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Il Re dell'aria
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Il Re dell'aria
E-book470 pagine6 ore

Il Re dell'aria

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Info su questo ebook

"Il Re dell'aria" è un romanzo avventuroso fantascientifico di Emilio Salgari, pubblicato nel 1907.
L'avventura comincia in Siberia, dove si sta allestendo la fuga di un prigioniero da un terribile penitenziario. Si tratta di Boris, ex-comandante della corazzata militare russa "Pobieda", un tempo da tutti descritto come un coraggioso e valido ufficiale, ed ora incarcerato vittima di un complotto.
Qui intervengono Fedoro e Rokoff, già protagonisti del "I figli dell'aria", di cui questo romanzo è il seguito. Grazie allo Sparviero, la prodigiosa macchina volante, ed al suo capitano, gli amici andranno in soccorso di Wanda, figlia di Boris e rapita da un malefico barone, sorvolando l'Europa, l'Africa, Atlantide ed infine arrivando nelle Americhe, e scontrandosi nei cieli e nel mare con terribili e nuove armi.
LinguaItaliano
EditoreScrivere
Data di uscita10 lug 2014
ISBN9788866612124
Il Re dell'aria

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    Anteprima del libro

    Il Re dell'aria - Emilio Salgari

    Note

    Una misteriosa spedizione

    – Alto!... Guardacoste a prora!...

    – Ah!... Quegli squali del malanno!... Sempre essi dappertutto, intorno a questa maledetta isola!...

    – Ed è la terza notte che facciamo ritorno allo Sparviero colle pive nel sacco. Hanno cento occhi dunque?

    – E quell’ubriacone di Bedoff che cosa fa?

    – Si sarà addormentato dinanzi alla sua bottiglia di acquavite di segale, mio caro Liwitz.

    – Eppure lo hai pagato, Ursoff?

    – E profumatamente; il capitano dello Sparviero ha la borsa sempre aperta.

    – Silenzio, chiacchieroni! – disse una terza voce. – Credete che non vi siano sentinelle intorno all’isola o che mettano dei sordi a guardia delle baracche? Badate che noi corriamo il pericolo di venire fucilati come selvaggi dell’America.

    Un uomo di forme erculee, con una lunga barba rossastra, si era alzato a poppa della scialuppa, che scivolava dolcemente, senza produrre quasi alcun rumore, sulle fosche acque dello stretto di Tartaria sbattute dal nevischio che cadeva abbondantemente.

    Era un bel tipo di vecchio nordico, sui cinquantacinque o sessant’anni, sul quale però pareva che il tempo non avesse fatto ancora dei gravi guasti.

    Aveva i capelli ancora bellissimi, la fronte spaziosa, coperta bensì di rughe profonde, gli occhi d’un azzurro cupo che nulla avevano perduto del loro splendore. Vedendolo alzarsi e fare un cenno colla destra, i sei marinai che formavano l’equipaggio della scialuppa, sei giovanotti dalle muscolature potenti, avevano interrotta la conversazione.

    Tutti gli sguardi si erano fissati verso levante dove, attraverso le ondate di nevischio, si vedeva delinearsi confusamente una linea oscura che occupava tutto l’orizzonte.

    – Avete veduto, giovanotti? – chiese finalmente il vecchio, facendo un moto di stizza.

    – Sì, signor Wassili – risposero ad una voce i sei rematori.

    – Tu, Liwitz, che hai la vista più acuta d’un albatro, hai notato dove si è nascosto?

    – Dietro quell’isolotto, signor Wassili.

    – O in fondo alla baia?

    – No, signore. Conosco troppo bene l’isola di Sakalin per ingannarmi. Sono stato due anni coi cosacchi a sorvegliare quei poveri galeotti.

    – Quel maledetto guardacoste ci chiuderà ancora il passo – disse il signor Wassili con sorda rabbia. – Eppure questa notte dobbiamo sbarcare e tentare il colpo. Ah! Se il mio amico Ranzoff lo volesse, con una delle sue terribili bombe manderebbe in aria tutte quelle baracche, tutti i cosacchi, tutti gli aguzzini... e ammazzerebbe probabilmente anche il colonnello – aggiunse poi. – E questo non andrebbe bene. Quel cane di barone sarebbe troppo contento di sbarazzarsi d’un così pericoloso avversario, mentre la vendetta deve cominciare ora.

    – Signor Wassili – disse un marinaio. – Devo lanciare innanzi la scialuppa a tutta velocità?

    – No, aspettiamo il segnale.

    – E se quell’imbecille di Bedoff si fosse ubriacato davvero?

    – Allora faremo il colpo senza di lui. Quello che mi secca è quel guardacoste del malanno che si aggira dinanzi a noi. Il capitano, se volesse, potrebbe ben spacciarlo. Scommetterei che lo segue dall’alto.

