Who you are and who you want to be are competing at opposite ends
“Sono Peter Gabriel. Penso che tu scriva grandi canzoni. Vorrei mettermi in contatto con te”. La segreteria telefonica si blocca con uno scatto metallico. Il nastro si riavvolge con il suo stridulo fruscio. Di nuovo quella voce. Possibile che sia davvero quella di Peter Gabriel?
Joseph Arthur scrive canzoni da quando aveva tredici anni. Ha cominciato strimpellando una tastiera elettronica tra le pareti di casa, poi ha preso in mano il basso e si è unito alla sua prima band: si chiamavano Frankie Starr And The Chill Factor e un paio di volte hanno aperto persino per Stevie Ray Vaughan. La sua prima passione è stata per Jimi Hendrix, poi la sorella gli ha fatto ascoltare tutti i dischi di Bob Dylan. E ben presto si è reso conto che non avrebbe mai potuto accontentarsi della vita ad Akron, Ohio, consumata a prendere acidi, dare calci a palline da tennis in fiamme e ascoltare i Bauhaus con gli amici in una città fantasma. Così, finite le superiori, Joseph ha colto subito l’occasione per andarsene di casa e si è trasferito ad Atlanta al seguito di un gruppo funk-rock di nome Ten Zen Men, ben presto rimpiazzato dalla robusta formazione grunge dei Bellybutton.
La registrazione della segreteria riecheggia di nuovo nel silenzio della stanza, prima che la brusca intromissione del segnale acustico giunga a spezzare la magia.
Per mantenersi, Joseph ha cominciato a lavorare in un negozio di strumenti musicali, dove vende chitarre, corde e plettri a gente che entra per provare a suonare sempre e solo “Smell Like Teen Spirit”. Dopo qualche anno di attività nei dintorni di Atlanta, i Bellybutton si sono ormai sciolti, e con loro il sogno di diventare una rockstar. Ad Arthur rimangono solo i dischi di Neil Young e una chitarra acustica per sfogare tutte le proprie aspirazioni e l’amarezza di un’insoddisfazione sempre più cocente. “Mi sentivo isolato e fragile come un uovo che rotola goffamente su sé stesso in cerchio fino a quando comincia a spezzarsi”, ricorda. “Con i Bellybutton stavo diventando sempre più abile tecnicamente, ma sempre meno sincero. Poi cominciai a capire che più mantenevo semplice la struttura dei brani, più potevo esprimere con la melodia e le liriche. Così non feci altro che cominciare a scrivere canzoni più semplici”.
Come immerso in un sogno, il ragazzo seduto nella camera non riesce a smettere di riascoltare quel breve messaggio telefonico, sforzandosi di cogliere le sfumature di ogni sillaba e di ogni respiro.
I primi demo che ha spedito alla case discografiche sono tornati tutti inevitabilmente al mittente senza troppi complimenti. Ha da poco pubblicato anche un Ep di quattro brani, Cut & Blind, per la piccola etichetta locale Sell My Soap Records. Nel frattempo, però, una delle sue cassette, per qualche imponderabile intreccio del destino, è finita tra le mani di un collaboratore della Real World, l’etichetta di world music di Peter Gabriel, e da lì direttamente tra le mani dell’ex cantante dei Genesis in persona.
Sì, quella voce sulla segreteria telefonica è proprio quella di Gabriel. E la vita di Joseph Arthur sta per cambiare per sempre.
Il primo incontro con Gabriel avviene in un club di New York dove Arthur si deve esibire in concerto. La tensione è palpabile, il timore di deludere le aspettative rende l’ansia ancora più stringente. Come se non bastasse, Gabriel ha deciso di portare con sé anche Lou Reed, armato di un registratore per immortalare la serata. “Corsi in bagno, mi inginocchiai e mi misi a pregare”, racconta Arthur. “Alla fine del concerto mi sembrava di sognare ad occhi aperti, seduto in un ristorante accanto a Peter Gabriel, Lou Reed e Dolly Parton…”.
Ormai è fatta: Joseph Arthur è il primo artista americano a firmare un contratto per la Real World.
Chaos and beauty trying to stay together on a razor blade
È l’estate del 1996 e Joseph Arthur sta per compiere venticinque anni quando lascia il piccolo appartamento di Atlanta per seguire Peter Gabriel in Inghilterra ed unirsi al festival itinerante Womad (World Of Music Arts And Dance), dove si esibisce fianco a fianco di personaggi del calibro di Joe Strummer.
