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Euro 2020. Wembley si inchina all'Italia
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E-book240 pagine3 ore

Euro 2020. Wembley si inchina all'Italia

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Per la seconda volta nella storia, l’Italia è campione d’Europa. It’s coming Rome! Un’avventura lunga un mese, dall’esordio all’Olimpico con la Turchia all’epico trionfo in finale ai rigori con l’Inghilterra: la Nazionale azzurra conquista a Wembley il titolo europeo dopo cinquantatré anni di attesa grazie al magnifico lavoro del ct Roberto Mancini, che ha ricostruito un gruppo demolito dalla mancata qualificazione ai Mondiali in Russia. I retroscena e i particolari di queste Notti magiche, di un Europeo itinerante giocato in piena pandemia, vinto da una squadra che è diventata simbolo di un Paese capace di risollevarsi. È la storia di un successo che Alberto Rimedio ha raccontato per la Rai fino a un centimetro dal traguardo, fino a quando il Covid gli ha negato la finale. È anche la sua storia.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita18 lug 2022
ISBN9788836162215
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    Anteprima del libro

    Euro 2020. Wembley si inchina all'Italia - Alberto Rimedio

    Copertina.jpg

    ALBERTO RIMEDIO

    Euro 2020

    Wembley si inchina all’Italia.

    A Francesca, la mia risorsa.

    A Francesco e Valeria, la mia vita.

    Prefazione di Mario Sconcerti

    Questo libro è tante storie in una, come quasi sempre sono i grandi racconti. È la storia dell’Italia che da ultima diventa prima, è la storia di Mancini e della sua costruzione. È la storia di grandi momenti vissuti insieme in diretta ed è infine la storia di chi quei momenti li ha raccontati a tutto il Paese.

    Alberto Rimedio è un grande giornalista, e questo lo capirete al volo dalle prime pagine. Ma è anche un telecronista fortunato perché ha finito col trovare un modo spettacolare e silenzioso, il suo personalissimo modo di vincere il suo Europeo. Si è ammalato di Covid alla vigilia della finale, è stato a memoria d’uomo il primo telecronista caduto in battaglia prima della battaglia. Credo gli sia costato molto perché ama il suo mestiere e ama il calcio, di cui è stato ottimo interprete da giovanissimo. Ma se essere bravi è un merito acquisito, se essere celebri è un punto di arrivo, la forza di un’assenza il giorno più importante delle tue cronache è una conquista senza tempo. Si è aperto un vuoto improvviso nelle abitudini degli italiani, quelle piccole consuetudini che fanno Nazione. La voce Rai sull’Italia ha sempre rappresentato tutti noi. Ha la grande fortuna di riassumere un popolo. Non c’è Mondiale di Bearzot senza il tre volte campione del mondo di Nando Martellini. Rimedio ha vissuto un’epoca meno solitaria dei suoi predecessori, molto più tecnica e istruita perché nel frattempo è cresciuta la competenza della gente. Fino a vent’anni fa nessuno vedeva calcio, non c’erano partite in televisione. Oggi tutti vedono tutto, quindi sanno sempre di più. Il modo di raccontare una partita è diventato un confronto con chi ti ascolta. Rimedio ha fatto intera la sua parte trovando un linguaggio diverso, un colloquio nuovo con il calcio. Tempi di intervento in cui gli spazi tra la parola e il silenzio finalmente si equilibrano. Sembra normale, ma è quasi impossibile riuscirci. È molto più di una lettura, è un modo colto e quasi ingenuo di prendere lo spettatore e portarlo dentro i dettagli senza farglielo pesare. Un metodo semplice quindi rivoluzionario in epoche di cronache infinite e di maestri a ogni angolo.

    Nessuno si è davvero preoccupato di Rimedio chiuso in albergo a Londra, isolato a piccolo tempo indeterminato, senza mestiere e senza famiglia, con il suo dramma esistenziale di perdersi un’occasione professionale forse unica. Svegliato dalla sua assenza, tutto il Paese si è però improvvisamente accorto che aveva bisogno di lui e gli ha aperto la sua porta di casa. Ha capito che Rimedio era la voce degli italiani, quindi un bisogno di tutti. Questa è stata l’altra rivoluzione, la parte felice della malattia. In un giorno tutta la strada di una grande carriera si è compiuta. Succederanno altre cose, ci saranno altre Nazionali, altre vittorie, ma per quei giorni Rimedio sarà ormai già un giornalista famoso, perfettamente realizzato. Da tutto quello che aveva già fatto, più un’unica cosa che non è riuscito a fare.

