi avuto l’intelligenza e la spietatezza di tenerli al loro posto. Ti chiamerei re Naradoc se ormai non fosse palese a entrambi che non sei più il re di nient’altro che la merda che sta cercando di esploderti dal didietro».
Naradoc guardò impotente negli occhi di Calgus, rendendosi conto con un altro terribile rimescolio dello stomaco che lo storpio selgovo lo osservava con più pietà che disprezzo.
«Datti un’occhiata intorno, tua maestà, e vedrai cosa resta del tuo regno».
Naradoc girò la testa per incrociare lo sguardo dei familiari solo per essere ricambiato da occhiate per lo più inespressive. Suo fratello ebbe la decenza di mostrare un vago imbarazzo, ma cugino, zio e nipote avevano facce che sembravano scavate nella pietra. Si perse d’animo quando si rese conto che l’uomo la cui spada gli solleticava la nuca era il maestro di caccia Cicatrice, l’uomo fedele a suo zio da quando Brem l’aveva salvato dal campo di battaglia e curato fino a completa guarigione, che lo fissò senza alcuna espressione in grado di muovere la maschera di tessuto cicatriziale che gli aderiva sbilenca al viso. Il re cercò di parlare ma le parole vennero fuori più come un rauco sussurro.
«Razza di bastardi…».
Calgus rise della sua asprezza.
«Sono solo realisti, Naradoc. Tuo fratello minore prende la corona, questo è ovvio. Il fratello di tua madre, Brem, si prende tua moglie, per la quale confessa di nutrire da lungo tempo desideri non decorosi nei confronti della propria regina. Mi dice che ha intenzione di allargarle le gambe nel tuo letto quanto prima, così il suo stato non sarà più un problema. Suo figlio, tuo cugino, avrà la tua figlia maggiore, la quale, sono certo che lo ammetterai anche tu, ha l’età giusta per essere deflorata. Sono convinto che con quei fianchi gli darà un mucchio di figli. E il figlio di tuo fratello avrà la più piccola. Forse è ancora un po’ giovane per il talamo nuziale, ma anche lui non è che un ragazzo. Perciò troveranno una soluzione insieme, eh? E tu…».
Fece una breve pausa, agitando una mano verso gli uomini alle spalle del re.
«Miei signori, malgrado sia a mio agio in questa posizione di supplica, non sarebbe forse più consono se potessi continuare in piedi il mio nuovo incarico come consigliere del nuovo re?».
Un paio di uomini vennero avanti a un segnale del fratello di Naradoc e aiutarono il selgovo a rialzarsi. Calgus chinò il capo al nuovo re, senza mai distogliere lo sguardo dal volto furente di Naradoc.
«Hai commesso l’errore fatale, mio signore un tempo re, di non salvaguardare la tua posizione una volta che sei stato obbligato a indossare la corona. Quei primi anni sul trono non sono mai facili, vero? C’è sempre un delicato equilibrio tra l’essere troppo duri e il mostrarsi troppo tolleranti. A posteriori, direi che avresti dovuto trovare un modo per sbarazzarti con discrezione di tuo fratello minore. Ritengo che gli incidenti di caccia siano adatti sia per evitare futuri conflitti in famiglia che per mostrare i denti ai membri sopravvissuti, così che stiano al loro posto. Ma, d’altro canto, non è questo il tuo stile, dico bene? Un vero peccato, quando un assassinio predisposto nei tempi giusti può spesso evitare un bel po’ di seccature…».
Lanciò un’occhiata al fratello minore del re, sorridendo dello sguardo rapace che stava riservando alla schiena di Naradoc. «È un bene che tuo fratello non abbia troppi scrupoli a organizzare la tua eliminazione, ora che le parti sono invertite».
Ritrovata la capacità di parlare per l’improvvisa consapevolezza che la sua morte era imminente, Naradoc inveì contro il fratello colpevole di un tradimento così completo.
«Dannati sciocchi! Tempo qualche giorno e quest’uomo vi farà scannare tra di voi! E tu, fratello, tra quanto resterai vittima di un incidente di caccia, lasciando il trono libero a nostro zio?».
Nel momento stesso in cui la sensazione di essere stato raggirato balenava negli occhi del fratello, Calgus riprese la parola. Il suo tono fu cordiale rispetto alle parole che segnarono la sorte dell’aspirante usurpatore.
