Lo S Uaderno: Squilibri e Fragilità Imbalances and Fragilities

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Explorations in Space and Society

No. 38- December 2015 Squilibri e Fragilità


ISSN 1973-9141
www.losquaderno.net
Imbalances and Fragilities

38Lo sQuaderno
TABLE OF CONTENTS
Squilibri e Fragilità/ Imbalances and Fragilities

a cura di / dossier coordonné par / edited by


Piero Zanini & Cristina Mattiucci

Guest artist / artist présenté / artista ospite


Oliver Zenklusen and Silvia Muller

Editoriale / Editorial
Cristina Mattiucci & Piero Zanini
In bilico / In the balance

Claudia Faraone
L’Aquila in tre atti

Sheyla S. Zandonai
The ‘Gambling City’: Geometries and Geographies of Urban Instability in Macau

Alina Pop
Famous but destroyed: on the vicissitudes of living in a community with an uncertain future

Renato Rinaldi
Lo stato delle cose. Piccole storie di comunità irreparabili

Carolina Mudan Marelli


La sproporzione come rottura comunicativa

3
EDITORIAL

Imbalances and Fragilities and “global”, between the “here” and the “world”, are
This issue collects some papers which explore the con- based on the need of knowing the everyday situations.
ditions of imbalance and fragilities of a place and /or Actually, here we can grasp the meaning of “hanging
among places, from different perspectives. The theme in the balance” and measure its tangible effects.
was solicited starting from the CFP, and its genesis, So the texts highlight and investigate imbalances and
as we make explicit in the following paper, trying to fragilities through the interaction and dialogue with
further deepen some issues. the context - by reading minutes themes (as the post-
Imbalances and fragilities can be interpreted as earthquake houses in L’Aquila by Claudia Faraone),
attributes, not necessarily complementary, belonging or by exploring the contexts’ materiality (as in Macao
to a milieu that is, or is to be, sometimes suddenly, by Sheyla S. Zandonai), or by means of the disputes
“hanging in the balance”, because of different reasons. where it is subject / object (as in Rosa Montana by
Alina Pop), or showing its apparent hopelessness (as
in Drenchia by Renato Rinaldi), and by expressing the
Albeit in different forms and in a more or less explicit disproportion that characterizes it (as in Scampia by
way, the articles of this issue push the reflection in Carolina Mudan Marelli) - even if each of the authors
this direction. Each of them by starting from a deep are at the same time very able to propose issues that
knowledge of the context and showing how the go beyond the contingency.
understanding of the relationships between the “local”
P.Z. & C.M.
EDITORIALE

Squilibri e fragilità
Questo numero raccoglie una serie di riflessioni che indagano da prospettive diverse  le condizioni di squilibrio
e fragilità di un luogo e/o tra luoghi. Il tema è stato sollecitato a partire dalle riflessioni della CFP, e dalla sua
genesi, come raccontiamo nel pezzo che segue, cercando di approfondirne alcuni aspetti. Squilibri e fragilità
possono essere interpretati come attributi, non necessariamente tra loro complementari, di un milieu che per
differenti ragioni si trova, o viene a trovarsi, a volte improvvisamente, “in bilico”.
Pur se con declinazioni diverse e in maniera più o meno esplicita, è in questa direzione che gli articoli raccolti
in questo numero hanno spinto la riflessione. Ognuno, a partire da una profonda conoscenza di un contesto,
mostrando come la comprensione dell’articolazione tra il “locale” e il “globale”, tra il “qui” e il “mondo”, trovi
ragione nella necessità di praticare il quotidiano. E’ lì infatti che possiamo coglierne il senso e misurarne gli
effetti tangibili.
E’ nell’interazione e nel dialogo intrecciato col contesto, nella lettura di temi minuti (le case de L’Aquila post-
terremoto di Claudia Faraone), nel confronto con la sua materialità (la Macao di Sheyla S. Zandonai), con le
controversie di cui è soggetto/oggetto (la Rosa Montana di Alina Pop), con la sua apparente irreparabilità (la
Drenchia di Renato Rinaldi), con la sproporzione che lo caratterizza (la Scampia di Carolina Mudan Marelli), che
squilibri e fragilità vengono qui messi in luce e investigati, sempre proponendo allo stesso tempo questioni che
ne travalicano il carattere contingente.
P.Z. & C.M.

5
In bilico
Cristina Mattiucci
& Piero Zanini

L’idea di questo numero nasce alcuni mesi dopo il terremoto che nella notte del 6 aprile 2009 Piero Zanini is a researcher
ha avuto come epicentro la città de L’Aquila e l’intera sua conca, devastando il centro storico at the Laboratoire Architecte
Anthropologie (UMR-LAVUE 7218
del capoluogo e gran parte dei paesi del suo territorio provinciale1. CNRS) and an associate faculty
member at the Ecole Nationale
Entrambi avevamo seguito, più o meno da vicino, il dibattito sulla ricostruzione e le pole- Supérieure d¹Architecture of Paris-
miche che l’accompagnavano. Attraverso l’esperienza di persone a noi vicine che in qualche La-Villette. His main interestet is in
modo avevano subito quel terremoto, avevamo modo di conoscere le molteplici nuances di the ways and forms that structure
quel dibattito e delle azioni che immediatamente dopo la tragedia erano state intraprese, the transforming relationship
between people and the places
sia a livello locale che su scala nazionale, per gestire l’emergenza, e che già permettevano di they live in, in the urban as in the
riconoscerne gli impatti e gli effetti di lunga durata. alpine context.
L’orecchio e lo sguardo teso su L’Aquila, che nel frattempo era diventato un “caso”, implicava Cristina Mattiucci, Architect, PhD,
is a contracter professor in Urban
un confronto costante con le esperienze note di altri terremoti e di altre ricostruzioni, dal Be- Plenning at the Department of
lice (1968) al Friuli (1976), dall’Irpinia (1980) all’Umbria (1997), dando giorno dopo giorno Sociology and Social Reserch
senso a quanto sosteneva Ignazio Silone, dopo un altro sisma abruzzese, quello del 1915, at University of Trento. Her
researches concern with landscape
quando diceva che (quasi) tutti i post-terremoti sono un’altra tragedia, spesso peggiore. in its multiple meanings, with
L’Aquila sollevava una serie di questioni che ci sono sembrate importanti. Tra queste, il fatto a predilection for its feature of
inhabited territory and public
di interrogare l’idea di futuro intorno alla quale si stava mobilizzando la “(ri)costruzione” della space.
città e del suo circondario, a partire da quella implicita e pre-formattata nella retorica (e nelle
pressioni che l’accompagnavano) delle new towns2 imposta dal governo già pochi giorni
dopo il terremoto. Una sorta di formula, di ricetta adattabile rapidamente a quel contesto
proprio perché in realtà indifferente a qualunque contesto, e che in nome dell’urgenza assu-
meva l’abitare come il mero fatto di avere una casa, prefabbricata negli interni fino all’arredo
e agli elettrodomestici, lontano da un centro pericolante, e che in pochi mesi ha portato alla
realizzazione di una serie di “quartieri” residenziali distribuiti sul territorio della provincia
abruzzese.
Come spesso accade, tuttavia, la riflessione intorno a quali prefigurazioni di futuro agissero
nel contesto post-sisma, e a quali processi contribuissero o meno a reificarle, restò sospesa,
benché il caso aquilano continuasse ad esserne una misura, pur col ridursi della sua centralità
nelle cronache italiane, e malgrado l’assenza di quel fervore politico e intellettuale che

1 Il bilancio definitivo è di 300 morti, 1600 feriti e oltre 60.000 sfollati.


2 Ci riferiamo qui ai cosiddetti Progetto C.A.S.E (Complessi Antisismici Sostenibili ed Ecocompatibili) e M.A.P.
(Moduli Abitativi Provvisori) che con la loro disseminazione sul territorio hanno sostanzialmente capovolto i
rapporti demografici esistenti tra centro e periferia prima del sisma. 7
sembrava avere accompagnato la ricostruzione in altre situazioni simili.
Nel novembre 2014 siamo andati a L’Aquila, insieme con Claudia Faraone, che li è nata e
ha vissuto prima di trasferirsi a Venezia. In questi anni è stata un’interlocutrice privilegiata
nell’aggiornarci di cosa stava accadendo sul campo perché, come molti altri suoi conterranei,
anche lei è ritornata per alcuni anni a L’Aquila per a lavorare nella fase post-emergenza.
Andare sul posto a vedere le cose con i propri occhi sposta e reinterroga il nostro sguardo, e
ciò che credevamo di sapere si confronta e si scontra con la materialità delle cose, con ciò che
c’é, con quanto ci si presenta davanti in quel momento. Dopo alcuni giorni di passeggiate,
incontri e chiacchierate, ci siamo sorpresi a condividere in primis una sensazione, poi un pen-
siero: a più di cinque anni dalla notte del sisma, e pur nella varietà di situazioni riscontrabili
tra il capoluogo e i centri abitati più periferici, l’impressione era di trovarsi di fronte a qualcosa
in gran parte ancora sospeso, bloccato.
Come se la condizione transitoria del post-emergenza si fosse solidificata. Come se, usciti dal
terremoto come emergenza, il sommovimento prodotto dal sisma nello stato di un luogo si
fosse cristallizzato – nelle sue rovine, nel processo stesso della “ricostruzione”, nei suoi mo-
duli abitativi, nel “comfort” degli interni, etc. - come condizione profonda, stabilizzando una
parte (più o meno importante secondo le zone) degli squilibri e delle fragilità determinate
dalle scosse della primavera
Squilibri e fragilità diventano allora centrali perché recla- del 2009.
mano di prendere in conto e sondare tutto lo spessore di una Il tema di questo numero è
dimensione temporale altrimenti costretta sempre più spesso emerso in quel momento. E
dentro le strettoie dell’urgenza, e ridotta all’immediatezza di dal confronto con un’insie-
provvedimenti che questa “inevitabilmente” implica. me di politiche, retoriche,
progetti, quadri normativi,
situazioni che nel tentativo di rispondere ai danni del terremoto aveva alterato gli assetti
territoriali (disconoscendo innanzi tutto il ruolo simbolico e funzionale del centro città),
producendo risposte che di fatto ne rafforzavano gli effetti e, al contempo, frustravano le
possibilità e i tentativi di operare secondo altre logiche. In una situazione ancora “puntellata”,
a colpirci è stata una sorta di assenza, l’assenza – soprattutto nell’ambito degli studi urbani,
tranne alcuni rarissimi casi - di una riflessione pubblica, ampia e complessa sull’abitare nella
ricostruzione, capace, a partire dall’energia di chi in quei luoghi ci vive, di mettere assieme
immaginari, rapporti socio-economici e idee di città.
Ce ne fornisce un esempio in questo numero proprio l’articolo di Claudia Faraone, che
analizza come la questione edilizia abbia assorbito molte delle forze e delle prospettive della
ricostruzione, in una direzione che di fatto ha ridotto l’abitare alla casa e alla sua possibile
riproduzione per moduli e addizioni, alla sua dislocazione e collocazione (in base alla dispo-
nibilità delle aree), facendo astrazione del tessuto di relazioni, abitudini, memorie, pratiche,
che si stabilisce nello stare e nel frequentare un luogo, e che contribuisce al tenere assieme
una comunità.
In questo senso, l’Aquila ha assunto per noi un valore paradigmatico, inserendosi allo stesso
tempo dentro una riflessione più ampia, aperta ed in parte orientata dalle interpretazioni
proposte in questo numero, sul significato che possono avere lo squilibro e la fragilità, come
attributi non necessariamente complementari, di un milieu - delle sue costanti e delle sue
trame - che per differenti ragioni si trova o viene a trovarsi, a volte repentinamente - come
dopo una catastrofe naturale - “in bilico”.
La condizione d’instabilità (come qualcosa che “smuove” uno stato altrimenti percepito in
equilibrio) che i due sostantivi identificano, rimanda ad una molteplicità di connotazioni -
quella della sproporzione, della disparità, della precarietà, della rottura, della transizione,
etc. – ciascuna delle quali interroga a scale diverse il senso di scelte che riguardano le
trasformazioni di un luogo. In che modo la tendenza all’instabilità inscritta nelle categorie di
squilibrio e di fragilità, e le attese e le speranze che incorpora, rielabora la comprensione e/o
l’esperienza che possiamo avere di quel luogo? Che cosa diventa tangibile se, per una volta,
consideriamo il lato “debole”, “sensibile”, della faccenda?
Squilibri e fragilità diventano allora centrali perché reclamano di prendere in conto e sondare
tutto lo spessore di una dimensione temporale altrimenti costretta sempre più spesso dentro
le strettoie dell’urgenza, e ridotta all’immediatezza di provvedimenti che questa “inevitabil-
mente” implica, costringendo a considerare le dinamiche sociali e politiche nel tempo lungo.
E in un periodo storico dove la “crisi” nelle sue varie declinazioni, in Italia come in Europa e nel
mondo, è stata assunta come condizione strutturale gli esempi non mancano.
Sia che identifichino fattori strutturali e dinamiche di lunga durata presentate come inevita-
bili, o che muovano da scelte programmatiche, più o meno consapevoli e dichiarate, volte a
modificare o sovvertire un sistema di rapporti preesistenti, le categorie di squilibrio e di fra-
gilità ci chiedono al contrario di riconoscere come, nella nostra esistenza, “esperienza vissuta”
e “orizzonte d’attesa” siano costantemente l’una dentro l’altro e, nella varietà di modi in cui si
articolano, contribuiscano insieme alla costruzione di quello che chiamiamo “presente”, e alla
sua rimessa in questione.
E’ in questo senso che i testi qui raccolti orientano la riflessione, identificando tre questioni in
particolare. Innanzi tutto, la questione dello sguardo, del suo potere strutturante rispetto alla
realtà e ai nostri modi di comprenderla e raccontarla, e del posizionamento di chi prova a sta-
re “con un piede dentro e un piede fuori”, nel tentativo di esercitare lo sguardo ed assumerne
il potenziale pre-giudizio. Poi, la questione della scala, o delle scale, alla quale consideriamo
squilibri e fragilità, tenendo presente che ogni salto di scala non presuppone necessariamen-
te una continuità nelle logiche in gioco: al contrario, confondere le logiche specifiche ad ogni
scala è, nella semplificazione che introduce, in sé stesso un fattore che genera e alimenta
squilibri e fragilità. Infine, la questione temporale, che nella sua apparente evidenza ci ricorda
l’importanza dell’articolazione tra i tempi del agire quotidiano e quelli ben più lunghi delle
differenti dinamiche storico-sociali che lo intersecano.
Nella varietà di voci e di stimoli, gli articoli di questo numero ci ricordano di converso come
interrogare squilibri e fragilità significhi allo stesso tempo interrogare anche delle ipotesi
di equilibrio e di resistenza, spingendoci a ricercare delle modalità per tenere assieme le
tensioni che accompagnano l’esistenza di ciascuno, personale e collettiva, e quelle dei luoghi
che abitiamo.