    Il racconto dell’Italia di Mancini contiene naturalmente molte altre cose, l’evolversi della squadra è pieno di retroscena e umiltà cronistica. Dagli abbracci con Di Gennaro dopo le vittorie, agli incontri con gli azzurri davanti a un ascensore. Ma la storia più grande è proprio la diversità con cui il virus ha coperto tutto l’evento. Leggerete il resoconto di qualcosa che non c’è mai stato e spero non tonerà. Un continuo gioco di chiaroscuri, di obblighi e tecnologia, mai visti prima. E non immaginabili per chi come noi spettatori ha solo visto il campo e da lontano. Un’avventura sospesa tra vuoto e presenza, sempre spavalda ma quasi impaurita, sospettosa. E per questo più profonda, più vissuta. Non è stata solo la somma di grandi partite di calcio. È stata una pioggia di differenza che l’ha resa unica. Rimedio ha capito tutta la differenza di questa vittoria. C’è nel racconto il ritmo di una campagna militare, un orizzonte di gloria a cui avvicinarsi con un’epica leggera ma costante. Il rapporto stesso con l’intera spedizione Rai sa di coscienza della diversità del lavoro, di quel cameratismo schietto che è sempre figlio della certezza di essere dentro una grande avventura. È un libro che racconta i cavalieri che fecero l’impresa, ma mettendoci dentro i tanti altri eroi che giravano con loro. Come se ognuno di loro, giocatori e scrivani, si preoccupasse di fare bene il proprio tratto di strada perché consapevoli di far parte della strada di tutti, come ci fosse una coscienza comune di quello che sarebbe stato il finale. Questo è il senso del libro: il compiersi felice di tante storie.

    Guardo il tampone come una donna in attesa del risultato di un test di gravidanza. La linea si colora. È viola cazzo. Le 2 di notte sono passate da parecchio e la hall dell’albergo a due passi dallo stadio di Wembley sembra un’infermeria. Provette e bastoncini sparsi sul bancone di fronte alla reception, gli impiegati in divisa che osservano perplessi il gruppo di italiani. Enrico Varriale e Alessandro Antinelli, team leader e bordocampista della squadra nazionale di Rai Sport, sono negativi. Io no. Mi sono beccato il Covid a tre giorni dalla finale del campionato europeo, roba da guinness dei primati. Italia-Inghilterra nel tempio del calcio, il sogno di tutti i telecronisti, avevo contato i giorni perché ero sicuro che saremmo arrivati lì a giocarci il titolo. Sicuro al 100 per cento, una di quelle sensazioni per me infallibili. Certe cose le so, mai riuscito a spiegarmi il perché. E in effetti avevo anche il sospetto che per me sarebbe andata così. Prima dell’Europeo, a metà maggio, la «Gazzetta dello Sport» mi chiama per un’intervista parallela con Fabio Caressa, le due voci della Nazionale, Rai e Sky. «Qual è il tuo incubo professionale?», mi chiedono. Io la risposta ce l’ho, prendere il Covid prima della finale. Ma non lo dico, vorrei evitare di portarmi sfiga da solo. Allora cambio e rispondo che sì, un attacco di tosse al momento del gol decisivo sarebbe un incubo, del resto mi è già capitato di strozzarmi quasi in diretta tv, Italia-Israele del 2017, soccorso dal salvifico intervento a bordocampo di Antinelli, che mi ha sostituito nella telecronaca per almeno trenta secondi, un’eternità televisivamente parlando.

    E invece linea viola significa Covid, domani farò il molecolare, ma non ho dubbi che l’esito del tampone usa e getta sarà confermato. Varriale si prepara a scrivere una email al direttore di Rai Sport Auro Bulbarelli e sa già che la notte sarà lunga e insonne. Ormai sono le 3. Gli azzurri, di sicuro, sono a letto da un bel pezzo.

    1. L’idea

    Raccontare la storia degli azzurri campioni d’Europa. L’idea è intrigante, ma il tempo non è molto perché è un instant book. Se accetto saltano le vacanze e mia moglie borbotterebbe un po’, ma è più comprensiva di quanto voglia sembrare e sono certo che capirebbe. Non ci sono prenotazioni da annullare, perché in programma per me c’era anche l’Olimpiade di Tokyo e quindi un’estate senza pause.