    – Che cosa facciamo dunque?

    – Aspettiamo ancora un po’. Intanto preparate le armi. Probabilmente dovremo sparare qualche colpo.

    La scialuppa era rimasta immobile, ondeggiando fortemente, poiché le acque dello stretto, non trovando uno sfogo sufficiente fra la costa asiatica e l’isola di Sakalin, erano molto mosse.

    Una profonda oscurità avvolgeva i naviganti, e il vento, che soffiava da levante con qualche violenza, lanciava fitte cortine di nevischio strappato probabilmente dalle vicine montagne dell’isola.

    Passarono alcuni minuti d’attesa angosciosa. Wassili, che aveva la destra appoggiata alla barra del timone, scrutava sempre attentamente il mare e tendeva gli orecchi. Non riusciva però a raccogliere che il brontolìo delle onde frangentisi contro le scogliere dell’isola.

    – Il guardacoste è scomparso – disse finalmente. – Vedi più nulla, Liwitz?

    – No, signor Wassili.

    – Allora possiamo andare avanti. Se quel guardacoste vorrà darci la caccia, lo faremo correre, è vero, macchinista?

    – Il carbone non vale l’aria liquida – rispose Liwitz, con un sorriso.

    – Tela, giovanotto!

    Si udì un leggero sibilo, poi la scialuppa riprese la corsa, lasciandosi dietro una scia spumeggiante che si allungava indefinitamente.

    Delle rapide e fortissime pulsazioni, prodotte da una macchina che non mandava fumo e che non espandeva quell’acuto e sgradevole odore del carbone, facevano fremere sonoramente lo scafo della baleniera, con un rombo metallico.

    A poppa l’elica turbinava velocissima, imprimendo al piccolo galleggiante uno slancio irresistibile.

    I marinai, seduti sui banchi, tacevano, tenendo fra le ginocchia dei fucili a retrocarica. Quella corsa durò dieci minuti, poi il signor Wassili, che teneva sempre la barra del timone, disse brevemente:

    – Basta, Liwitz!

    Il medesimo sibilo di prima si fece udire, poi la scialuppa si fermò quasi di colpo, sollevando dinanzi a sé un’ondata galleggiante.

    – Che cosa c’è di nuovo, signor Wassili? – chiese il macchinista.

    – Il segnale.

    – Dove?

    – Dinanzi a noi.

    – Che quell’animale di Bedoff si sia finalmente svegliato?

    – Così pare.

    Il macchinista guardò, poi volgendosi verso uno dei cinque marinai, chiese:

    – Il verde era segno di pericolo, è vero, Ursoff?

    – Sì – rispose l’interrogato.

    – Allora l’esecuzione del colonnello deve aver luogo domani mattina.

    – Se avrà luogo – disse il signor Wassili. – Lo Sparviero, quantunque noi non lo vediamo, deve essere sempre sopra di noi. In caso disperato farà saltare le muraglie e le prigioni. Io credo però che non vi sarà bisogno di far saltare, insieme alle costruzioni, anche quei poveri diavoli che vi stanno rinchiusi dentro. Per salvarne uno non dobbiamo ammazzarne cento, e poi sono stati avvertiti, è vero, Ursoff?

    – Sì, signor Wassili – rispose il marinaio. – E sono pronti a prestarci man forte: lo hanno giurato.

    – Sei proprio sicuro di loro?

    – Sono tutti condannati politici, quindi uomini che ci tengono alla parola d’onore.

    Il signor Wassili stette un momento silenzioso, poi guardò in alto. Il cielo era coperto da fitte nuvole ed il nevischio cadeva sempre abbondantissimo; tuttavia parve al vecchio di distinguere vagamente, sospeso fra mare ed atmosfera, una massa oscura di forma oblunga, fornita di due immense ali.

    – È lassù – mormorò. – Sorveglia di certo le mosse del guardacoste.

    Guardò un’ultima volta verso l’isola, che non era lontana che poche gomene.

    Fra la profonda oscurità scintillava, ad una certa altezza, un punto verdastro simile ad un fanale di vigìa.

    – Non perdiamo altro tempo, amici – disse, rivolgendosi ai marinai sempre impassibili. – Se perdiamo anche questa notte, domani il colonnello sarà morto. Al guardacoste ci penserà il capitano dello Sparviero. Liwitz, un po’ di pressione.

    La scialuppa riprese quasi subito la sua marcia, ma non troppo velocemente.

    Vi erano delle scogliere che si stendevano dinanzi alla spiaggia e un arenamento, con quel mare così mosso e quell’oscurità e una nave nemica forse non lontana, poteva produrre delle conseguenze disastrose, incalcolabili.