Senza quasi avere il tempo di rendersene conto, Arthur si ritrova negli studi di registrazione inglesi della Real World insieme al produttore Markus Dravs, già al lavoro nientemeno che con Brian Eno, pronto per dare vita al proprio primo album: inevitabile per lui trovarsi in soggezione in una situazione del genere. Il timore reverenziale di Joseph lascia così spazio a Dravs per confezionare alle composizioni del giovane songwriter di Akron una veste inconfondibilmente segnata dall’elegante taglio sartoriale di Peter Gabriel. “Avevo come l’impressione di lavorare da McDonald’s: ero sempre agli ordini”, ricorda con una punta di amarezza. “Cercavo di essere fedele alla filosofia di Peter Gabriel, di fare un disco ordinato e appropriato”.
Big City Secrets, il disco d’esordio di Joseph Arthur, pubblicato nella primavera del 1997, è un lavoro denso di stratificazioni e minuziosi dettagli. La voce profonda e metallica di Joseph e il canovaccio della sua chitarra acustica sono avvolti da un raffinato intreccio di intarsi ritmici e ceselli sintetici, mentre un nutrito gruppo di ospiti si alterna agli strumenti più ricercati, dallo xilofono veneziano all’hurdy gurdy fino al caxixi ed al berimbau brasiliani.
“C’era molta audacia e sperimentazione, era come un’esplorazione”, osserva Joseph, che si autoconferisce l’etichetta di “experimental songwriter”. Qualcuno si spinge persino a paragonarlo a Mr. Beck Hansen, personaggio indie del momento alla fine degli anni Novanta, ma Arthur liquida con un sorriso l’azzardato parallelismo inventato dalla stampa: “Mi piace Beck, ma la mia musica non ha niente a che vedere con la sua. Quando leggo qualcuno che scrive 'È come Beck!' penso 'Ok, questo non ha neanche ascoltato la mia musica'”.
L’arpeggio circolare di “Big City Secret” introduce il disco con le sue immagini vivide e visionarie: “You bounce against my rectangular light/ I fall asleep inside your spherical night/ And dream about coming together again”. Poi, l’armonica dylaniana di “Mercedes”, con Peter Gabriel e Brian Eno impegnati ai cori, dà vita alla prima pietra miliare del repertorio di Arthur, mentre le chitarre di “Haunted Eyes” e i ritmi elettronici di “Birthday Card” percorrono vie più inclini all’immediatezza pop.
Tra le volute di fumo dal sapore notturno di “Crying Like A Man” la voce del songwriter americano si fa ancora più cavernosa, quasi volesse inseguire il fantasma di Leonard Cohen in compagnia di un trombone dalle inflessioni jazzistiche. Big City Secrets alterna momenti obliqui e irrequieti, come le impennate elettriche di “Daddy’s On Prozac” e i tribalismi di “Porcupine”, già presenti nell’Ep Cut & Blind, a episodi più dichiaratamente consoni alla vena cantautorale di Arthur, che in “Good About Me” e “Bottle Of You” immerge il suo sguardo nella parabola di relazioni fatalmente destinate alla sconfitta.
Big City Secrets riscuote più consensi in Europa – e soprattutto in Francia – che non negli Stati Uniti, anche se la rivista Alternative Press giunge a definire iperbolicamente Arthur come “uno degli ultimi veri artisti rimasti al mondo”. Joseph va in tour in Europa e Stati Uniti per il resto del 1997, ponendo le basi della propria reputazione di performer magnetico ed avvincente: avvalendosi di un sampler JamMan e di altri ammennicoli tecnologici, Arthur comincia infatti ad affinare la propria originale tecnica di registrare sul palco parti vocali, loop di chitarra e beat assortiti, per utilizzarli come basi per i propri brani. L’effetto è quello di trovarsi di fronte ad una vera e propria band, mentre le canzoni si dilatano in lunghe e ipnotiche improvvisazioni.
Alla fine del 1997, viene pubblicato un tributo a Lady Diana, da poco scomparsa, in cui fa bella mostra di sé il consueto parterre di rockstar. Per l’occasione, Peter Gabriel registra una cover di un nuovo brano di Joseph Arthur. Si intitola “In The Sun”, ed è facile intuire che si tratta di una canzone destinata a lasciare un segno indelebile.
