Cippo di confine inscritto tular rasnal da Cortona. Il cippo fu rinvenuto agli inizi del settecen... more Cippo di confine inscritto tular rasnal da Cortona. Il cippo fu rinvenuto agli inizi del settecento in località Il Campaccio, ad est di Cortona, nei terreni di Taddeo Orselli. Nel 1747 fu ereditato dal collezionista Galeotto Ridolfini Corazzi. Nel 1826 il monumento fu ceduto al Museo Rijksmuseum van Oudheden di Leida dove tutt'oggi è conservato. Il cippo in arenaria (alt. 116 cm, largh. 60 cm, spesss. 16 cm) risulta inscritto in alfabeto settentrionale ed è databile al II secolo a.C. Il reperto, che presenta incassi ed una scanalatura verticale sul lato sinistro, era probabilmente collocato in posizione eretta ed inserito in una struttura di sostegno (un edificio od un recinto?). Sulla faccia anteriore è incisa su due righe un'iscrizione etrusca che si ripete due volte con andamento inverso ricostruibile (vi sono lacune) come tular rasnal (A "tular rasnal"; B "[tula]r [rasn]al". L'espressione viene interpretata come confine del popolo, confine pubblico assimilabile ai fines publici dei romani. Il cippo fu rinvenuto vicino (a circa due km) all'area urbana di Cortona, lungo la strada di collegamento tra Cortona e Perugia (Via Trasimena). Gli studiosi lo hanno variamente considerato come confine dell'Etruria (fines Etruriae) tenuto conto della sua prossimità col confine con l'Umbria o della città di Cortona e del suo territorio o di un insediamento della zona. Secondo una diversa interpretazione il cippo costituiva uno dei limiti del territorio cittadino all'interno del quale poteva essere svolta la pratica augurale (auspici pubblici). Sempre da Cortona (Viale Passerini 170, zona est della città a 600 metri circa dalle mura) proviene un altro cippo di confine in pietra serena (conservato presso il museo archeologico locale) con iscrizione su tre righe luθcval canθisa della prima metà del II secolo a.C., forse riferibile ad un terreno di pertinenza di un ordine sacerdotale denominato canθis, Un terzo cippo cortonese, anch'esso inscritto, ritrovato nel 1561 nei pressi della cinta muraria sembrerebbe attestato da un disegno d'archivio. Secondo le informazioni il monumento negli anni cinquanta del novecento era nella disponibilità della famiglia Petrella in località Campaccio. L'iscrizione di quest'ultimo cippo confinario sembrerebbe similare a quella del cippo oggi conservato a Leida. I tre cippi rinvenuti nell'area di Cortona con tutta probabilità facevano parte di un sistema di delimitazione territoriale sul versante ad oriente della città etrusca con finalità istituzionali e religiose. Per completezza si segnala che altri cippi etruschi con inscritta la parola tular, da sola od unitamente ad altre, sono stati ritrovati a Fiesole (n. 6), Montepulciano, Poggio Civitella-Montalcino, Spina, Castiglion del lago, Perugia (n. 2), Bettona. Nei sei cippi fiesolani, in particolare, tular è riferito al lessema "spural" (per esteso od abbreviato), termine quest'ultimo che potrebbe designare la città o la comunità dei cittadini. Nel cippo rinvenuto a Spina invece si legge mi tular = io sono il confine. A Bettona infine uno dei due cippi segnalava il confine della proprietà della famiglia "larna".
Il tumulo della Cuccumella a Vulci. Nella Necropoli Orientale di Vulci si staglia il monumentale ... more Il tumulo della Cuccumella a Vulci. Nella Necropoli Orientale di Vulci si staglia il monumentale tumulo della Cuccumella, databile alla fine del VII secolo a.C., di circa 70 m di diametro, 230 m di circonferenza e 20 m di altezza. Il tumulo fu oggetto di scavi dal 1828 ad opera del Principe di Canino Luciano Bonaparte, successivamente da parte di Alessandro François e poi da Francesco Marcelliani nell'interesse della famiglia Torlonia. Nel 1875-1876 in particolare furono scavate trincee e gallerie alla ricerca di camere funerarie (cd. labirinto). Il monumento è stato comunque oggetto di successivi scavi (1928-1929) e restauri (2003-2006). Il sepolcro è delimitato da un tamburo di lastre di nenfro poste di taglio ed infisse nel banco di tufo, al di sopra del quale altre lastre più piccole sostengono il riporto di terra del tumulo. Il settore meridionale del monumento accoglie due tombe, una accanto all'altra La tomba B, posta ad ovest, è la più antica ed ha una camera formata da due stanze in asse. La camera è preceduta da un ampio vestibolo quadrangolare a cielo aperto (larghezza 7 m circa, lunghezza 6, 50 m). Il piazzaletto probabilmente era munito di doppia banchina addossata alle pareti. La tomba A, ad est, fu costruita pochi anni dopo e presenta una struttura cruciforme. La camera principale di fondo è formata da due stanze in asse. Quest'ultima è preceduta da un vestibolo rettangolare a cielo aperto incassato nel banco roccioso (larghezza 8,65 m circa, lunghezza 6,50 m). La piattaforma nella parte anteriore è dotata di una doppia gradinata (alta circa 2 m) e sulle pareti laterali del vestibolo vi è una banchina aperta in corrispondenza delle due cellette che si aprono ai lati della camera principale. Al vestibolo si accede tramite un lungo dromos. La struttura delle due tombe si caratterizza per la presenza di ampi vestiboli a cielo aperto dotati di banchine. Tali spazi erano funzionali allo svolgimento di cerimonie e giochi funebri in onore dei defunti ai quali assistevano gli spettatori seduti sulle gradinate. Sulla cima della calotta vi erano due torri-cippo (di circa 10 m di altezza) di forma, rispettivamente, quadrata e conica e forse anche una terza struttura circolare (in questo senso Alessandro François), una sorta di altare piattaforma. Al di sopra del tamburo furono trovate alcune piccole camere sepolcrali; forse erano tombe dei servitori e degli schiavi della gens titolare del tumulo (George Dennis). Il monumento funebre era inoltre decorato con una ventina di statue in nenfro raffiguranti animali fantastici e reali: sfingi, leoni alati, grifi e pantere. Non sappiamo dove fossero collocate queste sculture funerarie (sulla sommità del tumulo? davanti alle porte delle tombe? all'interno delle camere?). Resti di sculture furono rinvenuti sia all'interno delle tombe che presso gli ingressi delle stesse. Le statue erano poste a guardia dei defunti ed enfatizzavano l'alto rango della famiglia proprietaria del tumulo. Al tempo stesso simboleggiavano l'ignoto viaggio verso l'aldilà. In prossimità del tamburo del tumulo è stata ritrovata una struttura a pianta rettangolare, bipartita nel senso della larghezza, costituita da blocchi parallelepipedi in nenfro e con tracce di copertura (terrecotte architettoniche). L'edificio poteva forse essere destinato al culto familiare della gens proprietaria del tumulo (Anna Maria Moretti Sgubini). Durante gli scavi del 1928-1929 sulla cornice orientale del tumulo fu rinvenuta un'iscrizione (oggi non più rintracciabile) "mini kaviena zineke" forse riferibile alla famiglia proprietaria del monumento o piuttosto al costruttore del tumulo.
La lega etrusca. Secondo alcuni autori antichi (Tito Livio, Dionigi di Alicarnasso, Servio ed alt... more La lega etrusca. Secondo alcuni autori antichi (Tito Livio, Dionigi di Alicarnasso, Servio ed altri) l'Etruria propria sarebbe stata divisa in dodici città o populi (duodecim populi), la cd dodecapoli o lega etrusca. Nessun documento ci fornisce però l'elenco completo delle dodici città. Si ritiene, ma non vi è piena concordia tra gli studiosi, che ne avrebbero fatto parte i principali centri dell'Etruria meridionale-marittima e di quella interna quali,
Il cinerario chiusino Paolozzi Il cd. Cinerario Paolozzi prende il nome dal collezionista Giovann... more Il cinerario chiusino Paolozzi Il cd. Cinerario Paolozzi prende il nome dal collezionista Giovanni Paolozzi che lo ritrovò nell'aprile 1873 in una tomba a ziro, nel corso di scavi effettuati nella propria proprietà a Dolciano. Del corredo della tomba facevano parte anche vasellame d'impasto e bronzi. Nel 1907 alla morte del Paolozzi (che aveva precedentemente rifiutato di vendere l'ossuario) il monumento, unitamente ad altro materiale archeologico della sua collezione, passò al Museo Archeologico di Chiusi per legato testamentario. Si tratta di un'urna di impasto etrusca realizzata nel territorio di Chiusi nel periodo orientalizzante (intorno al 620 a.C.). Il vaso (alt. cm 89), rastremato verso il basso e con spalla larga e carenata,è stato realizzato al tornio, mentre le parti plastiche sono stare eseguite a mano libera e poi applicate sul vaso stesso. Il cinerario è decorato con figura della defunta eroizzata (o di una divinità) circondata da otto figurine di piccole dimensioni anch'esse femminili di piangenti (quattro sulla spalla e quattro sul coperchio) e quattro grifoni con il becco spalancato sulla spalla e sul collo. La grande statuina collocata al centro dell'ossuario indossa veste quadrettata, porta la mano sinistra al seno, con il pollice alzato, mentre la destra, lacunosa, era protesa. Sul corpo del vaso è dipinta una decorazione floreale. L'urna è stata restaurata nel 2000 ed in tale occasione dal vaso sono state eliminate alcune falsificazioni poste in essere nel tempo e delle parti non pertinenti (piedi e parti delle vesti), aggiunte al cinerario, che appartenevano ad altre urne dello stesso tipo (probabili restauri ottocenteschi). L'ossuario fa parte della tipologia di cinerari chiusini (di cui conosciamo pochi altri esemplari) sormontati da una statuetta stante di terracotta e con figurine applicate riguardanti scenari di rituali funerari. Nella tipologia in argomento rientra anche il cd Cinerario Gualandi che fu rinvenuto in località Romitorio. Anche questo aveva grande figura stante femminile in posizione centrale con veste quadrettata ma con la mano sinistra appoggiata sul mento nonché figure più piccole di piangenti alternate a grifoni con il becco spalancato. L'ossuario nella notte del 28 aprile 1971 fu trafugato dal Museo di Chiusi unitamente ad altri importanti reperti etruschi. La refurtiva negli anni successivi fu in parte recuperata ma del cinerario, di cui vi sono solo poche immagini, non se ne è più avuta notizia.