9
In the balance As it often happens, however, the reflection
This number has been conceived a few months about which images of the future were acting
after the earthquake happened on April 6, 2009, in the post-earthquake and about the processes
which had as its epicenter the city of L’Aquila were contributing or not to reify them, remained
and its wide valley and devastated the historical suspended, although the case of L’Aquila has
center of the city and most of the towns in its continued to be a reference in our thinking, even
provincial territory. with the decline of its centrality in Italian news,
and despite the absence of such political and
We both had followed, more or less closely, the
intellectual fervor that seemed to go with the
debate about the reconstruction and the con-
reconstruction in other similar situations.
troversies which have gone with it. Through the
experience of people close to us, that somehow In November 2014 we went to L’Aquila with
had suffered that earthquake, we had the oppor- Claudia Faraone, who was born there and there
tunity to understand the many nuances of such lived before moving to Venice. During last years
debate and actions that after the tragedy had she has been a privileged interlocutor to keep us
been immediately undertaken, both locally and up-to-date about what was happening there,
nationally, to handle the emergency, and which because she was back in L’Aquila for a period to
already allowed us to recognise the impacts and work in the post-emergency phase, as others her
the long duration effects. fellow citizen.
Keeping an ear and an eye out for L’Aquila – that Going in the field to see things by themselves
in the meanwhile became a “case” - implied moves and questions our eyes, and what you
a constant comparison with the well-known thought you knew compares itself to with the
experiences of other earthquakes and other re- materiality of things, and sometimes clashes with
constructions, from the Belice (1968) to the Friuli them, with what there is, with what stands in
(1976), from the Irpinia (1980) to the Umbria front you in a moment. After a few days of walks,
(1997). Day after day, it has been giving us the talks and meetings, we astonished ourselves
awareness of what Ignazio Silone claimed after sharing primarily a feeling, then a thought: more
another earthquake in Abruzzo (1915), when than five years from the night of the earthquake,
he said that (almost) all post-earthquakes are and despite the variety of situations we found in
another tragedy, often worse. the main city and in the surrounding towns, the
impression was of being in front of something
L’Aquila raised a number of issues which seemed
largely still pending, as blocked.
important to us. Among these, exploring the
idea of the future which was driving the “(re) As if the transient condition of the post-emer-
construction” of the city and its surroundings, gency had been solidified. As if, once out from the
starting from the implicit and pre-formatted one, earthquake emergency, the upheaval produced by
related to the new towns’ rhetoric, imposed by the earthquake in the state of a place had been
the government a few days after the earthquake. crystallized - in its ruins, in the process of “recon-
A sort of formula, as a recipe able to be quickly struction”, in its housing units, in the “comfort” of
adapted to that context because in reality useful the interior, etc. - as a deep condition, which have
to any context, that - in the name of urgency - made stable some of the imbalances and fragili-
reduced the dwelling to the mere fact of having ties caused by the shocks in the spring of 2009.
an home, by prefabricated components with The theme of this issue emerged at that time. And
fornitures and up to appliances, far away from an it came from the reflection about a set of policies,
unsafe downtown. In a few months it has led to rhetorics, projects, regulatory frameworks, situa-
the creation of a series of residential “neighbor- tions which, while attempting to respond to the
hoods” scattered throughout the l’Aquila province. earthquake damages, produced answers that
in a way reinforced its effects and, at the same
time, frustrated any possibilities or efforts to work examples of that.
according to different logics. First of all, they had Whether they identify structural factors and long-
altered the territorial assets, disregarding the term dynamics presented as inevitable, or they
symbolic and function role of the city center. move from programmatic choices, which are more
What struck us was a kind of absence. Especially or less conscious and declared and are designed
in the urban studies except some rare cases, to amend or overturn a set of pre-existing
it emerged as the absence of a public, broad relationships, the categories of imbalance and
and complex reflection about dwelling in the fragility ask us to recognize as, in our existence,
reconstruction, able to consider the energy of the experience and the horizon are consistently
those who were living in those places and to put one inside the other, and, by the variety of their
together the imaginaries, the socio-economic shapes, they contribute together to the construc-
relations and the ideas of the city. tion of what we name “the present” and how to
In this sense, L’Aquila has taken a paradigmatic question it. .
value, since it could be inserted within a broader The texts collected in this issue drive the reflection
and open reflection, which could be partially in this sense, identifying three issues in particular.
oriented by the interpretations proposed in this First of all, the issue of the look, of its power of
issue, about the meaning that the imbalance and structuring the reality and the way we under-
fragility can have, as the not necessarily comple- stand and describe it, that is also the issue of how
mentary attributes of a milieu which for different and where those who try to be “with one foot
reasons is or is going to be - sometimes abruptly, in and one foot out” could position themselves,
as after a natural disaster - in the balance. while they attempt to perform the look and to
The condition of instability (as something assume its potential pre-judgment. Then, the is-
that “moves” a state otherwise perceived in sue of the scale - or the scales - to which we have
equilibrium) the two nouns identify, refers to a to consider imbalances and fragilities, keeping in
variety of connotations - disproportion, inequal- mind that any change of scale does not neces-
ity, precariousness, break, transition, etc.. Each sarily imply a continuity in the involved logics.
of them query at different scales the sense of It points out, on the contrary, that confusing the
choices about the transformation of a place. How logics specific to each scale is in itself a factor that
does the instability inscribed in the categories generates and feeds imbalances and fragilities,
of imbalance and fragility, and the expectations since the simplification it introduces. Finally,
and the hopes that it incorporates, orient the the issue of time, that in its apparent evidence
understanding and the experience of that place? reminds us the importance of the articulation
What becomes tangible if, for once, we consider among the timing of daily actions and the much
the weak and sensitive side of the things? longer timing of the different historical and social
dynamics the daily actions intersect.
Imbalances and fragilities become central because
they claim to take into account and explore By means of the variety of their points of view
the whole thickness of a temporal dimension and stimula, the papers of this issues remind
otherwise forced into the urgency’s bottlenecks us that exploring imbalances and fragilities
and into the immediacy of the action this urgency means at the same time exploring balances and
“inevitably” implies, so to force us to consider the strengths, stimulating the search for ways to
social and political dynamics in a long time. And stay among the tensions that accompany the
in a time where the “crisis” in its various forms existence, as individual or collective, or as the
was taken on as structural condition, in Italy as existence of the places we inhabit.
in Europe and in the world, there is not lack of the

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L’Aquila in tre atti
Dalle ordinanze per soddisfare il “fabbisogno
alloggiativo” all’esplosione di case
nella città-territorio Claudia Faraone

Prologo Architetto e dottore di ricerca in


Politiche territoriali e progetto
La cosa più urgente ed emergente all’indomani del terremoto che colpì alle 3:32 del 6 aprile locale. Alla ricerca affianca
2009 L’Aquila, capoluogo d’Abruzzo e città media di circa 70.000 abitanti, fu quella di fornire esperienze in studi professionali e
amministrazioni pubbliche, tra cui
una sistemazione e alloggio a tutti quelli che avevano la casa inagibile perchè distrutta o il Dipartimento di Protezione Civile
sprovvista di energia, a seguito della chiusura del gas per evitare il rischio di esplosioni e Nazionale e la regione Abruzzo.
incendi. Molte delle decisioni prese subito dopo il terremoto furono proprio in funzione di Recentemente è stata assegnista di
questo: dare una casa o almeno un tetto a tutti per poi iniziare la fase post-emergenza, ma ricerca presso lo IUAV in strategie
di rigenerazione urbana della “città
non dalle fabbriche come in Friuli (1976) o Emilia (2012), neanche –o non solo- dalle chiese pubblica” in Veneto e visiting
e luoghi di socialità, ma dalle case, “durevoli” o provvisorie. Nella fornitura di alloggi L’Aquila research fellow presso l’Università
è stata sicuramente un laboratorio di azione post-emergenza, inseritasi con alcune decisioni di Gent (BE).
di tipo urbanistico-territoriale in anticipo nel processo di ricostruzione (Calvi, 2010; Properzi, Dal 2007 si occupa di ricostruzioni
urbane post-terremoto e delle
2010)1. conseguenti trasformazioni dei
La casa dunque ha mosso l’azione pubblica, e in questa prospettiva sono state molte le loro paesaggi fisici e sociali,
nello specifico del caso di Skopje
decisioni prese, coordinate e non, che hanno avuto un precipitato sul territorio a volte incon- (FYROM) e L’Aquila, su cui
trollato o imprevisto. Per ognuna di queste decisioni ci sono stati un decreto o un’ordinanza conduce da circa 6 anni una
emanati, un atto amministrativo e politico, che in virtù delle condizioni eccezionali e in ricerca in progress - con il fotografo
Andrea Sarti - i cui primi esiti sono
deroga a vincoli e procedure ordinarie, ha deciso dell’assetto del territorio dei comuni appar- stati presentati alla Biennale di
tenenti al cosiddetto “cratere sismico”, con ripercussioni importanti anche sull’assetto degli Architettura di Venezia 2014,
strumenti urbanistici successivi2. Questo testo ne analizza tre nello specifico rappresentativi L’Aquila’s Post-Quake Landscapes.
di tre approcci alla provvisione di alloggi per l’emergenza e la ricostruzione, tre atti che oltre
a soddisfare il “fabbisogno alloggiativo” , sono stati anche strumento di azione sul territorio, [email protected]
una sorta di politiche pubbliche per la casa, in effetti poco coordinate e che per questo non
hanno saputo intercettare la fluttuante domanda di alloggio. Fluttuante perchè in 6 anni
molti sono i proprietari che sono rientrati nelle case riparate o che hanno deciso di non vivere
più a L’Aquila, per questo ci sono situazioni in cui gli appartamenti costruiti per alloggiare

