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Graffi sulla pelle
Graffi sulla pelle
Graffi sulla pelle
E-book226 pagine2 ore

Graffi sulla pelle

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Info su questo ebook

Dopo un incidente che le ha portato via tutto, Valery ha visto infrangersi i suoi sogni.
Tutto ciò che le resta è l'amore per la danza che le ha trasmesso sua madre e la sua sorellina, affidata dopo l’incidente ai genitori del suo patrigno e che vorrebbe riavere con sé.
Costretta a cavarsela con le sue sole forze, accetta di lavorare in un locale notturno, senza immaginare cosa la aspetta.
Lì incontra i fratelli Walker.
Tom, attraente e gentile, è il facoltoso proprietario. Le offre subito il suo appoggio e nonostante il distacco di lei, non perde occasione per corteggiarla.
Matt, invece, è il classico tipo da tenere alla larga. Bello, arrogante e presuntuoso come pochi, si impegna fin da subito per renderle le cose difficili. Ribalta la sua vita senza chiedere il permesso, prendendo tutto quello che vuole.
Eppure l'attrazione tra loro divampa inarrestabile, come fuoco nelle vene, sempre più forte e sempre più pericolosa.
Il piacere sovrasta ogni cosa, rendendola schiava delle emozioni.
Passione e odio, estasi e tormento: una girandola di sentimenti dove, alla fine, niente è come sembra.
LinguaItaliano
Data di uscita21 ott 2016
ISBN9788822858283
Graffi sulla pelle

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    Anteprima del libro

    Graffi sulla pelle - Doranna Conti

    1

    Finalmente a casa. Quasi non ci credo che la giornata sia già finita. Mi lascio andare sul divano soffocando un sospiro liberatorio, ma la tiepida sensazione di benessere svanisce nel nulla quando dopo un po' mi alzo, apro il frigo e mi rendo conto che è vuoto. Merda. 

    Lo richiudo con un colpo secco e impreco tra i denti, prendendomela con me stessa. Anche oggi, come ieri, ho dimenticato di fare la spesa. E adesso mi tocca digiunare. 

    Tutti i miei pensieri erano fissi sul pomeriggio che avrei trascorso con la mia sorellina e ho lasciato fuori il resto del mondo.

    Forse quella vipera di Jackie ha ragione a pensare che non sono affatto responsabile, l'ultima persona sulla faccia della Terra a cui poter affidare la piccola Emily. 

    Stringo i denti, mandandola a quel paese nel silenzio della mia mente. 

    I ricordi fanno male come pezzi di vetro conficcati in gola, ogni singola volta che respiro.

    Da quando i nostri genitori ci hanno lasciato, esattamente due anni fa, ho provato in tutti i modi a dimostrare di essere in grado di farle da tutrice, lavorando come una matta senza sosta. Invece, in assenza di testamento, il giudice ha creduto fosse meglio la solidità economica dei nonni paterni, Jackie e Richard, invece dell'affetto amorevole di una sorella maggiore. 

    Se facessi anch'io parte della famiglia non ci sarebbero problemi e ora vivremmo tutti d'amore e d'accordo, uniti dal dolore per la perdita, ma essendo solo la figlia del primo matrimonio di mia madre, mi ritrovo a essere completamente tagliata fuori. 

    Dire che mi odiano è un delicato eufemismo. La famiglia del mio patrigno non ha mai tollerato la presenza di mia madre nella vita di Paul e ora che lei non c’è più, sono io a farne le spese. Suppongo che mi vedano come una scomoda arrampicatrice sociale da tenere alla larga.

    Posso vedere Emily, che ha solo otto anni, in determinati giorni stabiliti dal Tribunale e questa lontananza forzata da lei mi uccide. Al tempo stesso, però, questo fatto mi dà la forza necessaria per andare avanti e dimostrare a tutti che si sbagliano, perché non voglio dargli la soddisfazione di vedermi sconfitta. 

    Ripeto sempre a me stessa che posso farcela, ma ammetto che i problemi sono tanti. Ogni giorno spero in un piccolo miracolo che aggiusti tutto, eppure puntualmente la realtà mi rema contro. 

    Dall'incidente tutto è cambiato. Quel maledetto giorno, iniziato come tanti, si è presto concluso in tragedia. 

    Ricordo ancora le risate risuonare allegre dentro l'ambiente ristretto della nostra piccola auto, le sento girare in testa come se fosse ieri. Il cielo era grigio e una pioggerellina sottile cadeva leggera a terra, bagnando le strade quasi senza fare rumore.

    Io e la mamma cantavamo una canzone trasmessa alla radio, una delle tante, mentre Paul faceva da giudice imparziale su chi di noi fosse la più stonata. Era Imagine di John Lennon.                        Emily per fortuna era già a scuola. Noi, invece, stavamo andando ai soliti allenamenti di danza in palestra, per prepararmi in vista dell'ennesima gara. 