    Saghalien o Sakalin, o meglio Tarrakai, poiché è questo il suo vero nome indigeno, è la più grande isola che si allunga presso le coste della Siberia meridionale e non è altro che una continuazione del vasto arcipelago giapponese, da cui è divisa dallo stretto di La Pèrouse.

    È lunga non meno di mille chilometri, larga circa cento e settanta, con baie profonde e sicure, come quelle d’Extaing e di Langhe, e alte montagne quasi sempre nevose, che portano nomi francesi come Lamanon, Mongez e La Martinière essendo stata esplorata per la prima volta da La Pèrouse, lo sfortunato navigatore francese che più tardi doveva venire divorato, assieme ai suoi equipaggi, dai cannibali di Vanikoro.

    Ricca di miniere e di boscaglie immense, i russi dopo avere distrutto, con ferocia moscovita, le piccole colonie giapponesi, stabilitesi intorno alla baia d’Anina, e aver sistematicamente decimati gl’isolani, i pacifici ainos, ne avevano fatto un luogo di deportazione pei condannati politici, una specie di Nuova Caledonia francese, per togliere a quei disgraziati ogni speranza di ritornare in patria attraverso l’immensità della Siberia.

    La scialuppa, abilmente guidata dal signor Wassili, il quale pareva che avesse molta pratica di quei luoghi, attraversò felicemente una doppia linea di scogliere ed entrò, a piccola velocità, in una profonda baia, le cui rive erano coperte di altissimi abeti che si piegavano sotto il peso della neve che imbiancava i loro rami.

    – Alto! – aveva comandato il vecchio.

    La scialuppa si era fermata dietro ad un alto scoglio che si congiungeva all’isola per mezzo d’uno strettissimo istmo.

    – Dove si è nascosto quel guardacoste del malanno? – brontolò il signor Wassili il quale si era alzato, abbandonando la barra del timone. – Lo vedi tu, Liwitz?

    – No, signore, ma io credo che non sia lontano. Vi sono tante scogliere qui che riesce facile nascondersi.

    – Eppure sono sicuro che quegli uomini si sono accorti di qualche cosa e che ci sorvegliano.

    – Ci diano la caccia, se sono capaci di gareggiare colla nostra macchina. Ah!... Per l’inferno!... Esplorano!...

    Uno sprazzo di luce vivissima, proiettato da qualche lampada elettrica di molta potenza, era scaturito dietro una linea di scoglietti, illuminando la spiaggia e lo specchio d’acqua della baia.

    – Birbanti! – mormorò il vecchio. – Se ci scoprono, ci scaricheranno addosso una grandinata di mitraglia.

    Fortunatamente lo scoglio copriva interamente la scialuppa, sicché quello sprazzo di luce non poteva giungere fino ad essa.

    La lampada, che doveva essere stata collocata molto in alto, proiettò i suoi raggi in tutte le direzioni, perfino verso il mare, poi si spense bruscamente e l’oscurità tornò profondissima.

    – Lesti – disse Wassili. – Liwitz, fila lungo la penisoletta. Nasconderemo la scialuppa fra gli abeti e le betulle.

    La macchina misteriosa riprese le sue battute silenziose, l’elica si mise in moto e la scialuppa in un batter d’occhio attraversò la distanza che la separava dalla spiaggia, arenandosi su un bassofondo, dove non erano che trenta o quaranta centimetri d’acqua.

    Il vecchio Wassili fu il primo a sbarcare, affondando fino alle ginocchia; ma poiché portava degli altissimi stivali di mare, colla tromba di pelle di foca, non poteva bagnarsi.

    – I barili e le armi prima – disse ai marinai.

    I sei uomini afferrarono i loro fucili, si caricarono di cinque recipienti di metallo della capacità di dieci o dodici litri ciascuno e raggiunsero rapidamente la costa.

    – La scialuppa ora – proseguì il vecchio. – Ci è più necessaria d’ogni altra cosa e poi, guai a noi se il guardacoste la scoprisse. Giacché siamo sfuggiti alla sua sorveglianza, guardiamoci dal farci catturare più tardi.

    I marinai ridiscesero la riva, rientrarono nell’acqua e sollevarono facilmente la barca, che pareva fosse costruita con un metallo estremamente leggero, forse d’alluminio.

    Essendovi intorno delle foltissime piante alle cui basi crescevano dei grossi cespugli, fu facile nascondetela in mezzo.

    – Pronti? – chiese Wassili.

    – Pronti – rispose Liwitz per tutti.

    – Vi avverto che vi sarà una sentinella e che noi dovremo spacciarla senza sparare un colpo di fuoco.

    I sei marinai trassero le daghe e le innestarono sui fucili.