1 L’Aquila post-terremoto è stata un laboratorio anche per altri aspetti, di natura politica e di governance nella
gestione dell’emergenza che hanno avuto come esito proprio le case, per i quali si rimanda ai seguenti contri-
buti (Erbani, 2010; Puliafito, 2010; Ciccozzi, 2013). Mentre i piani di ricostruzione delle aree omogenee sono
stati redatti in via sperimentali con un coordinamento interuniversitario i cui esiti sono stati presentati in alcune
pubblicazioni: (Caravaggi, 2010; Clementi, 2011).
2 Si veda a riguardo (Frisch, 2010) e sugli spazi pubblici post-terremoto in transizione si rimanda a (Faraone
and Faraone, 2013). 13
persone senza casa sono già vuoti3.
Tre decreti, tutti sulla casa, e i loro effetti che si sono depositati sul territorio aquilano in un
bricolage territoriale che ha approfittato della grande estensione del territorio comunale e
nello stesso tempo ne ha depotenziato la struttura di città-territorio (Clementi and Piroddi,
1986) verso un policentrismo poco funzionale e funzionante, almeno al momento di questo
scritto. Una questione di case dunque che non fanno città, non costruiscono urbanità, e un
mercato immobiliare che inizia già a essere saturo ma che ristruttura, ricostruisce e reimmet-
te sul mercato case a prezzi inaccessibili.
Atto I
Tre settimane dopo il sisma era pronto il primo e principale atto a regolamentare l’azione
post-emergenza: il Decreto-legge 28 aprile 2009, n. 39 intitolato “Interventi urgenti in favore
delle popolazioni colpite dagli eventi sismici nella Regione Abruzzo nel mese di aprile 2009
e ulteriori interventi urgenti di protezione civile” che sarà pubblicato in Gazzetta Ufficiale n.
97 del 28 aprile 2009. Nei due mesi successivi avrà una rettifica in G.U. n.102 del 5 maggio
2009, infine sarà coordinato con la legge di conversione n. 77 del 24 giugno 2009.
All’art.2 il decreto disciplinava gli interventi per il superamento dell’emergenza e dava al
Commissario delegato Guido Bertolaso, capo-dipartimento della Protezione Civile Nazionale,
mandato di provvedere con “termini di somma urgenza alla progettazione e realizzazione nei
comuni di cui all’art.1 di moduli abitativi destinati ad una durevole utilizzazione, nonché alle
connesse opere di urbanizzazione e servizi”. Nei commi successivi inoltre si chiarisce già la
natura e qualità delle opere edilizie ovvero “moduli abitativi garantiscono, nel rispetto delle
norme di sicurezza sanitaria vigenti, anche elevati livelli di qualità, innovazione tecnologica
orientata all’autosufficienza impiantistica, protezione delle azioni sismiche anche median-
te isolamento sismico per interi complessi abitativi, risparmio energetico e sostenibilità
ambientale”.
Si disciplina cioè la costruzione del cosiddetto Progetto C.A.S.E. (Complessi Antisismici Soste-
nibili ed Ecocompatibili) che è sottoposto al parere della conferenza di servizi appositamente
costituta e approvato dal Commissario delegato. La localizzazione degli interventi sarà moti-
vo di forti conflitti in quanto decisa dal Commissario, sentiti i Sindaci dei Comuni interessati
e il Presidente della Regione, sulla base della dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità
e urgenza. Il provvedimento di localizzazione successivo infatti varrà anche come decreto di
occupazione d’urgenza delle aree individuate.
La dislocazione di questi alloggi sarà dapprima immaginata in una città satellite, una sorta
di “Milano 2”4, proposta dal Presidente del Consiglio Berlusconi che riceve aspre critiche e
che successivamente, in un compromesso tra governo ed ente locale, sarà scomposta in
interventi di minore dimensione disseminati nel vasto territorio comunale, distanti dal centro
storico (per preservarne l’integrità) e affiancati alle frazioni, oppure laddove era prevista un’e-
spansione nella prima o seconda cintura, come da P.R.G. degli anni ’70. La regola generale
si applica anche alle frazioni più piccole o molto distanti dal centro, veri e propri paesini di
montagna al confine col Parco Nazionale d’Abruzzo. All’inizio dei lavori e successivamente ci
saranno grandi proteste perchè quel “sentito i sindaci dei comuni interessati” non equivale

3 Sulla situazione del mercato della casa si rimanda al Rapporto 2014-Economia e società in Abruzzo (CRESA -
Centro Regionale di Studi e Ricerche Economico-Sociali, 2015).
4 Progetto di sviluppo urbano per un quartiere residenzalie realizzato a Segrate, vicino Milano, negli anni ’70
dalla Edilnord di Silvio Berlusconi.
a una decisione coordinata e condivisa con la popolazione. Così come la toponomastica dei
diversi interventi rimarrà agganciata all’idea di città satellite e da L’Aquila 2 (città capoluogo)
si passerà Paganica 2, Coppito 2, Assergi 2, etc (frazioni).
Quando il Dipartimento di Protezione Civile si ritira, chiude i cantieri degli edifici residenziali
comprensivi delle urbanizzazioni e la gestione dei 19 interventi del progetto C.A.S.E. viene
affidata al Comune che si dovrà occupare dell’accatastamento degli edifici e della realizza-
zione degli standard urbanistici relativi ai servizi pubblici (scuole, playground, centri sociali
e chiese). Al momento della consegna è prematuro chiamarli quartieri in quanto mancano
dei servizi essenziali che normalmente si trovano in un quartiere e della rete vicinale che ne
costruisce la comunità.
Atto II
A differenza del primo atto, il secondo non prefigura le sue ricadute sul territorio, ma è
pensato e attuato solo in funzione del bisogno, della necessità più pressante al momento
della sua emanazione, ovvero quella di un tetto per chi nei territori terremotati non aveva
alternative, proprio come nel film di Vittorio De Sica del 1956 “Il tetto”5.
L’atto consiste in una delibera del Consiglio comunale di L’Aquila, la n. 58 del 25 maggio
2009. La delibera è immediatamente eseguibile e fornisce anche i criteri nell’allegato per la
realizzazione di manufatti temporanei, quelle che verranno poi definite “casette”. Inoltre dà
indicazioni per il termine d’uso per il quale - venuto meno il bisogno perchè nel frattempo
la casa inagibile è stata riparata - le casette devono essere smantellate. Ma soprattutto dà
indicazioni sulla loro localizzazione, queste casette infatti possono essere collocate su diverse
aree del territorio comunale con dif-
ferenti destinazioni d’uso, sia su aree
edificabili a destinazione residenziale Una questione di case dunque che non fanno città, non
come da Norme Tecniche di Attua- costruiscono urbanità, e un mercato immobiliare che
zione6 o ricomprese nelle zone che inizia già a essere saturo ma che ristruttura, ricostruisce
da P.R.G. hanno come destinazione e reimmette sul mercato case a prezzi inaccessibili.
d’uso Verde pubblico e attrezzato,
Servizi Pubblici, Attrezzature Generali, Parco pubblico urbano territoriale o Zona di Rispetto
dell’Abitato (in questo caso limitatamente al lotto di pertinenza di edifici esistenti). Infine su
aree ricomprese nelle aree destinate a Zona Agricola per le quali è consentita “l’installazione
temporanea di manufatti ad uso residenziale anche da soggetti non operatori agricoli e nel
limite massimo di 95 mq. di superficie utile”.
Il periodo di validità delle disposizioni previste dalla delibera fu definito a 36 mesi e l’am-
ministrazione si era riservata la possibilità di revocare la norma e per questo, dopo 18 mesi
dall’approvazione, si procede al suo ritiro con la delibera n. 145 del C.C. del 20 dicembre
2011. L’ammontare delle “casette” realizzate al 20 dicembre 2011 è di mille unità, secondo
quanto conteggiato dalle comunicazioni inoltrate dai privati in applicazione della delibera,
senza conteggiare quelle con l’istruttoria in avanzamento, o quelle realizzate senza inoltrare

5 Nel film la legge prevede che un edificio abitato, anche se costruito senza alcun permesso, non possa essere
distrutto se è provvisto di tetto e serva a soddisfare il bisogno di alloggio di un individuo senza casa. Narra la
storia di una famiglia senza casa che se ne costruisce una abusiva.
6 Il PRG vigente è stato adottato con deliberazione del Consiglio Comunale del 3 aprile 1975 ed è stato
approvato con deliberazione del Consiglio Regionale del 10 settembre 1979 n. 163\33, pubblicata sul Bollettino
Ufficiale della Regione Abruzzo n. 24 del 10 settembre 1979, definitivamente entrato in vigore a far data dal 25
ottobre 1979. 15
alcuna comunicazione7.
Evidentemente questo atto ha avuto un grande contraccolpo sulle trasformazioni del territo-
rio nei diciotto mesi successivi, talmente grande e inaspettato da aver bisogno della revoca
anticipata: se non fosse davanti agli occhi di tutti, ve n’è conferma sia nel testo della delibera
di revoca della delibera n.58 che in quello della revoca per la delibera n. delibera n.57/2009
(ripresa delle attività produttive).
Atto III
L’ordinanza della Presidenza del Consiglio dei Ministri n. 3753 del 6 aprile 2009, artt.1 e
5, “previo perfezionamento di apposita convenzione con il Comune medesimo” avvia la
possibilità di costituzione di un fondo immobiliare per l’acquisto di immobili privati con de-
stinazione abitativa nel territorio del Comune dell’Aquila, da destinare alla locazione a prezzi
calmierati in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici del 6 aprile 2009, anche
potenzialmente destinabili ad ‘alloggio sociale’ ai sensi dell’art. L. 9/2007 e relativo decreto
ministeriale attuativo (D.M. 22.04.2008).
Di questo si occupa Europa Risorse SGR, così come scritto dal suo amministratore delegato
Antonio Napoleone (Assini et al., 2010): “Europa Risorse è presente sul territorio della rico-
struzione dai giorni immediatamente successivi al terremoto e si propone, nel suo ruolo di
developer e con i suoi Fondi della Ricostruzione, di collaborare utilmente alla Ricostruzione”
in qualità di privato per l’interesse pubblico. Subito dopo il terremoto la società sottoscrive
con il Dipartimento di Protezione Civile, il Prefetto e il Sindaco, il Fondo dell’Emergenza, il co-
siddetto Fondo AQ, disciplinato dall’OPCM n.3769, che mette a disposizione della Protezione
Civile 500 appartamenti, poi ridotti a 3208, non utilizzati e non danneggiati dal sisma.
Per collocare il Fondo (ovvero costituirlo) partecipano FINTECNA S.p.A.9 e i fondi gestiti da
Fimit SGR S.p.A con i capitali di diversi enti previdenziali per 40 milioni di euro di capitali e
un gruppo di banche tra cui la CarispAQ, capofila e socia di Europa Risorse SGR, con altri 60
milioni di euro come finanziamento ipotecario. L’immissione di queste risorse nel mercato ha
avuto un duplice effetto e indirizzo: dare supporto ad alcuni costruttori locali e banche e dare
alloggio a centinaia di persone (le cifre riportate sono altalenanti, tra 800 e 2.000 persone).
Gli investimenti di queste SGR sul post-emergenza e sulla ricostruzione testimoniano di un
diverso approccio, rispetto ai primi due atti, che cerca nello stock edilizio esistente e nella sua
trasformazione spazio per alloggiare attività, non solo residenziali. Queste ultime sono state il
primo passo perchè di questo c’era necessità subito dopo il terremoto e perchè poteva essere
un primo passo per successivi coinvolgimenti. Laddove i nuovi interventi (atti I e II) si sono
concentrati sulle frazioni e lontano dal centro storico per “preservarne” la bellezza e unitarietà,
questo atto e quelli a esso concatenati hanno iniziato a ragionare sulla città esistente –

