Roma A.D.1141 - Parte II
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Anteprima del libro
Roma A.D.1141 - Parte II - Paolo Fontana
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«Permetti che ti dia il benvenuto qui al Nord, Iohannes. Forse non sarò un uomo ricco o di gusto come voi romani vorreste che noi fossimo tutti, ma son pur sempre un figlio di Germania, non posso essere scortese con chi visita la mia terra.»
«Non vorrai che ti dica che questa non è la tua terra, vero?»
«Beh, di chi è allora, se non di chi ci nasce e ci vive tutta la vita? Davvero sei convinto che sia tua, imperatore?»
«...Mia e di tutti i Romani, sì. Da me non sentirai altre parole, se non queste, Orso. Credo che tu lo sappia già. So che sei una persona intelligente, in fondo.»
«Ah ah! Grazie del complimento! Sai? Sapevo che saresti venuto. Sono due anni che volevo incontrarti di persona.»
«Non potevo tirarmi indietro. Eccomi, comunque.»
«No, no, ovvio. Ma non tutti si comporterebbero come te. Almeno di questo, te ne rendi conto, ogni tanto?»
«Sì. Ma provo a non pensarci. Non mi è di nessuno aiuto...»
«Mmm... Io direi di sì, invece. Due anni fa, sei venuto fin quassù, ma per un motivo o per l'altro non ci siamo mai parlati. Ci siamo affrontati parecchie volte a Furdum Belisarii e ad Ascaria. E ricordi Ad Torrentem Sibarium? Ho quasi staccato la testa al tuo amico magister, quel giorno! Però, non ci siamo mai incontrati, né sui campi di battaglia né fuori...»
«È vero, sì. Auxuchus mi dice spesso quanto voglia fartela pagare... Ti consiglio di stare attento, quando combatteremo, sai, perché vuole restituirti il favore...»
«Eh, guarda che pure lui ha quasi ammazzato Æthipertus! È meglio che anche Auxuchus si guardi le spalle, oggi! Ah ah!»
«Dopo glielo dirò, allora.»
«Ah, Iohannes, ammetto che un po' mi sono annoiato senza di te quassù... Non è la stessa cosa, razziare e spaventare, se non c'è nessuno che possa contrastarti... Non si ha lo stesso brivido, vero? Due anni fa, invece, era tutto molto più movimentato...»
«Sì, perché tu non facevi che scappare qua e là per poi nasconderti nella Silva Hercynia come un codardo, mentre io, come un fesso invece, non smettevo di inseguirti e perdere tempo...»
«Ah ah! A ognuno il suo, insomma! Lo trovo giusto, sì! Ad ogni modo, voglio farti anch'io un complimento, augusto... Tu sei uno dei pochi romani che mi sento di rispettare. L'ho capito da poco, in realtà, perché prima credevo tutt'altro e, lo ammetto, ero più accecato dall'ira e da altre emozioni, ma ho avuto modo di pensare, di meditarci un po' su, e ora questa mia nuova certezza mi basta. Ora che riesco a pensare con molta più lucidità, capisco molte cose. Anche se, in effetti, non posso pure non farmi due domande...»
«E quali sarebbero?»
«Sono convinto che tu non sia come gli altri. Che tu veda qualcosa che la gente comune non si sogna nemmeno di vedere. Dico bene? Forse sono io che immagino tutto ciò solo per sentito dire, ma credo di non sbagliare dicendo che forse hai già capito dove gli eventi ci stiano conducendo, dove stiano conducendo questo mondo decrepito e come questi sia destinato a finire... No? In questo stato che agonizza ogni giorno di più e si ciba dei resti marcescenti di sé stesso e di chi ha sfruttato per tutti questi secoli senza alcuno scrupolo, io sento che tu hai intravisto il fondo del baratro, dove la sua lenta agonia lo condurrà, dove tutto ciò che abbiamo attorno finirà senza speranze... E che, per ora, ti sei fermato sull'orlo ma ne sei attratto, vorresti vedere, sapere di più... Non negarlo!»
«Non mi hai ancora fatto domande.»
«Oh, sì. Dimmi, allora, se tu hai visto, se tu veramente sai e te ne rendi conto, proprio come me, come puoi continuare ad essere ciò che sei? Come fai, ogni giorno, a vestire la porpora e fingere di fronte a tutti, abbassandoti al loro livello? Se conosci ciò che accadrà, come può sprecare le tue forze tentando comunque di guarire un paziente dalla malattia che lo sta divorando? Questo non riesco a capire, Iohannes, non so darmi una motivazione... Spiegamelo tu, allora, il perché, se puoi.»
«So a cosa ti riferisci. O almeno, credo. Ma so anche che in ogni caso, non ti darò la soddisfazione di conoscer la risposta. O di presumere che ciò che dici sia vero, perché...»
«Non chiedo soddisfazione.»