    – Un colpo d’arma bianca – disse Wassili. – Probabilmente quel cosacco sarà ubriaco e dormirà sul suo fucile. Avanti miei bravi, faremo un bel tiro al comandante del fortino. Non sarà il colonnello che lascerà la sua pelle su questa maledetta isola – aggiunse poi, con voce minacciosa. – Quel miserabile farà i conti con me ed il barone avrà un braccio di meno.

    Il drappello si cacciò in mezzo alle piante, tuffando i piedi fra un alto strato di neve, e si diresse là dove continuava a brillare, fra la profonda oscurità, il punto verdastro.

    Tutti procedevano nel più profondo silenzio, reggendo in una mano il fucile armato della baionetta e nell’altra i recipienti i quali tramandavano un acuto odore di vodka.

    Attraversata la zona alberata, che aveva una breve estensione, si fermarono nuovamente.

    Dinanzi a loro, alla distanza di forse cinquecento passi, si ergevano parecchie piccole costruzioni radunate intorno ad una specie di torre quadrata, di forme massicce, sulla quale brillava un grosso fanale a luce bianca.

    Il punto verde invece, scintillava verso l’estremità meridionale di quell’attruppamento di catapecchie.

    In quel momento lo sprazzo di luce elettrica lampeggiò nuovamente dietro la scogliera, illuminando dapprima il fortino, poi la bianca pianura coperta di neve, quindi la spiaggia e per ultimo il canale di Tartaria.

    – Hai veduto, Liwitz? – chiese il signor Wassili al macchinista della scialuppa.

    – Sì, un uomo veglia sotto la finestra della casetta occupata dal colonnello. L’ho scorto benissimo.

    – Un cosacco, è vero?

    – Sì, un cosacco, signor Wassili.

    – Immobile?

    – Non l’ho veduto muoversi. Già, con questo freddo si sarà cacciato in corpo una bottiglia di sliwowitz. Quei bruti non montano la guardia se non sono ben pieni.

    Wassili stette un momento silenzioso, poi disse:

    – Un uomo di buona volontà che non abbia paura di dare un buon colpo di baionetta. Quel cosacco deve sparire!

    I sei uomini con una mossa rapida si erano fatti innanzi, come per dire:

    – Scegliete: siamo pronti.

    Il vecchio li passò in rivista, poi puntò la destra verso Ursoff, dicendogli:

    – Tu mi sembri il più atto per compiere una simile impresa; solido e agile come un cavallo trottatore.

    – Grazie, signor Wassili – rispose il marinaio.

    – Hai la rivoltella sotto il cappotto?

    – Sì.

    – Non te ne servire: un allarme rovinerebbe tutto e non salverebbe la vita del colonnello. Ricordati che l’esecuzione è fissata per domani mattina e che tu tieni nelle tue mani la vita di quell’uomo.

    – Non adopererò che la baionetta o il calcio del fucile. Abbiate piena fiducia in me, signor Wassili.

    – Noi d’altronde saremo pronti ad aiutarti.

    – Spero che non ve ne sarà bisogno.

    – Bada di non far scricchiolare la neve. Devi sorprenderlo e finirlo, prima che abbia il tempo di mandare un grido.

    – Gli farò vomitare ad un tempo il suo sangue cosacco e la vodka che ha tracannato – rispose Ursoff, sorridendo. – Così non potrà parlare, né mandare alcun grido.

    – Va’: noi ti seguiamo. Liwitz, prendi il suo barilotto. Per fare di questi colpi bisogna avere le mani libere.

    Ursoff si sbottonò il cappotto per avere maggior libertà nelle mosse, si assicurò se la baionetta era ben fissata, poi si mise in marcia, tenendosi curvo.

    Era un bel giovane, di venticinque o ventott’anni, robusto come un toro, con certe braccia che somigliavano a grossi rami d’albero, un torso da giovane bisonte, certe mani che dovevano valere meglio delle tenaglie.

    Wassili e gli altri cinque marinai si erano gettati in mezzo alla neve, mettendosi a strisciare come serpenti.

    Ursoff procedeva cautamente, badando di non far scricchiolare la neve gelata per non attirare l’attenzione della sentinella che distingueva perfettamente, quantunque il guardacoste avesse spento la sua lampada elettrica.

    Era però tanto sicuro che quella sentinella fosse ubriaca, che non si preoccupava troppo del colpo di baionetta.

    Conosceva troppo bene la sete bestiale, mai spenta, di quei selvaggi figli del Don, egli che aveva passato parecchi anni nei penitenziari di Sakalin.

    Avanzandosi sempre adagio, soffermandosi dietro ai piccoli cespugli coperti di neve che incontrava sulla sua via, poté finalmente giungere a pochi passi dalla sentinella.

    Il cosacco dormiva beatamente, colle spalle appoggiate al muro della catapecchia, e le mani strette intorno al fucile. Si udiva perfettamente il suo sonoro russare.

