Claudio Poggi

Ricordando Pino Daniele

Claudio Poggi non è un personaggio qualunque. Fu infatti il primo (lui che, all’epoca, era ancora un “semplice” critico musicale) a credere nel talento di Pino Daniele, segnalandolo alla Emi italiana e producendone, nel 1977, "Terra mia", suo storico disco d’esordio. Quel periodo aurorale è stato raccontato dallo stesso Poggi, coadiuvato da Daniele Sanzone, in "Pino Daniele. Terra mia", volume edito dalla Minimum Fax nel 2017 e capace di offrire un racconto ricco di aneddoti e di passione. A dieci anni dalla morte di uno degli artisti italiani più amati di sempre, eccovi il resoconto della nostra chiacchierata con un "artigiano della musica".

Claudio, vuoi raccontarci come conoscesti Pino Daniele?
Lo conobbi nel 1976, perché lavoravo come giornalista per un settimanale, "Super Sound", e andavo alla ricerca di artisti e gruppi che suonavano una musica diversa, quella che noi giovani apprezzavamo perché proveniente dall’estero e lontana dagli stereotipi melensi del pop italiano. Pinotto (questo il soprannome di Pino, ndr) suonava in un gruppo, i Batracomiomachia, in cui militavano Rosario Iermano alla batteria, Paolo Raffone al piano, Rino Zurzolo al basso, Enzo Ciervo alla voce, Gianni Battelli al violino e Enzo Avitabile al sax e flauto.

pinodanieleterramia005I suoi primi brani che ascoltasti furono "Che calore!", "Furtunato", "Terra mia" e "‘Libertà". Che cosa c’era, in loro, che ti colpì particolarmente?
Soprattutto quel modo nuovo di comporre, che abbinava un linguaggio napoletano moderno, di strada, ma allo stesso tempo popolare, con una musicalità molto vicina a quella dei nostri idoli stranieri. “Libertà”, uno dei miei brani preferiti, mi dava l’idea di un pezzo West Coast, con quelle chitarre acustiche che sfociavano in quel riff di chitarre elettriche e un testo che ancora adesso considero come uno dei suoi più belli.

All’epoca, prima di conoscere Pino, ti occupavi di critica musicale. Qual era la situazione, a livello di musica pop e rock, a Napoli?
In quel periodo storico, c’era una netta distinzione tra musica pop e la cosiddetta avanguardia, non esisteva la trasversalità che c’è oggi, dove i giovani ascoltano e seguono sia Ramazzotti che i Litfiba: eravamo più integralisti, forse più coerenti. Per cui, i gruppi e i cantautori, influenzati dai grandi miti internazionali, cercavano di imparare la tecnica musicale e svilupparla anche con un nuovo linguaggio. Era straordinario vedere quanti fermenti e movimenti nascevano e si diffondevano nei vari generi, dal popolare, con la Nuova Compagnia di Canto Popolare, al jazz rock, con i Napoli Centrale, al rock, con gli Osanna, e al cantautorato di livello con il grande Edoardo Bennato. Insomma, c’era di che divertirsi e tutto questo aveva una corrispondenza con la lotta di classe, l’abbattimento di barriere sociali e dei luoghi comuni che avevamo voglia di superare. Inoltre, all’epoca iniziarono ad arrivare i primi artisti internazionali in Italia, il che ci fece capire cosa fosse la vera musica. Purtroppo, oggi vedo che “Se bruciasse la città” o “Rose rosse per te” sono più che mai due successi apprezzati, sia dai giovani che da quelli della mia generazione, e non riesco a capirne il motivo, ovviamente senza nulla togliere al professionismo di un artista come Massimo Ranieri.

Come valutasti all’epoca e come valuti oggi il movimento del cosiddetto Neapolitan Power? Perché proprio in quella determinata fase storica si sviluppò un tale movimento musicale?
Il Neapolitan Power, o meglio il Naples Power, era uno slogan che aveva dei padri putativi come Raffaele Cascone e Renato Marengo, intellettuali, giornalisti e conduttori radiofonici che battezzarono quest’onda musicale progressista che, giorno dopo giorno, diventava un ciclone e invadeva il paese, dimostrando che Napoli non era oleografica, ma una città piena di energia e che presto sarebbe esplosa sia socialmente che musicalmente. Non poteva essere altrimenti e non in un periodo differente, perché i giovani avvertivano il bisogno di sdoganare la propria appartenenza al Vesuvio, al mare e alla pizza, cercando di dare un aspetto più vero, forte, incazzato ma soprattutto reale. Del resto, si iniziava a viaggiare, a confrontarsi con altre culture e a capire quanto questa appartenenza a Napoli fosse importante e ricca di significati. Oggi, invece, non credo si possa parlare di Naples Power, ma di un movimento sano, anche se meno incazzato e motivato, che vuole riprendere quell’energia, magari proprio ripartendo dalla lezione di Pino, per trasformarla in qualcosa di significativo. Purtroppo, però, manca, a mio parere, la motivazione sociale.