7 Bonotti, Confortini e Tira (2013) ne conteggiano 1500, in un lavoro esito del Laboratorio di Urbanistica a
L’Aquila, LaurAQ.
8 Recentemente il numero di alloggi e il progetto in sé sono tornati alla ribalta della cronaca, cfr: http://
news-town.it/inchieste/9171-fondo-immobiliare-gamma-rischiano-di-andare-in-fumo-20milioni-di-fondi-
pubblici-destinati-all-acquisto-di-appartamenti-per-l-emergenza-abitativa-servono-ancora-e-i-soldi,-che-
fine-faranno.html.
9 FINTECNA è una partecipata totalmente di Cassa Depositi e Prestiti SpA che è all’81% del Ministero del tesoro
e delle Finanze. Assorbiva con l’acquisto, gli edifici che i proprietari non volevano più o il mutuo che stavano
pagando per possederla; infine era incaricata di gestire la parte finanziaria della richiesta di concessione di
contributo per la ricostruzione (art. 3, comma 1 lett.a e 1 bis) del decreto legge 39/2009, convertito con
modificazioni dalla legge 24 giugno 2009, n. 77).
all’epoca classificata zona rossa - in maniera complessiva e al futuro. La prefigurazione data è
stata quella di un’azione sotto-traccia, enfatizzata a livello mediato ma poco visibile a livello
territoriale a differenza degli interventi del progetto C.A.S.E. e delle “casette”.
Intermezzo a conclusione
Questi tre atti e i loro correlati ci restituiscono una geografia del post-emergenza e rico-
struzione a L’Aquila un po’ sfocata, con delle porzioni di territorio ben marcate, soprattutto
a una vista zenitale, come il Progetto C.A.S.E., e altre più difficili da mettere a fuoco per cui
solo quando ci passi attraverso ne comprendi la portata perchè più minuscole e pulviscolari
o con cambiamenti che si manifestano solo nell’ambiance, nella sua atmosfera urbana. Di
questo secondo gruppo fanno parte le “casette”, gli appartamenti del FondoAQ, così come
gli edifici ristrutturati in centro che non hanno più le stesse attività, da terziario quasi tutti
sono destinati a ristorazione e alberghiero. Cosa resta invece del primo gruppo? Una città in
potenza, una pratica edilizia e urbanistica che non ha imparato dagli errori nella realizzazione
dei quartieri degli anni ‘60-‘80, un’urbanistica senza voce combattuta tra il suo non-peso
politico e lo schiacciamento a difensore dei beni artistici e architettonici con il leitmotiv del
centro-città “com’era dov’era”.
L’azione governativa di scala nazionale sulla città si è avvalsa della grande fragilità della città,
già vulnerabile dal punto di vista socio-economico prima che avvenisse il disastro, per deci-
derne di fatto il futuro assetto territoriale. La situazione attuale è di grande squilibrio proprio
a causa delle diverse forze in campo che portano ad una accentuata ridondanza di costruito e
a un percorso molto lento per l’approvazione del nuovo P.R.G.

Riferimenti
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dell’emergenza e della ricostruzione in Abruzzo. Padova: CEDAM.
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Minima’, in XV Conferenza Società italiana degli urbanisti 2012. L’urbanistica che cambia. Rischi e valori, Pescara:
FrancoAngeli o Planum?
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logica. Roma: DeriveApprodi.
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Properzi, P. (ed.) (2010) ‘Dio salvi L’Aquila. Libro Bianco’, Urbanistica Dossier, 123-124.
Puliafito, A. (2010) Protezione civile Spa. Quando la gestione dell’emergenza si fa business. Aliberti. 17
The ‘Gambling City’
Geometries and Geographies of
urban instability in Macau
Sheyla S. Zandonai

Macau’s latest phase of casino development has engendered staggering economic growth She received her Ph.D. in Social
and hectic urban and social transformations. Since 2002, when gambling liberalisation Anthropology in 2013 from
the École des Hautes Etudes en
(liberalização do jogo) put an end to the monopoly contract won in 1962 by Stanley Ho Sciences Sociales (EHESS). She is
Hung-sun’s Sociedade de Turismo e Diversões de Macau (STDM)1, gambling has dominated currently a Postdoctoral Fellow
the city’s economy, with an average of 15 per cent growth over the last ten years, reaching in the Department of Sociology
at the University of Macau
roughly 88% of Macau’s GDP in 20132. Beating Las Vegas in its own game, Macau became (China), and Research Associate
the world’s most lucrative gambling centre in 2006. Giving novel allure to its reputation at the Laboratoire Architecture
as a site of old-time casinos, liberalisation has produced new material forms and attracted Anthropologie (LAA-UMR 7218
LAVUE CNRS), École Nationale
significant human flows to the city, fostering economic activities tied to a specific gambling Supérieure d’Architecture de Paris
culture. While producing architectural narratives of monumentality and wealth, casino La Villette (France) since 2014. She
development has rapidly spawned strong spatial ambivalence and urban instability within has conducted extensive fieldwork
the cityscape. Here I provide a brief overview of how the rise of Macau’s gambling economy, in Macau. Her current research
examines the relationships
while virtually producing a ‘gambling city’ within the city, has come to increasingly embody between urban renewal and the
contrasts in the daily geographies of urban life. political economy of gambling and
tourism, and the emergence of
Macau developed in southern China at the crossroads of global maritime trade and colonial practices and discourses of heritage
(dis)junctions which placed Portuguese and Chinese people in the same historical route. The in Macau.
‘port city’ which made for Macau’s early glory and survival from the sixteenth to the mid- [email protected]
nineteenth centuries, was later replaced by the ‘colonial city,’ when Portugal claimed sover-
eign rights over the small territory3. As a Special Administrative Region (SAR) of China since
1999, the city’s history has been coterminous with casino development. In truth, however,
gambling is not new to Macau. It has been a regulated activity since the mid-nineteenth
century, when the incipient Portuguese colonial administration sought in its legalization and
taxation a means of economic survival, following the loss of its regional harbour position to
the British who took over nearby Hong Kong in 18434. What is new today is the economic

1 Six companies operate in Macau today. In addition to Stanley Ho’s STDM, renamed Sociedade de Jogos de
Macau (SJM), gambling licenses were granted to Wynn Resorts, Galaxy Casinos, Melco Crown, Las Vegas Sands
Macau, and MGM Grand Paradise.
2 GDP growth rates in real terms for selected years: 26,9% in 2004; 14,7% in 2007, 26,5% in 2011. Yearbook of
Statistics 2013: 344.
3 See, for instance, Boxer, Charles Ralph. 1948. Fidalgos in the Far East, 1550-1770, - Fact and Fancy in the His-
tory of Macao. The Hague: Martinus Nijhoff; and Wu Zhiliang. 1999. Segredos de Sobrevivência. História Política
de Macau. Macau: Associação de Educação de Adultos de Macau.
4 The first gambling licences were granted in 1849 to the game of Fantan, then one of the most popular games 19
and material dimensions of change the liberalisation has entailed.
Traditionally, casinos built under STDM’s monopoly concession (1962-2002), some of which
are still in operation today, were located in ZAPE (Zona de Aterros do Porto Exterior) and its
vicinity. ZAPE, a landfill concluded in the late 1930s, is located close to Macau’s outer har-
bour. A ferry terminal was built there in the early 1960s to connect the city to Hong Kong by
speedboat, at a time when visitors came mainly from this city. I call this area, which stretches
eastward from the Casino Lisboa, opened in 1970, between Rua de Pequim and Avenida da
Amizade, the ‘old casino district.’The first casinos after the liberalisation were built contigu-
ous to ZAPE, in another landfill reclaimed in the late 1980s, called NAPE (Novos Aterros do
Porto Exterior), and in additional landfills built in the east and west portions of NAPE itself,
e.g. Praia Grande. Here and there, casinos old and new were progressively squeezed into the
extant and developing urban fabric, next to schools, government offices, public gardens, and
residential quarters.
In addition to the ZAPE-NAPE area, located in the southeast part of Macau’s peninsula, casino
developments have also been erected in Cotai, still another plot of land reclaimed during the
1990s between the islands of Taipa and Coloane, which are located south of the peninsula,
and which are also part of the SAR’s territory. While the Cotai strip, somewhat inspired by the
notorious casino belt in Las Vegas, has emerged more as an enclave-like area and holds the
most lavish and monumental cluster of gambling developments –of which several are still
under construction today– the implantation of casinos in the peninsula distinguishes itself
from the model espoused by the latter in that here the city accommodates gambling, and not
the other way around.
Demographic concentration in the peninsula is high. The majority of Macau’s population
inhabit this part of the territory. It is one of the most densely populated places in China
and, arguably, on earth5. Since the end of the nineteenth century, several land reclamation
projects have expanded by roughly three times the size of its original area of three square
kilometres, partly to cope with demographic pressure due to increasing demand for housing,
but also to accommodate the casino developments mentioned above. Constantly reshaped
by different stages of land reclamation and
Casinos generate job opportunities and wealth at material development, Macau has been
the same time as they tend to disrupt social stabil- increasingly converted into a more inward-
ity and transform the urban landscape in ways
residents do not often find welcoming. looking and densely urbanized space.
Although gambling dens have long been
a well-known feature of Macau, modern
casino-hotels have only emerged after 1962, when STDM opened its first enterprise, Hotel
Estoril. Today, with further development, gambling venues reach out to more spectacular
forms, and continue to be part of people’s lives in several ways. Residents work in casinos and
hotels, and pass by the esplanade of such buildings everyday on their way to school, to work,
or to meet with friends. Some, perhaps many, eventually gamble or become more enthusi-
astic patrons during the few days in which the Chinese New Year is celebrated. Yet residents
also contest the establishment of casinos in settings of ordinary city life. The mass tourism
casinos attract and the unsavoury and contentious nature underlying the economic activities
they typically entail (e.g. pawnshops, loan-shark businesses, prostitution), some argue, have