Le vie cave etrusche Le vie cave (o cavoni o tagliate) etrusche sono percorsi viari scavati nel t... more Le vie cave etrusche Le vie cave (o cavoni o tagliate) etrusche sono percorsi viari scavati nel tufo a cielo aperto, tra alte pareti, che tortuosamente collegano il fondovalle con i rilievi collinari della regione tosco-laziale. Le tagliate si trovano nei territori dell'Etruria meridionale interna rupestre e nell'area falisca nell'ambito delle odierne province di Viterbo, Roma e Grosseto. Cavoni etruschi si possono ammirare ad esempio a Pitigliano,
Larthia Seianti aritocratica chiusina del II secolo a.C. Il sarcofago di Larthia Seianti fu ritro... more Larthia Seianti aritocratica chiusina del II secolo a.C. Il sarcofago di Larthia Seianti fu ritrovato nel 1877 in una delle camere laterali della tomba della gens Larcna presso la Martinella, a due km a nord di Chiusi. La tomba fu rinvenuta integra e conteneva nove deposizioni con i relativi corredi. Si tratta di un monumentale sarcofago in terracotta databile al 150-130 a.C. di produzione chiusina (alt. cm 110; lunghezza cm 164; profondità cm 54) con ricca policromia. Per esigenze di lavorazione fu realizzato in cinque parti poi assemblate tra di loro. La defunta, appartenente all'aristocrazia chiusina, è rappresentata come una giovane matrona semidistesa sulla kline ed appoggiata su due cuscini: con la mano destra scosta il velo dal volto, mentre con la sinistra regge uno specchio circolare. La cassa è decorata con rosette e patere ombelicate alternate a triglifi. L'aristocratica è riccamente abbigliata: veste mantello e chitone a maniche corte con cintura annodata decorata con borchie, ha anelli sulle dita della mano sinistra, due armille sul braccio destro, collana a girocollo con pendente a bulla a testa di medusa, orecchini a disco e diadema (o corona). sulla testa. Il nome della nobil donna " larqia: seianti: s… i: sve… " è inciso sulla mensola superiore, ma successivamente è stato coperto con uno strato di stucco che riporta un'iscrizione in rosso appena leggibile " ... ti a: lar ... lisa: niasa ", probabilmente relativa al riuso del sarcofago da parte di altro membro della famiglia. Difficile dire quale potesse essere il rapporto tra le due donne. Del suo prestigioso corredo facevano parte pinzette e nettaorecchie d'argento, doppio pettine, contenitori per profumi in alabastro ed in bronzo, pedine da gioco, patere, spilloni e vasellame da mensa miniaturizzato. All'interno del sarcofago vi era anche una moneta romana piuttosto consunta (asse con testa di Giano al dritto e prua di nave al rovescio) forse per il pagamento del traghettatore agli inferi. La donna era probabilmente la seconda moglie del proprietario della tomba Laris Larcna Cencual, unico uomo deposto al suo interno. Le ceneri della prima moglie, Fasi Velui, erano conservate all'interno di un'urna in pietra. Nel 1886 fu rinvenuto un sarcofago chiusino in terracotta similare a quello di Larthia Seianti all'interno di una tomba a camera nei pressi di Poggio Cantarello, quattro km a Ovest di Chiusi. Il sarcofago di Seianti Hanunia Tlesnasa (oggi al British Museum), che si distingue tra l'altro per l'età più matura della donna e per lo specchio aperto, sembrerebbe provenire dalla stessa bottega di quello di Larthia Seianti e le due donne con tutta probabilità erano parenti (sorelle?). Il sarcofago di Larthia è conservato al Museo Archeologico Nazionale di Firenze. Sul sarcofago di Larthia Seianti cfr., tra l'altro, il Blog del Museo Archeologico Nazionale di Firenze "L'artetisomiglia: alla scoperta dei volti del MAF-2-Larthia Seianti "; Sybille Haynes, Storia Culturale degli Etruschi, Johan & Levi editore, 2020, pagg. 420 e ss. Di seguito le immagini del sarcofago di Larthia Seianti e del relativo corredo e del sarcofago di Hanunia Seianti.
Cippo etrusco a testa di guerriero da Orvieto. Presso il Museo Claudio Faina di Orvieto è esposto... more Cippo etrusco a testa di guerriero da Orvieto. Presso il Museo Claudio Faina di Orvieto è esposto un cippo a testa elmata (si tratta di un unicum o quasi) proveniente da una tomba della necropoli orvietana di Crocifisso del Tufo. La Tomba del Guerriero (contrassegnata con K 279 e che prende appunto il nome dal cippo) fu scoperta nel novembre 1880 da Riccardo Mancini. Il reperto funerario era posto sulla copertura del sepolcro a doppia camera, costruita in blocchi di tufo, con ricco corredo (vasi attici a figure nere e rosse, buccheri ed oreficerie). La volta era crollata e tra i cippi che vi erano sopra (ben 13), fu appunto rinvenuto (nel 1881) anche il segnacolo in oggetto raffigurante il defunto. La qualità del corredo e l'architettura del sepoltura (una delle poche a due camere della necropoli di Crocifisso del Tufo) ne attestano l'appartenenza ad una famiglia importante. Il cippo funerario, in tracheite (cm 75 x cm 56), riproduce seppur grossolanamente i lineamenti di un uomo con zigomi e mento pronunciati, occhi grandi e bocca piccola. Si tratta di un guerriero che calza un elmo ionico etrusco con alto cimiero e con paragnatidi. Sulla paragnatide sinistra dell'elmo vi è incisa un'iscrizione onomastica: Larth Cupures Aranthia = Larth Cupures, figlio di Aranth. Secondo un'interpretazione (Adriano Maggiani e Giuseppe Maria Della Fina) la famiglia del defunto, che era di origine sabina, si sarebbe trasferita a Veio (le caratteristiche dell'iscrizione sul cippo rinviano appunto a Veio) e poi Larth si sarebbe spostato a Velzna. Il defunto probabilmente fu un condottiero od un mercenario. Il monumento sarebbe databile al 530-520 a.C. Un cippo a testa elmata analogo-forse proveniente anch'esso da Orvieto-è conservato al Museo Archeologico Nazionale di Firenze. Il volto presenta occhi a mandorla con ampie arcate sopracciliari, labbra sottili e sorriso arcuato. Quest'ultimo cippo (cm 43 x cm 34) sarebbe databile al 520-500 a.C. Sul cippo a forma di testa di guerriero conservato al museo Faina vedi le immagini e le informazioni contenute sui siti Facebook del Museo etrusco "Claudio Faina" e della Necropoli etrusca del Crocifisso del tufo Orvieto; Giuseppe M. Della Fina, Cippo a testa di guerriero di anonimo del VI secolo a.C.; Adriano Maggiani, Un immigrato dall'Etruria meridionale in Storia di Orvieto I-Antichità, Quattroemme, 2003, pagg. 377-378; sui due cippi a testa elmata cfr. Da Orvieto a Bolsena: un percorso tra Etruschi e Romani, Pacini Editore, 2013, pag. 202 e 203 schede n. 3 e 4; Di seguito immagini della tomba del Guerriero, del cippo esposto presso il Museo Claudio Faina di Orvieto e del cippo conservato presso il Museo Archeologico Nazionale di Firenze.
Firenze etrusca A Firenze nel I secolo a.C. come noto si sviluppò la colonia romana di Florentia.... more Firenze etrusca A Firenze nel I secolo a.C. come noto si sviluppò la colonia romana di Florentia. La ricerca di tracce preromane si presenta alquanto complessa in quanto la continuità abitativa (dai romani, al medioevo ai tempi moderni) ha in gran parte cancellato il passato. Il territorio della città di Firenze ha comunque restituito nel tempo reperti riferibili agli Etruschi. Nell'ottocento, nella zona tra Via Pellicceria, Via Porta Rossa, Via del Campidoglio e Via degli Strozzi, a 7 metri sotto il livello stradale, fu rinvenuta una necropoli villanoviana di quasi quattromila metri quadrati. Furono trovate tombe a pozzetto con cinerari biconici coperti da ciotole rovesciate. Le urne contenevano le ceneri dei defunti ed erano collocate in un dolio (ne furono trovati almeno una ventina, ma molti andarono distrutti) insieme al corredo. Reperti forse attribuibili ad una tomba villanoviana femminile-una fibula di bronzo ed un rocchetto d'impasto-provengono da lavori effettuati nel 1978 tra Via Laura e Borgo Pinti. Nel 1891-1892 furono rinvenuti un cippo scolpito e due bronzetti votivi. Il cippo di pietra serena decorato a rilievo, databile fine VI inizi V secolo a.C., era stato reimpiegato nella facciata della Chiesa di San Tommaso e con tutta probabilità era pertinente ad una tomba. Sulla faccia principale vi è rappresentata una figura maschile (sacerdote?) che impugna un lituo, sulla faccia opposta un grifo, sulle altre due facce vi sono leoni rampanti. Il primo bronzetto, recuperato nel corso di lavori nel centro città, rappresenta un guerriero o Laran/Marte. L'altro, che riproduce un giovane nudo, proviene dalle fondazioni della chiesa di San Tommaso. Nel 900 a seguito di scavi archeologici in piazza della Signoria sono emersi frammenti ceramici corinzi databili alla seconda metà dell'VIII secolo a.C. Un frammento di cippo chiusino con scena sepolcrale scolpita, conservato al Museo dell'Opera del Duomo, fu rinvenuto in una cantina in Piazza della Canonica nel 1904. Nel 1926 presso Piazza della Repubblica furono trovati frammenti di un foculo in bucchero pesante chiusino (della seconda metà del VI secolo a.C.). Nel 1980 tra Via Cavour e Via de Gori è emerso un frammento di piede di calice in bucchero di produzione locale della seconda metà del VII secolo a.C. Nel 1983 in Via dei Bruni fu scoperto un cippo funerario simile a quello rinvenuto nella chiesa di San Tommaso. Sulle facce sono raffigurati rispettivamente una figura maschile munita di lancia, un grifo e due leoni rampanti. Tra il 2003 ed il 2004 durante lavori di ristrutturazione di un edificio ottocentesco, in un ambiente sotterraneo fra la Badia Fiorentina, Via del Proconsolo e Via Dante Alighieri è stata scoperta una fossa circolare contornata da buche di pali, con probabile funzione di sostegno ad una struttura di legno di tipo palafitticolo. Dalla terra di riempimento sono emersi frammenti di ciotole d'impasto e una coppa di bucchero con iscritto il nome "Upu". Più in profondità c'erano anche altre due coppe in bucchero inscritte (una delle quali reca l'iscrizione "VL") e ollette d'impasto. I materiali sono databili al VII-VI secolo a.C. Scavi effettuati tra il 2010 ed il 2011 (Via Nazionale) hanno restituito alcune fornaci per la produzione di vasi in ceramica d'impasto, tegole, attrezzi per uso domestico riferibili al VI-V secolo a.C. Da Firenze provengono anche due bronzetti uno maschile (da Piazza Signoria) ed uno femminile (dallo Sdrucciolo di Orsanmichele), molto simili nella fattura, databili fine VII inizi VI secolo a.C., forse riconducibili ad un santuario. Recentemente è stato ipotizzato che la collina sulla quale sorge il Cimitero degli Inglesi sarebbe stata in origine un grandioso tumulo etrusco (in questo senso Luigi Donati). Presso il Giardino Chianesi ed il Giardino dei Conti della Gherardesca (e quindi nella stessa area del ridetto Cimitero) ed in prossimità della strada di Borgo Pinti, che è parte di un tracciato di origine etrusca, vi sono altre collinette, seppur meno imponenti, simili a tumuli. Proprio in Borgo Pinti, come ricordato, furono rinvenuti una fibula a sanguisuga in bronzo ed un rocchetto d'impasto riferibili ad una tomba databile all'VIII-VII secolo a.C. La montagnola del Cimitero già nel XVII secolo fu oggetto di interventi che ne comportarono la modifica anche nelle dimensioni. Il quadro complessivo dei ritrovamenti (non tantissimi, ma almeno in parte significativi) consente di ipotizzare (non una semplice frequentazione da parte di Etruschi ma) l'esistenza di un centro