Caught in between all I wish for and all I need
Dopo avere vissuto per un anno a Londra, nel 1998 Joseph Arthur decide di tornare dall’altra parte dell’Oceano e si trasferisce a New York, continuando ad accumulare nuovo materiale per il proprio secondo disco. Nel frattempo, partecipa alla colonna sonora di “Hell’s Kitchen” di Tony Cinciripini, comparendo anche nel film con un breve cameo, impegnato ad accompagnare alla chitarra la protagonista Rosanna Arquette, che presta la propria voce al suo nuovo brano “Invisibile Hands”. Arthur partecipa inoltre ad un tributo a Bob Dylan, realizzando una cover spoglia e ammaliante di “Up To Me”.
Con l’ausilio di T-Bone Burnett alla produzione, Joseph Arthur registra in California una notevole quantità di materiale e comincia a progettare la pubblicazione di un doppio album. Ma la casa discografica pone il veto e così Arthur decide di far uscire parte delle nuove composizioni sotto forma di Ep per la piccola label di Portland Undercover.
Vacancy, pubblicato nel maggio del 1999, rappresenta un consistente antipasto del nuovo disco a cui Arthur sta lavorando, visto che i sette brani compresi nell’Ep (più l’inevitabile ghost track) sono tratti dalle medesime session utilizzate per l’imminente secondo album del songwriter americano. “Per me Vacancy è un album vero e proprio”, proclama orgogliosamente Joseph. “È un album dei bei vecchi tempi. In “Raw Power” di Iggy And The Stooges ci sono solo otto tracce, proprio come in Vacancy: ho dovuto aggiungere una ghost track perché se ci fossero state sette tracce sarebbe stato considerato come un Ep”.
La distanza rispetto a Big City Secrets appare subito evidente, annunciata dalla ricerca di un suono più ruvido e diretto, fatto di chitarre ossute e secchi accenti di batteria. “Dopo aver sentito in maniera quasi opprimente la personalità di Peter Gabriel e del suo team produttivo nel mio primo album, stavolta ho cercato di avere totale libertà”, dichiara Arthur. “Mi sento un po’ come se avessi ucciso mio padre…”, soggiunge con un misto di ironia e senso di colpa.
Dalla carezzevole desolazione di “Making Mistakes” e “Bed Of Nails”, inserita anche nella colonna sonora del blockbuster “Il collezionista di ossa”, fino ai sussurri avvolgenti di “Vacancy” e “Toxic Angel”, l’ispirazione di Arthur è al vertice della profondità. “Prison” si veste di un’elettricità oscura, permettendo alla voce di Joseph di avventurarsi con il suo vibrante falsetto in una perturbazione di riverberi allucinati, mentre “Crying On Sunday”, che vede Joan Osborne alla chitarra, immerge in taglienti distorsioni una melodia da juke-box anni Cinquanta. Per ricambiare il favore, Arthur verrà ospitato dalla bionda cantautrice in diversi episodi del suo album “Righteous Love”, pubblicato l’anno successivo.
L’artwork di Vacancy, curato insieme all’amico Zachary Larner, è per la prima volta incentrato sui dipinti di Arthur, che accompagneranno costantemente le uscite discografiche del songwriter americano. Una passione, quella per la pittura, che da sempre rivaleggia con quella per la musica tra gli interessi di Arthur, tanto da portarlo a decorare in maniera assolutamente personale anche la propria chitarra. Vacancy conquista così una nomination ai Grammy come “Best Recording Package”: Arthur e Larner si presentano straniti alla cerimonia di consegna dei premi, ma dopo cinque minuti, non appena annunciato che non sono loro i vincitori, decidono di andarsene a cena in un ristorante messicano senza attendere oltre…
Per l’uscita del nuovo disco di Joseph Arthur bisogna aspettare ancora quasi un anno: Come To Where I’m From arriva infatti nei negozi, sempre sotto l'egida della Real World, soltanto nell’aprile del 2000, ricompensando l’attesa con un pugno di canzoni capaci di collocarsi di diritto tra l'introversa poesia di Elliott Smith e l'inquieta asprezza di Mark Lanegan.