«Non importa ciò che chiedi, ciò che vuoi o che non vuoi. Non avrai nulla comunque, se non una condanna della Legge Romana e un'esecuzione dal boia che La rappresenta.»
«Non mentire, Iohannes! Non a me almeno! Sono anni che ti osservo, sin dai tempi in cui ero un tuo soldato e ti seguivo nei deserti di Mesopotamia! Ti ricordi? Ricordi i seliacidi e quel dannato Beduino? Siamo rimasti un mese ad aspettarlo sotto il sole cocente e tra le polveri di quelle rovine nere! E quando lo abbiamo affrontato, anche se tu non sapevi nemmeno chi io fossi, ti osservavo combattere e dare ordini, con negli occhi solo eccitazione e neanche un briciolo di paura! So di cosa parlo! So chi sei, e come sei, perché ho visto come brami di stare in prima linea, di brandire la spada e combattere i tuoi nemici... Davvero, non capisci? Davvero non ti rendi conto, in questo istante, di ciò che hai davanti? Di chi hai davanti?»
«Basta parlare per enigmi. Risparmiali per la tua difesa.»
«Ah ah! Hai davanti uno specchio e non capisci! Tu sei come me! Oh, sì, so che lo sai, solo non vuoi ammetterlo! Ma non mi interessa! Io conosco la verità, Iohannes! Non mentire più! Non con me, almeno! Non con te stesso! Ce l'hai di fronte e fai finta di nulla! Ah ah, povero sciocco!»
«Noi non siamo uguali, Orso. Non abbiamo nulla in comune noi due! Osa dirlo un'altra volta, e...»
«Puoi minacciare quanto vuoi, imperatore. Io non ho paura. Non più, perlomeno. E non c'è niente che tu possa fare per farmela tornare: né i tuoi scagnozzi, né i tuoi boia, i tuoi tribunali o le tue prigioni, neppure tutta l'infinita potenza di cui vi piace vantarvi voi romani potranno fare la differenza con me. Io sono libero! La mia mente è libera e, se il mio corpo sotto tortura soffrirà e chiederà di smettere perché non sarà più in grado di resistere, il mio spirito invece sarà lì a gridare "MAI!" e non mi farà cedere, perché questo è ciò che mi sono conquistato, e che ho creato grazie agli sforzi di questi anni tumultuosi... Una condizione ottenuta con il sudore e con il sangue, che non si possiede solo perché si nasce in un posto o si possiede un qualche diritto inventato di cittadinanza, che non può essere comprata o piegata da nessuno. Riesci a capire di cosa parlo, Iohannes? Io credo di sì...»
«Parli tu di torture! Ah! Tu che crocifiggi la gente e compi i crimini peggiori che uno possa immaginare! Nei territori che avete usurpato la gente muore! Lì, non c'è più nulla ormai! Solo disperazione e paura! Ah! E le abbiamo viste, le croci, venendo qui, maledetto...»
«Ah ah! Su, non scaldarti, Iohannes. Che avremmo dovuto fare con quei tuoi esploratori? Siamo già stati benevoli a farli avvicinare tanto! Dovevamo pur darvi qualche segnale per farvi sapere dov'eravamo, no? Altrimenti chissà quando ci avreste trovati! Vi abbiamo solo facilitato le cose! Ah ah! E poi, son cose normali, queste, durante una guerra, non essere ipocrita. Oltretutto, a dirti il vero, io non ho mai fatto personalmente nulla di ciò di cui tu mi accusi. È vero, però, che i miei uomini a volte hanno dei modi un po'... particolari, ecco, per divertirsi...»
«E poi parli di noi Romani
, come se non lo fossi anche tu.»
«Infatti è così. Ti ho appena detto che sono libero, no? Io non sono più romano, da diverso tempo ormai. So che molti di voi non lo capiscono ma confido che almeno tu sì... O sbaglio?»
«E chi o cosa saresti, allora? Perché, a quanto so, tutti devono essere qualcuno a questo mondo, e io di sicuro non ho ancora tolto la cittadinanza, a te e ai tuoi ribelli. Anche se, lo sai bene, lo vorrei davvero...»
«Sforzati un po' di più, Iohannes! Si può essere tutto o niente in questa vita. Perché dovrei considerarmi un romano quando non ho più niente per credermi tale? Non c'è più nulla che mi leghi all'Impero... Ma, davvero, perché poi è tanto importante per voi definirvi così, visto che l'essere romano, barbaro o serico dipende solo da una serie di casuali contingenze o tutt'al più da un qualche scherzo del destino? Non si sceglie dove nascere, però si può scegliere come vivere la propria vita, e chi si vuol essere, in questa vita, Iohannes. Una volta capito questo, tutto è più semplice: allora, io ad un certo punto ho deciso di non essere più un romano, e di certo non mi serve la tua approvazione o il tuo permesso per sapere che ciò che penso, ciò che faccio corrisponde alla verità. Né il tuo né quello di nessun altro. È tutto qui, è tutto molto semplice. Quand'è che lo capirete?»