    Così potrei aggiungere l’ultimo capitolo del romanzo, Inghilterra-Italia a Wembley, finale del campionato europeo per Nazioni. L’ho persa all’improvviso quando già mi immaginavo in tribuna stampa con le cuffie piazzate sulle orecchie e il mio amico Antonio Di Gennaro al fianco. Colpa del Covid, che però ha fatto danni ben peggiori e allora non è il caso di lamentarsi.

    L’Italia campione d’Europa non è soltanto un mese di grandi vittorie: è un percorso che nasce da lontano, dalle ceneri dell’apocalisse, dalla mancata qualificazione al Mondiale del 2018. I retroscena che hanno condotto a un punto così basso non sono stati ancora rivelati e meriterebbero di essere conosciuti dal pubblico. Così come andrebbero approfondite le strategie che hanno portato la Federcalcio all’investitura di Roberto Mancini, l’uomo del Rinascimento. Nessuno poteva immaginare che nell’arco di tre anni e mezzo la derelitta Nazionale, incapace di segnare un gol alla Svezia in due partite, fosse in grado di diventare campione d’Europa. Quando il ct ha cominciato il lavoro, l’orizzonte temporale in realtà era più ampio: si puntava al Mondiale in Qatar, per permettere ai giovani talenti di crescere come necessario, magari al fianco dei vecchi gladiatori recuperati alla causa. Il merito principale di Mancini è stato guardare oltre la nebbia che aveva avvolto l’Italia nel novembre del 2017. Con la forza del visionario, lui per primo ha capito che dietro c’era la primavera. Ha chiamato giovani alle prime armi, ha creato un efficace mix con i più esperti, soprattutto è riuscito a convincere il gruppo che un’altra idea di calcio fosse possibile, puntando sulla qualità, sul palleggio, sul controllo della manovra. Quelle caratteristiche che avevano reso gloriosa l’Italia del calcio, permettendole di vincere quattro Mondiali e un Europeo, andavano accantonate. Non significava perderle per sempre, ma metterle da parte e tirarle fuori all’occorrenza, come nella semifinale contro la Spagna, perché la tradizione è un bene prezioso che non va mai abbandonato.

    È nato così un gruppo solido come un blocco di granito, è nata la Nazionale in grado di stupire per l’estetica e per l’efficacia, infilando record su record, una serie mai vista di vittorie e di risultati utili consecutivi. Fino al trionfo di Wembley, all’epica dei rigori, alla felicità sfrenata di ragazzi che, attraverso scaramanzie e aneddoti, sono arrivati alla conquista di un titolo europeo festeggiato dal nostro Paese soltanto una volta, nel lontano 1968. Che soddisfazione battere a casa sua l’Inghilterra, sicura del successo con tutta la retorica del football is coming home. Gli abbracci repressi per un anno e mezzo hanno trovato sfogo nelle piazze. Il biasimo per eccessi che andavano evitati in tempo di pandemia si è fatalmente attenuato di fronte a un’esplosione di gioia. Un pensiero particolare va all’ampia comunità di italiani emigrati nel Regno Unito, ai tanti lavoratori che ogni giorno devono sopportare quel senso di superiorità con cui spesso gli inglesi li guardano. Urlare Campioni d’Europa è stato ancora più emozionante di fronte a tutte le cose brutte che abbiamo sopportato l’11 luglio, i fischi al nostro inno, il tricolore calpestato, le botte degli hooligans ai tifosi azzurri e perfino un principe che ignora il nostro presidente della Repubblica. Poi c’è il futuro, i Mondiali in Qatar e uno sguardo lontano, fino al 2026, perché il presidente della Federcalcio Gabriele Gravina è stato lungimirante quando ha deciso di prolungare il contratto del ct prima ancora dell’Europeo, per respingere ogni tentazione dei top club.

    Una storia così merita davvero di essere raccontata, e in autoisolamento chissà per quanto nella mia stanza dell’hotel con vista Wembley ho un sacco di tempo da impegnare. Aggiungerò finalmente quel capitolo che mi manca, anche se un romanzo così bello meriterebbe un finale a sorpresa, mentre capitan Chiellini che alza la coppa sembra un po’ scontato. Tutti sapevano che gli azzurri avrebbero vinto a Wembley: l’Inghilterra è la Nazionale dei tre leoni, ma noi in campo ne avevamo undici, di leoni.