«Sai che ha ragione, mio signore. Devi essere eccezionalmente stupido per non aver avuto il buonsenso di schierarti con tuo fratello, il re. Ma questa è una lezione che hai imparato troppo tardi. E, adesso che ci penso, ho idea che un incidente non sarà convincente, visto che avremo due vittime da piangere…». Fece una pausa e il suo sguardo si accese sul pallido figlio dell’uomo, appena adolescente. «No, errore mio, le vittime dovranno naturalmente essere tre, dico bene?».
Si rivolse allo zio dei due uomini, aprendo le mani con fare dubbioso.
«Magari una zuffa in famiglia sotto i fumi della vostra eccellente birra potrebbe essere più credibile per spiegare le spiacevoli circostanze che ti hanno costretto a prendere il trono, ovviamente con la massima riluttanza. Tu cosa ne pensi, mio signore, re Brem?».
Capitolo 1
Mare Germanico, aprile, 184 d.C.
«Mercurio? Mercurio è il messaggero alato, giusto?». Il centurione anziano della prima coorte tungra, stanco e incredulo, si passò una mano tra i folti capelli neri. «Abbiamo marciato dalla Dacia fino ai confini del Mare Germanico, più di mille miglia in ogni condizione climatica, dal sole rovente alla pioggia gelata, e adesso l’unica cosa che separa i miei stivali dal suolo di casa sono un miglio o due di acqua torbida…». Sospirò mentre guardava contrariato la fitta nebbia. «Uno direbbe che una cazzo di nave che si chiama Mercurio con più di cento ragazzoni ai remi dovrebbe andare un po’ più veloce di un lento passo di marcia. È una dannata nave da guerra, dopo tutto, perciò l’uomo al comando non avrebbe che da dire una parola per farci volare sulle onde».
Il tribuno Scauro si girò per rivolgere al collega Giulio un sorriso indulgente, mentre i tre centurioni alle sue spalle si scambiarono occhiate ironiche.
«Stai ancora male, primipilo?».
Giulio scosse cupo la testa.
«Ho vomitato tutto quello che avevo nello stomaco, ho vomitato ancora per buon augurio e poi, per ultimo, ho masticato l’affare rosa e tondo e ho inghiottito. Non mi è rimasto altro da dare, tribuno, e perciò il mio corpo ha optato per uno stato di malcontento piuttosto che di aperta ribellione. Adesso sono solo irritato da questo passo di lumaca che sembra il meglio che sa fare questa carretta».
«Per le tette e il pelo di Afrodite, non farti sentire dal capitano mentre chiami carretta il suo orgoglio e la sua gioia! L’ho beccato ad accarezzare la fiancata della nave ieri e quando ha visto che lo guardavo, mi ha lanciato un’occhiata come per dire: Lo so, ma cosa può farci un uomo?
».
Scauro si girò e annuì al secondo più grosso dei quattro centurioni che aveva attorno, un uomo muscoloso e barbuto prossimo alla trentina.
«Proprio così, centurione Dubnus. Quell’uomo è fiero del suo comando come l’aquilifer di una legione, e direi anche altrettanto attento alla sua pulizia. Non hai visto la sua espressione dispiaciuta quando la capra sacrificata prima di salpare ha schizzato di sangue tutto il ponte?».
Il tribuno si girò di nuovo verso Giulio; il primipilo era massiccio quanto Dubnus e con lui aveva in comune la barba folta, l’aspetto minaccioso e la propensione a dispensare violenza occasionale agli insoddisfatti e agli indolenti; ma laddove la folta chioma e la barba del più giovane erano corvine, i capelli del centurione anziano cominciavano a ingrigire visibilmente.
«E riguardo il tuo desiderio di mettere piede sulla terraferma, primipilo, immagino che il capitano della Mercurio probabilmente sia altrettanto desideroso di non sbarcare circondato dalla nebbia. A quanto pare sapremo che ci stiamo avvicinando quando sentiremo i corni di Arbeia, se la sua navigazione è all’altezza. E ricorda che per il nostro collega un ritorno in Britannia suscita nuovi interrogativi su chi potremmo trovare ad aspettare il nostro arrivo».
Inclinò il capo in direzione dell’ultimo centurione dai possenti muscoli, un giovane snello e dal volto affilato che aveva cercato rifugio presso la coorte tungra due anni prima e che stava ascoltando imperturbabile la loro conversazione. Poi si girò di nuovo verso il suo centurione anziano.
