La Mia Juve
Di Silvio Mia
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Anteprima del libro
La Mia Juve - Silvio Mia
twitter.com/youcanprintit
Sono nato il sette aprile millenovecentocinquantasette e credo che a questa data fossi già tifoso della Juventus da almeno nove mesi. Dico questo perché se dovessi spiegare il motivo di questa mia fortunata scelta non saprei proprio come cominciare in quanto, da subito, quelle maglie colpirono la mia attenzione e fu un amore a prima vista. Perché quando cominciai a seguire il calcio all’età di circa nove, dieci anni la Juventus non era in una fase contraddistinta da vittorie, ma in un periodo piuttosto anonimo e proprio per questo il mio amore, la mia infatuazione, è stata vera, sicura e duratura senza un’ ombra fin da subito. La mia prima volta allo stadio Comunale fu nel campionato 1967-1968. Si giocava Juventus–Roma, una classica del campionato, partita definita così da Gianni Brera perché si scontravano due squadre che avevano vinto almeno una volta il tricolore. La partita era in programma a novembre e la sera prima a casa del mio padrino juventino da sempre, avevo avuto la notizia che il giorno dopo saremmo andati allo stadio. Ricordo l’emozione e la gioia che provai appresa la notizia e ricordo anche una notte quasi insonne a cui seguì una mattinata in attesa che arrivasse l’ora in cui ci saremmo avviati verso lo stadio. Venne con me anche mio fratello che pur essendo granata non volle perdersi la visione della partita dal vivo. Purtroppo nonostante un dominio costante per le strepitose parate di Ginulfi portiere giallorosso dell’epoca, la Juventus venne sconfitta con un goal in contropiede alla mezzora del secondo tempo segnato da Fabio Capello, che poi scriverà molte pagine di successi con la maglia bianconera di cui fu protagonista da giocatore e da allenatore. All’uscita dallo stadio ricordo la mia arrabbiatura, che la Juventus in seguito seppe farmi dimenticare con le molte vittorie a cui ho assistito, ma quella prima volta nonostante siano passati 46 anni è ancora ben viva in me. La prima soddisfazione che io ricordi fu la vittoria del campionato 1966/67 il tredicesimo scudetto con HH2 in panchina a dirigere la squadra, al secolo Heriberto Herrera un paraguaiano, un sergente di ferro che riuscì a strappare il tricolore all’ultima giornata con un sorpasso storico dovuto alla sconfitta dell’ Inter a Mantova per 1 a 0. La Juventus si impose al Comunale sulla Lazio per 2 a 1, partite giocate entrambe di lunedì in quanto la settimana precedente l’Inter era stata impegnata a Lisbona contro gli scozzesi del Celtic, la squadra cattolica di Glasgow, per la finale dell’allora Coppa dei Campioni d’Europa, finita 2 a 1 per gli scozzesi, partita persa dai neroazzurri dopo che gli stessi erano andati in vantaggio con un calcio di rigore trasformato da Sandro Mazzola. Vedere la gente per strada, sul prato dello stadio sventolare le nostre bandiere bianconere fu per me motivo di soddisfazione e di gioia, in quanto partecipavo per la prima volta ai festeggiamenti per la vittoria della mia squadra del cuore. Quella Juventus era nata un paio d’anni prima quando vinse la Coppa Italia 1963/64, che la portò l’anno successivo a disputare la finale di coppa delle coppe che si giocò a Torino tra la Juventus e i magiari del Ferencvaros, squadra all’epoca, di grandi tradizioni, contro cui la Juventus perse per 1 a 0. Era la Juventus del sergente paraguaiano quella che rinunciò al talento di Omar Sivori un giocatore argentino ineguagliabile, un vero fuoriclasse che per il suo modo di giocare e per la sua classe immensa si potrebbe tranquillamente accostare a Maradona. La cessione del giocatore si rese inevitabile perché l’allenatore faceva praticare un calcio molto dispendioso, precursore seppure in maniera minore del calcio totale olandese e del Milan di Sacchi, un tipo di gioco a cui Sivori non poté e non volle adeguarsi perché lui non era un cultore degli allenamenti duri, in quanto per essere determinante in partita gli bastava il suo bagaglio tecnico ricco di colpi di classe. La rinuncia a un talento come Sivori fu senza dubbio dolorosa perché il fuoriclasse argentino sapeva deliziare le platee con un calcio raffinato fatto di reti, dribbling e sfottò ai malcapitati marcatori, su cui si ergeva il capitano del Torino Giorgio Ferrini indomabile che con il nostro