«Perché?»
«Che vuol dire perché
?»
«Perché hai deciso di non considerarti più un romano? Cosa è successo per farti cambiare idea?»
«Dev'esserci per forza sempre un motivo, eh?»
«Gli uomini raramente agiscono senza uno scopo, non far finta di non saperlo. E, come ho detto, tu sei troppo intelligente per non fare altrettanto. Perché, altrimenti...»
«Altrimenti...
, cosa?»
«Altrimenti, dovrei pensare che tu sia solo pazzo. Ma, lo so, non vuoi costringermi a pensarlo davvero, dico bene?»
«Ah ah! Vecchia volpe! Vedi? Pochi uomini sono come noi! Molti non cercherebbero mai le risposte, non porrebbero mai le giuste domande, mentre gli altri... Beh... Quasi tutti non sono abbastanza intelligenti per fare queste cose, ah ah!...»
«Dunque, non vuoi rispondermi.»
«No, no, anzi. Se vuoi te lo dico, augusto! Ma è probabile che rimarrai deluso, perché in fondo non c'è davvero niente di così misterioso o arcano, dietro le mie azioni. Basterebbe che voi romani cercaste semplicemente di osservare il mondo con occhi diversi, e vi sforzaste a pensare non solo secondo le vostre tradizioni e le vostre idee, ma pure secondo quelle degli altri, per rendervi conto che non esiste un'unica verità, un assoluto che sia valido per tutti. E così vi sforzate di tenere in piedi un mondo che, non ne dubito, era valido mille anni fa, cinquecento anni fa, ma che adesso è evidente stia morendo... Cos'è? Avete paura che, oltre all'Impero, non possa esserci nulla? Avete paura del caos che verrà dopo, dei secoli bui che saranno a venire? Posso capire anche quello, ma purtroppo ogni cosa è inevitabile ed io sto solo accelerando questo processo, per rendere tutto meno doloroso. O... beh... almeno ci sto provando...»
«Parli tanto, ma ancora non rispondi...»
«Cosa sei, Iohannes? Uno di quegli strambi filosofi che pretendono di capire tutto di una persona, solamente lasciandola parlare un po' del proprio passato? Vorresti che dicessi qual è stato il fantomatico momento in cui ho capito che la mia vita sarebbe stata diversa e sarei diventato... Come mi chiamate, nelle capitali?... Ah, sì, l'Usurpatore
, anche se non me ne frega niente di indossare quella tua dannata porpora?»
«Che tu voglia dirmelo o no, non è importante, in realtà. Mi domandavo solo cosa t'avesse fatto cambiare idea, visto che una volta eri un legionario e hai combattuto per l'Impero, guadagnandoti onori e rispetto. Ricordo pure che ai veterani di quel periodo vennero date anche parecchie terre in Media Atropatene e altrove per ricompensarli.»
«Vedi? Ecco dove vi fermate a pensare, voialtri! All'onore, al rispetto, e alle terre o al denaro! Ma esiste molto altro, sì...»
«Lo so bene, Albertus. Non farmi la predica. Mi sono chiesto a lungo quali fossero le tue motivazioni, visto che in un millennio ci sono stati decine di usurpatori e ribelli, ma quasi nessuno come te. Anzi, che io sappia, tu sei il primo. Anche perché in tutto questo tempo, hai ragione, il popolo romano è scivolato in una sorta di limbo dorato, e nei suoi stessi confronti, è diventato indulgente, tanto indulgente da credere che niente possa essere diverso, che niente possa essere meglio dell'Impero, né dentro né fuori i suoi confini, e che in fondo non valga la pena di cercare altre vie da percorrere perché tanto tutto è già stato raggiunto. Credi che queste cose non mi tengano sveglio la notte? Pensi che io passi il mio tempo a mangiare e bere nelle stanze del Sacro Palazzo? A pagare lupæ per un po' di piacere e a sprecare il denaro dello Stato in vizi che corrompono sia la carne che lo spirito! Sei fuori strada, allora! Non credere non abbia provato a capire cosa vuoi, o cosa non vuoi, e non mi sia arrovellato i pensieri riguardo a come avrei potuto sistemare tutto quanto!»
«Non penso questo di te. Credevo di esser stato chiaro.»
«Ah! Non mi interessa! Non mi interessa più niente di te, Albertus! Ormai, ho deciso che non m'importa sapere più nulla, se voglio tentare di salvare questo mondo dalla rovina. Come te, so che questo mondo è in decadenza, ma non lo lascerò morire, ci ho pensato troppo spesso per lasciare che accada, e, tra le poche certezze che ho, so che tu sei una delle piaghe che lo stanno uccidendo, Orso, e per questo devo toglierti di mezzo, senza altri dubbi o altre incertezze. Ognuno ha la sua ragione, in fondo. Che sia la tua o la mia, o che magari non ne esista davvero una sola e ce ne siano molte, lo scopriremo solo alla fine, ma se non agisco, non potrò mai saperlo, e sarò solo uno dei tanti che è stato troppo codardo per agire, per combattere in ciò in cui credeva.»
