L'isola del tesoro
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Anteprima del libro
L'isola del tesoro - Emanuele Aldrovandi
sull'isola
Prefazione
di Marco Maccieri
Quando ci imbarcammo per L’isola del tesoro, Emanuele era ancora all’ultimo anno di accademia, mentre la nostra compagnia aveva appena vinto un bando pubblico per la gestione del Teatro Piccolo Orologio; ero dunque alla caccia di quel tipo di progetto che normalmente un teatro non produrrebbe neanche con la pistola puntata alla tempia, quel tipo di progetto che puoi fare solo se hai tu un teatro e la massima libertà nel gestirlo. Il progetto che io e Mario D’Avino avevamo in mente era così folle che non credevamo possibile trovare un autore disposto a gettarsi in un’impresa così strampalata: consisteva infatti nell’adattamento del celebre romanzo di formazione di Stevenson per una compagnia di dodici attori e prevedeva canzoni, combattimenti all’arma bianca e musiche dal vivo.
Ebbene, in un viaggio in automobile di quelli che ogni tanto facevamo per tornare da Milano, provai a sondare la sete di avventura di Emanuele chiedendogli se aveva voglia di diventare il ‘nostromo’ della nostra nave; mi rispose che era addirittura entusiasta all’idea di adattare il romanzo de L’isola del tesoro per il teatro. Sorpresi di aver trovato il giusto complice per questa impresa (era evidentemente folle anche lui), cominciammo a parlare di cosa comprendere nello spettacolo, di come contaminare il materiale di Stevenson con altri spunti tratti da libri, film e spartiti. In pochi giorni raccogliemmo così tanto materiale da poter scrivere almeno una trilogia teatrale sui pirati: c’erano libri sul vodoo, la vera storia di Long John Silver, canti della marina inglese e duelli ad insulti tratti dal videogame The secret of Monkey Island, solo per citarne alcuni. Abbastanza confusi ma pieni di idee lasciammo ad Emanuele qualche mese per scrivere qualche cosa di sensato e dopo un po’ di tempo mi recapitò la prima stesura del copione.
Dunque. Dovete sapere che questa prima versione era una sorta di kolossal, un Ben-Hur dei pirati, un testo che neanche Jerry Bruckheimer sarebbe riuscito a finanziare; c’era per esempio una scena recitata interamente su una scialuppa mentre si avvicinava all’isola del tesoro, un’altra in cui Jim cadeva da una sartia e veniva preso al volo da Long John che, dimentico di avere una gamba di legno, in acrobazia lo accompagnava di nuovo sul ponte! Con grande tatto – se ben ricordo – cercai di spiegare che eravamo una piccola compagnia e che pertanto avremmo dovuto rivedere il testo per trovare soluzioni evocative là dove non potevamo arrivare, per esempio nella costruzione di un galeone vero in una scena e di una spiaggia con palme in quella immediatamente successiva… Così iniziammo un lavoro artigianale che, credo, non dimenticherò mai.
Cominciammo a lavorare insieme in questo modo: io fornivo a Emanuele idee di regia sulle scene e sugli atti, lui riscriveva interi blocchi di testo spostandoli come nulla fosse dalla spiaggia al fortino o dal ponte alla stiva. Dopo un mese la sfida per noi era diventata creare un dramma in tre atti che fossero anche tre luoghi ben definiti e tre grandi arcate narrative. Alla fine vennero alla luce così: I atto - la taverna, II atto - la stiva dell’Hispaniola e III atto - il fortino sull’Isola del tesoro; arrivarono più o meno il giorno prima dell’inizio delle prove con gli attori. E queste prove a loro volta migliorarono ancora il copione, gli interpreti infatti con le loro personalità modellavano i personaggi, li affinavano, creavano una specie di ponte tra il 1800 di Stevenson e il 2011 di Emanuele; il cantautore Marco Sforza inoltre ci regalava giorno dopo giorno musiche sempre piú evocative, e dopo quattro settimane, il giorno del debutto, eravamo tutti soddisfatti di uno spettacolo che era stato un collettivo atto creativo.
In effetti il testo che avete tra le mani, risultato di questo lungo processo, è una drammaturgia piacevole, ironica e affascinante, che cela alcuni temi profondi riguardanti l’uomo e la società in cui vive. Come nei grandi classici del teatro, la trama nasconde in realtà domande esistenziali profonde, e con il pretesto di raccontare la storia di un ragazzino orfano che parte alla ricerca di se, si finisce per interrogarsi sul senso della nostra vita. Parlare di legge e di pirateria è tutt’altro che scontato e noi, come i personaggi che Emanuele ha tratteggiato, ci siamo fatti ammaliare immediatamente dal fascino torbido della libertà ad ogni costo, dalla figura anarchica del pirata; poi, quando questa libertà si convertiva lentamente in solitudine, ci siamo domandati finalmente quali siano le leggi in cui veramente crediamo e che, effettivamente, ci permettono di vivere fianco a fianco in questa società. Sono le leggi dello stato? Sono forse quelle di Dio, quelle del buon senso o quelle che si costruiscono nelle singole