    È stato un attimo. Un terribile istante che ha stravolto la mia intera esistenza, trascinandone i resti a fondo.

    Lo stridio dei freni sull'asfalto, le urla soffocate, il terrore nei loro occhi e nei miei. 

    L'impatto tremendo ha messo fine a tutto prima ancora che Paul potesse girare lo sterzo e rendersene conto.

    Niente più risate, niente più musica, niente più vita. Quel giorno ha portato via con sé non solo le persone che amavo, ma anche un pezzo della ragazza felice e spensierata che ero. 

    E niente è stato più lo stesso. Nemmeno io. Dopo mesi di ricovero e riabilitazione per rimettermi in piedi, i medici hanno detto spiacenti che non sarei più potuta salire su un palco. Anche se ormai, a quel punto, niente aveva per me alcuna importanza. 

    Con fatica sono andata avanti e il mio sogno pian piano si è trasformato nel sogno degli altri. Per vivere insegno danza nella nostra vecchia palestra, con la stessa passione che era anche di mia madre, lì dove un tempo era lei a spronarmi per non arrendermi e dare sempre il massimo.

    È dura, ma ormai ci ho fatto l'abitudine. Basta ingoiare e mettere un freno a tutte le emozioni. Andare avanti, senza avvertire nessun calore dentro.

    Il suono metallico del citofono ha l'effetto di riportami al presente.

    Chi può essere a quest'ora? Non aspetto nessuno e per evitare noiose seccature ho pure lasciato il cellulare spento in borsa tutto il giorno, dimenticandomi persino della sua esistenza.

    Mentre rifletto sull'identità del possibile scocciatore ricordo che ieri mattina avevo promesso a Dean di cenare insieme. 

    Accidenti! Come faccio adesso, col frigo più vuoto del mio stomaco?

    Cerco affannosamente sulla consolle dell'ingresso il piccolo cofanetto in legno dove accumulo alla rinfusa tutti i numeri di telefono dei take away della zona, cui faccio ricorso quando non ho voglia di mettermi ai fornelli. Una pizza dovrebbe andar bene, anche se sono certa che Dean stavolta storcerà il naso, dato che questa è la terza sera di fila che gliela propino.

    «Ehilà splendore!» Saluta entrando.

    «Ciao...» Sussurro in riposta.

    «Cos'è quel muso lungo? E come ti sei conciata? Non vorrai mica uscire così, spero.»

    Scuote la testa inorridito, chiaro segno che non approva affatto i miei jeans scoloriti, abbinati a una semplice camicetta azzurra.

    «Pensavo che potremmo ordinare una pizza...» Propongo, facendo gli occhi dolci.

    «Piccola, non azzardarti nemmeno a pensarlo. Questi addominali scolpiti vanno alimentati nel modo giusto, e stasera ho voglia di pesce.»

    «Ma Dean...»

    «Dean niente. Zero obiezioni. Conosco quello sguardo imbronciato. A che serve avere un amico gay se poi non ascolti neppure uno dei miei favolosi consigli?» 

    Abbasso la testa, sconfitta. Ha ragione.

    Di questo passo, a rimanere sempre chiusa in casa mangiando schifezze, diventerò un'eremita grassona, sola e disperata.

    «Ok, vado a cambiarmi. Però offri tu, perché io sono al verde.»

    Esclamo, sparendo in camera mia per non sprecare altro tempo.

    «Come sempre, tesoro. Quando sei con me, non devi preoccuparti di niente.» Assicura, e quelle parole gentili riescono finalmente a farmi sorridere, facendo breccia nelle mie tenebre.

    Mezz'ora dopo siamo già seduti in un bel ristorante nei pressi di Brooklyn Heights, dove Dean sostiene si mangi benissimo.

    E in effetti anche stavolta devo dargli ragione. Il pesce spada marinato che sto gustando è delizioso. Altro che cibo da asporto. La pizza che avevo previsto di mangiare ormai è solo un lontano ricordo.

    «Avanti, raccontami tutto. Come sta Emily?»

    Quella domanda apparentemente innocente mi strappa una smorfia di evidente disappunto.

    «Benissimo... sai, ha iniziato a prendere lezioni di violino.» Lo informo con palese sarcasmo.

    «Da come lo dici, sembra una cosa brutta.» Osserva lui, scrutando attento la mia espressione.

    Bevo un piccolo sorso d'acqua, per mandare giù il sapore amaro che sento salire in gola.

    «Avrei preferito che anche lei studiasse danza, come me e la mamma.» Confesso, dopo un attimo di silenzio.

    Dean annuisce. Sa bene quanto la cosa mi faccia soffrire e apprezzo il modo carino con cui inizia a stringere la mia mano tra le sue sopra il tavolo, comprensivo come sempre.