«Bel discorso, Iohannes. Sei proprio un vero romano...»
«Albertus, non puoi essere davvero convinto di vincere.»
«Io? Beh, io forse no, anzi credo che sia più probabile che muoia presto in battaglia piuttosto che vedere i frutti del mio lavoro da vecchio, ma... Questa non è una questione di vincere o meno, no... Io sono soddisfatto così, per adesso. Perché so di star gettando un seme nella terra esausta, l'unico in grado di germogliare e dare nuova vita a questo mondo malato...»
«Nessuno cercherà di imitarti, se è questo che credi.»
«Oh, sì, invece. Lo stanno già facendo e non te ne accorgi. Così come non ti accorgi di quanto io e te siamo simili... Dimmi la verità, Iohannes, te ne prego. Non esiste davvero alcuna parte di te disposta a dirti che potrei aver ragione? Che ciò che ti ostini a difendere sono solo illusioni? Spettri di un passato ormai scomparso?»
«...Sei insistente, vedo.»
«Solo curioso.»
«Anche se fosse, io sono un Romano, la mia posizione ha degli obblighi che devo e voglio rispettare e per questo non mi comporterò diversamente. Sì, ho immaginato ciò che dici, ho visto ciò che sogni, ma a differenza tua non voglio accelerare il declino del mio mondo, non voglio proprio che ciò accada. Perché dovrei, poi? Dirai che è ovvio che io lo dica, visto che ho il potere e sono l'Augusto: chi mai sano di mente vorrebbe abbandonare tutto e condurre una vita più semplice, dopo aver sperimentato gli splendori del Sacro Palazzo? Eppure, la tua presunzione di credermi uguale a te, e di crederti uguale a me, ti acceca nel pensare che io sia come tutti gli altri, che io sia disposto a tutto per non lasciarmi sfuggire ciò che ho.»
«Ho appena detto che tu non sei come gli altri.»
«Sì, ma tu lo credi per i motivi sbagliati. Non sai tutto di me.»
«Allora, parla, imperatore. Non abbiamo molto tempo, qui. Ti ricordo che fra poco ci metteremo a combattere, eh... O forse te lo sei già dimenticato?»
«Ora sei tu a non capire. Non ti nascondo di aver pensato di essere simile a te, a volte, questo è vero, ma non accetterò mai di credere che tutto questo sia destinato a non cambiare, e a finire nel caos che tu desideri con tanta ostinazione. No, io voglio che cambi. So che lo farà. E voglio pure essere diverso da te, perché so che in fondo lo sono davvero... Saremo entrambi due guerrieri, sì, due ostinati condottieri che morirebbero piuttosto di tradire sé stessi, ma questo è tutto ciò che rimane... Il resto di noi è invece l'opposto dell'altro, come il mondo sullo sfondo riflesso da quello specchio che ti piace tanto citare: simili, ma diversi, mio caro Orso, e non farò mai un passo in più per attraversarlo, questo specchio, no. Piuttosto lo spaccherei, per non vedere più...»
«Ah ah! Esatto! Ecco, vedi? Vedi che c'è una furia dentro di te? Abbiamo entrambi capito ciò che gli altri non sembrano essere in grado di capire ed entrambi stiamo cercando di cambiare questo mondo! Tu sei me e io sono te, Iohannes! Tutto è proprio come deve essere! Ah ah!»
«No, ti sbagli. Ogni tua idea è sbagliata, lo so bene. Il mondo romano ha tutti i difetti di cui parli, è vero, ma non esiste sistema che non abbia corruzioni, se si comincia a cercarle volendole trovare per forza ad ogni costo. Eppure, ogni bruttura dell'Impero, ogni sua violenza, ogni sua mancanza di umanità e ogni crudeltà che può apparire senza senso, senza un limite, o senza una fine, avrà sempre il suo corrispettivo nello specchio, Albertus, per il quale invece varrà sempre la pena di combattere, e vivere, nella speranza che un giorno sarà questo a prevalere, a vincere su tutto. Gli uomini, in fondo, sono mortali e vivono in bilico tra i loro istinti e la loro ragione, ma ciò che possono fare non muore mai, se si impegnano davvero. Roma è anche questo, anche un'idea, un sogno, una visione e non solo potere e oppressione come credi tu, così che io non posso – e non voglio – abbandonarla per nessun motivo. Puoi capirlo?»
«...Ah, Iohannes... Non credo che oggi saremo in grado di venirci incontro più di così, vero?»
«Né oggi, né in nessun altro giorno, Albertus.»