«La notizia del nostro ritorno nella provincia ci avrà preceduti, Giulio; puoi stare certo che il ritorno di due coorti ausiliarie al completo susciterà grande interesse nel seguito del governatore. Sai bene quanto me che non ci sono mai abbastanza soldati da mandare in giro. Per quello che ne sappiamo, potrebbero esserci alti ufficiali ad aspettarci all’approdo, accompagnati da una centuria o due di legionari che hanno da poco sottomesso completamente i Briganti. Dobbiamo prepararci all’eventualità che il mandato d’arresto imperiale nei confronti di Marco Valerio Aquila, ex guardia pretoriana, possa ormai accennare al fatto che il fuggitivo figlio del senatore abbia adottato lo pseudonimo di Marco Tribulo Corvo, centurione della prima coorte tungra. Dopo tutto le autorità hanno avuto tempo più che a sufficienza per fare il collegamento tra i due nomi, soprattutto se ci soffermiamo a pensare che è passato più di un anno da quando abbiamo consentito a quel dannato frumentarius Excingo di fuggire conoscendo la vera identità del nostro collega».
Un guizzo di consapevolezza spuntò sul volto di Giulio.
«Ed è per questo che stiamo viaggiando a bordo di questa nave da guerra invece che sguazzare nel mare con il resto degli uomini su quelle orrende navi per il trasporto delle truppe? Ed è per questo che abbiamo imbarcato quattro contuberni degli uomini più grossi e cattivi della coorte insieme al loro particolarmente sgradevole centurione».
L’ultimo degli ufficiali, la cui voce era un grave ringhio, gli sorrise gioviale dall’alto.
«Ottima intuizione, fratellino».
Scauro annuì, riuscendo a mantenere un’espressione neutra malgrado l’impulso di ridere per il modo in cui Tito, comandante della centuria di esploratori tungri, la faceva franca quando trattava il suo primipilo come uno spocchioso fratello minore.
«Esatto, primipilo. Se troveremo un comitato d’accoglienza, allora forse sarà abbastanza piccolo da poterlo affrontare con il mio rango e il nerbo dei tuoi uomini per il tempo sufficiente perché il centurione Corvo si metta in salvo tra le colline. E se, nel peggiore dei casi, saremo accolti da troppi uomini per poterli ingannare o sottomettere, allora il nostro giovane collega potrà arrendersi con la dignità intatta, e senza che sua moglie lo veda o che i suoi soldati si lancino in atti eroici ma destinati al fallimento».
Si girò bruscamente verso la sua guardia del corpo, appostata a poca distanza con espressione indecifrabile, anche se la lunga esperienza diceva a Scauro che il germano aveva udito ogni parola.
«Questo vale anche per te, Arminio».
La guardia del corpo germanica del tribuno si limitò a un grugnito e scrutò cupa la nebbia.
«Mi perdonerai se non prometto di eseguire alla lettera il tuo comando in questa faccenda, Rutilio Scauro? Sai che devo al centurione…».
«La vita? Come potrei dimenticarlo? Ogni volta che mi guardo intorno per cercarti o stai insegnando al giovane Lupo come si maneggia la spada oppure stai guardando le spalle del centurione mentre si avventura nell’ennesimo scontro impari. A volte mi chiedo se tu sia davvero il mio schiavo…».
Un corno risuonò in lontananza nella nebbia che ammantava la superficie nera del mare silenzioso, una nota smorzata quasi del tutto dai tenaci vapori. Ne seguì un’altra nota, più acuta, e il capitano della nave da guerra venne avanti con un breve cenno del capo.
«Quello è il corno di Arabeia. A quanto pare stiamo approdando secondo i piani, tribuno. I vostri piedi saranno presto di nuovo sulla terraferma, eh, signori?».
Tito mise una mano delle dimensioni di una vanga sulla spalla di Marco.
«Non temere, fratellino. Che ci sia un solo uomo o mille ad aspettarci, non ti prenderanno finché i miei ragazzi e io avremo fiato nei polmoni».
Il suo amico scosse la testa e si strinse nelle spalle senza mutare espressione.
«No, Orso, non stavolta. Se ci sono uomini che mi aspettano, mi consegnerò a loro senza opporre resistenza, piuttosto che aggiungere altro sangue innocente alla mia lista. Inoltre, i sogni continuano a dirmi che il mio destino mi attende a Roma, che mi piaccia o no».