Servio Tullio /Macstarna il sesto re di Roma. Secondo la tradizione romana Servio Tullio-il sesto... more Servio Tullio /Macstarna il sesto re di Roma. Secondo la tradizione romana Servio Tullio-il sesto re di Roma-era figlio di una principessa latina di nome Ocrisia (Tito Livio Ab urbe condita I, 39 ed altri autori). A seguito della conquista della città di Corniculum da parte di Tarquinio Prisco il re latino Tullio fu ucciso e la moglie Ocrisia venne condotta schiava a Roma e donata alla regina Tanaquilla. Alla principessa latina fu affidata la custodia del sacro focolare della reggia. Ocrisia dette alla luce un bambino che sarebbe stato generato da un fallo di fuoco, interpretato da Tanaquilla come l'emanazione del dio Vulcano o di un Genio/Lare della famiglia di Tarquinio. Secondo un'altra versione la regina quando fu fatta prigioniera era già incinta del sovrano di Corniculum. Il bambino fu chiamato Servio a causa della condizione della madre e Tullio in ricordo del padre deceduto. Il giovane ritenuto figlio di una divinità (a conferma di ciò in un'occasione furono viste splendere le fiamme attorno al capo del fanciullo mentre dormiva) venne allevato ed istruito a corte come un re e a seguito di varie vicende e grazie all'abile regia di Tanaquilla alla morte di Tarquinio Prisco finì per succedere al trono di Roma. Ad avviso di Andrea Carandini il padre di Servio sarebbe stato in realtà Tarquinio Prisco stesso che volendosi garantire un successore di sangue si propose di aggirare la regola che impediva che il figlio sedesse sul trono del padre alimentando unitamente a Tanaquilla la credenza della nascita divina di Servio. Giovanni Schioppo ipotizza invece che Servio sarebbe stato verosimilmente figlio di Tanaquilla ma non di Tarquinio Prisco; la regina avrebbe ordito una congiura ai danni di Tarquinio per poi favorire l'ascesa al trono del figlio. A Lione nel 1528 furono ritrovati alcuni frammenti di una tavola bronzea, cd. Tabula Claudiana o Lugdunensis, che recava inciso il testo di un discorso pronunciato dall'imperatore Claudio nel 48 d.C.. L'imperatore, che aveva sposato una nobile etrusca, Plauzia Urgulanilla, ebbe fama di etruscologo e scrisse un'opera di 20 libri sugli Etruschi dal titolo "Tyrrhenika" (opera che purtroppo non è giunta fino a noi). Nel discorso Claudio, nell'esprimersi a favore della partecipazione al Senato dei nobili della Gallia Comata, si richiama ad alcuni personaggi di origine peregrina (stranieri) che nel tempo avevano ricoperto cariche importanti a Roma, tra i quali appunto anche Servio Tullio. L'imperatore, pur dando atto che secondo le fonti romane Servio sarebbe nato dalla schiava Ocrisia, si dice convinto da fonti etrusche (gli "auctores Tusci" che probabilmente aveva avuto modo di consultare) secondo le quali il futuro re di Roma fu invece l'amico più fedele ("sodalis fidelissimus") di Celio Vibenna e compagno di tutte le sue avventure, abbandonò l'Etruria con i resti dell'esercito di Celio e occupò il Monte che chiamò Celio dal suo comandante, mutò il nome etrusco Mastarna in Servio Tullio e divenne infine re di Roma. Il discorso dell'imperatore è riportato in forma letteraria anche da Tacito (Annali, XI, 25) ma senza riferimento a Servio. Il nome Mastarna si ritrova inoltre in uno degli affreschi della Tomba François di Vulci (scoperta nel 1857) della famiglia Saties, databile alla seconda metà del IV secolo a.C. La pittura (realizzata sulla parte destra del tablinum ed in parte sull'atrio) rappresenta uno scontro tra due fazioni (con didascalie che indicano i nomi dei protagonisti) con personaggi di origini e patrie diverse ed in particolare riproduce la liberazione di Celio Vibenna ("Caile Vipinas") da parte di Macstrna, che con una spada recide i lacci che tengono prigioniero l'amico e compagno di avventure. Nella scena seguono altre figure: Larth Ulhtes che uccide Laris Papathnas di Volsinii, Rasce che mette a morte Pesna Aresmna di Sovana, Aule Vipienas che toglie la vita a Venthical (...) plsachs di Falerii ed infine Marce Camitlnas che minaccia Cnaeve Tarchunies di Roma ("Rumach"). Le fonti latine fanno riferimento ai fratelli Vibenna ed in particolare Tacito (Annales IV, 65, 1-2) precisa che Celio su richiesta di Tarquinio Prisco avrebbe prestato soccorso al re romano, prendendo possesso di un colle dell'Urbe. Un frammento di Festo (voce Tuscum Vicum, 486, 12-19) cita i due fratelli Vibenna vulc(ientes) e Max [...] che, secondo le indicazioni della Tabula claudiana, potrebbe essere reso Max(tarna). Dionigi di Alicarnasso (IV, 3, 2) riferisce che Servio, prima di divenire re, avrebbe ricoperto la carica di magister equitum di Tarquinio Prisco. La storicità dei fratelli Vibenna nonché la loro successiva mitizzazione sarebbero dimostrate dal ritrovamento di alcuni reperti: un piede di calice in bucchero della prima metà del VI scolo a.C. inscritto "Mi ha donato Avile Vipiennas" ritrovato nel santuario di Portonaccio a Veio; kilyx a figure rosse del V secolo a.C. con iscrizione Avles Vipinas attualmente esposta al Musée Rodin a
Necropoli vulcenti etrusche, rito incineratorio ed antropomorfizzazione. Il cinerario tipico del ... more Necropoli vulcenti etrusche, rito incineratorio ed antropomorfizzazione. Il cinerario tipico del periodo villanoviano è costituito dall'urna biconica, realizzata in impasto ma talvolta anche in bronzo, nella quale venivano deposte le ceneri del/della defunto/defunta. La copertura dell'ossuario di solito consisteva in una ciotola rovesciata e più raramente era conformata ad elmo. L'ossuario biconico, sotto il profilo ideologico, viene principalmente interpretato come rappresentazione del defunto (urna come corpo del defunto), quasi a voler restituire la fisicità del corpo dissolto nel rogo funebre (antropomorfizzazione). Indicatori della perduta materialità del defunto sono stati individuati, oltre che nella forma dell'ossuario, nella copertura ad elmo, nella vestizione dell'urna e talvolta dalla collocazione distesa della stessa. Dalle necropoli villanoviane ed orientalizzanti di Vulci con riferimento al rito incineratorio sono emersi oggetti e manifestazioni particolari del simbolismo antropomorfico. Alcune urne biconiche (databili dalla fine dell'VIII agli inizi del VII secolo a.C.) invece di essere chiuse con scodelle rovesciate avevano originali coperchi a forma di palla, che riproducono schematicamente la testa del defunto. Tale tipo di chiusura, che presenta collo troncoconico sormontato da una sfera cava internamente, veniva realizzata in impasto ma anche in ceramica etrusco geometrica. Due ossuari con coperchio a sfera in ceramica etrusco geometrica provengono dalla tomba 21 di Poggio Mengarelli. Un'altra urna biconica della specie in impasto fa parte della collezione Cambi, già collezione Paolozzi. Sul collo di un cinerario vulcente, privo di corredo, sono state realizzate due grosse bugne accoppiate interpretate come la raffigurazione di un seno femminile (Delpino 1977). Nella tomba dei Bronzetti Sardi è stata rinvenuta un'urna biconica femminile chiusa con scodella rovesciata e con collana di filo avvolto a spirale ed anellini di bronzo posta attorno al collo del cinerario. Reperti metallici non interessati dall'azione del fuoco rinvenuti nella deposizione fanno anche ritenere la vestizione rituale del biconico. Nella necropoli orientalizzante dell'Osteria di Vulci all'interno di tombe prestigiose sono stati ritrovati resti di statue composte di vari materiali (legno, osso, tessuto, avorio, bronzo etc ...) rappresentanti figure umane a tutto tondo, interpretate come simulacri del defunto. Nella tomba delle Mani d'Argento (metà del VII secolo a.C.) tra il corredo sono stati rinvenuti un basso collo in osso con fori passanti per il fissaggio ad altra parte della statua, delle mani in lamina d'argento ed accessori con lamine d'oro e d'argento che farebbero pensare ad un vestito e/o ad un mantello. Nella Tomba della Sfinge (metà del VI secolo a.C.), all'interno di una fossa posta nell'atrio, sono venuti alla luce i resti di un busto in lamina di bronzo con aperture per l'inserimento delle braccia ed una testa sferica sempre in lamina bronzea. La Tomba del Carro di Bronzo (dell'inizio del VII secolo a.C.) restituì elementi di due statue polimateriche (tra i quali una testa sferica montata su un cilindro e due coppie di mani in bronzo). Poiché i resti delle statue furono rinvenuti accanto ad un carro da parata di ridotte dimensioni è stato ipotizzato che una delle due statue fosse collocata sopra il carro. E' probabile che le riproduzioni del defunto in argomento venissero utilizzate anche durante la cerimonia funebre per poi trovare la loro collocazione definitiva all'interno del sepolcro. Le statue polimateriche in questione attinenti l'ambito funerario richiamano la produzione greca degli sphyrelata, statue di lamina di metallo lavorate a martello rappresentative di divinità e destinate alla sfera cultuale e sacrale. Sull'incinerazione e l'antropomorfizzazione nel territorio di Vulci cfr., tra gli altri, Principi immortali Fasti dell'aristocrazia etrusca a Vulci, Gangemi Editore, 2014, pagg. 17 e ss.; Vulci Produrre per gli uomini, produrre per gli dei, Fondazione Luigi Rovati, Metropoli etrusche, 2024, pagg. 50 e ss. Di seguito le immagini di cinerari vulcenti con coperchio a palla, delle mani provenienti dalla Tomba delle Mani d'Argento, delle mani ritrovate nella Tomba del Carro e della ricostruzione della Tomba del Carro effettuata nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.