    2. L’esordio

    A Roma piove. È l’11 giugno e piove. Dovrebbe esserci un sole grande così, perché oggi è la rinascita del nostro calcio. Peccato per le Frecce Tricolori, mi hanno appena comunicato che la pattuglia acrobatica nazionale non parteciperà alla cerimonia inaugurale. Dovevano raccogliere idealmente il pallone calciato verso il cielo da Francesco Totti e da Alessandro Nesta, le bandiere di Roma e Lazio, i campioni del mondo del 2006, testimonial di un evento planetario. Le Frecce non voleranno per il timore che i palloncini utilizzati possano entrare in rotta di collisione con gli aerei, la direzione artistica non ha voluto rimuovere all’ultimo momento una parte della scenografia considerata fortemente simbolica. Allo stadio Olimpico si gioca la prima gara del campionato europeo, Turchia-Italia. Si chiama ancora Euro 2020, anche se siamo nel 2021. L’Uefa non ha voluto cambiare denominazione nonostante il ritardo di un anno, motivi commerciali impongono di mantenerla. Il Covid ha travolto tutto, eppure dalle macerie riemerge questo strano Europeo itinerante, voluto da Michel Platini quando era presidente dell’Uefa e confermato da Aleksander Čeferin. «Mai più», si affretta a dire l’attuale numero uno del calcio continentale, alle prese con problemi logistici e organizzativi enormi in condizioni normali, figuratevi in tempi di pandemia. E allora perché non cambiare, perché non ridurre tutto a una o due sedi per evitare lunghi e pericolosi spostamenti? La risposta dell’Uefa è semplice. Se il torneo fosse stato concentrato in un’unica Nazione e proprio lì fosse esplosa un’ondata di contagi, tutto sarebbe stato irrimediabilmente compromesso. Così almeno ci sono soluzioni alternative. Guarda caso, è esattamente ciò che a breve sarebbe successo nel Regno Unito, senza però contromisure.

    Roma è confermata come sede della cerimonia inaugurale e della prima partita. Il presidente della Federcalcio Gabriele Gravina ha dovuto faticare parecchio per convincere il governo italiano ad accettare il limite minimo imposto dall’Uefa per la capienza negli stadi. Almeno il 25 per cento, dicono da Nyon, altrimenti le città verrebbero sostituite. È quanto accaduto a Dublino, con le partite previste nella Repubblica d’Irlanda trasferite a Londra e a San Pietroburgo. O a Bilbao, sostituita da Siviglia. All’Olimpico, dopo la sofferta autorizzazione, possono entrare 15 mila spettatori: o vaccinati, o con un tampone negativo, oppure ex positivi al Covid guariti da non più di sei mesi.

    Quando salgo le scalette della tribuna stampa il cuore è pieno di speranza. Sento di nuovo il rumore del pubblico, ne avevo dimenticato il senso. Da maggio del 2020, da quando il calcio è ripartito dopo il lockdown, ho fatto decine di telecronache in un vuoto pneumatico. Deprimente. Qualche sprazzo c’è stato, tipo il migliaio di tifosi a inizio stagione o i 4500 spettatori a Reggio Emilia il 19 maggio per Atalanta-Juventus, finale di Coppa Italia. Ora è diverso: è vero, l’Olimpico può contenere quasi 70 mila persone e le 15 mila presenti lasciano fatalmente tanti spazi vuoti, ma a me sembra pieno come a Italia ’90, le notti magiche di quando avevo diciotto anni. E nel settore distinti avevo visto Italia-Usa 1-0, gol di Giannini.