in the South of China, and in 1851 to the Chinese lottery. Pina-Cabral, João de. 2002. Between China and
Europe: Person, Culture and Emotion in Macao, Continuum, London and New York: 94.
5 20,150 people per km2 in 2014 (Yearbook of Statistics 2014, DESC, p. 29).
sparked an “unhealthy environment.” Moreover, as they developed faster and gained more
dramatic shapes, many residents have trouble identifying with or recognizing parts of the
city. Support for the “pineapple-shaped” Grand Lisboa, for instance, is far from unanimous.
Thus, it is never an unequivocal relationship. Casinos generate job opportunities and wealth
at the same time as they tend to disrupt social stability and transform the urban landscape in
ways residents do not often find welcoming.
New casinos in Macau are consequential urban artefacts. On the exterior, these are mega-
structures, casting ‘show-off’ architectural types. By their monumentality and simulated-yet-
sometimes-real opulence, they espouse operations of material excess and extravagance. They
are eye-catching structures with metallic, radiant gold or red-brown façades. Ornamented
with huge LED panels and lighting, they make the jumble of neon lights that characterize
the streets and edifices of the old casino district at ZAPE look dim. With buildings rising
ever-higher and compositions more fantastically-shaped, revealing rounded, undulated or
de-structured forms, new casino resorts have cast a rather disproportionate effect over the
old, now seemingly outdated or decaying residential and public buildings they skirt. In a few
years time, they have contributed their share to producing a bold, towering skyline, drasti-
cally transforming Macau’s landscape6.
Casinos are also complex assemblages. The multi-function ensemble they come more often
these days to embody in Macau and elsewhere, e.g. Singapore, usually accommodates
several amenities: a gambling venue, a hotel, a shopping mall, a convention centre, spa
facilities, dining areas. Offering all sorts of services to lure patrons and harnessing different
tools to keep them inside their complex7, casinos’ controlled spaces constitute virtual cities
within the city. Conversely, their social and economic impact stretches out far beyond their
bounded geometries.
Acting as the prime engine for Macau’s tourism industry, gambling has fostered the develop-
ment of other related sectors of economic activity, e.g. construction, hotels, and restaurants,
generating important population movements. In addition to the large inflows of visitors
that casino resorts, and other tourist activities, attract to Macau on a daily basis, increasing
numbers of immigrant workers have steadily added to the local population8. There is demo-
graphic pressure over public transportation and a novel and increasing demand for housing.
Real estate prices have soared, pushing small family-businesses away from casino areas. New
urban projects change the course of streets and the itinerary of bus lines, at first challenging
people’s sense of orientation until they get accustomed to the emergent urban layout. Cater-
ing to growing numbers of avid and affluent visitors, who come now mainly from mainland
China9, pawnshops, money exchange parlours, Chinese restaurants, and jewellery stores
gradually flank new casino edifices at residential neighbourhoods in NAPE. Streets are taken

6 The Macau Tower and the headquarters of the Bank of China, both built before the liberalisation, have set this
process of increasing verticalisation in motion.
7 Casinos are known to be designed to divest visitors of their sense of time. They typically operate around the
clock, and have no windows, nor displays of time.
8 The number of visitors to Macau soared from roughly 11 million in 2003 to 29 million in 2013. Other tourist
activities include, for instance, visits to World Heritage sites (listed by UNESCO in 2005). The number of working
migrants reached nearly 137,830 in 2013 over a population of approximately 607,000 inhabitants for the same
year (Yearbook of Statistics 2013, DSEC, p. 47, 77, 180).
7 Thanks to the new individual visa scheme enacted by the Chinese central authorities in 2003. In 2013, 64%
of visitors came from mainland China, followed by Hong Kong visitors, with 23% (Yearbook of Statistics 2013,
DSEC, p. 159). 21
over by these satellite gambling trades, and become ‘standardized’ as it happened to the old
casinos district decades ago.
Therefore, casino development and urbanization have not only generated material imbal-
ances while casting new aesthetic characteristics –vertical, extravagant and monumental–
to Macau’s image and landscape. While new buildings saturate the urban fabric, the ensuing
demographic setup contributes to creating an overpopulated and more congested city. In
lending space to tourist practices and big business development, the gambling economy has
also drained parts of the city from existing or potential local uses, e.g. housing, hospitals. As
buildings are erected and space is transformed to accommodate capital and indulge visitors,
rather than its own residents, we should ask to what extent the emergence of Macau’s ‘gam-
bling city’ is not challenging and perhaps separating the latter from their sense of ownership
of the city.

Acknowledgments
I would like to express my gratitude to Peppino Ortoleva and Peter Zabielskis for their helpful com-
ments on earlier versions of this article. I would also like to thank the editors, Piero Zanini and Cristina
Mattiucci, for their additional review. Tim Simpson provided valuable assistance in proofreading the
final version. However, I am responsible for the interpretations and any errors that remain.
23
TheThe images of this issue are from a project by Oliver Zenklusen and Silvia Muller.
I met Oliver in Paris a few years ago, during a meeting of photographic gazes. We spoke about
imbalances and fragilities when we invited him to contribute to the issue by sharing images from his
work unkraut / over your cities grass will grow.
It was interesting talking at length with him and to discuss relations between the theme of this issue
and his work. Fragility of the urban dimension is latent in many of Oliver’s projects, but here there
is an implicit approach to exploring the fragility of the city using photography and botany. It is an
indirect method that starts in an aesthetic dimension, pointing first to the beauty of plants and to the
presence of nature in the city.
But the title speaks for itself and indicates what the project unkraut / over your cities grass will
grow is about, sampling botanical traces of a city after the city, abandoned, plants as signs of a city
fallen into ruin, although ruins are left to the imagination of the spectator.
Ergo, the work of a botanist and a photographer from the past surveying a present-day city lends
itself to different interpretations and inspires a variety of narratives.
Formally a simple portrait gallery of weeds inspired by the work of Anna Atkins the project makes
us aware of time passing through places and of a future when our city is inhabited no more.
The collected plants are weeds: plants we normally try to eradicate, perceived as a kind of enemy.
As Oliver wrote, “maybe here are the origins of townspeople’s horror of weeds: as soon as they turn
their backs on their city, pioneer plants strike root, followed by bushes and small trees, and finally
dense forest. Like Tikal, Angkor, Pripyat ... the city disappears, becomes legend or is forgotten - and
some times is rediscovered.”. Yet, the herbary of unkraut illustrates the beauty of plants, at the
same time subverting the concept of beauty as what we see are weeds we fear as a species for waiting
to grow on our ruins - but which remain fragile as individual beings.
And this gaze also subverts the normative dimension of the urban condition: looking at weeds,
revealing what they are, taking root, in beauty, against all odds, also calls into question the human
attitude to living with and to controlling nature - and the possibility of fundamental transformations
of these relationships.

C.M.

http://www.lesdelicesduchaos.ch/2015/08/unkraut-over-your-cities-grass-will-grow/
Famous but destroyed
On the vicissitudes of living in a community
with an uncertain future
Alina Pop

“I cannot stand strangers coming here and telling us what to do and to want for our lives! Who entitles you to Alina Pop is Senior Lecturer
do that? You don’t know the reality over here.” working in the Department
“Everybody knows about Roșia Montană! We’re famous now!” of Communication and Public
relations of the Christian University
“Even if they [the company] didn’t succeed to start mining yet, they reached the target of destroying our “Dimitrie Cantemir” of Bucharest,
community.” Romania. She completed her
“It’s true, I sold my house [to the company], but I didn’t betray Roșia Montană! I am against this project.” PhD in 2012 in social psychology
at the University of Rome “La
“Those who sold their land and house to the company shouldn’t be considered Rosieni. If you can do that it Sapienza”. Her field of expertise
means you don’t love Roșia Montană. Everyone who loves it is a true Rosian. If you love it, you can be one!” is social representations and
“I sold my house and decided to move away from RM. It’s not safe to stay here after they will use cyanide, I communication. Through her
am not stupid!” research she contributed to
a systematic analysis of the
“You should not listen to what outsiders are saying about the mining project. Just listen to the silent majority construction and communication
in town.” of social representations in conflict
“If they want to build the mine they will have to pass over my body!” situations, especially those related
to environmental issues.
“A decision must be taken, regardless of what kind. We cannot wait any longer.”
[email protected]
“Ceauşescu wanted once to do the same thing, but he abandoned the idea because he didn’t dare to relocate
the entire Roșia Montană in order to extract the gold underground. Now they are doing exactly what even the
dictator didn’t dare to.”
“This gold belongs to us, not to the company. Romanians should take the benefit of it.”
“Nobody really cares about us… The authorities are corrupt and want only to get richer.”
“People are ignorant and greed. They didn’t only sell their properties to the company, they sold their souls.”
“There are many opportunists involved in this story, on both sides. People always want to take profit of any
situation.”
Above there are a few excerpts from my interviews with some of the inhabitants of Roșia
Montană (RM), Romania. They live (or used to live) in a place whose fame cannot be
disputed. What can be disputed – and is actually – is the place in itself: in the last 15 years
RM found itself at the centre of a heated debate around building on site Europe’s biggest gold
and silver mine. While the place has an ancient tradition of gold extraction, the still remain-
ing 300 tonnes of gold and 1600 tonnes of silver make of it one of the biggest deposits
in Europe. Roșia Montană Gold Corporation (RMGC), a joint venture between a Canadian
mining company (80%) and the Romanian state (20%), plans to exploit the deposit through
opencast mining and by using a cyanide-leaching technology, methods often referred to as
“conventional mining”. The project footprint covers an important area of the ancient mining
town of Roșia Montană and two nearby villages, implying the relocation of some 2,000
27
inhabitants residing in more than 900 households. The very existence of RM as a village was
put into question. Ecological, cultural, human and property rights, and economical reasons
have been brought forward over the years by the ad-hoc formed social movement “Save
Roșia Montană” (SRM) in order to contest the project. The same lines of arguments, but
used in reverse, were claimed by RMGC and its supporters in order to encourage the start of
it (Pop, 2014). Although most of the inhabitants initially have opposed to the project, not
willing to resettle, between 2002 and 2010 the RMGC managed to buy around 80% of the
properties located on the project footprint. While local resistance to the project declined,
it has been strengthened by the involvement in the controversy of important extra-local
actors, like international NGO’s and environmental activists, prestigious Romanian institu-
tions, celebrities, and lots of ordinary citizens (mostly urban and educated) determined to
fight against the corporate project. The RM controversy has been constantly de-localized,
RM becoming rapidly a national and international political issue. The future of no other place
in Romania has been so much disputed as RM’s future, a future that still remains uncertain.
Although RMGC envisioned to obtaining the first gold ingot in 2005, 10 years after it still
lacks a series of permits in order to
Ever since the corporation publicly announced its plans, start this
mining. It is hard to imagine
scenario could have been
the local community faced an enduring and endemic
conflict, manifested even at the most intimate level of possible without the efficient fight
families. To sell everything and leave or to stay and fight of the SRM.
(or simply wait) was the pressing dilemma. Within a wider research program, I
analyzed the RM controversy, mani-
festing at societal level, in terms of
a struggle between polemical social representations. These are contrasting interpretations or
“forms of truth” about Roşia Montană, purposively created and circulated by social players
with a view to action, i.e. to determine the start or the annulment of the mining project.
Through their mobilizing actions and discourses, these players shaped representational
systems in order to create social realities, or “collective fictitious entities” (Bentham quoted
by Moscovici, 2001, p. 18) that serve their own vision and interests and hence unite people
in a particular interpretation of the Roşia Montană affair. Polemical social representations are
most closely associated with the identities and objectives of particular groups (Moscovici,
1988).
In this paper I focus on the local population from RM in its double role: that of Subject and
Object of the polemical representations emerged in the RM controversy. According to a
classical definition, a social representation is “a form of knowledge, socially produced and
shared, having practical ends and competing for the construction of a common reality for a
social ensemble” (Jodelet, 1989, p.36). A social representation is always the representation
of something (Object) belonging to someone (Subject). Social representations are formed in
the triadic relation between the Subject, Object and Other, which define the particular field
of analysis in social psychology (Moscovici, 1984). A psychosocial analysis of the conflict
over RM can take RM both as a Subject and an Object of social representations. In the case
of the former, analysis consists of a community-based study taking the local actors involved
in the conflict as subjects that construct and carry representations in order to define the
reality they face in an exceptional time in the history of the community. In the latter case,
analysis focuses on the presumably divergent representations of RM and of other objects that
are created and transmitted by actors with different stakes in the conflict, representations
circulating in the wider space of the social arena. I will briefly show here how, in both of the
postures mentioned, the inhabitants of RM, or Roşieni, are affected by the imbalances and
fragilities brought by the conflict over the future of their community.
Social representations about the Roşieni
The local population of RM is only one of the multiple objects for which social representa-
tions of polemical type have been elaborated throughout the controversy. Regardless of
which side constructed and circulated them, the representations about the Roşieni are
pre-eminently reductionist. The SRM portrays the Roşieni as victims of both corporate power
and corrupt Romanian political system. Despite coming from a place with a strong mining
tradition, they are currently re-presented as farmers, willing to live in a nonindustrial envi-
ronment and in closeness to nature. Legitimately, the fight to save RM is also about saving
them, but without acknowledging that some of the inhabitants do want the mine to be
built. On the other side, the RMGC also constructed, via advertising or public communication,
a simplified image of the Roşieni: for the company, the vast majority of the local population
is favouring the project that will bring economic and ecologic restoration of the area. Because
of the strong support they got from extra-local activists, indigenous opponents are portayed
in the company’s discourse rather as outsiders, not representing truly the interests of the
community in RM. As one can see from the short list of excerpts above, the community of
RM is actually multi-voiced, contradicting thus the simplified versions of “the truth” about
the Roşieni upheld by the conflicting camps.
Media coverage of the issue resulted in an overly simplified media representation of the RM
inhabitants. Regardless of the fact that they were sequentially referred to as people living the
drama of having to leave their hometown, as victims of corporate greed and challengers of
it, as jobless miners wanting the project, or as recently enriched after selling their proper-
ties, none of the 916 articles from local and national newspapers which I analysed didn’t
really offer a complex image of the local population, recognizing its variety and difference
in positioning in the conflict (Pop, 2014). Reduced to some “essence” or another, as object
of social representation, the locals from RM become easy to grasp and seemingly unprob-
lematic. A longitudinal analysis showed that, along with the de-localization of the conflict
and the making of RM a national issue, the focus of the articles was increasingly less put on
the Roşieni, which proves again that this object became unproblematic and, thus, no longer
capable to generate a representational process. Instead, the place RM – but not its citizens –
became increasingly valuated.
The Roşieni as makers of social representations
Ever since the corporation publicly announced its plans, the local community faced an
enduring and endemic conflict, manifested even at the most intimate level of families. To sell
everything and leave or to stay and fight (or simply wait) was the pressing dilemma. Some
members of the community accepted the compensations offered and resettled, the rest be-
ing forced to live in a place steadily emptied of people. According to one of my interviewees,
the community has been already destroyed by the company. It not only enticed people to
leave their native place, but it made the previously peaceful community clash. Among the
impoverishment risks associated with the resettlement of RM, Alexandrescu (2011) docu-
ments joblessness, homelessness, landlessness and social disarticulation. Living with uncer-
tainty, with the loss of hope and the impossibility of imagining alternative scenarios than the
ones suggested by outsiders, be them representatives of the company or of the anti-project
NGOs, also mark the inhabitants of RM who then built their resistance on national feelings of
rootedness or argument their support for the project via an ambiguous and vacillated pro- 29
capitalist discourse (Velicu, 2012).
Social scientific studies have insisted on the diversity in positioning and the complexity of
the problems, challenges, fears and hopes that the local population face. I will point here on
some weaknesses and strengths met by the Roşieni when constructing social representations
about themselves, the mining project and the situation they live in. One difficulty derives
from the previously discussed simplifications. My encounters with the Roşieni showed
that they are generally unhappy with the stereotyped images circulated by the media and
subsequently accepted by those people unfamiliar with the topic. They felt to be the most
entitled to tell the “true side” of the story, but frustrated that the complex picture, full of
details, that they offer is somewhat neglected by journalists and other outsiders. To avoid
the same simplification trap, I must mention the differences between the supporters and
opponents to the project (not forgetting the undecided) with regard to their willingness to
voice their representations in front of a stranger, as I was. Despite transforming themselves
into a minority at local level, members of the opposition group were far more vocal and
willing to talk to me than the rest of the people I’ve met in RM. Fears of moral judgements
coming from an outsider who doesn’t really understand the local situation may explain this
reticence. Besides showing less openness, supporters of the mining project or presumably
undecided Roşieni were more suspicious regarding my scientific purposes. The first quote
opening the article shows exactly this kind of anger, related to the suspicion that I might be
an anti-project activist.
The representations shaped by the Roşieni, also of polemical nature, are not fundamentally
different from the ones shared at societal level, RM being part of the larger social ensemble
in which they were constructed and transmitted. What is striking when investigating social
representations expressed locally is the inability of the Roşieni to be aware of these similari-
ties. The fact that they are in the middle of the conflict and that this struggle is also about
their destiny gives them the feeling of being the only acceptable source of knowledge about
Roşia Montană. This feeling of empowerment is unfortunately rapidly countered by their
impossibility to abolish uncertainty about the future of RM, along with the weakening of
their publicly acknowledged voice, either as project supporters or opponents.