La produzione di T-Bone Burnett conferisce un aspetto più concreto e sgranato alla musica di Arthur, coniugando i chiaroscuri di Daniel Lanois alla polvere di Counting Crows e Grant Lee Phillips, anche se sullo sfondo la trama non è meno complessa di quella di Big City Secrets. Il suono delle chitarre ha una densità palpabile, su cui la batteria riecheggia solenne e gli impasti vocali si distendono con decisione, dominati dal fascinoso timbro baritonale di Arthur. Un’essenza sublimata dalle note di “In The Sun”, che con la sua perfetta intuizione melodica e la sua sofferta intensità scava nell'animo fino a farlo sanguinare, presentandosi subito come un classico. A tradurla in immagini ci pensa nientemeno che Anton Corbijn, fotografo e regista celebre per il proprio lavoro con rockstar come U2 e Nirvana, che gira un video in cui Arthur vaga per le strade della Grande Mela con un paio di ali d’angelo sulla schiena.
L’armonica di “Ashes Everywhere” colpisce al cuore come una pugnalata. L’amara danza di “Tattoo” attira a sé ogni sospiro. E addentrarsi tra i rintocchi di pianoforte di “Eyes On My Back” è come scattare una fotografia attraverso un vetro opaco, come cercare di raggiungere la propria ombra mentre svanisce.
Sin dal titolo, Come To Where I’m From è un invito alla scoperta delle proprie radici. La presenza di un batterista storico come Jim Keltner ne è una testimonianza eloquente, ma ad Arthur non interessa un recupero del passato fine a sé stesso: “quella di rileggere il folk non è la mia missione, il mio sogno è realizzare quello che Jackson Pollock è riuscito a fare con la pittura: perdere il controllo”. La rigorosa selezione dei brani e la cura nell’affinamento dei particolari, insieme al tocco di T-Bone Burnett, contribuiscono a offrire la più compiuta espressione alla musica del songwriter di Akron.
Se brani come “Chemical” ed “Exhausted” dichiarano apertamente le loro ascendenze pop, non mancano i momenti in cui Arthur si arrischia in scommesse maggiormente azzardate, come quando in “Creation Or A Stain” fa riscrivere “Subterranean Homesick Blues” a degli sfibrati Beastie Boys: “la versione dell’hip-hop fatta da un ragazzo bianco che non vuole cercare di sembrare nero”, la definisce lapidariamente.
L’avvincente “History” non è altro che la versione definitiva di quella “Pick Up The Phone” che era già comparsa nell’Ep Cut & Blind, oltre che nei primi demo che avevano fatto innamorare Peter Gabriel, mentre tra gli spigoli di chitarra di “Cockroach” la batterista Carla Azar, impegnata a cantare per la prima volta in vita sua, offre un fragile duetto con Joseph Arthur.
Nell’aria spettrale di “Invisible Hands”, il sussurro tenebroso di Arthur sembra suggerire che la stoffa della realtà è fatta di un’essenza misteriosa: “There are things we cannot know/ Invisible hands which guide the show from up above/ And sometimes you are forced to go/ Far away and shut the door/ On the one you love”.
L’unica speranza di non rimanere schiacciati dalla coscienza del proprio tradimento è allora racchiusa nel grido verso un’estrema domanda di perdono: “Now Jesus he came down here just to die for all my sins/ I need him to come back here and die for me again/ Cause I cannot forgive myself for what it is I’ve done”.
L’eco di questo grido percorre tutto l’orizzonte di Come To Where I’m From, fino a quando l’immagine della fame insaziabile del cuore, destinata a non spegnersi sino all’alba del giorno del giudizio, conduce il commiato di “Speed Of Light” ad assumere i toni crepuscolari di una pagina apocrifa del Dylan di “Oh, Mercy”.
I was born to be redemption’s son
Nonostante Come To Where I’m From riceva ampi consensi dalla critica, tanto da essere indicato da Entertainment Weekly come disco dell’anno, le vendite non sorridono ancora a Joseph Arthur, che continua a condurre la propria vita da squattrinato bohémien perennemente on the road.
Mentre Come To Where I’m From viene pubblicato anche in un’edizione limitata, con l’aggiunta di due bonus track (la scheletrica “Ski Or Snowboard” e la notturna “Cocaine Blind”), il songwriter americano apre i concerti di Ben Harper, di David Gray e dei Gomez, insieme ai quali registra l’irruente sfogo antimilitarista di “I Donated Myself To The Mexican Army”, destinato a diventare uno dei suoi cavalli di battaglia dal vivo. Una non memorabile instant-song ispirata al dramma dell’11 settembre, “Build Back Up”, viene inoltre pubblicata da Arthur nella compilation “Wish You Were Here – Love Songs For New York”.