diede vita a marcature energiche in cui nessuno dei due si risparmiava calcioni che sovente portavano i due ad autentici duelli all’ultimo sangue e a conseguenti provvedimenti disciplinari che l’arbitro di turno doveva imporre per calmare le acque. Sivori da sempre genio e sregolatezza, era stato prelevato dal River Plate nel 1958 e l’allora giovanissimo Umberto Agnelli innamoratosi del gioco e dei funambolismi del numero 10 argentino, lo acquistò pagandolo una cifra che solo per dare l’idea di quanto grande fosse, servì per costruire una curva dello stadio della società nella quale giocava il grande Omar il River Plate. Acquistato Sivori,con lui in una sfarzosa campagna acquisti arrivò anche John Charles, un gigante gallese centroavanti che con il fuoriclasse sudamericano si completava e infatti i due segnarono valanghe di goal. Il gigante buono serviva anche a difesa delle marachelle che Sivori faceva in campo perché lo stesso andava a nascondersi dietro il gigante gallese quando qualche avversario lo rincorreva per passare alle vie di fatto. Famoso lo schiaffo che a San Siro Charles rifilò a Sivori per evitargli l’ennesima squalifica. La differenza fra il comportamento dei due si può riassumere in due episodi, il primo riguarda Charles che superato il portiere avversario e vedendo questi rimanere a terra infortunato, si fermò con la porta spalancata e tornò indietro per soccorrerlo, Sivori in un Juventus – Padova con i bianconeri già largamente in vantaggio, al momento di battere un rigore disse al portiere avversario per fargli fare bella figura dove avrebbe tirato il rigore indicandogli la parte e tirandolo poi dalla parte opposta. Scatenò l’ira del portiere che lo rincorse per tutto il campo. Sivori venne ceduto al Napoli dove formò con Altafini una micidiale coppia goal. Si ritirò a 32 anni per un infortunio e per l’ennesima lunga squalifica, ragioni che lo convinsero ad appendere le scarpette al chiodo. L’anno successivo la conquista dello scudetto dopo il sorpasso sull’Inter, come squadra campione la Juventus si presentò ai nastri di partenza della Coppa dei Campioni e riuscì ad arrivare, pur non disponendo di una grande squadra fino alle semifinali, a cui il sorteggio gli abbinò il fortissimo Benfica di Lisbona nelle cui fila giocavano, tra gli altri, la perla nera Eusebio, Torres centroavanti d’area e Coruna il capitano. La Juventus venne eliminata lasciando la finale, dove poi fu sconfitto nettamente dal Manchester United, al Benfica perdendo sia a Lisbona per 2 a 0 che a Torino, di fronte a uno stadio tutto esaurito giunto soprattutto per vedere Eusebio, che decise l’incontro con una bomba su punizione che piegò le mani al nostro portiere Anzolin. Al termine di questa annata l’Italia si laureerà per la sua unica volta campione d’Europa a Roma battendo in due combattute finali la Jugoslavia, dopo che in semifinale a Napoli contro l’Unione Sovietica e con l’incontro finito a reti inviolate, fu la monetina a decretarci la vittoria. Ci sono molte leggende su come andò davvero il sorteggio con la monetina, alcune fonti dicono che questa si infilò diritta tra le pedane poste davanti alle panche che servivano ai giocatori per potersi preparare alla gara e che quindi il sorteggio venne ripetuto, altre dicevano che la vittoria era sicura data la grande fortuna
del capitano l’interista Facchetti e così infatti accadde, infine altre più maliziose che sostenevano visto che l’Italia giocava in casa non poteva non vincere il sorteggio. Al di là di tutto la nostra nazionale ottenne con un sistema che con il calcio nulla c’entrava, la qualificazione alla finale di Roma contro la temibile Jugoslavia che aveva in Dragan Dzajic il suo miglior giocatore che segnò sia in semifinale nell’ 1 a 0 con cui gli jugoslavi avevano battuto l’Inghilterra Campione del Mondo in carica, sia nella prima finale in cui la Jugoslavia si portò in vantaggio, laureandosi capocannoniere della fase finale dell’europeo, prima che una punizione bomba di Domenghini pareggiasse nel finale la partita che, nella ripetizione di due giorni dopo vide gli azzurri trionfare con le reti di Riva e di Anastasi al debutto in Nazionale. Questa vittoria mitigò così la delusione di due anni prima in cui gli azzurri vennero eliminati dalla Corea del Nord, particolare che provocò la immediata chiusura delle frontiere che vennero riaperte solo nel 1980, ai