La lastra con scena di processione di Murlo (SI). Le fosse di scarico del Palazzo arcaico di Murl... more La lastra con scena di processione di Murlo (SI). Le fosse di scarico del Palazzo arcaico di Murlo (costruito intorno al 590 a.C.) hanno restituito, tra l'altro, un rilevante numero di lastre architettoniche a stampo di quattro tipi diversi che rappresentano temi tipicamente aristocratici quali la processione, il banchetto, l'assemblea e la corsa di cavalli. L'edificio, che aveva 18 stanze e si sviluppava intorno ad un'ampia corte, era a forma di quadrilatero e su tre lati aveva portici coperti. Le lastre architettoniche probabilmente erano poste ad ornamento del porticato a fregio continuo. La lastra che presenta maggiori difficoltà interpretative e quella che riproduce la processione che si svolge da destra verso sinistra e che presenta un piccolo carro trainato da cavalli con due personaggi seduti ed altre figure che precedono e seguono il carro. I due uomini che aprono il corteo sono volti a sinistra e vestono una lunga tunica: con la mano sinistra reggono le redini di due cavalli ai quali è attaccato il carro, con l'altra mano impugnano rispettivamente un'ascia e un bastone o uno spiedo. Sul carro munito di alte ruote vi è un trono sul quale sono seduti fianco a fianco due protagonisti: il primo (verso lo spettatore) sembra una donna ammantata; il sesso dell'altro, che regge un grande ombrello, è di difficile identificazione. Chiudono la processione due ancelle che recano nelle mani flabelli e situle e portano in testa rispettivamente un contenitore munito di coperchio ed uno sgabello rovesciato o un tavolino. Secondo una prima interpretazione potrebbe trattarsi di un corteo nuziale divino (ma non sembrerebbero esserci attributi divini) o piuttosto umano e riferito ad una coppia di aristocratici. Nella figura ammantata femminile con il solo viso scoperto sarebbe da individuare la sposa. Nel caso in cui la figura assisa sul carro che sostiene il parasole fosse un uomo potrebbe essere il marito, laddove invece si fosse al cospetto di un'altra donna potrebbe trattarsi della madre della sposa. In tale contesto il trasporto delle ancelle potrebbe avere ad oggetto la dote della moglie. Gli utensili (ascia e spiedo) sostenuti dagli uomini che precedono il carro potrebbero far pensare ad un sacrificio animale od alla cottura della carne nell'ambito di un banchetto. Prendendo a riferimento analoghe lastre dello stesso periodo ritrovate in Magna Grecia (in particolare nel santuario di Metaponto) che raffigurano due donne ammantate e sedute su un carro con un corteo composto anche da altre figure, la scena di Murlo è stata anche letta come riferita al viaggio di due sacerdotesse che procede verso un luogo religioso. La lastra potrebbe infine raffigurare la partecipazione di una coppia di principi ad una cerimonia religiosa o la visita al palazzo di due aristocratici. Il contesto di ritrovamento porterebbe invece ad escludere una processione funebre. Qualunque significato sia da attribuire alla scena in commento è indubbio che la lastra intenda enfatizzare l'importanza della famiglia aristocratica che abitò il palazzo come attestato dal carro ma anche dai servitori, dal parasole, dai flabelli e dallo sgabello (diphros). Sulla lastra architettonica avente ad oggetto la processione cfr, tra gli altri, Sybille Haynes, Storia culturale degli Etruschi,
L'abitato etrusco di Spina. Scavi archeologici (iniziati nel 1965) hanno messo in luce che l'inse... more L'abitato etrusco di Spina. Scavi archeologici (iniziati nel 1965) hanno messo in luce che l'insediamento di Spina (emerso nel 1959 a seguito di lavori di scavo per la realizzazione di canali)), sito nei pressi di Comacchio, aveva forma triangolare, comprendeva una superficie di circa sei ettari e si sviluppava lungo la sponda destra dell'antico fiume Po (Padus Vetus). La città, che occupava un'area lagunare, era circondata da una palizzata e presentava una diposizione urbanistica di tipo ortogonale con assi orientati in direzione nord-sud. Era composta da lunghe insulae di forma rettangolare disposte a strisce e suddivise in lotti rettangolari più piccoli. Le vie erano costituite da canali navigabili, delimitati da pali e forse collegati con ponti o passerelle, e da strade realizzate in terra battuta e coccio pesto. Sono emerse tracce di abitazioni costruite in legno, mentre non sono stati rinvenuti edifici pubblici, templi e santuari interni alla città. Le abitazioni-riconoscibili come tali per la planimetria, le dimensioni, la presenza di focolari, le tracce di arredi e la tipologia di reperti (es. vasellame da cucina e da conservazione)-, avevano intelaiature di travi di legno e poggiavano su pali conficcati nel terreno collegati da travi orizzontali. Le case avevano forma rettangolare, tetto a due spioventi, pavimenti in terra battuta (più raramente in tavole di legno) e pareti esterne, realizzate con paletti di legno ed incannucciato di rami e canne, ricoperte con argilla concotta. Tracce di attività artigianali sono state riscontrate all'interno ed all'esterno dell'area urbana (scorie e crogioli per la lavorazione dei metalli; distanziatori in terracotta e scarti di fornaci per la produzione di ceramica). Gli scavi degli ultimi anni (dell'Università di Zurigo) hanno messo in evidenza la struttura di due case nel centro dell'area urbana di Spina costruite in legno nella stessa posizione ma a livelli diversi su un'insula delimitata da canali. La prima casa, realizzata intorno al 400 a.C., aveva forma rettangolare (5,7 x 10/11 metri; superficie cica 60 mq). Nella parte frontale aveva un porticato ed il tetto a doppio spiovente era retto da due pali. L'abitazione fu danneggiata da un incendio. La dimora costruita successivamente, nel secondo quarto del IV secolo a.C., aveva forma quadrata (5,8 x 6,9 metri; superficie circa 40 mq) e presentava cinque pali di sostegno per ogni lato. Il pavimento era in terra battuta. Nelle trincee di fondazione furono poste lastre di terracotta e travi di legno orizzontali per proteggere la base delle pareti-di incannucciato ricoperto di concottodall'umidità. Il tetto (forse fatto di canne) era a doppio spiovente e la trave di colmo, probabilmente, era ricoperta da tegole. A sud dell'ingresso della casa sono stati ritrovati i resti di un'officina per la lavorazione del metallo. L'abitazione fu distrutta da un incendio intorno al 330/320 a.C. e nello strato di distruzione è stata altresì rinvenuta una grande quantità di reperti ceramici (oltre 15.000 frammenti di ceramica di varie funzioni e non meno di 1000 vasi). Una tale quantità di ceramica farebbe pensare alla presenza di un mezzanino. La distruzione violenta della casa troverebbe conferma nel rinvenimento nel sito di un gran numero di ghiande missili (circa 160) prevalentemente in terracotta (incendio a seguito di un assedio del nemico?). Nel 1988, sempre nell'area centrale della città, sono stati portati alla luce resti carbonizzati di una casa (pali e pareti di legno con concotto) con pavimento di tavole di legno. Nelle case del IV secolo a.C. i tetti erano in materiale deperibile e la sola trave di colmo era protetta da tegole; i tetti in tegole furono realizzati nel III secolo a.C.
Il lampadario etrusco di Cortona. Il lampadario (in pratica una grande lucerna di bronzo) fu trov... more Il lampadario etrusco di Cortona. Il lampadario (in pratica una grande lucerna di bronzo) fu trovato il 14 settembre 1840 da alcuni contadini a Cortona in località Fratta nei possedimenti della marchesa Luisa Bartolozzi Tommasi (ed in particolare nel podere Fratta, campo il Biscione). Il monumento inizialmente fu conservato nel palazzo cortonese della marchesa che due anni dopo (1842) lo concesse in deposito al Museo dell'Accademia Etrusca. George Dennis che ebbe modo di vederlo nel 1843 lo definì "la meraviglia delle meraviglie". Il reperto venne dapprima offerto in vendita alla Reale Galleria di Firenze ma la trattativa non ebbe esito. Nell'ottobre del 1846 il lampadario fu acquistato dall'Accademia Etrusca per 1600 scudi (la richiesta fu di 2000 scudi) pagati ricorrendo ad un mutuo del Monte dei Paschi ed alla garanzia del Comune di Cortona. Il monumento, oggetto di restauro negli anni 90, è ritenuto uno dei pezzi più significativi della bronzistica etrusca. Il lampadario (diametro cm 60; peso circa 60 kg) fu realizzato in bronzo fuso con la tecnica a cera persa ed è composto da una vasca circolare per la raccolta del liquido combustibile e da un fusto cilindrico per l'attacco. La parte inferiore della vasca è decorata con varie scene figurate. La fascia esterna presenta figure alternate di sileni (otto) che suonano strumenti a fiato e di sirene (otto) alate con coda piumata e braccia piegate sul petto. La fascia mediana è ornata con onde stilizzate e delfini. Nella fascia più interna vi sono rappresentate una serie di lotte tra animali reali e fantastici (quattro gruppi di due fiere che assaltano animali più deboli). Al centro vi è un gorgoneion circondato da serpentelli attorcigliati. Sul bordo del lampadario sono sedici protomi di Acheloo (divinità dei fiumi e delle acque dolci) alternate a beccucci nei quali avveniva la combustione per mezzo di stoppini. Insieme al lampadario fu rinvenuta una targhetta inscritta inchiodata su due beccucci del lampadario stesso. L'iscrizione, apposta nel III-II secolo a.C., è stata interpretata come una dedica al dio Tinia (tinscvil) da parte della famiglia Musni e farebbe pensare ad una seconda dedicazione del monumento Il lampadario, databile alla seconda metà del IV secolo a.C., forse fu realizzato per una tomba particolarmente importante o più probabilmente per un edificio sacro (alcuni edifici della specie sono stati ritrovati nei pressi di Camucia). Successivamente il lampadario fu oggetto di una seconda consacrazione/dedicazione nello stesso santuario o forse in altro edificio o in una tomba. Lo stile e il livello delle decorazioni fanno supporre che il prestigioso oggetto sia stato realizzato da un'officina dall'Etruria interna centro-settentrionale (Velzna ?). La complessità della decorazione (un unicum rispetto ad analoghe grandi lucerne) rende molto difficile comprendere se oltre alla funzione ornamentale il lampadario potesse avere anche un significato simbolico. Secondo un'autorevole opinione, Paolo Bruschetti e Giulio Paolucci, il monumento potrebbe essere letto con riferimento alla cosmologia greca nonché al culto ed all'etrusca disciplina. Secondo altra tesi recentemente sostenuta da due studiosi, Ronak Alburz e Gijs Willaem Tol, la decorazione del lampadario, che risalirebbe al 480 a.C., rappresenterebbe il culto di Dioniso (non solo Acheloo ma anche Dioniso era sovente raffigurato con le fattezze di un toro!). Il lampadario è conservato appeso al soffitto al secondo piano del MAEC nella sala del lampadario etrusco.
Il banchetto in Etruria e le peculiarità della iconografia etrusca. Gli autori antichi (Diodoro S... more Il banchetto in Etruria e le peculiarità della iconografia etrusca. Gli autori antichi (Diodoro Siculo, Aristotele, Posidonio di Apamea, Teopompo, etc ...),fanno riferimento al banchetto etrusco. La rappresentazione del banchetto (che riguardava gli aristocratici ed i ceti più abbienti della società etrusca) costituisce uno dei temi più ricorrenti nella documentazione figurata etrusca e si ritrova frequentemente su vasi, lastre architettoniche, pitture tombali, cippi, stele, sarcofagi ed urne cinerarie. L'iconografia del banchetto nel corso dei secoli della civiltà etrusca presenta varianti di rilievo. La testimonianza archeologica più antica è costituita da un cinerario di impasto rinvenuto a Montescudaio, nei pressi di Volterra, databile alla seconda metà del VII secolo a.C. Sul coperchio del cinerario vi è riprodotto un ricco signore seduto su una sedia con spalliera (trono?) davanti ad una tavola a tre zampe riccamente imbandita, con a fianco un grande vaso per il vino, alla presenza di una figura femminile di altezza ridotta e con lunga treccia (una schiava?) che probabilmente doveva agitare un flabello (oggi perduto). La circolazione mediterranea delle rappresentazioni vascolari corinzie ed attiche (in particolare su crateri) con banchettanti distesi su letti (la moda greca derivava dall'oriente) ebbe però immediate ripercussioni sull'arte figurativa e verosimilmente anche sull'ideologia e sui comportamenti del ceto aristocratico etrusco (banchetto inteso come rito sociale e status symbol delle classi elitarie). La figurina recumbente riprodotta sul coperchio di un cinerario nell'atteggiamento di un commensale proveniente dalla necropoli di Tolle (Chianciano in provincia di Siena) della fine del VII secolo a.C. costituirebbe la testimonianza più antica della nuova iconografia etrusca del banchetto (peraltro la mancanza del letto e di altri accessori lascia qualche dubbio su tale interpretazione). In Etruria intorno ai primi del VI secolo a. C. cominciano ad apparire frequenti rappresentazioni del banchetto nell'ambito quotidiano (ad es. sulle lastre di terracotta decorate a rilievo provenienti dal Palazzo di Murlo, nei pressi di Siena,del VI secolo a.C.) ed in quello funerario (ad es. nelle pitture tarquiniesi della Tomba della Caccia e della Pesca della fine del VI secolo a.C. e della Tomba del Frontoncino della metà del VI secolo a.C.) i cui partecipanti non sono più rappresentati seduti, ma distesi, da soli, in coppia od anche in più persone, su letti triclinari. Anche in questo campo gli Etruschi però non si limitarono a "copiare" i modelli greci ma li rielaborarono adattandoli al proprio gusto ed al contesto sociale ed ambientale (in questo senso Giovannangelo Camporeale). La principale peculiarità dell'iconografia etrusca del banchetto è costituita, in coerenza con il diverso ruolo sociale attribuito alla donna, dalla partecipazione al rito delle mogli che condividevano il triclinio con i propri compagni o comunque in posizione seduta accanto al marito (in Grecia partecipavano al banchetto solo le etere). Dalla metà del V secolo a.C., per effetto dell'influenza del repertorio figurativo ellenico, la donna non è più distesa sul letto conviviale ma è compostamente seduta accanto al marito (cfr. ad es. le coppie rappresentate nell'urna da Città della Pieve del 425-380 a.C. e nella Tomba degli Scudi di Tarquinia del terzo quarto del IV secolo a.C.). Nel banchetto etrusco inoltre a differenza di quello greco non vi erano due diversi momenti: quello in cui si mangiava e quello in cui si consumava vino. Vi sono infatti scene di banchetto in cui uomini e donne sono rappresentati nell'atto di mangiare e di bere vino. Nelle rappresentazioni etrusche le coperte ed i materassi ricadono solo dai lati corti del letto; i banchettanti si appoggiano col gomito sinistro ad un cuscino piegato in senso verticale, che tengono fra il corpo ed il braccio; oltre al cane, presente nelle scene greche, a fianco dei letti possono trovarsi altri animali domestici come gatti, gallinacei e topi.