Nel frattempo, Arthur scrive a getto continuo, fino a trovarsi all’inizio del 2001 con oltre 70 nuovi brani tra le mani. Ancora una volta, però, la casa discografica continua a frapporre ostacoli e difficoltà alla pubblicazione del materiale composto da Joseph: di fronte alle ricorrenti richieste della label di lavorare sull’affinamento delle nuove composizioni, per tutta risposta lui si limita a presentare ogni volta una raccolta di canzoni completamente diverse, pescando in un archivio così vasto da lasciare solo l’imbarazzo della scelta… “Penso di appartenere alla vecchia scuola, quando scrivevi qualcosa e lo facevi subito uscire”, ripete amareggiato Arthur. “Non capisco questa necessità di aspettare due o tre anni tra un album e l’altro. Se potessi pubblicherei un disco ogni nove mesi”.
Lo sbocco naturale per una tale quantità di canzoni è anche in questa occasione il formato dell’Ep: ma stavolta gli Ep sono ben quattro, per un totale di 19 brani inediti, di cui solo quattro finiranno nel terzo album di Arthur. I quattro volumi di Junkyard Hearts, pubblicati all’inizio del 2002 e venduti tramite il sito ufficiale di Arthur e in occasione dei suoi concerti, rappresentano uno dei momenti di maggiore libertà creativa e desiderio di sperimentazione di tutta la sua carriera.
Nella discarica dei cuori si trovano così frammenti polverosi di gemme inestimabili e resti arrugginiti di tesori sommersi, dalle scure pulsazioni elettroniche di “The Coldest Sea” e “This Heart Will Swallow Us” ai sapori agresti di “Bill Wilson”, dall’intima confessione di “Tiny Echoes” allo specchio increspato di riverberi di “Crackerjack Box”.
Il nuovo album lascia invece da parte il lato più estroso di Joseph Arthur, esplorato nelle sue molteplici sfaccettature da Junkyard Hearts, per dare spazio all’attitudine pop del songwriter americano. Pop nell’accezione più nobile del termine, ovviamente, nel senso di un’inconfondibile sensibilità nel trovare la via più semplice (ma non necessariamente facile) per arrivare all’essenza. “Penso che un bel po’ di mie canzoni siano canzoni pop”, riconosce lui stesso. “Non le scrivo con questa intenzione, ma sono un fan della pop music, per cui penso proprio di scrivere pop music”.
Redemption’s Son, che esce in Europa nel maggio del 2002, è allora il disco che fotografa con più immediatezza la sostanza del suono di Arthur, pur non riuscendo ad eguagliare le preziose asperità ed i vertici poetici di Come To Where I’m From. La produzione di Tchad Blake, già al fianco tra gli altri di Pearl Jam e Lisa Germano, contribuisce a rappresentare fedelmente l’approccio maturato da Joseph sul palco, come testimoniano i beat che accompagnano la fragile “Innocent World”: “Tchad mi ha riportato alla realtà”, riconosce Arthur, “ha dato all’intero progetto quella coesione che prima non aveva, visto che ho registrato i brani in un arco di due anni in vari luoghi diversi”. Ciononostante, il limite maggior del disco è dato proprio dall’eccessiva lunghezza e dalla quantità di idee che vi sono concentrate.
L’asciutto rigore folk-rock del precedente album lascia spazio a un intreccio di suoni che, dalle vibranti scorribande psichedeliche di “Nation Of Slaves”, giunge sino agli accenti funky di “Buy A Bag”, passando attraverso la schiettezza rock di “In The Night” e le volute acustiche e sintetiche che avvolgono gli oltre nove minuti di “Termite Song”.
Il cuore del disco, tuttavia, è rappresentato da suadenti ballate tra Ed Harcourt e Damien Rice come “Honey And The Moon”, “September Baby”, “You Are The Dark”, “You’ve Been Loved” e “Favorite Girl”, risalente alle session di Come To Where I’m From. “Honey And The Moon”, in particolare, diventa ben presto uno dei brani di maggiore esposizione del repertorio di Arthur, anche grazie all’inserimento in successi per teenager come il telefilm “The O.C.” e la commedia “American Pie – Il matrimonio”, tanto da venire ripubblicato come singolo nel 2007 per il mercato britannico.