    Una cosa però mi infastidisce proprio. L’Olimpico, come sanno tutti i telecronisti, è uno degli stadi peggiori al mondo per chi fa il nostro lavoro. Postazioni già lontanissime dal campo sono state spostate ancora più in là, dopo c’è soltanto la collina di Monte Mario, per chi è pratico della zona. Scelta insensata, visto che a noi spetta il compito di raccontare la partita a milioni di persone in tv e sarebbe opportuno essere messi nelle condizioni migliori, come capita ad esempio a Wembley o nell’Arena di Monaco. A Roma no, cento metri abbondanti dal campo, che diventano duecento se il pallone staziona sotto la tribuna Tevere, sempre per chi è pratico della zona. Giocatori grandi come quelli del Subbuteo. A rendere ancora più complicata la visione c’è una novità assoluta: un plexiglass alto un metro e mezzo piantato davanti a ogni postazione, pare per contenere le possibilità di contagio, ma a me pare semplicemente una minchiata. Le distanze sono più che sufficienti per evitare che le goccioline respiratorie raggiungano altri colleghi. Pura apparenza, come ogni tanto capita. Per esempio, vi sembra normale che le due squadre entrino in campo separatamente per poi darsi battaglia per novanta e passa minuti? Mah… Dicevamo del plexiglass: siccome è molto fastidioso, con tanto di riflesso, aggiro l’ostacolo con un bel piedistallo in legno, tipo terzo classificato alla corsa campestre delle scuole medie. Me lo ha procurato per l’occasione la produzione Rai, dopo non poche insistenze. Farò la telecronaca in piedi, più in alto del plexiglass. Antonio Di Gennaro, commentatore tecnico di Rai Sport e mio compagno di viaggio, mi guarda con un po’ di compassione.

    La cerimonia inaugurale sfila via piena di colori. È semplice, e certo sarebbero fuori luogo sfarzi hollywoodiani in piena pandemia. Ma è anche carica di emozioni, esaltate dal Nessun dorma di Andrea Bocelli, ultimo atto prima che l’inno del torneo, We are the people, dichiari aperte le ostilità calcistiche.

    All’esordio l’avversaria degli azzurri è la Turchia. Noi italiani siamo bravissimi a vedere sentieri dove in realtà ci sarebbero autostrade, per usare al contrario una frase celebre del grande Vujadin Boškov a proposito del pupillo Roberto Mancini, all’epoca numero 10 della Sampdoria. La Turchia, al ventinovesimo posto della classifica Fifa, ventidue posizioni in meno dell’Italia, è presentata (anche da me) come una squadra forte fisicamente, ben organizzata e con buone individualità. Preoccupa soprattutto l’attaccante Burak Yilmaz, che ha appena vinto la Ligue 1 con il Lille ed è stato addirittura premiato come miglior calciatore del campionato francese, davanti a due fenomeni come Mbappé e Neymar. Un ostacolo da non sottovalutare, soprattutto per il timore che la pressione psicologica legata alla gara d’esordio possa condizionare i nostri.

    In realtà l’Italia è forte, sotto ogni punto di vista. In tre anni, dal maggio del 2018, Roberto Mancini è riuscito a ricostruire una squadra che era implosa dopo la mancata qualificazione ai Mondiali in Russia. Il ct ha deciso di puntare su un’identità precisa, sul talento e sul controllo della manovra, rivoluzionando i canoni del calcio italiano. Da una logica utilitaristica, difesa e contropiede sfruttando le debolezze degli avversari, all’idea del dominio costante. Il compito più difficile è stato convincere i calciatori che uno stil novo fosse possibile, che gli stessi ragazzi umiliati dalla Svezia qualche mese prima fossero in grado di sfidare alla pari chiunque, senza rinunciare mai al proprio gioco. Il primo segnale è stato una soluzione sperimentata una volta da Gigi Di Biagio nel breve interim da ct dopo Ventura e prima di Mancini: costruzione affidata al doppio regista, a Jorginho e a Verratti, circondati dalla tribù dei piedi buoni, Insigne per primo. Il taglio netto con il passato arriva il 10 ottobre 2018, in un’amichevole a Genova contro l’Ucraina. Finisce 1-1, ma si capisce che l’Italia non sarà più la stessa cosa.

    Non a caso, piovono i record. Da telecronista sono spesso chiamato a confrontarmi con i numeri. Non sono un appassionato del genere, ma è mio dovere conoscerne tanti, usandoli però con la massima parsimonia per non infastidire il telespettatore. E allora ecco quelli più significativi prima della sfida alla Turchia: nelle trentadue partite da ct, Mancini ha la media punti più alta nella storia azzurra, ovviamente considerando per tutti i tre punti a vittoria; detiene il primato di undici successi di fila (il precedente era di nove e spettava al mitico Vittorio Pozzo, campione del mondo nel 1934 e nel 1938); ha il record di vittorie in un anno solare, dieci nel 2019.

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