Dubnus annuì e confermò.
«È vero. Non ha fatto che rigirarsi nella branda per metà della notte e borbottare qualcosa che aveva a che fare con la vendetta. L’ho attribuito alla quantità di iberico del capitano che si era scolato la sera prima, mentre lo maledivo per essere un rumoroso bastardo e cercavo di prendere sonno…».
Marco annuì con un sorriso triste.
«È rara quella notte in cui mio padre non si leva dall’oltretomba per rammentarmi che devo ancora far pagare il prefetto pretoriano Perenne per lo sterminio della mia famiglia, mentre le dita del nostro defunto collega, Cario Sigile, tracciano con il suo stesso sangue le medesime parole su qualsiasi superficie piatta trovi nel sogno».
Giulio e Dubnus alzarono entrambi gli occhi al cielo.
«E quelle parole sono le lame dell’imperatore
, giusto?».
Marco rispose con un cenno di assenso alla domanda di Dubnus. Sigile, un tribuno legionario che aveva servito al fianco dei Tungri in una difficilissima battaglia per respingere un’incursione sarmata nella Dacia, aveva fatto il nome degli uomini che credeva avessero assassinato il senatore Aquila e massacrato la sua famiglia nei giorni precedenti alla sua stessa morte per mano di infiltrati delle tribù. Aveva detto al giovane centurione di aver sentito la storia da un informatore assoldato da suo padre, distinto membro dell’ordine senatoriale la cui inquietudine per la crescente frequenza delle condanne a morte per motivi finanziari sotto il nuovo imperatore, Commodo, lo aveva spinto a commissionare un’indagine discreta sulla faccenda.
«Sì, Giulio, è sempre lo stesso messaggio dopo tutti questi mesi che abbiamo passato lungo il Danubio e il Reno. Gli spettri dei defunti continuano a tormentarmi notte dopo notte, assetati di sangue e di vendetta, che può essere impartita solo a Roma, a quanto pare. Ammetto che comincio a essere stanco della loro insistenza a riguardo, quando sembra improbabile che riuscirò a rivedere la mia città natale in questa vita».
Il corno da nebbia del porto di Arbeia suonò di nuovo, le dolenti note lontane nella persistente foschia, e Marco si voltò a scrutare l’impenetrabile velo grigio.
«Perciò, se è giunto il momento della cattura e del rimpatrio, accetterò quel destino senza combattere. Credo che la mia fuga sia durata abbastanza».
«Solo in Britannia, eh, tribuno?»
«Proprio così, prefetto Casto. Proprio così…».
Il più giovane dei due uomini sulla banchina di Arbeia si strinse di più nel mantello, tirandosi sulla testa lo spesso cappuccio di lana e rivolgendo un’occhiata disperata alla nebbia che ammantava gli edifici del porto. Il suo compagno, un uomo più basso e massiccio che sembrava non patire il vento gelido, lo guardò divertito e poi osservò le tre centurie di veterani legionari in attesa in fila doppia dietro di loro. Soddisfatto di ciò che vide, riprese a scrutare le quasi invisibili acque del porto, aspettando che i corni da nebbia suonassero di nuovo prima di tornare a parlare.
«Sì, Fulvio Sorex, solo in Britannia la nebbia può essere così impenetrabile. Trent’anni al servizio di Roma mi hanno insegnato che ogni provincia ha le sue piccole e accattivanti caratteristiche, quei tratti che un uomo non dimentica dopo averne avuto esperienza. In Siria erano le mosche che si fiondavano sulla carne che stavi masticando, appena ne avevano la minima possibilità. In Giudea erano i giudei e il loro testardo rancore per il nostro giogo quasi un secolo dopo che Vespasiano aveva finalmente ridotto in polvere la loro resistenza. In Pannonia era il freddo in inverno, tanto aspro da gelare un fiume fin nell’alveo, e in Dacia…».
Ammutolì e, dopo un momento, l’uomo più giovane si voltò e vide che l’altro stava scrutando la nebbia con espressione insondabile.
«E in Dacia?».
Casto scosse la testa e un lento sorriso si allargò sulla sua faccia.