Cippo di confine inscritto tular rasnal da Cortona. Il cippo fu rinvenuto agli inizi del settecen... more Cippo di confine inscritto tular rasnal da Cortona. Il cippo fu rinvenuto agli inizi del settecento in località Il Campaccio, ad est di Cortona, nei terreni di Taddeo Orselli. Nel 1747 fu ereditato dal collezionista Galeotto Ridolfini Corazzi. Nel 1826 il monumento fu ceduto al Museo Rijksmuseum van Oudheden di Leida dove tutt'oggi è conservato. Il cippo in arenaria (alt. 116 cm, largh. 60 cm, spesss. 16 cm) risulta inscritto in alfabeto settentrionale ed è databile al II secolo a.C. Il reperto, che presenta incassi ed una scanalatura verticale sul lato sinistro, era probabilmente collocato in posizione eretta ed inserito in una struttura di sostegno (un edificio od un recinto?). Sulla faccia anteriore è incisa su due righe un'iscrizione etrusca che si ripete due volte con andamento inverso ricostruibile (vi sono lacune) come tular rasnal (A "tular rasnal"; B "[tula]r [rasn]al". L'espressione viene interpretata come confine del popolo, confine pubblico assimilabile ai fines publici dei romani. Il cippo fu rinvenuto vicino (a circa due km) all'area urbana di Cortona, lungo la strada di collegamento tra Cortona e Perugia (Via Trasimena). Gli studiosi lo hanno variamente considerato come confine dell'Etruria (fines Etruriae) tenuto conto della sua prossimità col confine con l'Umbria o della città di Cortona e del suo territorio o di un insediamento della zona. Secondo una diversa interpretazione il cippo costituiva uno dei limiti del territorio cittadino all'interno del quale poteva essere svolta la pratica augurale (auspici pubblici). Sempre da Cortona (Viale Passerini 170, zona est della città a 600 metri circa dalle mura) proviene un altro cippo di confine in pietra serena (conservato presso il museo archeologico locale) con iscrizione su tre righe luθcval canθisa della prima metà del II secolo a.C., forse riferibile ad un terreno di pertinenza di un ordine sacerdotale denominato canθis, Un terzo cippo cortonese, anch'esso inscritto, ritrovato nel 1561 nei pressi della cinta muraria sembrerebbe attestato da un disegno d'archivio. Secondo le informazioni il monumento negli anni cinquanta del novecento era nella disponibilità della famiglia Petrella in località Campaccio. L'iscrizione di quest'ultimo cippo confinario sembrerebbe similare a quella del cippo oggi conservato a Leida. I tre cippi rinvenuti nell'area di Cortona con tutta probabilità facevano parte di un sistema di delimitazione territoriale sul versante ad oriente della città etrusca con finalità istituzionali e religiose. Per completezza si segnala che altri cippi etruschi con inscritta la parola tular, da sola od unitamente ad altre, sono stati ritrovati a Fiesole (n. 6), Montepulciano, Poggio Civitella-Montalcino, Spina, Castiglion del lago, Perugia (n. 2), Bettona. Nei sei cippi fiesolani, in particolare, tular è riferito al lessema "spural" (per esteso od abbreviato), termine quest'ultimo che potrebbe designare la città o la comunità dei cittadini. Nel cippo rinvenuto a Spina invece si legge mi tular = io sono il confine. A Bettona infine uno dei due cippi segnalava il confine della proprietà della famiglia "larna".
Il tumulo della Cuccumella a Vulci. Nella Necropoli Orientale di Vulci si staglia il monumentale ... more Il tumulo della Cuccumella a Vulci. Nella Necropoli Orientale di Vulci si staglia il monumentale tumulo della Cuccumella, databile alla fine del VII secolo a.C., di circa 70 m di diametro, 230 m di circonferenza e 20 m di altezza. Il tumulo fu oggetto di scavi dal 1828 ad opera del Principe di Canino Luciano Bonaparte, successivamente da parte di Alessandro François e poi da Francesco Marcelliani nell'interesse della famiglia Torlonia. Nel 1875-1876 in particolare furono scavate trincee e gallerie alla ricerca di camere funerarie (cd. labirinto). Il monumento è stato comunque oggetto di successivi scavi (1928-1929) e restauri (2003-2006). Il sepolcro è delimitato da un tamburo di lastre di nenfro poste di taglio ed infisse nel banco di tufo, al di sopra del quale altre lastre più piccole sostengono il riporto di terra del tumulo. Il settore meridionale del monumento accoglie due tombe, una accanto all'altra La tomba B, posta ad ovest, è la più antica ed ha una camera formata da due stanze in asse. La camera è preceduta da un ampio vestibolo quadrangolare a cielo aperto (larghezza 7 m circa, lunghezza 6, 50 m). Il piazzaletto probabilmente era munito di doppia banchina addossata alle pareti. La tomba A, ad est, fu costruita pochi anni dopo e presenta una struttura cruciforme. La camera principale di fondo è formata da due stanze in asse. Quest'ultima è preceduta da un vestibolo rettangolare a cielo aperto incassato nel banco roccioso (larghezza 8,65 m circa, lunghezza 6,50 m). La piattaforma nella parte anteriore è dotata di una doppia gradinata (alta circa 2 m) e sulle pareti laterali del vestibolo vi è una banchina aperta in corrispondenza delle due cellette che si aprono ai lati della camera principale. Al vestibolo si accede tramite un lungo dromos. La struttura delle due tombe si caratterizza per la presenza di ampi vestiboli a cielo aperto dotati di banchine. Tali spazi erano funzionali allo svolgimento di cerimonie e giochi funebri in onore dei defunti ai quali assistevano gli spettatori seduti sulle gradinate. Sulla cima della calotta vi erano due torri-cippo (di circa 10 m di altezza) di forma, rispettivamente, quadrata e conica e forse anche una terza struttura circolare (in questo senso Alessandro François), una sorta di altare piattaforma. Al di sopra del tamburo furono trovate alcune piccole camere sepolcrali; forse erano tombe dei servitori e degli schiavi della gens titolare del tumulo (George Dennis). Il monumento funebre era inoltre decorato con una ventina di statue in nenfro raffiguranti animali fantastici e reali: sfingi, leoni alati, grifi e pantere. Non sappiamo dove fossero collocate queste sculture funerarie (sulla sommità del tumulo? davanti alle porte delle tombe? all'interno delle camere?). Resti di sculture furono rinvenuti sia all'interno delle tombe che presso gli ingressi delle stesse. Le statue erano poste a guardia dei defunti ed enfatizzavano l'alto rango della famiglia proprietaria del tumulo. Al tempo stesso simboleggiavano l'ignoto viaggio verso l'aldilà. In prossimità del tamburo del tumulo è stata ritrovata una struttura a pianta rettangolare, bipartita nel senso della larghezza, costituita da blocchi parallelepipedi in nenfro e con tracce di copertura (terrecotte architettoniche). L'edificio poteva forse essere destinato al culto familiare della gens proprietaria del tumulo (Anna Maria Moretti Sgubini). Durante gli scavi del 1928-1929 sulla cornice orientale del tumulo fu rinvenuta un'iscrizione (oggi non più rintracciabile) "mini kaviena zineke" forse riferibile alla famiglia proprietaria del monumento o piuttosto al costruttore del tumulo.
La lega etrusca. Secondo alcuni autori antichi (Tito Livio, Dionigi di Alicarnasso, Servio ed alt... more La lega etrusca. Secondo alcuni autori antichi (Tito Livio, Dionigi di Alicarnasso, Servio ed altri) l'Etruria propria sarebbe stata divisa in dodici città o populi (duodecim populi), la cd dodecapoli o lega etrusca. Nessun documento ci fornisce però l'elenco completo delle dodici città. Si ritiene, ma non vi è piena concordia tra gli studiosi, che ne avrebbero fatto parte i principali centri dell'Etruria meridionale-marittima e di quella interna quali,
Il cinerario chiusino Paolozzi Il cd. Cinerario Paolozzi prende il nome dal collezionista Giovann... more Il cinerario chiusino Paolozzi Il cd. Cinerario Paolozzi prende il nome dal collezionista Giovanni Paolozzi che lo ritrovò nell'aprile 1873 in una tomba a ziro, nel corso di scavi effettuati nella propria proprietà a Dolciano. Del corredo della tomba facevano parte anche vasellame d'impasto e bronzi. Nel 1907 alla morte del Paolozzi (che aveva precedentemente rifiutato di vendere l'ossuario) il monumento, unitamente ad altro materiale archeologico della sua collezione, passò al Museo Archeologico di Chiusi per legato testamentario. Si tratta di un'urna di impasto etrusca realizzata nel territorio di Chiusi nel periodo orientalizzante (intorno al 620 a.C.). Il vaso (alt. cm 89), rastremato verso il basso e con spalla larga e carenata,è stato realizzato al tornio, mentre le parti plastiche sono stare eseguite a mano libera e poi applicate sul vaso stesso. Il cinerario è decorato con figura della defunta eroizzata (o di una divinità) circondata da otto figurine di piccole dimensioni anch'esse femminili di piangenti (quattro sulla spalla e quattro sul coperchio) e quattro grifoni con il becco spalancato sulla spalla e sul collo. La grande statuina collocata al centro dell'ossuario indossa veste quadrettata, porta la mano sinistra al seno, con il pollice alzato, mentre la destra, lacunosa, era protesa. Sul corpo del vaso è dipinta una decorazione floreale. L'urna è stata restaurata nel 2000 ed in tale occasione dal vaso sono state eliminate alcune falsificazioni poste in essere nel tempo e delle parti non pertinenti (piedi e parti delle vesti), aggiunte al cinerario, che appartenevano ad altre urne dello stesso tipo (probabili restauri ottocenteschi). L'ossuario fa parte della tipologia di cinerari chiusini (di cui conosciamo pochi altri esemplari) sormontati da una statuetta stante di terracotta e con figurine applicate riguardanti scenari di rituali funerari. Nella tipologia in argomento rientra anche il cd Cinerario Gualandi che fu rinvenuto in località Romitorio. Anche questo aveva grande figura stante femminile in posizione centrale con veste quadrettata ma con la mano sinistra appoggiata sul mento nonché figure più piccole di piangenti alternate a grifoni con il becco spalancato. L'ossuario nella notte del 28 aprile 1971 fu trafugato dal Museo di Chiusi unitamente ad altri importanti reperti etruschi. La refurtiva negli anni successivi fu in parte recuperata ma del cinerario, di cui vi sono solo poche immagini, non se ne è più avuta notizia.