References
Alexandrescu, F. (2011). ‘Gold and displacement in Eastern Europe: risks and uncertainty at Rosia Montana’.
Revista Romana de Sociologie, 1-2, 78-107.
Jodelet, D. (1989). Représentations sociales: un domaine en expansion. In D. Jodelet (Ed.) Les représentations
sociales (pp. 31-61), Paris: Presses Universitaires de France.
Moscovici, S. (1984). Introduction: Le domaine de la psychologie sociale. In S. Moscovici (Ed.) Psychologie
sociale (pp. 5-22), Paris: Presses Universitaires de France.
Moscovici, S. (1988). Notes towards a description of social representations. European Journal of Social Psychol-
ogy, 18, 211–250.
Moscovici, S. (2001). Why a theory of social representations? In. K. Deaux & G. Philogène (Eds.), Representations
of the social: Bridging theoretical traditions (pp. 8–35). Oxford: Blackwell.
Pop A. (2014). Roșia Montană: social representations around an environmental controversy in Romania, Aachen:
Shaker Verlag.
Velicu, I. (2012): ‘To Sell or Not to Sell: Landscapes of Resistance to Neoliberal Globalization in Transylvania’,
Globalizations, 9:2, 307-321
Lo stato delle cose
Piccole storie di comunità irreparabili
Renato Rinaldi