mondiali inglesi vinti dai padroni di casa in una finale terminata 4 a 2 contro la Germania Ovest che era l’altra finalista. In quell’incontro va segnalato che si registrò probabilmente il primo caso di un goal fantasma, argomento che ha provocato in seguito molte discussioni nei casi che si sono susseguiti a quello del mondiale inglese e che finalmente in questi giorni sembra avere una soluzione a seguito dei mondiali brasiliani con l’applicazione della tecnologia che servirà a sgombrare nubi minacciose sulle decisioni arbitrali, tecnologia che è già applicata con successo ad altri sport. Io parlerò della Juventus che ho conosciuto dagli anni sessanta in poi, ma la Juventus dall’anno della sua nascita sulla famosa panchina di corso Re Umberto su cui sedevano degli alunni della scuola Massimo d’Azeglio, ha avuto nel suo DNA la vittoria e questa ancor di più da quando nel 1923 e dunque novant’anni fa, la famiglia Agnelli ne prese le redini. Famosi i cinque scudetti consecutivi dal 1930 al 1935, il numero indefinito di campioni che si sono avvicendati sotto le gloriose maglie i cui colori cambiarono nel 1903, quando da rosa divennero appunto bianconere per un errore di consegna di un ordine che era andato nella città giusta, ma che invece di essere recapitato al Nottingham Forest che ha le maglie rosse, andò al Notts Country la squadra più vecchia d’Inghilterra che aveva appunto le maglie a strisce bianconere. Quando arrivarono le maglie bianconere dapprima si pensò di restituirle, ma poi la mancanza di fondi fece si che i colori della Juventus diventassero bianconeri e proprio il Notts Country è stato ospite otto settembre 2011 all’inaugurazione dello Juventus Stadium giocando contro la Juventus e pareggiando, non senza suscitare qualche clamore, 1 a1 con la prima rete bianconera segnata da un campione del mondo 2006 Luca Toni. La Juventus dopo il quinquennio ebbe una pausa dovuta alla seconda guerra mondiale,ma anche allo strapotere del Grande Torino che dominò gli anni quaranta fino alla tragedia di Superga, che segnò la fine del grande ciclo granata, che avrebbe avuto una continuità di risultati ancora per anni con un ricambio di giocatori naturale. Probabilmente la bacheca dei cugini oggi senza quel lutto spaventoso sarebbe molto più ricca di trofei e di vittorie. Gli anni cinquanta si aprirono nel segno della Juventus che poi lasciò il comando alle milanesi e alla Fiorentina, per poi riprendere a vincere a cavallo degli anni sessanta con il trio Boniperti-Charles-Sivori. Poi di nuovo un po’ di buio negli anni sessanta, con la sola conquista dei trofei già succitati, coppa Italia e campionato e di nuovo alcuni anni in cui vinsero Milan, Fiorentina, Inter e il Cagliari di Gigi Riva, detto rombo di tuono per la potenza del suo sinistro. Questi era un giocatore straordinario dotato di un tiro al fulmicotone e di doti acrobatiche che lo portavano a realizzare goal bellissimi. Si legò per sempre alla Sardegna che lo aveva adottato all’inizio della sua carriera nonostante le grandi squadre offrissero al Cagliari e a lui giocatori e soldi. Particolare fu l’interessamento della Juventus che arrivò a offrire molti giocatori e soldi pur di accaparrarselo, ma tutto fu vano a causa della volontà del giocatore di non lasciare l’isola che l’aveva adottato poco più che ragazzino. Vinse uno scudetto nel 1970 che rimane una perla nella storia degli isolani e credo che la soddisfazione che lui provò sia stata come se ne avesse vinti dieci in una grande squadra. La sfortuna di un incidente subito in Nazionale lo privò della gioia di giocare la Coppa dei Campioni che vedeva il Cagliari partecipare per la sua prima e unica volta con buone possibilità, se non di vincerla di fare comunque un’ottima figura, cosa che non avvenne perché senza il suo uomo migliore la squadra venne subito eliminata Quel campionato vide una sfida fra Cagliari e Juventus culminata nel 2 a 2 di Torino che consegnò di fatto lo scudetto ai sardi. La Juventus era partita malissimo e dopo poche giornate si vide costretta a correre ai ripari e sostituire l’allenatore Carniglia, con quello dei giovani, Ercole Rabitti che proprio al suo esordio a Cagliari riuscì a fermare con un pareggio a tempo scaduto i futuri campioni d’Italia, con un giocatore appena acquistato nel mercato di riparazione che si svolgeva ai primi di novembre per una settimana, Antonello