    – Va’, bestia selvaggia del Don – mormorò Ursoff balzando rapidamente in piedi e scagliandosi innanzi colla baionetta calata.

    La lama scomparve tutta intera nel petto del cosacco, in direzione del cuore. Il povero figlio delle selvagge steppe, che dormiva profondamente, intirizzito dal freddo e assopito da chissà quanti bicchieri di vodka, borbottò appena qualche parola, si lasciò sfuggire il fucile e cadde in mezzo alla neve, come un albero sradicato da una raffica furiosa.

    Wassili ed i cinque marinai, che si trovavano a breve distanza, nascosti dietro ad alcuni magri sterpi, si erano subito avanzati velocemente.

    – Morto? – chiese il vecchio.

    – Non si muove più – rispose Ursoff, ritirando l’arma e affondandola nella neve onde ripulirla. – Come avete veduto, signor Wassili, si trattava di una cosa semplicissima.

    Il vecchio non rispose, ma sospirò, guardando cogli occhi un po’ umidi il povero figlio della steppa, che arrossava già la neve col suo sangue.

    Liwitz intanto si era avvicinato ad una finestra, munita di grosse sbarre di ferro, alta appena due metri dal suolo, dinanzi alla quale, poco prima, vegliava il cosacco.

    Sopra l’ultima spranga stava appeso un lanternino coi vetri verdi. Lo staccò, lo spense in fretta, poi colla canna del fucile batté sulla sbarra tre colpi.

    Un momento dopo si udì una voce sommessa mormorare:

    – Siete qui finalmente? Voi volevate farmi fucilare.

    – Sono tagliate le sbarre? – chiese Ursoff che si era pure accostato alla finestra.

    – Sì.

    – Staccale subito: il cosacco che vigilava è morto; ma può, da un momento all’altro, passare la ronda.

    Si udì un leggero rumore di ferro, poi la voce di prima che diceva:

    – La via è libera: salite adagio. Se vi scoprono vi fucileranno domani mattina col colonnello.

    – Saremo prudenti, Bedoff – disse Ursoff. – Abbiamo portato con noi di che addormentare quei cani di cosacchi. Non ti preoccupare.

    Passarono prima di tutto, attraverso la finestra, i recipienti, poi uno ad uno scavalcarono il davanzale.

    Si trovarono in una specie di corridoio, colle vôlte molto basse, rischiarato a malapena da una lanterna che mandava più fumo che luce, bruciando olio di foca o di tricheco.

    Wassili squadrò attentamente Bedoff, un omaccio barbuto come un mugik, che pareva tagliato a colpi di scure da qualche tronco di pino, poi levandosi di sotto la casacca una rivoltella ed una borsa ben gonfia, gli disse con voce secca:

    – O questa o l’altra: o piombo o rubli.

    – Ti ho fatto già dire da Ursoff, signore, che preferivo l’argento al piombo. Ti ho già dato una prova della mia fedeltà esponendo il fanale verde. E poi un giorno sono stato anch’io un politico, come il colonnello Starinsky e quando ho potuto aiutare qualcuno a fuggire non mi sono mai tirato indietro.

    – A quando l’esecuzione?

    – Allo spuntare del sole, signore.

    – Quanti cosacchi vi sono?

    – Trenta qui dentro e otto al di fuori in sentinella.

    – Sette – corresse Wassili. – Uno l’abbiamo spacciato or ora, per giungere qui inosservati. Gli altri politici sono pronti a prestarci man forte?

    – Tutti, purché tu, signore, non ti dimentichi di loro.

    – Saranno tutti liberi – rispose Wassili. – Quanti sono?

    – Una settantina.

    – Berranno i cosacchi? Abbiamo portato con noi una cinquantina di litri di vodka.

    – Quando un figlio della steppa sente l’odore dell’alcool non resiste più – rispose il carceriere. – Non si fermerebbe nemmeno dinanzi alla mitraglia. M’incarico io di offrire loro una colossale bevuta, che li lascerà morti per quarantotto ore.

    – Ed il colonnello dove si trova?

    – Nella cella dei condannati a morte.

    – Non si potrebbe tentare un colpo di mano?

    – Coi cosacchi che non hanno ancora bevuto? No, signore, e poi il capitano veglia in una stanza attigua e credo che si prepari ad interrogarlo, poiché ha dato già l’ordine di svegliare il condannato.

    – Chi ha formato il Consiglio di Guerra?

    – Il capitano e il maresciallo d’alloggio.

    – Canaglie!... E si uccide un valoroso in questo modo! – esclamò Wassili con voce sorda. – È una delle anime dannate del barone quel capitano Stryloff. Anche noi però abbiamo pronunciata una condanna di morte e l’eseguiremo, è vero, amici?

    – Sì, signor Wassili – risposero ad una voce i sei marinai.