Il progetto Lo stato delle cose - Piccole storie di comunità irreparabili nasce come un ciclo di Ha studiato recitazione,
trasmissioni radiofoniche e un’indagine su cinque comuni disagiati nella zona di confine tra composizione e musica elettronica,
lavorando a lungo in teatro
Italia Austria e Slovenia. prima come attore poi come
compositore. Ha realizzato musiche
Per la sua realizzazione, con Andrea Collavino siamo partiti dall’idea che in questi territori, per installazioni video e sonore
nonostante siano rimasti con pochi, a volte pochissimi, abitanti, ci sia talvolta ancora un e radiodrammi e documentari
“luogo” che funziona come catalizzatore per un’intera collettività. Luogo non riconosciuto uf- radiofonici per la RAI e Radio
ficialmente e nemmeno frutto di una scelta deliberata, ma piuttosto conseguenza e rivelatore France. Da anni collabora a progetti
multimediali legati al mutamento
di uno squilibrio che ha originato altre pratiche del territorio. Solo una lunga frequentazione del paesaggio contemporaneo:
e un’attenta osservazione avrebbero permesso di individuare per ognuno di questi comuni, Transient (con A. Linke, G. Ielasi,)
il luogo eletto a nuovo “centro”. Da lì saremmo partiti per raccontare tutto quello che vi si Alpi (con A. Linke, P. Zanini),
Desertmed (con A. Martegani,
aggrega attorno e per tentare di capire qualcosa delle dinamiche connesse allo spopolamen- A. Linke, G. Silva e G. Ielasi).
to di questi luoghi. Nel 2012, la sua sceneggiatura
del documentario Babel Blu ha
In tutti questi comuni le vecchie regole della comunità rurale non funzionano più, e il tessuto ricevuto la menzione speciale al
sociale ed economico che li costituiva è irrimediabilmente lacerato. Il loro spopolamento ha premio Solinas, e il documentario
lasciato poche persone sparse su un territorio vasto, un territorio che ha smesso da tempo di radiofonico Voicescapes è stato
scelto dalla RAI per rappresentare
essere rurale e che non ha ancora trovato una nuova definizione. Chi è rimasto ha bisogni che l’Italia al PRIX EUROPA 2014. Il film
le istituzioni non comprendono o a cui non sono più in grado di fare fronte, così ci si arrangia Eyelid (con F. Mattuzzi 2015) è
e ci si organizza come si può. stato selezionato per il CPH:DOX di
Copenhagen.
Il primo paese preso in considerazione è quello di Drenchia, il più piccolo comune friulano per [email protected]
numero di abitanti residenti, situato all’estremo orientale della provincia di Udine, al confine
con la valle dell’Isonzo, in Slovenia. Come per altri comuni della regione, col boom econo-
mico degli anni ’60 e lo spostamento del lavoro a valle si cominciò a orbitare tra la pianura,
sempre più rilevante fino a diventare una seconda comunità (anche nell’organizzazione della
vita pratica), e il paese in montagna che conservava ancora una forza di attrazione in virtù
dei legami familiari e affettivi.
Il legame che ancora oggi corre tra questi due poli è la corriera, l’unico mezzo di trasporto
che i nuovi operai si potessero permettere. La corriera diventa così per loro un altro dei luoghi
dove si passava una parte della giornata e, in fine dei conti, della vita. Nei viaggi quotidiani
pigiati come sardine tra paesani, compagni di lavoro e studenti, la corriera prende la forma
di una piccola comunità, mobile e temporanea, una comunità orbitante, come un satellite
gravitante tra quei centri di attrazione emotivi ed economici che erano il paese e la fabbrica.
31
Mi ricordo quando si andava a scuola, che durante la strada salivano tutti quegli operai che
andavano a Manzano... Arrivavamo a Cividale che non se ne poteva più, non respiravamo
nemmeno. Soprattutto d’inverno che eravamo tutti vestiti. Non era così terribile era anche
divertente.
È lì che comincia a costruirsi l’immagine della corriera come cordone ombelicale con il mon-
do urbano, immagine che ha conservato fino ad oggi anche se nel frattempo ha è cambiato
di segno, e la calca ha lasciato il posto al vuoto. Rimane il retaggio che quello non era un
mezzo di trasporto come gli altri ma era, e forse è ancora, prima di tutto un luogo di incontro,
pubblico. In questo senso, la corriera racconta meglio di qualunque altra cosa, essendo al
tempo stesso è il luogo del racconto, le dinamiche dello spopolamento, l’evoluzione di un
pendolarismo che non poteva essere perpetuo. A Drenchia, come in molti paesi di montagna,
la diaspora a valle, verso la pianura, segue l’itinerario delle autolinee, e la parabola di una
comunità coincide con la tratta di una corriera.
Il mio mestiere è fare l’autista, sembra una cosa normale ma non lo è. Qui non è come in
città, qui tutti ti conoscono ti chiedono un favore e tu glielo fai.
Norma ti ricordi l’anno che hanno fatto la strada da Trinco a Cras?
No, non mi ricordo! [...] Nel cin….quanta….cinque! [Era] il ‘54 o il ‘55 che hanno fatto la
strada, che hanno congiunto Cras a Trinco e poi hanno fatto la strada più avanti per andare
giù a Clodic... il ‘55 se non sbaglio! Mi ricordo che Vittorio (mio marito) era in Canada
quella volta e gli ho scritto: “è venuta la corriera a Cras” - gli ho detto - “era da portare la
bandiera!” (ridono).
L’ho scelta io questa linea, parte da Cividale e viene su a Cras di Drenchia. La mattina parte
alle 6:40 da Cras e scende a Cividale, alle 13:20 parte da Cividale e viene su a Cras, poi alle
15:25 riparte da Cras e va giù a Cividale e alle 17:50 parte da Cividale e viene su a Cras,
punto, FINE! Che vuol dire che a me piace, io la faccio volentieri, è una linea, soprattutto
d’inverno, molto impegnativa, ma bisogna accettare quello che c’è.
Chi guida la corriera è una persona cui fare riferimento, è lui il responsabile di quel oggetto
che anima un paesaggio altrimenti fin troppo fermo, come “bloccato”. Non sempre la corriera
ha un’utilità concreta e immediata, la maggior parte delle volte rivela che la sua funzione
è solo potenziale. In realtà pochi la usano, ma tutti la citano. A volte è il fulcro dei discorsi,
scandisce e ritma la giornata, e solo l’idea dell’interruzione del servizio crea una sospensione,
almeno apparente, della vita del paese.
D’inverno siamo solo noi qua in paese... vanno tutti giù. Il ghiaccio sulle strade, il freddo,
la neve, non è facile, infatti c’è molto il senso dell’accumulo... facciamo la spesa, ti riempi i
congelatori e succeda quel che succeda. L’altro giorno siamo rimasti senza luce per via della
neve, un mese fa c’è stata quella tromba d’aria - si può dire cosi? - e siamo rimasti cinque
giorni senza luce... Eh, non è facile e così van tutti giù. Non puoi fare la spesa, la corriera
non passa, gli anziani non possono andare giù con la corriera… per cui i figli si prendono
gli anziani e li portano giù da loro, così hanno meno da fare, [né] legna da tagliare...
loro stanno al caldo e se succede qualcosa son lì. Perché le ambulanze se c’è la neve non
possono venire su, come è successo a noi una volta con il nonno (ride) sono arrivati fino a
Peternel, poi si son trovati gli alberi sulla strada, e cosa fai? Svegli il paese venite a tagliare
questi alberi e così è venuta l’ambulanza a prendere il nonno. Per quello prendon gli anziani
e li portan tutti giù, ma c’è chi è cocciuto e non vuole andarsene, rimane qua con la sua
legna e le sue quattro cose...
…adesso come adesso non c’è quasi nessuno, quasi nessuno, si può dire che viaggio più
volte da solo che in compagnia... purtroppo! Quasi tutte le persone anziane se ne sono
andate, anche recentemente una è scomparsa, la Elena di Trusgne che andavo addirittura
a prenderla a casa, lei mi telefonava, siccome Trusgne è molto lontano da Cras, lei mi tele-
fonava e io la mattina passavo a casa sua a prenderla e poi la portavo giù con la corriera
e quando tornava su la portavo di nuovo a casa. Alla fin fine mi ero affezionato a quella
persona, era gentile e veramente una bella persona…
Gli autisti, da parte loro, sono un’altra
piccola comunità di figure angeliche che La corriera è l’ingranaggio principale del meccanismo
fungono quasi da custodi del territorio, che mantiene ancora in vita la comunità, e con tre corse
e in certe situazioni il loro intervento al giorno scandisce il tempo, ritma le giornate e rompe
è provvidenziale e, come “deus ex l’immobilità apparente del paesaggio, diventando argomento
machina”, provvedono là dove non arriva di conversazione.
l’assistenza sociale.
Abbiamo gli autisti! Tre son dalle parti di Tribil, ma abitano giù e il quarto, quello del
giovedì, è dalle parti di San Leonardo, uno è di Liessa, sono simpatici! Abbiamo tutti autisti
della zona! Ognuno ha la sua tratta…
Da mezzogiorno fino alle tre corro io su di qua! Tre volte a settimana, la mattina e la sera,
l’inizio del turno e la fine del turno lo fa un mio collega.
A tutti i paesini di montagna tocca lo stesso destino di Drenchia, come turismo non è
che sia il massimo, non ci sono strutture, non c’è niente, probabilmente nessuno ha mai
pensato a fare del turismo qua in giro… Bisognava pensarci 30-40 anni fa, allora avrebbe
portato qualche beneficio, ma adesso… l’estate si anima un po’ di più, ad agosto qualche-
duno arriva sempre.
Oggi questi paesi attirano ancora qualcuno, anche persone giovani, ma spesso si tratta di
persone in “fuga” da comunità più grandi considerate oppressive, spinti da un desiderio
di solitudine e di autonomia che rende fragile il tessuto connettivo dei legami: gli altri, la
mediazione, la condivisione degli spazi sono un fastidio, e ciò che cercano è un posto dove
poter praticare un individualismo anarchico, dove “posso fare quello che voglio”, e in questo
sono in linea con il destino di questi luoghi dove la funzionalità delle strutture sociali è ormai
compromessa: non ci sono luoghi pubblici che funzionano da punti di aggregazione in certi
comuni persino il municipio non è aperto tutti i giorni.
C’è tanto giro da Trieste, da Monfalcone... vanno a vedere le trincee, studiano la guerra. Ma
ci sono anche anziani che hanno voglia di starsene per i fatti loro, leggersi i loro libri sull’er-
ba o famiglie con i cani, bambini che semplicemente vengono qua a giocare. Tanti tedeschi
e austriaci, si stranieri, c’è anche un po’ di traffico sloveno, ma perché siamo sul confine.
Qua siamo a Drenchia, non so a quanti metri in linea d’aria dal confine con la Slovenia, sul
confine di Kolovrat. Kolovrat è il confine con la Slovenia è quel monte che vedete venendo
in su.
Diciamo che siamo nell’angolino remoto del nord-est, più remoto di così, siamo sul confine
quindi abbastanza sperduto, se ti metti a urlare qua non ti sente nessuno e nemmeno non
ti soccorre nessuno perché non c’è nessuno.
Non lo so quanti siamo ma non più di cento residenti a Drenchia, ma abbiamo tanti paesini
che adesso sono semivuoti.
33
La vita non è facile anche quando si è in pochi se ci sono poche occasioni per avere rancori
non c’è però nessuna possibilità che ci sia alcuna mediazione e quindi i sentimenti si esaspe-
rano, le persone sono lontane e le reti di alleanze sono deboli.
Zitto che faccio l’elenco: Trusgne, Oznebrida, Cras, Llase, Drenchia superiore e Drenchia
inferiore, Trinco, Zuodar, Krai, Clabuzzaro, Prapotnizza... Prapotnizza, Zavart, Obenetto,
Malinske... Peternel e Paciuk!
Saranno 90… 86 abitanti, pochi ma buoni.
Per il fatto stesso di muoversi, di tagliare quotidianamente quello spazio, la corriera diventa
fonte di vita. Scortato dagli sguardi degli anziani abitanti che sorvegliano il suo passaggio
da dietro le finestre, diventa un oggetto con un potenziale enorme, il vettore dei desideri:
può portare, e portare via, di tutto, tre volte al giorno. La corriera è l’ingranaggio principale
del meccanismo che mantiene ancora in vita la comunità, e con tre corse al giorno scandi-
sce il tempo, ritma le giornate e rompe l’immobilità apparente del paesaggio, diventando
argomento di conversazione. È un elemento a cui tutti fanno riferimento, anche chi si sposta
solo in macchina o non si sposta affatto, e per tutti ha un valore psicologico che va al di là
della sua utilità pratica. Con la sua muta, ma colorata presenza, più che il mero servizio di
collegamento, la corriera mantiene in potenza il contatto con la comunità più grande e con i
suoi servizi. Un cordone ombelicale che garantisce la speranza, una risorsa di vita in potenza,
che non impedisce alla gente che la vede passare di immaginarla piena anche quando non
lo è. Rende un servizio perché è fraintesa.
Ci si conosce più a fondo, e ci sono tante persone che qua per via della solitudine hanno
necessità di parlare con qualcuno e quindi ti fanno anche confessioni, ti coinvolgono nella
loro vita, e quindi è molto diverso dal guidare in città. Quando vedono la corriera hanno
una percezione come dire… di vita, perché vedi passare un mezzo che uh! Può trasportare
tante persone, ma in realtà… ma chi lo vede da casa sua, magari una persona sola che
vede la vede passare sotto casa dice - “oh, dio bon, c’è la corriera!” - ha la percezione che
c’è ancora qualcosa che funziona. Faccio un altro esempio: qui la sera tutti i paesini sono
illuminati e passando sembra che ci sia vita, ma in realtà in alcuni paesi non c’è nessuno...
ma se ci son le luci sembra che ci sia qualcuno, e questo vale anche per la corriera. Sembra
che porti chissà chi o chissà quante persone e dà questa percezione di vita che però,
purtroppo non c’è.
La sproporzione
come rottura comunicativa
Carolina Mudan
Marelli

Alcuni ruoli so che mi appartengono, altri mi sembra che mi siano stati addossati a seguito di Carolina Mudan Marelli,
una sorta di distorsione di ciò che qualcuno presume che io faccia in questo quartiere. La polizia sociologa urbana, è dottoranda
trova insolita la presenza di una milanese in quartiere e lega questi due elementi (me a Scampia) in Aménagement et Urbanisme,
presso il Laboratoire Architecture
all’interno della cornice del consumo di stupefacenti, facendomi diventare una potenziale acquirente et Anthropologie (LAA, UMR 7218
(e fermandomi cinque volte); allo stesso tempo X mi scrive una mail chiedendomi dei consigli per LAVUE CNRS) dell'Università di
una tesi sul traffico di stupefacenti dal momento che io avevo fatto una ricerca su Scampia, mentre Paris Ouest Nanterre-La Défense
poco dopo parlando al telefono Y mi dice che ho del coraggio a stare lì. Ne esco come una drogata (DIM-Astrea, IdF). Tra il 2010
coraggiosa ed esperta di traffico di stupefacenti, ma non sono oggettivamente nessuno dei tre. e 2015 ha svolto due differenti
ricerche etnografiche che l'hanno
Questi non sono ruoli che sento miei, io non mi reputo un’esperta di traffico di droga e tanto meno condotta a trascorrere diverso
l’esperta di Scampia, di camorra e per tanto di Saviano… (Nota 29 Luglio 2014) tempo a Napoli. Le tematiche
attraversate vanno dai processi
di spazializzazione dei problemi
Nella nota sopra riportata parlo di una certa “distorsione” che avverto rispetto alla mia pre- sociali nelle periferie urbane alle
dinamiche che caratterizzano le
senza sul campo. Dei “si dice”, legati al quartiere e alla mia presenza lì, che spesso tendevano nuove forme di povertà urbana,
a distorcere quanto raccontavo, quanto ho vissuto in quel luogo o, in alcuni casi, rendevano fino a toccare le politiche pubbliche
complesso un qualsiasi discorso su Scampia, privilegiando narrazioni più eclatanti. prioritarie per i quartieri considerati
svantaggiati. Attualmente sta
Nelle brevi pagine che seguiranno proverò ad analizzare quest’idea di “distorsione” alla luce svolgendo una ricerca sulla misura
della categoria di squilibrio, non tanto nella sua accezione di mancanza di equilibrio, quanto della biodiversità urbana.
piuttosto nei termini della sproporzione. [email protected]

Una sproporzione, quella di cui discuterò, che si manifesta secondo traiettorie differenti,
accomunate dal fatto di trovare le proprie radici nella tensione costante tra un dentro e un
fuori. Un dentro e un fuori del ricercatore rispetto al proprio campo, certamente, ma anche
un dentro e un fuori delle narrazioni e delle temporalità di un luogo. Una tensione proficua,
quella tra un dedans e un dehors, poiché capace di mettere in luce un divario altrimenti
invisibile. È attraverso questa dialettica, infatti, che l’idea stessa che vi siano delle spropor-
zioni può prendere corpo. Degli squilibri, che toccano tanto le rappresentazioni dello spazio,
quanto quelle del tempo e che si formano anche attraverso la figura dell’etnografo, che con la
sua ricerca e presenza continua a tenere in tensione un dentro e un fuori al proprio campo.