«Peccato. Beh... Direi allora che è il momento di cominciare. Sento già che i miei uomini stanno diventando impazienti, a forza di aspettare...»
«Anche i miei, sì. Addio, Albertus. Non credo parleremo più a questo modo...»
«Penso proprio di no. Addio, allora.»
«Ah, visto che ti interessa, sai cosa vorrei davvero fare, io? Se sapessi che questo mondo è ormai salvo e nelle giuste mani, me ne andrei una volta per tutte da Constantinopolis e tornerei a casa mia, a dormire sui prati e contare le stelle senza più pensieri, come facevo da bambino.»
«Ah ah! I bei tempi! Forse non sarebbe una cattiva idea, in fondo, se tutti tornassimo a comportarci come a quell'età...»
«Ma non lo faremo, purtroppo.»
«No, esatto. Rimarrà tutto solo un bel sogno...»
E detto questo, si lasciarono, voltandosi le spalle, ognuno diretto al proprio esercito, a quei propri soldati che, impazienti, aspettavano i loro ordini e non capivano perché i due avessero dovuto parlarsi, né perché lo avessero fatto, visto che erano nemici e si odiavano tanto, e soprattutto alle proprie convinzioni, alle proprie idee, per le quali erano davvero pronti a morire, nel tentativo di renderle reali, di renderle vere, anche se solo per un istante... Qualcuno immaginò che avessero discusso di guerra e di cose alte, paragonandoli a quegli imperatori filosofi o ai condottieri dei tempi antichi, quelli che prima di ogni battaglia si incontravano per conoscere il proprio nemico, con quel misto di eroismo e di inspiegabile nostalgia che sempre emerge quando si richiamano alla memoria eventi di un'epoca mai vissuta, come se quanto accaduto nel passato sia stranamente sempre migliore e che il presente, al confronto, non sia altro che una lunga sequela di problemi e sofferenze senza soluzione di continuità... Non è vero, ovviamente, ma spesso gli uomini falliscono nel vedere la realtà, nonostante, forse, basterebbe semplicemente guardarsi attorno un po' di più, e pensare un po' di meno, per non crearsi illusioni, e finti sogni che non si avvereranno mai... In ogni caso, loro due, pur avendo capito di essere opposti come quelle entità che rappresentano il Bene e il Male nella religione del Fuoco Eterno dell'Albània e del nord della Persia, e di non poter in alcun modo venirsi più incontro, né tendere la mano all'altro per provare a fargli cambiare idea, per un istante, però, entrambi videro negli occhi dell'altro come una scintilla, un baleno di consapevolezza, che, come in uno specchio, diceva loro che entrambi avevano ragione, che entrambi erano simili, e che per questo entrambi dovevano continuare, convincendoli a perseverare, senza più dubbi e senza paure, fino alla fine.
Non si voltarono più indietro.
XVI
IUTREBOCUM, REGIO THURINGIÆ, PROVINCIA GERMANIÆ
«Tutto questo parlare di Bene e Male.
Dimmi, a cosa serve in fondo?»
«Serve ad avere una morale, Albertus.»
«La morale è più affilata della spada, forse?»
«No. La morale non serve a combattere.
Anzi, serve proprio ad evitare che ciò accada.»
«Allora non mi serve una morale.»
La battaglia era appena cominciata. Forse il tempo quel giorno, per chi ci sperava e per chi era abbastanza ingenuo da crederci davvero, poteva sembrare vivo, a modo suo, dotato sul serio del desiderio di mostrare agli uomini come esso fosse l'unico – e autentico – signore di quel mondo che questi si impegnavano tanto a impregnare di sangue e distruggere per i loro futili motivi, e non, invece, semplicemente il risultato casuale del mutar imprevedibile dei venti e delle temperature. Sarebbe pure stato bello pensarlo, e credere che, magari, persino gli dei stessero in quegli attimi col fiato sospeso, aggrappati alle nuvole o al sole a guardare giù di sotto, per capire chi tra quei due condottieri avrebbe finalmente prevalso sull'altro. Eppure, in fondo, quelle erano solo fantasie per gli sciocchi, e gli dei o la Natura – se mai avesse avuto un senso riferirsi a loro come se condividessero qualcosa con gli esseri umani o se esistessero davvero al di fuori della vulcanica immaginazione di questi ultimi – sarebbero rimasti insensibili anche stavolta alle beghe degli uomini. Di questo, Albertus ne era certo. Non gli importava allora che il cielo, in quel momento, fosse diviso e sembrasse lo specchio a cui aveva pensato poco prima, quando si era trovato faccia a faccia con Iohannes e lo aveva trovato così simile a lui, quasi il riflesso di sé stesso: quell'ennesima follia degli uomini, soli in un mondo abbandonato da tutti, non sarebbe stata di certo giudicata da nessuno, e quel cielo, conteso tra il sole e le nubi, sarebbe rimasto lo stesso spettatore silenzioso e il giudice imparziale di sempre, senza speranze né possibilità di salvezza.