    «In fondo, il vìolino è uno strumento di classe...» Azzarda, provando a consolarmi. Ma io faccio l'ennesima smorfia.

    «Questa è esattamente la stessa cosa che ha detto quella strega di Jackie.» 

    «La nonnina stronza ti ha dato molto filo da torcere?» Domanda, indovinando tutto.

    «Non peggio del solito.»

    «E allora come mai stasera eri un cadavere e non volevi uscire di casa?» Indaga curioso.

    «Perdonami... ultimamente ho un sacco di pensieri in testa e l'avevo scordato.» Ammetto, con un piccolo sorriso di scuse.

    Lui alza gli occhi al cielo, come se avessi appena detto qualcosa di terribile. 

    «Dire che hai dimenticato un appuntamento col sottoscritto è da maleducati, piccola. Nessuno ti ha mai insegnato a mentire, di tanto in tanto?» Esclama offeso, storcendo il naso.

    «No. Io sono fatta così. Prendere o lasciare.» Puntualizzo piccata.

    Poi però scoppio a ridere. Sono grata di avere al mio fianco un amico fantastico come lui. Una persona su cui poter contare quando ne ho bisogno. Sempre.

    Dean riesce comunque a mettermi di buonumore, anche quando il resto intorno fa acqua da tutte le parti.

    «Sei riuscita poi a risolvere il problema del riscaldamento in palestra?» Chiede dopo un po', tornando improvvisamente serio. 

    «No. E se non trovo alla svelta i soldi che mi occorrono, non potrò riaprire. Perderò i pochi iscritti che avevo e...»

    «Alt. Non dire altro. È chiaro che ti serve un lavoro. Non puoi continuare così. Quella palestra non fa altro che prosciugare il tuo misero conto in banca, qualora non lo avessi capito.»

    Esclama severo, tentando di convincermi.

    Io abbasso gli occhi, per non fargli vedere il velo di tristezza che ho nello sguardo.

    «Lo so, ma è tutto quello che mi rimane.» Rivelo sottovoce.

    «Stella, non dire così. Non sei sola. Ci sono io con te, e poi hai anche quella pazza di Helen accanto…siamo noi la tua famiglia, adesso. Ammetto che non è il massimo, ma è sempre meglio di niente. Magari Helen col tempo migliorerà.» Scherza.

    A sentire il soprannome che usava con me la mamma alzo gli occhi e sorrido, grata della sua dolcezza.

    «Grazie.» Dico semplicemente.

    «Aspetta a ringraziarmi. Helen tra un po' sarà qui. Abbiamo parlato della tua situazione e insieme abbiamo deciso che devi darti una mossa. Basta temporeggiare.»

    Il suo tono risoluto mi lascia perplessa. Che intende?

    Prima che possa fargli domande precise in merito Dean vuota il sacco, lasciandomi senza parole.

    «Ti abbiamo organizzato un colloquio di lavoro. In un locale... conosci il Black Mamba? È qui vicino, dista solo un paio di isolati.»

    «Cosa? Stai scherzando?» Esclamo confusa.

    «Il Black Mamba... non scherzo, si chiama davvero così. Ci lavora un amico di Helen, Portos. Fa il buttafuori. Un bel figliolo, argentino credo.... gran pezzo di carne.» Afferma ridacchiando.

    «Non se ne parla. Non andrò a fare nessun colloquio in un posto del genere. Conosco i locali che frequenta Helen e già il nome che dici non promette niente di buono.» 

    «Black Mamba è un nome bellissimo.» Obietta risentito.

    «A me invece fa pensare a Kill Bill di Tarantino. La sposa folle che ammazza tutti con la katana.» Protesto inorridita.

    «Film commovente. Uma Thurman strepitosa, da Oscar.» Ribatte lui.

    «Noioso e splatter.»

    «Tu sei noiosa, ragazza mia.»

    «Finitela, sembrate due bambini!»

    La voce squillante di Helen interrompe il nostro piccolo battibecco.

    Si siede con grazia al mio fianco e mi pianta addosso due occhi pieni di biasimo.

    «Ci andrai eccome, bella mia. Smettila di frignare e ascoltami bene. Non immagini quello che ho dovuto fare per organizzare tutto.»

    «E non voglio nemmeno saperlo.» La interrompo secca.

    «Calma, non è come pensi. Ammetto che non è un locale per famiglie, ma ti assicuro che lì farai un sacco di soldi, così tanti che potrai rimettere a nuovo la tua amata palestra in poco tempo.»

    Quelle parole catturano subito la mia attenzione.

    «Quanti soldi?» Chiedo curiosa, alzando un sopracciglio.

    «Tanti, ragazza mia.»