A tuo avviso, Pino Daniele fu influenzato anche dalla ricerca che, con il supporto di Roberto De Simone, la Nuova Compagnia di Canto Popolare attuò sul corpus della musica popolare?
Senz’altro! Pino, all’inizio, fu non solo influenzato, ma fortemente attratto dalla musica popolare e da un maestro come Roberto De Simone. Infatti, iniziò a studiare con grande passione la tecnica del mandolino sui libri e gli spartiti del maestro Anepeta. Ma la sua grande capacità fu quella di adattare uno strumento strano e difficile come il mandolino su ritmi funky e blues, addirittura creando delle vere sezioni che dovevano sostituire i fiati.

poggi_pino_daniele_ondarock_nunziata_1_600

Quali erano i pregi e i difetti dell’uomo Pino Daniele?
Ti dirò: ho un certo pudore a parlare dell’uomo Pino Daniele, o meglio di Pinotto, perché è qualcosa che mi appartiene nel profondo. Solo il mio “fratellino” Daniele Sanzone è riuscito, nel nostro libro "Pino Daniele. Terra mia", a scavare, non senza difficoltà, nei miei ricordi. Tant’è che, più volte, ci è capitato di litigare, perché la sua sacrosanta curiosità cozzava con la mia discrezione. Quello che posso dire è che Pinotto era un ragazzo come tanti, con pregi e difetti, ma con una capacità e una convinzione incredibili nel voler raggiungere il suo obiettivo: suonare.

Cosa ha ancora da dire, oggi, un disco come "Terra mia"?
"Terra mia", oggi più che mai, è un disco di riferimento del percorso musicale di Pino Daniele, perché in esso s’intravedevano già temi e generi che egli avrebbe poi sviluppato in modo straordinario negli album successivi: la musica popolare, il blues, la canzone d’autore, il funky, ma anche quel linguaggio poetico che, anche se in seguito egli avrebbe raffinato, in quel disco si attestava già su livelli straordinari.

pino_daniele_poggi_terra_mia_01Nel tuo libro, a un certo punto citi alcune parole di Pino relative al razzismo: "Noi siamo come i negri. Il razzismo c’è, lo vivo, l’ho vissuto e sono convinto che c’è?". Anche Pino, insomma, dovette scontrarsi con i soliti pregiudizi contro i “terroni”?
Si avvertiva all’epoca, e talvolta anche adesso, un certo razzismo (anche se mascherato da sorrisi di circostanza) verso chi vuole imporre la propria cultura e il proprio linguaggio. Queste cose le avvertivamo, qualche volte ci incazzavamo, altre volte cercavamo noi di prendere in giro loro. Sta di fatto che, quando vuoi comunicare delle cose importanti, ti dà fastidio essere preso in giro o sopportare battutine che sviliscono quello che stai dicendo

Come mai, poco prima dell’uscita del suo secondo disco, le vostre strade si separarono?
Il nostro rapporto umano non si è mai incrinato. Ci furono solo delle discussioni che portarono alla nostra separazione, perché io non fui in grado di far fare a Pino quel salto di notorietà di cui aveva bisogno.

Vuoi raccontarci qualche aneddoto risalente al periodo di "Terra mia"?
Un aneddoto poco conosciuto risale al periodo in cui, appena pubblicato l’album, Pino aveva una gran voglia di suonare dal vivo ma, essendo poco conosciuto, non aveva molte occasioni per esibirsi. Così, un giorno mi chiama e vado a casa sua (dove abitava con le zie) e lì, con un cappello da cowboy e imbracciando la chitarra, esegue, con la vocal box, “Na sera ‘e maggio” in versione strumentale. Lo guardo sbalordito e lui mi dice: “Mi metto il cappello, mi faccio crescere i baffi e, con lo pseudonimo di Alex Thoromp, mi faccio passare per un musicista straniero”. Io mi metto a ridere e gli chiedo: “Ma come ti è uscito fuori questo Thoromp?". Al che, ridendo, lui mi fa: “Così rompiamo il cu… a tutti!”. Realizzammo due provini, anche molto belli, ma la Emi non volle dare seguito a quel progetto