Apparendo in un attimo tra le fila sull'orlo del collasso dei suoi soldati, in mezzo alle grida dei feriti e di chi andava a morire, unite ai nitriti isterici dei cavalli colpiti a tradimento, Albertus non aveva paura. Non l'aveva mai avuta, nemmeno quando ad un certo punto della battaglia aveva creduto che il suo esercito fosse sul punto di andare in rotta ed essere sconfitto... Si era sentito a disagio, questo è vero, e preoccupato di non potercela fare, ma non aveva avuto paura... Però... C'erano pur sempre le legioni di Iohannes, davanti a lui...
Sì, e quindi? Quelli erano solo uomini, in fondo, e il fatto che fossero guidati dal loro imperatore non doveva in alcun modo cambiare ciò che provavano e ciò che temevano... O forse no? Forse, pur avendolo sempre considerato un grande soldato, Albertus aveva sottovalutato l'augusto dei romani sotto così tanti altri aspetti che... Forse, era vero che la sua presenza, accanto ai propri uomini, riusciva da sola – o quasi – a risollevare le sorti di una battaglia, come se il trovarsi a tu per tu con l'uomo che guidava l'impero – e che per molti, inconsciamente o no, era pure la personificazione delle volontà divine – agisse sulla mente di quei legionari tanto quanto egli stesso influenzava quella dei suoi, di soldati, con il proprio carisma e le proprie parole... Era possibile allora che quell'idea di eternità, quell'assoluta presenza dei concetti di dominio e di autorità riuniti in un solo uomo, rappresentasse un legame più solido dell'acciaio, più duraturo della roccia, e fosse più forte della paura che fino a quel momento egli aveva reputato essere la sola, vera imperatrice di quel mondo malsano? Possibile che tutto ciò accadesse solo perché Iohannes sedeva su un trono che rappresentava un Ecumene e regnava – anche se gli imperiali non usavano quella parola – sopra ogni altro, sopra gli schiavi così come sopra i principi e i re? Lo aveva percepito anche lui, poco prima, in effetti. E forse...
Ah! Ma a che stava pensando, poi? Era cosa nota che i legionari combattevano sempre con tenacia e determinazione e tutti intuivano che, probabilmente, quelli erano pure i temibili veterani dell'augusto stesso... Aveva già combattuto contro di loro, anche contro Iohannes... E anche se non si erano mai incontrati, si eran però già visti, o almeno lui lo aveva creduto, e non aveva avuto tutti quei pensieri. Quindi, ora perché...?
Rise. Mentre cavalcava alla testa dei propri, di veterani, e avanzava facendo strage degli imperiali che si erano ritrovati intrappolati nella sacca mortale creatasi tra la finta ritirata di Privelius e il suo intervento improvviso dai boschi, Albertus si mise a ridere, nervosamente, perché aveva di nuovo capito quanto tutto ciò non avesse alcun senso. Ecco, era proprio così. Era inutile cercare di capire, si sarebbe sempre potuta trovare una qualche eccezione, una qualche scappatoia, un qualche trucco mentale che avrebbe invalidato la teoria, la convinzione iniziale. Davvero aveva creduto di possedere solo lui il carisma e la forza necessari per portare migliaia di uomini dalla propria parte e convincerli a seguirlo ed obbedire ai suoi ordini? Davvero aveva creduto che sarebbe stato facile assestare il colpo mortale all'animale che da quasi due millenni dominava il mondo dall'alto, proprio grazie a quella sua capacità di fare esattamente la stessa cosa? L'Aquila, in fondo, aveva convinto e sedotto gli uomini ben prima di lui e li aveva persuasi a non cedere mai, a non indietreggiare mai, per non abbandonare le nuove terre occupate, le nuove riserve di caccia e le ricchezze conquistate, con gli stessi mezzi che ora usava anche lui, e aveva forgiato nei secoli quell'ideale diamantino che, pur nel mezzo della decadenza e della malattia, permetteva ai suoi imperatori – e ai suoi soldati – di non piegarsi di fronte a nessuno e che, nonostante tutto, rimaneva ancora il mezzo con cui reagire, il suo colpo di coda più duro con cui colpire il nemico. Allora lui, l'Orso, non stava facendo niente di nuovo, in verità, e per un istante non poté che provare un profondo rispetto per Iohannes e, forse, persino per quell'impero che aveva deciso di rinnegare con tanta determinazione: prima, per un istante, mentre si stavan parlando, gli era davvero sembrato di vedersi riflesso in uno specchio, e che l'augusto dei romani fosse simile a lui – se non egli stesso –, pieno di convinzioni e certezze, e di quei sogni di quando era solo un ragazzo, non ancora deluso da quel mondo che adesso odiava tanto. Aveva cercato di convincerlo, ma apparentemente non ci era riuscito. Mmm... No, era sicuro che anche Iohannes pensasse la stessa cosa, in fondo, anche se non voleva ammetterlo, non completamente almeno. Ma lo sapeva, lo aveva visto nei suoi occhi, anche se solo per la durata di un lampo... E, ad ogni modo, «ogni uomo ha il proprio destino, la propria fede», pensava, e lui li aveva trovati, dopo aver abbandonato tutto ciò che gli era stato imposto all'inizio, e per questo ora era libero, come nessun altro dei suoi nemici poteva essere o sarebbe mai stato. Oh! Peggio per loro! Ah ah!