    – Conducici nella stanza dei politici – proseguì il vecchio, rivolgendosi a Bedoff. – Poi ti occuperai subito dei cosacchi. Vi sono sentinelle alla porta?

    – Nessuna, signore. Le pareti sono troppo solide e le inferriate troppo grosse per tentare una fuga, e poi, con questa notte così fredda spazzata dal vento!... Lasciate qui i recipienti e seguitemi.

    – Voi impugnate le rivoltelle – disse Wassili ai suoi uomini. – Non farete fuoco che dietro un mio comando, checché debba succedere.

    Bedoff staccò la fumosa lanterna, aprì con precauzione una porta che era chiusa con un solo catenaccio, e s’avanzò, in punta dei piedi, attraverso un secondo corridoio, più stretto e più basso del primo.

    Wassili ed i suoi marinai lo avevano seguìto, impugnando le rivoltelle e reggendo colle sinistre i fucili ai quali non avevano ancora levate le baionette.

    Attraversarono successivamente altre porte, anche quelle chiuse, poi Bedoff si fermò dinanzi ad una quarta più solida delle altre, e assicurata con una grossa spranga di ferro.

    – Che nessuno parli per ora – sussurrò a quelli che lo seguivano.

    Spinse la porta ed introdusse il signor Wassili in un ampio stanzone, stretto e lunghissimo, rischiarato da due sole lampade ed ingombro di letti formati da una semplice tavola di legno appoggiata su due cavalletti, su ognuna delle quali dormiva un uomo avvolto in una grossolana coperta di lana oscura.

    Bastò un legger sibilo di Bedoff perché tutti i prigionieri, i quali probabilmente fingevano di dormire, si levassero a sedere.

    – Ecco l’uomo che vi darà la libertà – disse loro Bedoff, indicando Wassili. – Avanzati, starosta, ed intenditi con lui. Io vado ad occuparmi dei cosacchi.

    Il penitenziario di Sakalin

    Un vecchio che aveva una lunga barba bianca ma un portamento ancora marziale, e che indossava una lunga zimarra di panno bigio, molto rattoppata, si era lasciato scivolare giù dal suo lettuccio e si era avanzato verso il signor Wassili facendo risuonare lugubremente, sul pavimento di legno, la catena saldata alle sue caviglie.

    Lo starosta delle prigioni russe è una specie di sorvegliante, scelto fra i più vecchi e più rispettabili politici, incaricato di rispondere della tranquillità dei suoi compagni di catena, carica sovente pericolosissima, ma che però ha certe prerogative speciali che non sono da disdegnarsi nei tristi penitenziari siberiani e delle isole.

    – Eccomi, signore – aveva detto il vecchio, dopo di aver fatto il saluto militare.

    – Sai di che cosa si tratta, starosta? – chiese Wassili, mentre i detenuti abbandonavano silenziosamente i loro letti, raggruppandosi intorno ai marinai della scialuppa.

    – Bedoff mi ha informato di tutto – rispose il vecchio. – Si tratta di strappare il colonnello Starinsky alla morte.

    – E della vostra libertà – aggiunse Wassili. – Sono risoluti i tuoi compagni a prestarci man forte?

    – Tutti: odiamo quel bruto di Stryloff, quanto amiamo quel valoroso soldato che è sempre stato per noi come un secondo padre.

    – La sentenza di morte contro il capitano è stata da noi pronunciata e voi tutti sarete vendicati dei tormenti e dei colpi di knut che vi ha inflitti.

    – I tuoi uomini sono però pochi, signore, e noi siamo senz’armi – disse lo starosta con qualche inquietudine.

    – Prima che l’alba sorga, i cosacchi saranno fuori di combattimento – rispose Wassili. – Abbiamo pensato a tutto.

    – Allora noi siamo pronti ad aiutarti, signore, dovessimo affrontare il fuoco del capitano.

    – Non gli lasceremo il tempo di consumare troppe cartucce. È vero che il colonnello è stato condannato a morte per aver schiaffeggiato il capitano Stryloff?

    – Sì, signore. Il capitano aveva fatto frustare a sangue, dai cosacchi, un povero diavolo e stava per finirlo a colpi di sciabola, quando il colonnello intervenne, rovesciandolo al suolo con un poderoso schiaffo. Ha commesso una imprudenza, poiché qui non vi sono autorità: solo il capitano comanda, e, contrariamente agli ordini impartiti dallo czar, condanna a suo piacimento. Chi si cura di noi? – proseguì lo starosta, con voce triste, dopo una breve pausa. – Se manca un numero, nessuno si occupa di cercare in qual modo sia scomparso.