Cuccureddu sardo pure lui. Dotato di un gran tiro fece secco il portiere cagliaritano e permise alla Juventus di conquistare un punto prezioso che la portò nelle giornate successive a trovare l’assetto e la convinzione, vinse otto partite consecutive fino a giocarsi lo scudetto nella supersfida del Comunale di cui sopra ho riportato il risultato. Alla fine la Juventus arrivò terza, stremata dalla lunga rincorsa e superata nel finale di campionato dall’Inter. Vinto il campionato il blocco del Cagliari fu convocato ai mondiali messicani dove gli juventini erano solo due, Furino ed Anastasi. Prima della partenza Anastasi, giocando con un massaggiatore venne colpito a un testicolo e dovette essere operato, rinunciando così alla partenza. La motivazione ufficiale fu di un attacco di appendice. Al posto dello juventino vennero convocati Prati e Boninsegna e fra mille polemiche venne escluso Lodetti scudiero di Rivera. In questi anni due giocatori fecero dividere l’Italia: uno un fuoriclasse, un centrocampista completo, un regista, ma anche un rifinitore e all’occorrenza goleador visto che seppe vincere anche una classifica dei cannonieri Gianni Rivera alessandrino che pare che per il fisico minuto fosse stato scartato dalla Juventus, l’altro figlio d’arte del capitano del Grande Torino, Sandro Mazzola. Alfieri di Milan ed Inter protagonisti di vittorie, polemiche, di derby decisi con una loro giocata, ai Mondiali messicani diedero vita alla famosa staffetta, un tempo ciascuno e tutti scontenti. Questo fu il rimedio del CT Ferruccio Valcareggi che funzionò fino alla partita ricordata da tutti, specialmente per i supplementari, quell’ Italia – Germania 4 a 3 che ci appassionò, io la ricordo bene in quanto ero con mio fratello a casa di un mio amico e suo padre e facemmo un tifo scatenato nonostante fosse notte fonda, decisa dal goal di Rivera. La finale con il Brasile fu giocata con lo stesso metodo, subito in campo Mazzola e poi la staffetta, soltanto che la staffetta non arrivò e dopo aver tenuto bene il campo e pareggiato il goal iniziale di Pelè la perla nera, gli azzurri stremati dalla semifinale lasciarono via libera al Brasile più forte che io abbia visto e più fresco, dato che in semifinale si era sbarazzato senza faticare dell’ Uruguay imponendosi con un 2 a 0. La polemica nacque per i 6 minuti finali fatti giocare a Rivera il Golden Boy che lasciarono rimpianti e amaro in bocca, visto che per loro bocca i brasiliani temevano il capitano del Milan più di tutti. Alla fine degli anni sessanta il Torino venne di nuovo colpito da un lutto. Il suo miglior giocatore, che era stato venduto alla Juventus, ma che per evitare una sommossa popolare rimase al Torino, Gigi Meroni fu investito e ucciso dopo un Torino-Sampdoria finita 4 a 2 per i granata, in corso Re Umberto e ironia della sorte, a investirlo fu un tal Romero collaboratore di Giovanni Agnelli e futuro Presidente del club granata negli anni a venire. Meroni era un giocatore con una personalità sopra le righe. La farfalla granata, questo il suo soprannome, ricordo di averlo visto io bambino, in piazza Solferino con una gallina al guinzaglio, tanto per rendere l’idea del personaggio veramente unico il cui comportamento in quegli anni fece molto scalpore. Ricordo che alla domenica sportiva il conduttore Enzo Tortora, come dirà poi lui anni dopo, saputo dell’incidente e della gravità dello stesso, con difficoltà e con il pensiero al giocatore portò a termine la trasmissione cercando di non pensare all’accaduto giocando con i giocatori del Genoa, squadra per cui faceva il tifo. Fece una scommessa con gli stessi sul taglio della sua cravatta in funzione di un risultato favorevole ai rossoblu, forse per sdrammatizzare la notizia che dava Meroni morente su un letto d’ospedale. Grande conduttore,grande personaggio dotato di molta personalità scomoda in quegli anni in RAI, che pagò con la morte colpe non sue delle quali venne accusato ingiustamente, un ricordo che mi sembra appropriato, verso un uomo anche se il contesto non lo richiedeva. La domenica successiva era in programma il derby della Mole. La gara si giocò in un clima surreale e i granata travolsero i cugini con un roboante 4 a 0 che sono sicuro non fece male neppure ai tifosi juventini, me compreso che, colpito dalla morte del giocatore e lasciata da parte la rivalità, per una volta passai