Ecco perché Albertus ora rideva, mentre uccideva senza quasi notarlo i soldati avversari, sempre più convinto che, se chi gli stava davanti non era poi così diverso da come aveva creduto, allora l'unica cosa da fare era continuare con la distruzione, per iniziare un nuovo ciclo e permettere ad una nuova Roma di conquistare, convincere, perseguitare gli uomini per altri mille, duemila anni ancora. Vide allora che anche Iohannes era sceso in campo e ora stava combattendo in prima linea, insieme ai rinforzi fino a quel momento rimasti in disparte. Potevano affrontarsi, dunque! Fece segno ai suoi che Privelius avanzasse con lui e spronò il suo nero destriero, Vesuvius, il quale, come ad aver già capito le sue intenzioni, si lanciò verso l'augusto, ansimando furioso. Si era alla resa dei conti, finalmente? Forse.
Smise così di pensare: l'unica cosa di cui era certo davvero, in quel momento di sangue e follia, era che il tempo dell'Aquila era finito e che, finalmente, stava per iniziare quello dell'Orso. Ogni altra cosa, infatti, non importava più.
In ogni caso, la battaglia si trasformò presto in un massacro e tutte le geometrie tattiche sembrarono improvvisamente perdere di significato. Al centro – anche se questo non esisteva più – le linee dei due eserciti erano state spezzate e ora non restava altro che una massa di uomini, fanti e cavalieri appiedati, tutti impegnati a cercar di sopravvivere e colpire prima di essere colpiti, senza ordini o alcuna certezza. Chi riusciva a rimanere a cavallo era più fortunato perché poteva ancora attaccare dall'alto in relativa sicurezza e subito andarsene via, sfruttando la propria adrenalina e pure quella che pervadeva il corpo del suo povero animale. Per questo, sia Privelius che Æthipertus, ancora in sella ai loro destrieri, non smettevano di muoversi qua e là, tra le fila, per poi ritirarsi velocemente quando l'impulso non domato del nemico riusciva a ricacciarli via per l'ennesima volta. In nessuno degli schieramenti, ormai, venivano dati più ordini e i generali, così come i comandanti da una parte o i centuriones dall'altra, non facevano che colpire e poi scappare, cercando di tamponare le falle in ogni istante che sembrava loro l'ultimo decisivo per le sorti della battaglia.
Non che si capisse chi fosse sul punto di vincerla, in realtà, e neppure se essa fosse sul punto di finire davvero o meno: Albertus, infatti, dimenticato tutto il resto, si era lanciato verso la zona di campo dove aveva visto Iohannes e cercava disperatamente di raggiungerlo, nonostante ogni volta venisse bloccato dall'apparizione di un altro cavaliere o di un altro legionario che cercavano di sbalzarlo via dal suo Vesuvius o di colpirlo a tradimento senza che se ne accorgesse. Lo stesso animale era stato ferito leggermente, forse dalla lama di un gladio, ma non sembrava soffrire e continuava ad accettare le sollecitazioni del suo padrone. Dov'era finito il Comnenus? In certi momenti, lo perdeva di vista e ogni volta doveva cercarlo di nuovo, facendo attenzione a non prestare troppo il fianco ad eventuali attacchi nemici o a ritrovarsi all'improvviso troppo esposto in profondità: per questo, Privelius a sua volta non gli stava mai lontano e cercava in tutti i modi di tenere i legionari a distanza, ingaggiando con le proprie forze continui combattimenti con le truppe di Auxuchus e, forse, anche quelle di Coneradius. Non si poteva dire più nulla con certezza.