Le vie cave etrusche Le vie cave (o cavoni o tagliate) etrusche sono percorsi viari scavati nel t... more Le vie cave etrusche Le vie cave (o cavoni o tagliate) etrusche sono percorsi viari scavati nel tufo a cielo aperto, tra alte pareti, che tortuosamente collegano il fondovalle con i rilievi collinari della regione tosco-laziale. Le tagliate si trovano nei territori dell'Etruria meridionale interna rupestre e nell'area falisca nell'ambito delle odierne province di Viterbo, Roma e Grosseto. Cavoni etruschi si possono ammirare ad esempio a Pitigliano,
Larthia Seianti aritocratica chiusina del II secolo a.C. Il sarcofago di Larthia Seianti fu ritro... more Larthia Seianti aritocratica chiusina del II secolo a.C. Il sarcofago di Larthia Seianti fu ritrovato nel 1877 in una delle camere laterali della tomba della gens Larcna presso la Martinella, a due km a nord di Chiusi. La tomba fu rinvenuta integra e conteneva nove deposizioni con i relativi corredi. Si tratta di un monumentale sarcofago in terracotta databile al 150-130 a.C. di produzione chiusina (alt. cm 110; lunghezza cm 164; profondità cm 54) con ricca policromia. Per esigenze di lavorazione fu realizzato in cinque parti poi assemblate tra di loro. La defunta, appartenente all'aristocrazia chiusina, è rappresentata come una giovane matrona semidistesa sulla kline ed appoggiata su due cuscini: con la mano destra scosta il velo dal volto, mentre con la sinistra regge uno specchio circolare. La cassa è decorata con rosette e patere ombelicate alternate a triglifi. L'aristocratica è riccamente abbigliata: veste mantello e chitone a maniche corte con cintura annodata decorata con borchie, ha anelli sulle dita della mano sinistra, due armille sul braccio destro, collana a girocollo con pendente a bulla a testa di medusa, orecchini a disco e diadema (o corona). sulla testa. Il nome della nobil donna " larqia: seianti: s… i: sve… " è inciso sulla mensola superiore, ma successivamente è stato coperto con uno strato di stucco che riporta un'iscrizione in rosso appena leggibile " ... ti a: lar ... lisa: niasa ", probabilmente relativa al riuso del sarcofago da parte di altro membro della famiglia. Difficile dire quale potesse essere il rapporto tra le due donne. Del suo prestigioso corredo facevano parte pinzette e nettaorecchie d'argento, doppio pettine, contenitori per profumi in alabastro ed in bronzo, pedine da gioco, patere, spilloni e vasellame da mensa miniaturizzato. All'interno del sarcofago vi era anche una moneta romana piuttosto consunta (asse con testa di Giano al dritto e prua di nave al rovescio) forse per il pagamento del traghettatore agli inferi. La donna era probabilmente la seconda moglie del proprietario della tomba Laris Larcna Cencual, unico uomo deposto al suo interno. Le ceneri della prima moglie, Fasi Velui, erano conservate all'interno di un'urna in pietra. Nel 1886 fu rinvenuto un sarcofago chiusino in terracotta similare a quello di Larthia Seianti all'interno di una tomba a camera nei pressi di Poggio Cantarello, quattro km a Ovest di Chiusi. Il sarcofago di Seianti Hanunia Tlesnasa (oggi al British Museum), che si distingue tra l'altro per l'età più matura della donna e per lo specchio aperto, sembrerebbe provenire dalla stessa bottega di quello di Larthia Seianti e le due donne con tutta probabilità erano parenti (sorelle?). Il sarcofago di Larthia è conservato al Museo Archeologico Nazionale di Firenze. Sul sarcofago di Larthia Seianti cfr., tra l'altro, il Blog del Museo Archeologico Nazionale di Firenze "L'artetisomiglia: alla scoperta dei volti del MAF-2-Larthia Seianti "; Sybille Haynes, Storia Culturale degli Etruschi, Johan & Levi editore, 2020, pagg. 420 e ss. Di seguito le immagini del sarcofago di Larthia Seianti e del relativo corredo e del sarcofago di Hanunia Seianti.
Cippo etrusco a testa di guerriero da Orvieto. Presso il Museo Claudio Faina di Orvieto è esposto... more Cippo etrusco a testa di guerriero da Orvieto. Presso il Museo Claudio Faina di Orvieto è esposto un cippo a testa elmata (si tratta di un unicum o quasi) proveniente da una tomba della necropoli orvietana di Crocifisso del Tufo. La Tomba del Guerriero (contrassegnata con K 279 e che prende appunto il nome dal cippo) fu scoperta nel novembre 1880 da Riccardo Mancini. Il reperto funerario era posto sulla copertura del sepolcro a doppia camera, costruita in blocchi di tufo, con ricco corredo (vasi attici a figure nere e rosse, buccheri ed oreficerie). La volta era crollata e tra i cippi che vi erano sopra (ben 13), fu appunto rinvenuto (nel 1881) anche il segnacolo in oggetto raffigurante il defunto. La qualità del corredo e l'architettura del sepoltura (una delle poche a due camere della necropoli di Crocifisso del Tufo) ne attestano l'appartenenza ad una famiglia importante. Il cippo funerario, in tracheite (cm 75 x cm 56), riproduce seppur grossolanamente i lineamenti di un uomo con zigomi e mento pronunciati, occhi grandi e bocca piccola. Si tratta di un guerriero che calza un elmo ionico etrusco con alto cimiero e con paragnatidi. Sulla paragnatide sinistra dell'elmo vi è incisa un'iscrizione onomastica: Larth Cupures Aranthia = Larth Cupures, figlio di Aranth. Secondo un'interpretazione (Adriano Maggiani e Giuseppe Maria Della Fina) la famiglia del defunto, che era di origine sabina, si sarebbe trasferita a Veio (le caratteristiche dell'iscrizione sul cippo rinviano appunto a Veio) e poi Larth si sarebbe spostato a Velzna. Il defunto probabilmente fu un condottiero od un mercenario. Il monumento sarebbe databile al 530-520 a.C. Un cippo a testa elmata analogo-forse proveniente anch'esso da Orvieto-è conservato al Museo Archeologico Nazionale di Firenze. Il volto presenta occhi a mandorla con ampie arcate sopracciliari, labbra sottili e sorriso arcuato. Quest'ultimo cippo (cm 43 x cm 34) sarebbe databile al 520-500 a.C. Sul cippo a forma di testa di guerriero conservato al museo Faina vedi le immagini e le informazioni contenute sui siti Facebook del Museo etrusco "Claudio Faina" e della Necropoli etrusca del Crocifisso del tufo Orvieto; Giuseppe M. Della Fina, Cippo a testa di guerriero di anonimo del VI secolo a.C.; Adriano Maggiani, Un immigrato dall'Etruria meridionale in Storia di Orvieto I-Antichità, Quattroemme, 2003, pagg. 377-378; sui due cippi a testa elmata cfr. Da Orvieto a Bolsena: un percorso tra Etruschi e Romani, Pacini Editore, 2013, pag. 202 e 203 schede n. 3 e 4; Di seguito immagini della tomba del Guerriero, del cippo esposto presso il Museo Claudio Faina di Orvieto e del cippo conservato presso il Museo Archeologico Nazionale di Firenze.
Firenze etrusca A Firenze nel I secolo a.C. come noto si sviluppò la colonia romana di Florentia.... more Firenze etrusca A Firenze nel I secolo a.C. come noto si sviluppò la colonia romana di Florentia. La ricerca di tracce preromane si presenta alquanto complessa in quanto la continuità abitativa (dai romani, al medioevo ai tempi moderni) ha in gran parte cancellato il passato. Il territorio della città di Firenze ha comunque restituito nel tempo reperti riferibili agli Etruschi. Nell'ottocento, nella zona tra Via Pellicceria, Via Porta Rossa, Via del Campidoglio e Via degli Strozzi, a 7 metri sotto il livello stradale, fu rinvenuta una necropoli villanoviana di quasi quattromila metri quadrati. Furono trovate tombe a pozzetto con cinerari biconici coperti da ciotole rovesciate. Le urne contenevano le ceneri dei defunti ed erano collocate in un dolio (ne furono trovati almeno una ventina, ma molti andarono distrutti) insieme al corredo. Reperti forse attribuibili ad una tomba villanoviana femminile-una fibula di bronzo ed un rocchetto d'impasto-provengono da lavori effettuati nel 1978 tra Via Laura e Borgo Pinti. Nel 1891-1892 furono rinvenuti un cippo scolpito e due bronzetti votivi. Il cippo di pietra serena decorato a rilievo, databile fine VI inizi V secolo a.C., era stato reimpiegato nella facciata della Chiesa di San Tommaso e con tutta probabilità era pertinente ad una tomba. Sulla faccia principale vi è rappresentata una figura maschile (sacerdote?) che impugna un lituo, sulla faccia opposta un grifo, sulle altre due facce vi sono leoni rampanti. Il primo bronzetto, recuperato nel corso di lavori nel centro città, rappresenta un guerriero o Laran/Marte. L'altro, che riproduce un giovane nudo, proviene dalle fondazioni della chiesa di San Tommaso. Nel 900 a seguito di scavi archeologici in piazza della Signoria sono emersi frammenti ceramici corinzi databili alla seconda metà dell'VIII secolo a.C. Un frammento di cippo chiusino con scena sepolcrale scolpita, conservato al Museo dell'Opera del Duomo, fu rinvenuto in una cantina in Piazza della Canonica nel 1904. Nel 1926 presso Piazza della Repubblica furono trovati frammenti di un foculo in bucchero pesante chiusino (della seconda metà del VI secolo a.C.). Nel 1980 tra Via Cavour e Via de Gori è emerso un frammento di piede di calice in bucchero di produzione locale della seconda metà del VII secolo a.C. Nel 1983 in Via dei Bruni fu scoperto un cippo funerario simile a quello rinvenuto nella chiesa di San Tommaso. Sulle facce sono raffigurati rispettivamente una figura maschile munita di lancia, un grifo e due leoni rampanti. Tra il 2003 ed il 2004 durante lavori di ristrutturazione di un edificio ottocentesco, in un ambiente sotterraneo fra la Badia Fiorentina, Via del Proconsolo e Via Dante Alighieri è stata scoperta una fossa circolare contornata da buche di pali, con probabile funzione di sostegno ad una struttura di legno di tipo palafitticolo. Dalla terra di riempimento sono emersi frammenti di ciotole d'impasto e una coppa di bucchero con iscritto il nome "Upu". Più in profondità c'erano anche altre due coppe in bucchero inscritte (una delle quali reca l'iscrizione "VL") e ollette d'impasto. I materiali sono databili al VII-VI secolo a.C. Scavi effettuati tra il 2010 ed il 2011 (Via Nazionale) hanno restituito alcune fornaci per la produzione di vasi in ceramica d'impasto, tegole, attrezzi per uso domestico riferibili al VI-V secolo a.C. Da Firenze provengono anche due bronzetti uno maschile (da Piazza Signoria) ed uno femminile (dallo Sdrucciolo di Orsanmichele), molto simili nella fattura, databili fine VII inizi VI secolo a.C., forse riconducibili ad un santuario. Recentemente è stato ipotizzato che la collina sulla quale sorge il Cimitero degli Inglesi sarebbe stata in origine un grandioso tumulo etrusco (in questo senso Luigi Donati). Presso il Giardino Chianesi ed il Giardino dei Conti della Gherardesca (e quindi nella stessa area del ridetto Cimitero) ed in prossimità della strada di Borgo Pinti, che è parte di un tracciato di origine etrusca, vi sono altre collinette, seppur meno imponenti, simili a tumuli. Proprio in Borgo Pinti, come ricordato, furono rinvenuti una fibula a sanguisuga in bronzo ed un rocchetto d'impasto riferibili ad una tomba databile all'VIII-VII secolo a.C. La montagnola del Cimitero già nel XVII secolo fu oggetto di interventi che ne comportarono la modifica anche nelle dimensioni. Il quadro complessivo dei ritrovamenti (non tantissimi, ma almeno in parte significativi) consente di ipotizzare (non una semplice frequentazione da parte di Etruschi ma) l'esistenza di un centro