    – Lo so purtroppo – rispose Wassili. – Fortunatamente siamo giunti in tempo e non sarà il colonnello che cadrà sotto il piombo. Sono quindici giorni che aspettiamo la buona occasione per rapirlo. Il buon momento si è presentato e agiremo risolutamente.

    – Siete giunti con qualche nave, signore?

    – Non te lo posso dire, starosta. Questo è un segreto che io non posso svelare, perché non appartiene a me solo. Solo ti posso dire che domani voi tutti sarete liberi e che di questo penitenziario non rimarrà più una pietra sull’altra.

    – Disponi dunque, signore, di potenti mezzi d’offesa?

    – Vedrai, starosta – rispose Wassili. – Vi è però una nave, un guardacoste che potrebbe inquietarmi. Lo conosci tu?

    – Sì, signore: vigila tutto l’anno la costa per impedire le evasioni.

    – Che legno è?

    – Oh!... Una vecchia cannoniera che non è più capace di tenere il mare e che credo non sia montata da più di venticinque uomini.

    – Con pezzi d’artiglieria?

    – Uno solo.

    – Sfuggiremo al suo tiro.

    In quel momento la porta si aprì e ricomparve Bedoff.

    – Signore, – disse, rivolgendosi a Wassili, – fa’ spegnere le lanterne e raccomanda a tutti il più profondo silenzio. I cosacchi hanno abboccato all’amo, non escluso il maresciallo d’alloggio e stanno per giungere.

    – Non fare risparmio di vodka – rispose Wassili. – È necessario che domani mattina siano completamente ubriachi.

    – Non si fermeranno se non quando cadranno l’uno sull’altro, fulminati. Io conosco troppo bene quei bevitori insaziabili.

    Rinchiuse la porta, la sbarrò, poi si diresse velocemente verso il corridoio dove si trovavano i recipienti di vodka.

    Vi era appena giunto, quando sette od otto cosacchi, mezzi assonnati, infagottati nelle loro lunghe e pesanti zimarre, entrarono.

    Il maresciallo d’alloggio, un omaccio che aveva una lunga barba incolta che gli saliva fino quasi agli occhi, era con loro.

    – È vero che vi è da bere, Bedoff? – chiese con una voce rauca da bevitore impenitente.

    – Un fiume di vodka, maresciallo – rispose il carceriere. – I tuoi uomini non si saranno mai trovati in mezzo ad una tale abbondanza, te lo giuro sulla Madonna di Kazan. Guarda!...

    Il maresciallo, vedendo radunati presso la finestra tutti quei recipienti di metallo, vi si era gettato sopra come una bestia assetata, annusandoli uno ad uno.

    – Questa è proprio vodka! – esclamò, balzando in piedi. – Bedoff, dove hai trovato questo tesoro?

    – L’ho comperata da quegl’imbecilli d’ainos, per un miserabile rublo.

    – Tutto questo liquore!

    – Pare che qualche nave sia naufragata sulla costa non so quando. Gli ainos hanno trovato questi recipienti e, non sapendo che cosa contenessero, non avendo trovato il modo di svitarli, me li hanno offerti. Figurati se io non mi sono affrettato a comperarli! Con un solo sguardo mi ero accorto che erano pieni di vodka e questa sera, eludendo la vigilanza delle sentinelle, me li son fatti portare qui, dopo aver forzata l’inferriata.

    – E li offri a noi! – esclamò il maresciallo. – Tu sei un bravo camerata, Bedoff! Che bevuta c’è da far qui!

    – E il capitano?

    – È troppo occupato col condannato per pensare a noi – rispose il maresciallo. – E poi o che beviamo o che dormiamo, che cosa ne deve importare a lui? L’alba sorge tardi e l’esecuzione non avrà luogo prima, quindi possiamo divertirci per ora. Camerati!... Sturiamo e beviamo!

    Altri cosacchi erano entrati, gettando su quei recipienti degli sguardi d’ardente bramosia.

    Se il russo è un formidabile bevitore, il figlio della selvaggia steppa non ha rivali, nemmeno fra gli americani del Nord che godono una terribile fama come consumatori di liquori.

    È capace di bere anche sotto il tiro della mitraglia o coll’acqua fino alla gola. Una colossale bevuta è l’unica sua felicità.

    Il maresciallo prese un recipiente, lo girò e rigirò fra le mani, e, scoperta la vite, la fece rapidamente girare, versando in una caraffa che gli era stata data da Bedoff, un getto di liquido color dell’opale.

    Vodka!... Vera vodka!... – esclamò, dopo d’averla assaggiata. – Camerati, dateci dentro: qui ve n’è per tutti. Badate però di non ubriacarvi. Domani dovete avere il polso fermo per spacciare il colonnello.

    Era come predicare al deserto. I cosacchi si erano gettati sui recipienti, facendo manovrare le viti, mentre altri portavano tazze da thè, e vasi d’ogni forma e dimensione.