    «E cosa dovrei fare?» Domando cauta.

    «Oh, su questo ti accorderai meglio domani, quando sarai lì. Ti ho fissato un appuntamento alle dieci in punto.» Esclama eccitata.

    «Alle dieci non posso! Devo incontrare quelli della manutenzione della caldaia per un preventivo.» Dico agitata.

    «Intendevo alle dieci di sera, piccola. I locali notturni aprono a quell’ora…Dean, fammi assaggiare quel vino, sembra delizioso...»

    Cosa? È impazzita?

    «Che razza di orario sono le dieci di sera per sostenere un colloquio?» Esclamo scandalizzata.

    Lei fa una smorfia, come se quello fosse solo un inutile dettaglio.

    «Adesso non sottilizzare. È l'unico appuntamento che sono riuscita a rimediarti col proprietario. Non rompere coi tuoi orari da gallina. Ci andrai e basta.»

    Usa un tono deciso che ormai conosco bene, quello del suo repertorio che non ammette repliche.

    Sospiro sconfitta, stanca di protestare.

    In fondo, stanno facendo tutto questo solo per il mio bene, in modo che possa finalmente risolvere tutti i problemi che mi assillano. O almeno quelli economici.

    Fingo di partecipare alla loro allegra conversazione, ma non posso evitare di chiedermi cosa succederà domani. E se davvero posso fidarmi di una matta come Helen. Io e lei abbiamo idee completamente diverse su come fare a rimettersi in carreggiata, così tanto da procurarmi un sottile velo di apprensione in vista dell’appuntamento ormai prefissato senza nemmeno consultarmi. E questo è il dato che mi preoccupa più di tutto il resto.

    2

    Dicono che i sogni che facciamo sono la cosa che più si avvicina ai nostri desideri, e io ne ho spesso uno ricorrente.

    Sto per affrontare una gara difficile e l'ansia mi attanaglia lo stomaco. Allaccio le stringhe di raso delle scarpette da ballo con dita tremanti, sotto lo sguardo attento di mia madre.

    «E se stavolta non dovessi farcela?»

    Ho la bocca talmente secca che le parole mi escono a stento. Le sento graffiare le pareti della gola, una dopo l'altra, ancora prima di pronunciarle.

    «Tranquilla, stellina mia. Cosa ti dico sempre?»

    Lo sguardo di mia madre è il più rassicurante del mondo. Con lei, anche le imprese impossibili diventano a un tratto semplici.

    Sorrido, mentre insieme recitiamo le solite parole magiche. Il nostro piccolo rituale prima di ogni gara.

    «L'importante è crederci sempre!»

    «Esatto, piccola. Quindi adesso sali sul palco e pensa solo a divertirti. Lo sai, per me hai già vinto, qualunque cosa accada.»

    Il suo abbraccio mi dà la forza. Mi tiene in piedi, mi dà coraggio. Ed è la cosa che ora mi manca di più.

    Mi sveglio con la luce fastidiosa del sole già alto che filtra dalle persiane lasciate aperte.

    Ho il cuore gonfio di una tristezza infinita, impossibile da cancellare. Dicono che il tempo sani come per magia ogni ferita, ma lo squarcio che adesso mi lacera il petto sembra impossibile da ricucire, anche tra mille anni.

    Mi alzo e impongo a me stessa di non piangere. Cedere alla malinconia non cambierà le cose. Ormai ho ventun anni e, nonostante tutto, so tenere a bada le emozioni. Ho imparato presto a indossare una maschera di ferro per andare avanti da sola, anche se dentro imperversa la tempesta.

    Vado in bagno più stanca di quando ieri sera mi sono messa a letto, sperando di trovare il consueto conforto nel getto di acqua fredda. 

    Osservo allo specchio con aria critica l'espressione triste di un viso che a stento ormai riconosco. Gli occhi verdi, grandi ed espressivi, hanno perso lo splendore di un tempo, quella luce naturale che era il segno della gioia di vivere ogni singolo giorno con rinnovato entusiasmo. 

    Il motivo è che i cattivi pensieri mi stanno lentamente uccidendo, uno dopo l’altro, coprendo di polvere tutto ciò che restava di bello. 

    Ho bisogno di trovare al più presto un dannato lavoro, per mettere da parte i soldi sufficienti a sistemare ogni cosa e riprendermi Emily.

    Se per farlo devo fingere che mi stia bene lavorare in un qualche locale dal nome ridicolo, così sia. Posso farcela...

    L'importante è crederci. Sempre.

    Mentre faccio colazione con un paio di biscotti il mio sguardo assonnato scivola lungo le pareti azzurre del minuscolo appartamento in cui vivo, l'unico che al momento possa permettermi. 

    Tutto sommato non è male, a parte i mobili un po' datati e il tipo losco del piano di

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