Servio Tullio /Macstarna il sesto re di Roma. Secondo la tradizione romana Servio Tullio-il sesto... more Servio Tullio /Macstarna il sesto re di Roma. Secondo la tradizione romana Servio Tullio-il sesto re di Roma-era figlio di una principessa latina di nome Ocrisia (Tito Livio Ab urbe condita I, 39 ed altri autori). A seguito della conquista della città di Corniculum da parte di Tarquinio Prisco il re latino Tullio fu ucciso e la moglie Ocrisia venne condotta schiava a Roma e donata alla regina Tanaquilla. Alla principessa latina fu affidata la custodia del sacro focolare della reggia. Ocrisia dette alla luce un bambino che sarebbe stato generato da un fallo di fuoco, interpretato da Tanaquilla come l'emanazione del dio Vulcano o di un Genio/Lare della famiglia di Tarquinio. Secondo un'altra versione la regina quando fu fatta prigioniera era già incinta del sovrano di Corniculum. Il bambino fu chiamato Servio a causa della condizione della madre e Tullio in ricordo del padre deceduto. Il giovane ritenuto figlio di una divinità (a conferma di ciò in un'occasione furono viste splendere le fiamme attorno al capo del fanciullo mentre dormiva) venne allevato ed istruito a corte come un re e a seguito di varie vicende e grazie all'abile regia di Tanaquilla alla morte di Tarquinio Prisco finì per succedere al trono di Roma. Ad avviso di Andrea Carandini il padre di Servio sarebbe stato in realtà Tarquinio Prisco stesso che volendosi garantire un successore di sangue si propose di aggirare la regola che impediva che il figlio sedesse sul trono del padre alimentando unitamente a Tanaquilla la credenza della nascita divina di Servio. Giovanni Schioppo ipotizza invece che Servio sarebbe stato verosimilmente figlio di Tanaquilla ma non di Tarquinio Prisco; la regina avrebbe ordito una congiura ai danni di Tarquinio per poi favorire l'ascesa al trono del figlio. A Lione nel 1528 furono ritrovati alcuni frammenti di una tavola bronzea, cd. Tabula Claudiana o Lugdunensis, che recava inciso il testo di un discorso pronunciato dall'imperatore Claudio nel 48 d.C.. L'imperatore, che aveva sposato una nobile etrusca, Plauzia Urgulanilla, ebbe fama di etruscologo e scrisse un'opera di 20 libri sugli Etruschi dal titolo "Tyrrhenika" (opera che purtroppo non è giunta fino a noi). Nel discorso Claudio, nell'esprimersi a favore della partecipazione al Senato dei nobili della Gallia Comata, si richiama ad alcuni personaggi di origine peregrina (stranieri) che nel tempo avevano ricoperto cariche importanti a Roma, tra i quali appunto anche Servio Tullio. L'imperatore, pur dando atto che secondo le fonti romane Servio sarebbe nato dalla schiava Ocrisia, si dice convinto da fonti etrusche (gli "auctores Tusci" che probabilmente aveva avuto modo di consultare) secondo le quali il futuro re di Roma fu invece l'amico più fedele ("sodalis fidelissimus") di Celio Vibenna e compagno di tutte le sue avventure, abbandonò l'Etruria con i resti dell'esercito di Celio e occupò il Monte che chiamò Celio dal suo comandante, mutò il nome etrusco Mastarna in Servio Tullio e divenne infine re di Roma. Il discorso dell'imperatore è riportato in forma letteraria anche da Tacito (Annali, XI, 25) ma senza riferimento a Servio. Il nome Mastarna si ritrova inoltre in uno degli affreschi della Tomba François di Vulci (scoperta nel 1857) della famiglia Saties, databile alla seconda metà del IV secolo a.C. La pittura (realizzata sulla parte destra del tablinum ed in parte sull'atrio) rappresenta uno scontro tra due fazioni (con didascalie che indicano i nomi dei protagonisti) con personaggi di origini e patrie diverse ed in particolare riproduce la liberazione di Celio Vibenna ("Caile Vipinas") da parte di Macstrna, che con una spada recide i lacci che tengono prigioniero l'amico e compagno di avventure. Nella scena seguono altre figure: Larth Ulhtes che uccide Laris Papathnas di Volsinii, Rasce che mette a morte Pesna Aresmna di Sovana, Aule Vipienas che toglie la vita a Venthical (...) plsachs di Falerii ed infine Marce Camitlnas che minaccia Cnaeve Tarchunies di Roma ("Rumach"). Le fonti latine fanno riferimento ai fratelli Vibenna ed in particolare Tacito (Annales IV, 65, 1-2) precisa che Celio su richiesta di Tarquinio Prisco avrebbe prestato soccorso al re romano, prendendo possesso di un colle dell'Urbe. Un frammento di Festo (voce Tuscum Vicum, 486, 12-19) cita i due fratelli Vibenna vulc(ientes) e Max [...] che, secondo le indicazioni della Tabula claudiana, potrebbe essere reso Max(tarna). Dionigi di Alicarnasso (IV, 3, 2) riferisce che Servio, prima di divenire re, avrebbe ricoperto la carica di magister equitum di Tarquinio Prisco. La storicità dei fratelli Vibenna nonché la loro successiva mitizzazione sarebbero dimostrate dal ritrovamento di alcuni reperti: un piede di calice in bucchero della prima metà del VI scolo a.C. inscritto "Mi ha donato Avile Vipiennas" ritrovato nel santuario di Portonaccio a Veio; kilyx a figure rosse del V secolo a.C. con iscrizione Avles Vipinas attualmente esposta al Musée Rodin a
Necropoli vulcenti etrusche, rito incineratorio ed antropomorfizzazione. Il cinerario tipico del ... more Necropoli vulcenti etrusche, rito incineratorio ed antropomorfizzazione. Il cinerario tipico del periodo villanoviano è costituito dall'urna biconica, realizzata in impasto ma talvolta anche in bronzo, nella quale venivano deposte le ceneri del/della defunto/defunta. La copertura dell'ossuario di solito consisteva in una ciotola rovesciata e più raramente era conformata ad elmo. L'ossuario biconico, sotto il profilo ideologico, viene principalmente interpretato come rappresentazione del defunto (urna come corpo del defunto), quasi a voler restituire la fisicità del corpo dissolto nel rogo funebre (antropomorfizzazione). Indicatori della perduta materialità del defunto sono stati individuati, oltre che nella forma dell'ossuario, nella copertura ad elmo, nella vestizione dell'urna e talvolta dalla collocazione distesa della stessa. Dalle necropoli villanoviane ed orientalizzanti di Vulci con riferimento al rito incineratorio sono emersi oggetti e manifestazioni particolari del simbolismo antropomorfico. Alcune urne biconiche (databili dalla fine dell'VIII agli inizi del VII secolo a.C.) invece di essere chiuse con scodelle rovesciate avevano originali coperchi a forma di palla, che riproducono schematicamente la testa del defunto. Tale tipo di chiusura, che presenta collo troncoconico sormontato da una sfera cava internamente, veniva realizzata in impasto ma anche in ceramica etrusco geometrica. Due ossuari con coperchio a sfera in ceramica etrusco geometrica provengono dalla tomba 21 di Poggio Mengarelli. Un'altra urna biconica della specie in impasto fa parte della collezione Cambi, già collezione Paolozzi. Sul collo di un cinerario vulcente, privo di corredo, sono state realizzate due grosse bugne accoppiate interpretate come la raffigurazione di un seno femminile (Delpino 1977). Nella tomba dei Bronzetti Sardi è stata rinvenuta un'urna biconica femminile chiusa con scodella rovesciata e con collana di filo avvolto a spirale ed anellini di bronzo posta attorno al collo del cinerario. Reperti metallici non interessati dall'azione del fuoco rinvenuti nella deposizione fanno anche ritenere la vestizione rituale del biconico. Nella necropoli orientalizzante dell'Osteria di Vulci all'interno di tombe prestigiose sono stati ritrovati resti di statue composte di vari materiali (legno, osso, tessuto, avorio, bronzo etc ...) rappresentanti figure umane a tutto tondo, interpretate come simulacri del defunto. Nella tomba delle Mani d'Argento (metà del VII secolo a.C.) tra il corredo sono stati rinvenuti un basso collo in osso con fori passanti per il fissaggio ad altra parte della statua, delle mani in lamina d'argento ed accessori con lamine d'oro e d'argento che farebbero pensare ad un vestito e/o ad un mantello. Nella Tomba della Sfinge (metà del VI secolo a.C.), all'interno di una fossa posta nell'atrio, sono venuti alla luce i resti di un busto in lamina di bronzo con aperture per l'inserimento delle braccia ed una testa sferica sempre in lamina bronzea. La Tomba del Carro di Bronzo (dell'inizio del VII secolo a.C.) restituì elementi di due statue polimateriche (tra i quali una testa sferica montata su un cilindro e due coppie di mani in bronzo). Poiché i resti delle statue furono rinvenuti accanto ad un carro da parata di ridotte dimensioni è stato ipotizzato che una delle due statue fosse collocata sopra il carro. E' probabile che le riproduzioni del defunto in argomento venissero utilizzate anche durante la cerimonia funebre per poi trovare la loro collocazione definitiva all'interno del sepolcro. Le statue polimateriche in questione attinenti l'ambito funerario richiamano la produzione greca degli sphyrelata, statue di lamina di metallo lavorate a martello rappresentative di divinità e destinate alla sfera cultuale e sacrale. Sull'incinerazione e l'antropomorfizzazione nel territorio di Vulci cfr., tra gli altri, Principi immortali Fasti dell'aristocrazia etrusca a Vulci, Gangemi Editore, 2014, pagg. 17 e ss.; Vulci Produrre per gli uomini, produrre per gli dei, Fondazione Luigi Rovati, Metropoli etrusche, 2024, pagg. 50 e ss. Di seguito le immagini di cinerari vulcenti con coperchio a palla, delle mani provenienti dalla Tomba delle Mani d'Argento, delle mani ritrovate nella Tomba del Carro e della ricostruzione della Tomba del Carro effettuata nel Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia.