Entrando sul campo


Entrare a contatto con il proprio campo, divenirne parte, coscienti del proprio ruolo di ricer-
catore sempre in tensione con un esterno che gli appartiene e da cui proviene, per infrangere
la barriera dell’ovvio, per lasciarsi attraversare dalle storie che costituiscono un luogo, non ha 35
come unico effetto quello di renderci “interni” a qualcosa, ma anche di “esternalizzarci” dal
nostro precedente sguardo non implicato, permettendoci di cogliere una sproporzione, forse
la principale per un etnografo, tra ciò che credevi di vivere e ciò che stai vivendo li ed ora.
In un quartiere come Scampia quel “ciò che attendevo”, ovvero il modo in cui significavo il
campo prima di entrarci e quanto mi aspettavo che vi accadesse, era in gran parte strutturato
attraverso le informazioni nazionali che si avevano sul quartiere, che definivano un quadro
desolante per Scampia, fatto di problemi di camorra, controlli a vista, atti criminali accettati
e diffusi. È la stessa vita ora dopo ora in un luogo, con chi lo vive da anni, con chi ci è nato o
arrivato da poco, con chi lo attraversa, che porta inevitabilmente a rivedere il quadro di senso
adottato in prima battuta sul campo per raccontarlo.
« vivendo il quartiere e non sentendone parlare (e basta, almeno), o non sentendone parlare qui, inter-
namente, come qualcosa di problematico, io non lo sto vivendo come tale. Lo vivo con la quotidianità di
una che ha la casa qui ». (Nota 20 Ottobre 2013)
Degrado, abbandono, rischio, pericolo, devianza, categorie spesso adottate per descrivere un
quartiere come Scampia, tanto nei discorsi esperti, quanto in quelli mediatici, sono divenute
gradualmente chiavi di lettura sempre
Quando si vive un quotidiano fatto di una normalità più meno spendibili via via che sono
o meno lenta e a tratti noiosa, la cui ritmica è dettata da entrata in dialogo con quel luogo, che
esigenze altrettanto comuni si fatica a non cogliere uno lo facevo mio, per lasciare spazio ad
squilibrio rispetto ai tempi e i ritmi di un luogo messo un’altra immaginazione territoriale,
cosi spesso e cosi violentemente in scena. che si strutturava a partire dal vivere
giorno per giorno quel quartiere, con
il risultato di mettermi nella posizio-
ne di rendermi conto dello squilibrio evidente tra ciò che credevo di sapere e quanto mi si
presentava nella quotidiano.
«mi sono trovata a parlare di mercato immobiliare, di normative sull’attribuzione delle case popolari, di
progetti di riqualificazione, delle prime occupazioni in quartiere, dell’andamento della borsa del ferro,
dei problemi del precariato, di sistemi pensionistici, del senso del lavoro, di salute e cura del corpo, del
significato della famiglia e della religione, sul welfare, di problemi di gestione del quartiere…». (Nota
di sintesi Luglio 2014)
«anche se volessi parlare di degrado, pericolo etc, di quello che si dice su Scampia di solito, non ci
saremmo capiti, non problematizzano il territorio in quel modo…quello, come mi ha detto la madre di
S. durante una sigaretta nel corridoio appena fuori da casa del figlio, è parlare “malamente” di Scampia,
che per come lo ha detto non è solo “male”, ma è soprattutto “scorrettamente”, perché non “sanno come
vanno le cose”…mi ha detto di aver sentito dire che anche dei ricercatori fanno cosi, esagerano, ero
d’accordo, innegabile che anche la ricerca abbia le sue responsabilità». (Nota 28 Febbraio 2014)
Non parlare “malamente” di Scampia, non ha mai voluto dire non mettere in luce i problemi
che riguardano il territorio (secondo lo stereotipo dell’omertà collettiva che colpirebbe questi
quartieri), descrivendo il quartiere come un luogo incantato e perfetto, al contrario, ciò che
mi veniva fatto notare e da cui, in un certo senso, mi si metteva in guardia, era che un certo
repertorio descrittivo, quello dominante, non poteva funzionare discutendo con loro, in altre
parole non era su quelle categorie descrittive che si strutturava la loro esperienza di Scampia,
mentre avrei capito di gran lunga di più sul quartiere attraverso altri “ingressi”.

Raccontare da dentro
Non è facile spiegare la propria ricerca se questa si svolge in un quartiere fortemente
stigmatizzato e mediatizzato, di cui tutti credono di conoscerne l’essenza. Una volta entrati
sul campo e abbandonate le vecchie lenti attraverso cui osservarlo, anche il tentativo di
raccontare un quartiere come Scampia da dentro a fuori, mette in mostra un vero e proprio
squilibrio rappresentativo che coinvolge questo luogo.
In una nota presa dopo diversi mesi di campo esprimevo in questo modo questa frustrazione:
«…volevo raccontare alcune storie, secondo me molto belle, evocative della mia vita qui, che avevo
condiviso con chi mi circondava, ma le domande che mi fanno le persone durante e dopo i miei racconti
vanno sempre nella solita direzione di Scampia brutta, sporca e pericolosa: Ma dove vivi non succede
nulla? Ma la sera esci? Ti hanno detto qualcosa di strano? Ti controllano? Ma non puoi fare la ricerca
stando da un’altra parte? Posso parlare di una serata passata a giocare a carte, come di A. che prepara-
va la pizza fatta in casa, che tanto sicuro mi chiedono tutt’altro». (Nota Maggio 2014).
Quello che cercavo di mettere in luce, senza troppe riflessioni, era il divario tra il mio racconto
di un vissuto nel quartiere e le rappresentazioni (e aspettative) di cui erano portatori i miei
interlocutori esterni, un divario tale da impedire, in alcune occasioni, ogni forma di dialogo.
Le rappresentazioni dominanti e quelle che scaturiscono dall’interno, il più delle volte, paiono
seguire binari di senso completamente diversi. Diversi sono i temi discussi, i problemi avver-
titi, diverso è il modo di dar valore ad un luogo, di significarlo.
In questo senso la sproporzione esistente potrebbe anche sfociare in una rottura comunica-
tiva, dovuta all’incapacità di trovare un margine minimo di discussione comune su un luogo.
È stato il caso di una discussione avuta con un napoletano residente al nord ormai da diversi
decenni, che a fronte del mio racconto su Scampia mi guardò e mi disse che quella non era
Napoli, ma “una schifezza”. La rappresentazione irremovibile di cui quest’uomo era portatore
proprio per la sua solidità, era incapace di mettersi in dialogo con la proposta narrativa e
rappresentativa che gli fornivo in quanto ricercatrice interna al quartiere. In questo senso il
divario rappresentativo era stato tale da frenare ogni tentativo di ridurne la portata e il territo-
rio, nella sua materialità e simbolicità, scompariva, portandomi a chiedere come fosse pos-
sibile che quel luogo cosi concreto, che ho vissuto e in cui ho vissuto, non esistesse per il mio
interlocutore: Ma stiamo parlando dello stesso luogo? Scampia esiste a prescindere o sono
delle rappresentazioni che le permettono di esistere? L’unico modo per far si che quel luogo
ricominciasse ad esistere per entrambi, sarebbe stato quello di piegare la mia rappresentazio-
ne di Scampia al suo sistema rappresentativo. In altre parole, avrei dovuto ri-stigmatizzare il
quartiere per poterlo far esistere e per poterne parlare.

Le temporalità di un luogo, tra concretezza del vivere e la sua messa in scena


L’ultima manifestazione di squilibrio che intendo prendere in considerazione, sposta l’accen-
to, invece, sulle temporalità che riguardano un quartiere mediattizzato come Scampia.
Quando si vive un quotidiano fatto di una normalità più o meno lenta e a tratti noiosa, la cui
ritmica è dettata da esigenze altrettanto comuni (pulizie, spesa, figli, lavoro, chiesa etc.) si
fatica a non cogliere uno squilibrio rispetto ai tempi e i ritmi di un luogo messo cosi spesso e
cosi violentemente in scena.
I “di solito” vissuti dall’interno del quartiere (di solito il venerdì si va al mercato; di solito prima
di cena andiamo al circolo; di solito si fanno almeno cinque anni di fidanzamento prima di
sposarsi; di solito la domenica si pranza tardi; etc.), permettono di cogliere alcune ritmi che lo
attraversano, ritmi certamente differenti, più o meno ciclici, con accenti più o meno intensi,
ma che hanno in comune la capacità di restituirti qualche informazione sulla misura del
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rapporto che le persone intrattengono con il loro agire quotidiano, una misura interamente
costruita sull’ordinarietà dei bisogni e delle esigenze di vita. Ad una mediatizzazione che fa
della vita nel quartiere un insieme di sequenze veloci, fughe, spari, complotti su complotti,
boati, grida, silenzi inquietanti, si contrappone una quotidianità scandita dagli orari di scuola
dei bambini, dal lavoro dei mariti e dalle necessità legate alla gestione della casa.
Diversamente, la paura e il pericolo che suscitano le messe in scena di questo luogo,
alimentano e scandiscono rappresentazioni temporali serrate, in cui “l’attendersi qualcosa da
un momento all’altro” gioca il ruolo di “acceleratore”. Questa teatralizzazione non inscena mai
lo scorrere lento della lancetta, in cui il più delle volte nulla di sensazionale avviene e nulla
ci si aspetta che avvenga, ma fa della straordinarietà il suo pane quotidiano, generando un
divario temporale enorme che si manifesta quando queste si confrontano.
Ora non provo la sensazione di avere paura, … per le prime settimane, era sempre li, quell’idea di
aspettarmi qualcosa, aspettarmi un evento assurdo in ogni angolo. Io realmente, dico realmente qui,
non l’ho mai provata la sensazione di paura, ora mi sembra che cammino senza aspettami nulla, vado
dove devo andare.
Ecco, questo senso di attesa è certamente estraneo ad un vissuto quotidiano, ma gode di
un certo successo se esterni al quartiere, poiché più compatibile con la rappresentazione
consolidata del luogo, di quanto lo sia una lenta vita normale e a tratti monotona.
Per un ricercatore questa estraneità, pero, non è evidente, si conquista sul campo e la bat-
taglia sarà più o meno intensa, a seconda di quanto saranno radicati gli stereotipi temporali
del ricercatore. È proprio attraverso un’insistenza quotidiana a Scampia che le temporalità
violente della sua spettacolarizzazione, sono state da me abbandonate, in favore di un
processo di significazione del tempo e dei ritmi di vita certamente meno entusiasmante, ma
più rappresentativo di ciò che vivevo. Sono stati i miei stessi interlocutori a ridimensionare
la portata di questa attesa di un qualcosa di “sensazionale” e lo hanno fatto non fornendogli
mai elementi capaci di confermane l’autenticità, la fondatezza, lasciando parlare i loro corpi,
facendo quello che hanno sempre fatto, che, come ci teneva a sottolineare S., parlando di un
sabato sera tra amici, “non è nulla di incredibile, ma cosi facciamo e ci divertiamo”.
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lo Squaderno 38
Squilibri e Fragilità/ Imbalances and Fragilities

edited by //
Piero Zanini & Cristina Mattiucci

Guest Artist // Oliver Zenklusen and Silvia Muller


lo Squaderno is a project by Andrea Mubi Brighenti and Cristina Mattiucci
helped and supported by Mariasole Ariot, Paul Blokker, Giusi Campisi and Andreas Fernandez
La rivista è disponibile / online at www.losquaderno.professionaldreamers.net. // Se avete commenti,
proposte o suggerimenti, scriveteci a / please send you feedback to [email protected]

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Impressum | December 2015 41
s uade
In the next issue:
39 Know-space. Exploring the flows of know-how

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