    Uno, più ingordo degli altri, aveva portato perfino il pentolone che serviva pel rancio, nel cui fondo vi erano ancora degli avanzi di minestra.

    Oh! Non ci badavano quei selvaggi della steppa!

    Tutti si erano messi a bere furiosamente, ingordamente, senza contare i bicchieri.

    Mai si erano trovati a un’orgia simile, e per di più gratuita, poiché Bedoff aveva solennemente dichiarato che il rublo regalato agli ainos ce l’avrebbe rimesso lui, senza chiedere nessun indennizzo.

    I cosacchi, una quarantina in tutti, poiché la guarnigione del penitenziario era molto limitata, si erano divisi in sei gruppi, mettendo in mezzo a ciascuno un recipiente,

    Bedoff che ci teneva a non far sorgere qualche sospetto, passava dall’uno all’altro, fingendo di vuotare anche lui molte caraffe. Con un abile mossa invece, si gettava il liquore dietro le spalle.

    Il maresciallo d’alloggio sembrava il più accanito nel vuotare quei recipienti che parevano inesauribili.

    Come comandante in seconda, mancando il capitano Stryloff, egli doveva ben dare l’esempio ai suoi soldati, e come lo dava il briccone! Non aveva bisogno che Bedoff lo stimolasse ad assaggiare or l’uno ora l’altro dei recipienti.

    Gli effetti di quella colossale bevuta, poiché si trattava di ben sessanta litri di vodka, non dovevano farsi attendere molto.

    Non era trascorsa mezz’ora che già parecchi cosacchi, pieni da scoppiare, si erano sdraiati al suolo, incapaci di pronunciare nemmeno una parola.

    Il maresciallo d’alloggio era stato uno dei primi a sdraiarsi sul lurido pavimento, completamente ubriaco.

    Gli altri, vedendo il loro capo fuori di combattimento, si credettero in dovere d’imitarlo per l’onore del corpo e, per non perdere tempo a riempire le tazze, accostarono senz’altro, l’uno dopo l’altro, le labbra ai recipienti, bevendo a garganella.

    Bedoff li guardava, sorridendo, dondolandosi sulle gambe che erano tutt’altro che malferme e reggendo fra le mani che volevano apparire tremolanti, una coppa di terracotta, piena fino all’orlo di liquore:

    – Coraggio, camerati – diceva con un riso da ebete. – Pago io! Ad una simile festa non vi troverete probabilmente più mai. Approfittatene, giacché non possiamo permetterci il lusso di bere dello Champagne come il capitano Stryloff.

    Non importa dire se quelle spugne viventi assorbivano il contenuto dei recipienti. Era vodka eccellente che quel bravissimo camerata, con una generosità da bojardo, offriva gratis.

    E il liquore infernale scorreva a garganella entro quei corpacci mai pieni, annebbiando i loro cervelli con rapidità prodigiosa.

    Cadevano, i baldi figli della steppa selvaggia, a due, a tre, come sotto il piombo nemico.

    La morte era però ben più dolce. Nessuno avrebbe osato certo lamentarsi della generosità magnanima di quell’invidiabile carceriere.

    Bedoff, in mezzo al circolo formato da quegli ubriaconi, rideva sempre, tentennando e alzando la sua tazza come per bere, mentre invece nemmeno una goccia passava attraverso alla sua gola.

    – Forza, camerati! – diceva. – Voi non siete della forza del maresciallo. Ha vuotato da solo un recipiente!... Dieci litri di vodka per lo meno! Per la Santissima Madonna di Kazan, io a quest’ora sarei morto, ma non sono un cosacco io, camerati. Date dentro!... Questa sera è festa per tutti!...

    E bevevano, i cosacchi e continuavano a cadere, rovesciandosi l’uno sull’altro, formando come una catasta di corpi umani che russavano tutti insieme con un fragore di tuono.

    Quando anche l’ultimo, che pareva avesse appiccicate le labbra al recipiente, si rovesciò sul dorso, inzuppandosi le vesti di vodka, Bedoff cessò di ridere.

    – Questo somiglia ad un campo di morti – disse, lasciando cadere la tazza. – Ne avranno per un paio di giorni per lo meno. Dove diavolo hanno scovata, quegli uomini, una vodka così splendida? Scommetterei che non la bevono nemmeno gli ammiragli! Sono stupito di aver potuto resistere ad una simile tentazione. Alto là, amico! Gli affari sono affari ed i rubli sono più preziosi della vodka.

    Girò intorno a quella massa di ubriachi, distribuendo qua e là, a casaccio, parecchi calci, per essere ben sicuro che tutti dormissero profondamente, raccolse la lanterna e ritornò nel dormitorio dei forzati.

    Wassili lo attendeva dietro alla

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