Fuori da quella bolgia, i superstiti delle due cavallerie si stavano intanto ricompattando, ciascuno attorno ai rispettivi comandanti, nel tentativo di intervenire di nuovo e magari decidere le sorti della battaglia: Tammarus era infatti riuscito a raccogliere gli uomini dalle sponde del fiume e dai limiti di quelle sabbie mobili che avevano inghiottito tanti dei suoi – non solo i catafratti – e adesso stava ritornando nelle retrovie, con un movimento avvolgente dietro le forze di Iohannes e Coneradius, senza accorgersi però che Leo Garius, il comandante della cavalleria ribelle, stava facendo più o meno lo stesso con i suoi, dopo aver distrutto in qualche modo la maggior parte dell'ala destra imperiale. Leo Garius, infatti, si stava dirigendo a dar manforte ad Æthipertus, replicando il movimento di Tammarus verso nord. Non ci volle molto prima che il loro ritorno in scena permettesse ancora una volta di cambiare la situazione, perché se in seguito all'intervento di Albertus e poi a quello di Iohannes il grosso degli scontri si era portato nella zona centrale ed era stato sostenuto soprattutto dai fanti, ora la rinnovata presenza dei cavalieri consentì a ciò che rimaneva delle forze avversarie di tornare a pensare, creando una sorta di sbarramento tra le fazioni, proprio come quando si posizionano i pezzi dello zatrichium in modo da guadagnare tempo e impedire all'avversario di fare troppi danni intanto che si medita la mossa successiva: non che questo movimento fosse stato davvero previsto, ma l'intraprendenza tattica di entrambi i comandanti di cavalleria permise sia ad Auxuchus che ad Æthipertus, di riprendere il controllo dei propri uomini, allontanandoli un poco dalla furia dei combattimenti e facendoli ritirare nella maniera più ordinata possibile, mentre a loro volta Coneradius e Privelius cercavano di non perdere le posizioni conquistate con fatica. Tammarus fu allora nelle condizioni di incalzare il lato destro dell'esercito ribelle, mentre Leo Garius quello sinistro quasi contemporaneamente: qui, ormai senza più protezioni, i ribelli e i legionari potevano solo cercare di scansare le cariche degli animali, i quali, per quanto non corazzati come i catafratti di prima, erano pur sempre pericolosi nella loro foga, e, in più, i mortali fendenti delle affilatissime spade ricurve dei loro cavalieri sembravano sempre piombare dal nulla, senza quasi lasciare il tempo di pensare. Qualcuno degli uomini di Tammarus, poco attento, finì di nuovo nel campo di fango dov'era ancora possibile intravedere le carcasse e i cadaveri di chi vi era caduto dentro prima, condannando in questo modo il proprio animale e forse anche sé stesso ad una morte lenta e terribile. Non c'erano però più gli arcieri, nascosti nel bosco come in precedenza, perché forse erano tutti intervenuti durante la carica dell'Orso. Questi, infine, notato come Leo Garius si trovasse ora dalle parti del ponte di pietra e cercasse di penetrare più a fondo nella solida concentrazione di imperiali creata ora da Auxuchus, non smetteva invece di aggirarsi per il campo, alla ricerca di Iohannes: l'augusto non era vestito come si era aspettato, non indossava l'uniforme da imperator, e per questo, non sempre riusciva a tenerlo sott'occhio e lo perdeva di continuo. Dov'era poi? Maledetto! Quei giochetti non sarebbero bastati! No, lo avrebbe trovato e allora... Beh, sì, lo avrebbe di sicuro...
Ma a quel punto una voce, nel frastuono, lo raggiunse e qualcuno gli arrivò vicino, tanto che quasi, reagendo d'impulso, egli non lo colpì con la spada: «Albertus!», urlava Privelius, affannato e completamente coperto di sangue sul volto. I suoi occhi erano dilatati e pareva reggere le briglie con fatica. «Albertus, cosa intendi fare?!», gridò di nuovo, inseguendo il suo signore, a cui era parso ancora di aver ritrovato l'augusto in quella folla. «Albertus, ascolta! C'è bisogno che ci sganciamo!» fece per la terza volta, schivando di poco il fendente di un altro cavaliere passatogli vicino. «Altrimenti, rischiamo che gli imperiali ci chiudan...» Non era facile stare dietro all'Orso.
«No! Questo no!», ringhiò Albertus, falciando a sua volta un legionario già ferito che aveva avuto la sfortuna di esserselo trovato davanti. «Non finché...», e ne colpì un altro, «...non catturiamo l'imperatore... Ah!!»
La sua furia era fuori controllo e persino Privelius, abituato a vederlo combattere, riconobbe nell'Orso un'insolita agitazione, diversa dal normale, che nulla aveva a che vedere con quella calcolata e temibile di tutte le altre volte: egli sembrava combattere e uccidere senza un motivo, senza un ordine preciso, e muoversi tra i nemici spinto solo dalla sete della propria stessa violenza. E, forse, pure da qualcos'altro. Stava cercando di intercettare l'imperatore, lo sapevano tutti, ma se questo voleva dire perdere intanto la battaglia, allora, beh, non poteva valerne davvero la pena. «Sii ragionevole Albertus, stiamo morendo a centinaia!»
A quel punto, pur avendolo sentito appena, Albertus si girò e lo guardò, trafiggendolo con un'occhiata che pareva aver perso tutto ciò che di umano aveva avuto in passato. Era la prima volta che lo faceva, durante quel massacro, e, in un istante, come risvegliatosi da una trance, egli capì che Privelius aveva ragione. Che stupido! Nella sua furia di arrivare a Iohannes non si era accorto che, per quanto