«Ah, il resto della mattinata non basterebbe per rendere giustizia alla Dacia. Ma, ciò che voglio dire è che questo nebbioso, paludoso, piovoso covo di pazzi irascibili e pitturati di blu dà del filo da torcere alla Dacia. Diciamo solo che…». La sua espressione si indurì. «Ecco! Eccoli!».
Puntò il braccio verso una macchia nera nella nebbia e il suo compagno strizzò gli occhi per guardare nella direzione indicata, annuendo adagio.
«Sai, credo che tu abbia ragione, prefetto Casto. Sento il rumore dei remi».
Sotto il loro sguardo, la forma indistinta prese gradualmente consistenza fuori dalla nebbia e si rivelò nelle linee rapaci di una nave da guerra sospinta nelle acque verde scuro del porto da lenti e misurati colpi di remi.
«Sarà ciò che stavamo aspettando, presumo».
Sorex si limitò ad annuire alla domanda del più vecchio.
«Credo di sì. La nave e la prima coorte tungra, o così diceva il dispaccio, con la seconda coorte a seguire a distanza di pochi giorni. Dannati ausiliari…».
Il sorriso del prefetto si fece ironico e l’uomo si voltò a guardare interdetto il suo superiore, almeno vent’anni più giovane di lui e con appena un anno di carriera militare alle spalle.
«Se fossi in te, tribuno, eviterei di usare quel tono con il loro ufficiale in comando. Per come me lo ricordo, non è il tipo da ricevere un’offesa senza rigirarla e ricacciartela in gola. È sempre stato un tipo caparbio anche ai tempi in cui non era che un ragazzo con la tunica da uomo, e adesso che ha esperienza da vendere, la sua pazienza con uomini meno esperti è più sottile delle suole del mio terzo miglior paio di stivali».
Sorex storse la bocca, non degnandosi di replicare mentre l’equipaggio tirava ordinatamente i remi in barca e lasciava che l’imbarcazione raggiungesse per inerzia la banchina sotto l’esperto controllo del timoniere. Del tutto fuori dalla nebbia, la nave si rivelò un’agile e mortale macchina di distruzione marittima, con baliste montate a poppa e a prua e una ciurma di trenta marinai sull’attenti in coperta. Uomini saltarono prontamente sulle assi di legno della banchina e ormeggiarono l’imbarcazione al molo; poi afferrarono la passerella che scendeva dal fianco della nave. Il capitano fu il primo a percorrere lo stretto ponte, un uomo barbuto e dalla faccia severa che rivolse a Sorex un frettoloso saluto e un cenno del capo a Casto mentre agitava una mano in direzione della nave da guerra attraccata.
«Sì, tribuno Sorex, il tuo carico è al sicuro. C’è un ufficiale imperiale che non ha tolto gli occhi dalle casse per tutto il viaggio dalla Germania, il procuratore Avo, un funzionario noioso e serio come mai mi era capitato di accogliere a bordo della Mercurio. Il dannato sciocco ha perfino insistito per dormire sul ponte accanto alle casse, nonostante ci fossero sempre una mezza dozzina dei miei marinai a sorvegliarle». Si voltò verso la nave e abbaiò un ordine al suo secondo in comando. «Voglio quelle casse sul ponte e pronte a essere scaricate. E assicurati che i marinai tengano a distanza di sicurezza i soldati fino a che non saranno giù dalla nave e regolarmente consegnate all’esercito! Quei fottuti ladruncoli riuscirebbero a infilarsi in una vestale e la cagna si accorgerebbe di non essere più vergine solo una volta cresciuta la pancia».
Un gruppo di uomini stava scendendo dalla passerella dietro di lui, guidati da un individuo alto e spigoloso con la corazza di bronzo scolpito di un alto ufficiale; quando i suoi piedi toccarono il molo, il prefetto Casto venne avanti per accoglierlo con la mano tesa in segno di saluto.
«Rutilio Scauro! Poche cose potrebbero darmi più piacere che vederti tornare in questa rivoltante parvenza di provincia!».
Il nuovo arrivato lo fissò per un momento e poi un sorriso di riconoscimento gli increspò la faccia. Presa la mano dell’uomo più anziano, annuì lentamente.
«Artorio Casto! Non ti vedo da quasi dieci anni, quando eri primipilo della xii Fulminata e io ero uno sbarbatello tribuno giovane, buono solo a consegnare messaggi e a irritare i centurioni anziani con il mio entusiasmo e la mia ignoranza. Pensavo che ti fossi ormai ritirato per