1979pinodanielee1545918292642Come giudichi il percorso musicale di Pino a partire dall’omonimo lavoro del 1979? Se tu dovessi indicare solo cinque dischi da consigliare a chi non ha mai ascoltato una sua nota, quali sceglieresti… e perché?
Il suo percorso musicale fino a "Vai mo’" (1981) è stato sempre di grandissima qualità. A mio modo di vedere, e senza nulla togliere ai lavori che seguirono, i primi suoi cinque album sono eccezionali e riescono a inquadrare perfettamente l’artista Pino Daniele in tutta la sua integrità. Tuttavia, ci sono canzoni come “Quando” (1991) che sono delle perle rare. Ma credo che per instillare nelle vene la “malattia” di Pino bastino quei i primi cinque album: "Terra mia" (1977), "Pino Daniele" (1979), "Nero a metà" (1980), "Vai mo’" (1981) e "Bella ‘mbriana" (1982).

Prima della sua morte, qual è la stata l’ultima volta che lo hai incontrato?
Rispondere a questa domanda mi apre una ferita: ci incontrammo a Napoli, alla fine di dicembre del 2013, all’epoca del mini-tour "Napule è – Tutta n’ata storia". Non parlammo molto, non ne avevamo bisogno: c’era complicità negli sguardi e nelle poche parole che scambiammo. Come al solito, chiese di mia madre, ma all’epoca purtroppo già non c’era più. Non ci fu possibilità di ricordare i vecchi tempi, perché c’erano tanti amici e musicisti intorno a noi.

Sono dieci anni, ormai, che Pino è morto. Cosa ti manca di più di lui?
Quello che più mi manca di Pinotto è il suo sorriso, la sua amicizia  e la voglia di voler essere sempre pronto a trovare nuove idee musicali e testi sempre vicini alla realtà che viveva.

Nonostante tutti i suoi problemi, Napoli continua a essere una città musicalmente attiva. Tuttavia, la Napoli di oggi non è la Napoli del 1977. Quali, a tuo avviso, le differenze più evidenti?
A mio parere, la Napoli di oggi è più matura, più cosciente delle sue potenzialità e più internazionale. Per quanto riguarda i lati negativi, l’ignoranza la rende più violenta, meno umana e più spietata. Ma io voglio continuare a credere che Napoli sia una città dal cuore grande e dall’enorme creatività.

Come giudicherebbe Pino Daniele la musica rap, napoletana e non, dei nostri giorni? E come la giudichi tu?
Pino si è sempre sentito vicino alle nuove realtà musicali, specialmente e quelle legate alla propria terra e, in qualche modo, i rapper rappresentano il nuovo corso musicale molto vicino ai giovani di oggi, quindi, nelle forme più belle, gli sarebbe piaciuto molto. Io, invece, sono molto più critico e non amo molto la mancanza di melodia e questa ritmica ossessiva, che generalmente non sfocia quasi mai in aperture musicali. Tuttavia, ho due artisti napoletani, che tra l’altro non produco io, ma che mi piacciono moltissimo e rappresentano una nuova frontiera molto interessante della musica partenopea: sto parlando di Flò e Roberto Colella dei La Maschera.

Ti sei definito un "artigiano della musica". Vuoi spiegarci cosa intendi di preciso?
Mi definisco un "artigiano della musica" in quanto cerco di tirare fuori da un personaggio la sua essenza artistica e la capacità di comunicare, quindi andando contro le logiche di mercato, le mode e i soliti canoni per avere successo.
In questo periodo, sto lavorando con un nuovo cantautore, Carlo Vannini, a mio parere molto bravo, con cui ho pubblicato da poco un Ep dal titolo “Punto e accapo” e credo che come musicalità e a livello di testi sia abbastanza nuovo e interessante.

Cosa fa, oggi, Claudio Poggi?
Continua la sua ricerca di talenti musicali che possano offrire un'alternativa a un mercato a dir la verità abbastanza piatto e poco stimolante. Come editore musicale, cerco di trovare, specialmente all’estero, possibilità di estendere brani che hanno un valore artistico attraverso l’interpretazione e l’adattamento con altri artisti. È il caso, per esempio, di “Vasame”, un vero e proprio classico di Enzo Gragnaniello, con, tra le altre, una versione in turco cantata da Seran Bilgi, o di un gruppo di Milano, i Descarga Lab, che interpretano alcuni brani di Pino Daniele in spagnolo e un adattamento in stile caraibico.

pino_daniele_ondarocknunziata_600