La lastra con scena di processione di Murlo (SI). Le fosse di scarico del Palazzo arcaico di Murl... more La lastra con scena di processione di Murlo (SI). Le fosse di scarico del Palazzo arcaico di Murlo (costruito intorno al 590 a.C.) hanno restituito, tra l'altro, un rilevante numero di lastre architettoniche a stampo di quattro tipi diversi che rappresentano temi tipicamente aristocratici quali la processione, il banchetto, l'assemblea e la corsa di cavalli. L'edificio, che aveva 18 stanze e si sviluppava intorno ad un'ampia corte, era a forma di quadrilatero e su tre lati aveva portici coperti. Le lastre architettoniche probabilmente erano poste ad ornamento del porticato a fregio continuo. La lastra che presenta maggiori difficoltà interpretative e quella che riproduce la processione che si svolge da destra verso sinistra e che presenta un piccolo carro trainato da cavalli con due personaggi seduti ed altre figure che precedono e seguono il carro. I due uomini che aprono il corteo sono volti a sinistra e vestono una lunga tunica: con la mano sinistra reggono le redini di due cavalli ai quali è attaccato il carro, con l'altra mano impugnano rispettivamente un'ascia e un bastone o uno spiedo. Sul carro munito di alte ruote vi è un trono sul quale sono seduti fianco a fianco due protagonisti: il primo (verso lo spettatore) sembra una donna ammantata; il sesso dell'altro, che regge un grande ombrello, è di difficile identificazione. Chiudono la processione due ancelle che recano nelle mani flabelli e situle e portano in testa rispettivamente un contenitore munito di coperchio ed uno sgabello rovesciato o un tavolino. Secondo una prima interpretazione potrebbe trattarsi di un corteo nuziale divino (ma non sembrerebbero esserci attributi divini) o piuttosto umano e riferito ad una coppia di aristocratici. Nella figura ammantata femminile con il solo viso scoperto sarebbe da individuare la sposa. Nel caso in cui la figura assisa sul carro che sostiene il parasole fosse un uomo potrebbe essere il marito, laddove invece si fosse al cospetto di un'altra donna potrebbe trattarsi della madre della sposa. In tale contesto il trasporto delle ancelle potrebbe avere ad oggetto la dote della moglie. Gli utensili (ascia e spiedo) sostenuti dagli uomini che precedono il carro potrebbero far pensare ad un sacrificio animale od alla cottura della carne nell'ambito di un banchetto. Prendendo a riferimento analoghe lastre dello stesso periodo ritrovate in Magna Grecia (in particolare nel santuario di Metaponto) che raffigurano due donne ammantate e sedute su un carro con un corteo composto anche da altre figure, la scena di Murlo è stata anche letta come riferita al viaggio di due sacerdotesse che procede verso un luogo religioso. La lastra potrebbe infine raffigurare la partecipazione di una coppia di principi ad una cerimonia religiosa o la visita al palazzo di due aristocratici. Il contesto di ritrovamento porterebbe invece ad escludere una processione funebre. Qualunque significato sia da attribuire alla scena in commento è indubbio che la lastra intenda enfatizzare l'importanza della famiglia aristocratica che abitò il palazzo come attestato dal carro ma anche dai servitori, dal parasole, dai flabelli e dallo sgabello (diphros). Sulla lastra architettonica avente ad oggetto la processione cfr, tra gli altri, Sybille Haynes, Storia culturale degli Etruschi,
L'abitato etrusco di Spina. Scavi archeologici (iniziati nel 1965) hanno messo in luce che l'inse... more L'abitato etrusco di Spina. Scavi archeologici (iniziati nel 1965) hanno messo in luce che l'insediamento di Spina (emerso nel 1959 a seguito di lavori di scavo per la realizzazione di canali)), sito nei pressi di Comacchio, aveva forma triangolare, comprendeva una superficie di circa sei ettari e si sviluppava lungo la sponda destra dell'antico fiume Po (Padus Vetus). La città, che occupava un'area lagunare, era circondata da una palizzata e presentava una diposizione urbanistica di tipo ortogonale con assi orientati in direzione nord-sud. Era composta da lunghe insulae di forma rettangolare disposte a strisce e suddivise in lotti rettangolari più piccoli. Le vie erano costituite da canali navigabili, delimitati da pali e forse collegati con ponti o passerelle, e da strade realizzate in terra battuta e coccio pesto. Sono emerse tracce di abitazioni costruite in legno, mentre non sono stati rinvenuti edifici pubblici, templi e santuari interni alla città. Le abitazioni-riconoscibili come tali per la planimetria, le dimensioni, la presenza di focolari, le tracce di arredi e la tipologia di reperti (es. vasellame da cucina e da conservazione)-, avevano intelaiature di travi di legno e poggiavano su pali conficcati nel terreno collegati da travi orizzontali. Le case avevano forma rettangolare, tetto a due spioventi, pavimenti in terra battuta (più raramente in tavole di legno) e pareti esterne, realizzate con paletti di legno ed incannucciato di rami e canne, ricoperte con argilla concotta. Tracce di attività artigianali sono state riscontrate all'interno ed all'esterno dell'area urbana (scorie e crogioli per la lavorazione dei metalli; distanziatori in terracotta e scarti di fornaci per la produzione di ceramica). Gli scavi degli ultimi anni (dell'Università di Zurigo) hanno messo in evidenza la struttura di due case nel centro dell'area urbana di Spina costruite in legno nella stessa posizione ma a livelli diversi su un'insula delimitata da canali. La prima casa, realizzata intorno al 400 a.C., aveva forma rettangolare (5,7 x 10/11 metri; superficie cica 60 mq). Nella parte frontale aveva un porticato ed il tetto a doppio spiovente era retto da due pali. L'abitazione fu danneggiata da un incendio. La dimora costruita successivamente, nel secondo quarto del IV secolo a.C., aveva forma quadrata (5,8 x 6,9 metri; superficie circa 40 mq) e presentava cinque pali di sostegno per ogni lato. Il pavimento era in terra battuta. Nelle trincee di fondazione furono poste lastre di terracotta e travi di legno orizzontali per proteggere la base delle pareti-di incannucciato ricoperto di concottodall'umidità. Il tetto (forse fatto di canne) era a doppio spiovente e la trave di colmo, probabilmente, era ricoperta da tegole. A sud dell'ingresso della casa sono stati ritrovati i resti di un'officina per la lavorazione del metallo. L'abitazione fu distrutta da un incendio intorno al 330/320 a.C. e nello strato di distruzione è stata altresì rinvenuta una grande quantità di reperti ceramici (oltre 15.000 frammenti di ceramica di varie funzioni e non meno di 1000 vasi). Una tale quantità di ceramica farebbe pensare alla presenza di un mezzanino. La distruzione violenta della casa troverebbe conferma nel rinvenimento nel sito di un gran numero di ghiande missili (circa 160) prevalentemente in terracotta (incendio a seguito di un assedio del nemico?). Nel 1988, sempre nell'area centrale della città, sono stati portati alla luce resti carbonizzati di una casa (pali e pareti di legno con concotto) con pavimento di tavole di legno. Nelle case del IV secolo a.C. i tetti erano in materiale deperibile e la sola trave di colmo era protetta da tegole; i tetti in tegole furono realizzati nel III secolo a.C.
Il lampadario etrusco di Cortona. Il lampadario (in pratica una grande lucerna di bronzo) fu trov... more Il lampadario etrusco di Cortona. Il lampadario (in pratica una grande lucerna di bronzo) fu trovato il 14 settembre 1840 da alcuni contadini a Cortona in località Fratta nei possedimenti della marchesa Luisa Bartolozzi Tommasi (ed in particolare nel podere Fratta, campo il Biscione). Il monumento inizialmente fu conservato nel palazzo cortonese della marchesa che due anni dopo (1842) lo concesse in deposito al Museo dell'Accademia Etrusca. George Dennis che ebbe modo di vederlo nel 1843 lo definì "la meraviglia delle meraviglie". Il reperto venne dapprima offerto in vendita alla Reale Galleria di Firenze ma la trattativa non ebbe esito. Nell'ottobre del 1846 il lampadario fu acquistato dall'Accademia Etrusca per 1600 scudi (la richiesta fu di 2000 scudi) pagati ricorrendo ad un mutuo del Monte dei Paschi ed alla garanzia del Comune di Cortona. Il monumento, oggetto di restauro negli anni 90, è ritenuto uno dei pezzi più significativi della bronzistica etrusca. Il lampadario (diametro cm 60; peso circa 60 kg) fu realizzato in bronzo fuso con la tecnica a cera persa ed è composto da una vasca circolare per la raccolta del liquido combustibile e da un fusto cilindrico per l'attacco. La parte inferiore della vasca è decorata con varie scene figurate. La fascia esterna presenta figure alternate di sileni (otto) che suonano strumenti a fiato e di sirene (otto) alate con coda piumata e braccia piegate sul petto. La fascia mediana è ornata con onde stilizzate e delfini. Nella fascia più interna vi sono rappresentate una serie di lotte tra animali reali e fantastici (quattro gruppi di due fiere che assaltano animali più deboli). Al centro vi è un gorgoneion circondato da serpentelli attorcigliati. Sul bordo del lampadario sono sedici protomi di Acheloo (divinità dei fiumi e delle acque dolci) alternate a beccucci nei quali avveniva la combustione per mezzo di stoppini. Insieme al lampadario fu rinvenuta una targhetta inscritta inchiodata su due beccucci del lampadario stesso. L'iscrizione, apposta nel III-II secolo a.C., è stata interpretata come una dedica al dio Tinia (tinscvil) da parte della famiglia Musni e farebbe pensare ad una seconda dedicazione del monumento Il lampadario, databile alla seconda metà del IV secolo a.C., forse fu realizzato per una tomba particolarmente importante o più probabilmente per un edificio sacro (alcuni edifici della specie sono stati ritrovati nei pressi di Camucia). Successivamente il lampadario fu oggetto di una seconda consacrazione/dedicazione nello stesso santuario o forse in altro edificio o in una tomba. Lo stile e il livello delle decorazioni fanno supporre che il prestigioso oggetto sia stato realizzato da un'officina dall'Etruria interna centro-settentrionale (Velzna ?). La complessità della decorazione (un unicum rispetto ad analoghe grandi lucerne) rende molto difficile comprendere se oltre alla funzione ornamentale il lampadario potesse avere anche un significato simbolico. Secondo un'autorevole opinione, Paolo Bruschetti e Giulio Paolucci, il monumento potrebbe essere letto con riferimento alla cosmologia greca nonché al culto ed all'etrusca disciplina. Secondo altra tesi recentemente sostenuta da due studiosi, Ronak Alburz e Gijs Willaem Tol, la decorazione del lampadario, che risalirebbe al 480 a.C., rappresenterebbe il culto di Dioniso (non solo Acheloo ma anche Dioniso era sovente raffigurato con le fattezze di un toro!). Il lampadario è conservato appeso al soffitto al secondo piano del MAEC nella sala del lampadario etrusco.
Il banchetto in Etruria e le peculiarità della iconografia etrusca. Gli autori antichi (Diodoro S... more Il banchetto in Etruria e le peculiarità della iconografia etrusca. Gli autori antichi (Diodoro Siculo, Aristotele, Posidonio di Apamea, Teopompo, etc ...),fanno riferimento al banchetto etrusco. La rappresentazione del banchetto (che riguardava gli aristocratici ed i ceti più abbienti della società etrusca) costituisce uno dei temi più ricorrenti nella documentazione figurata etrusca e si ritrova frequentemente su vasi, lastre architettoniche, pitture tombali, cippi, stele, sarcofagi ed urne cinerarie. L'iconografia del banchetto nel corso dei secoli della civiltà etrusca presenta varianti di rilievo. La testimonianza archeologica più antica è costituita da un cinerario di impasto rinvenuto a Montescudaio, nei pressi di Volterra, databile alla seconda metà del VII secolo a.C. Sul coperchio del cinerario vi è riprodotto un ricco signore seduto su una sedia con spalliera (trono?) davanti ad una tavola a tre zampe riccamente imbandita, con a fianco un grande vaso per il vino, alla presenza di una figura femminile di altezza ridotta e con lunga treccia (una schiava?) che probabilmente doveva agitare un flabello (oggi perduto). La circolazione mediterranea delle rappresentazioni vascolari corinzie ed attiche (in particolare su crateri) con banchettanti distesi su letti (la moda greca derivava dall'oriente) ebbe però immediate ripercussioni sull'arte figurativa e verosimilmente anche sull'ideologia e sui comportamenti del ceto aristocratico etrusco (banchetto inteso come rito sociale e status symbol delle classi elitarie). La figurina recumbente riprodotta sul coperchio di un cinerario nell'atteggiamento di un commensale proveniente dalla necropoli di Tolle (Chianciano in provincia di Siena) della fine del VII secolo a.C. costituirebbe la testimonianza più antica della nuova iconografia etrusca del banchetto (peraltro la mancanza del letto e di altri accessori lascia qualche dubbio su tale interpretazione). In Etruria intorno ai primi del VI secolo a. C. cominciano ad apparire frequenti rappresentazioni del banchetto nell'ambito quotidiano (ad es. sulle lastre di terracotta decorate a rilievo provenienti dal Palazzo di Murlo, nei pressi di Siena,del VI secolo a.C.) ed in quello funerario (ad es. nelle pitture tarquiniesi della Tomba della Caccia e della Pesca della fine del VI secolo a.C. e della Tomba del Frontoncino della metà del VI secolo a.C.) i cui partecipanti non sono più rappresentati seduti, ma distesi, da soli, in coppia od anche in più persone, su letti triclinari. Anche in questo campo gli Etruschi però non si limitarono a "copiare" i modelli greci ma li rielaborarono adattandoli al proprio gusto ed al contesto sociale ed ambientale (in questo senso Giovannangelo Camporeale). La principale peculiarità dell'iconografia etrusca del banchetto è costituita, in coerenza con il diverso ruolo sociale attribuito alla donna, dalla partecipazione al rito delle mogli che condividevano il triclinio con i propri compagni o comunque in posizione seduta accanto al marito (in Grecia partecipavano al banchetto solo le etere). Dalla metà del V secolo a.C., per effetto dell'influenza del repertorio figurativo ellenico, la donna non è più distesa sul letto conviviale ma è compostamente seduta accanto al marito (cfr. ad es. le coppie rappresentate nell'urna da Città della Pieve del 425-380 a.C. e nella Tomba degli Scudi di Tarquinia del terzo quarto del IV secolo a.C.). Nel banchetto etrusco inoltre a differenza di quello greco non vi erano due diversi momenti: quello in cui si mangiava e quello in cui si consumava vino. Vi sono infatti scene di banchetto in cui uomini e donne sono rappresentati nell'atto di mangiare e di bere vino. Nelle rappresentazioni etrusche le coperte ed i materassi ricadono solo dai lati corti del letto; i banchettanti si appoggiano col gomito sinistro ad un cuscino piegato in senso verticale, che tengono fra il corpo ed il braccio; oltre al cane, presente nelle scene greche, a fianco dei letti possono trovarsi altri animali domestici come gatti, gallinacei e topi.
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