Come in passato, anche in Redemption’s Son i protagonisti dei brani di Joseph Arthur sono angeli perduti, intossicati dai propri desideri, che raccontano i loro sogni con un romanticismo ombroso e intessuto di simbolismi biblici. “Ciascuno di noi è il prodotto della redenzione, è figlio della redenzione”, afferma Arthur. “Più senti la necessità di essere redento, più vitale è quello che esprimi. In un certo senso, più sei disperato, più il tuo lavoro è potente”. “Se c’è uno scopo nella vita”, aggiunge, “ha a che vedere con chi ci ha creati e con la nostra relazione con lui”.
Ed ecco allora il sussurro di “Favorite Girl” dibattersi nell’urgenza di un bisogno che ha come misura l’infinito: “My heart’s been dying of starvation and I need/ Somebody who will feed me/ And if salvation only comes when you fall/ Oh Lord/ It’s so hard for me to believe/ Oh Lord/ I’m still waiting for you to call”.
Redemption’s Son raggiunge gli Stati Uniti soltanto nel mese di novembre. Nella versione americana del disco, oltre all’utilizzo di un diverso e più azzeccato artwork, “You Could Be In Jail” e “Buy A Bag” vengono sostituite dalla frizzante “Let’s Embrace” e da “Dear Lord”, una scintillante cavalcata che sfodera un organo e un’armonica degne di “Blonde On Blonde”. Nel frattempo, “In The Sun” viene ricompresa nella colonna sonora del film “The Bourne Identity” e viene utilizzata per lo spot televisivo di un profumo, contribuendo a far conoscere il nome di Joseph Arthur al di fuori della cerchia dei fan.
Arthur torna in tour non solo nella consueta versione di moderno one man band, ma anche con l’accompagnamento in alcun date dei Johnny Society e della sezione ritmica dei Kula Shaker. Oltre a diffondere tramite il proprio sito ufficiale le raccolte di versi e appunti di viaggio “Notes From The Road”, Arthur comincia a mettere in vendita alla fine di ogni concerto la registrazione soundboard della propria esibizione, raccolta e masterizzata in tempo reale. Negli anni successivi, le registrazioni dal vivo verranno offerte da Arthur anche sul suo sito, tramite download a pagamento.
Nel 2003 vede inoltre la luce un estemporaneo progetto parallelo a nome Holding The Void, in cui Arthur si diverte a recitare la parte del frontman e chitarrista di un impetuoso trio garage-rock con Pat Sansone al basso e Rene Lopez alla batteria, già presenti in alcuni episodi di Redemption’s Son. Il disco, dominato dai riff abrasivi di brani come “Candy Store”, “Blue Jays And Honey Bee” e “False Colored Eyes”, non è altro che uno sfogo spensierato e chiassoso, ma tutto sommato godibile.
Arthur si cimenta anche come produttore per il debutto della cantautrice newyorchese Tara Angell, “Come Down”. Un’esperienza che ripeterà nel 2006 con “Here, There And Anymore” di Greg Connors.
Our shadows will remain even after we are gone
Deluso dalle vicissitudini connesse alla realizzazione e alla diffusione di Redemption’s Son, nel 2004 Joseph Arthur decide di abbandonare la Real World e, lasciatesi alle spalle le luci di New York, si avventura verso l’aria densa di decadente mistero di New Orleans, affidandosi di volta in volta all’aiuto degli amici disposti a ospitarlo.
Il nuovo album, Our Shadows Will Remain, pubblicato negli Stati Uniti dalla Vector Recordings nell’ottobre del 2004 e distribuito in Europa soltanto a partire dall’estate dell’anno successivo, si incentra intorno a un nucleo di brani cresciuti sul palco durante il precedente tour. Il suono è corposo come non mai e si erge a riempire gli spazi del disco con il sostegno di una batteria flessuosa, lasciando che le chitarre si dividano il campo con archi, pianoforte, tastiere ed elettronica.
Dopo la breve e rarefatta elegia di “In Ohio”, desolata come un lamento di Damien Jurado, è la fisicità dell’impatto rock il primo elemento a emergere all’ascolto, con il muro chitarristico del chorus del singolo “Can’t Exist”. Ma è la suggestione per le sonorità Eighties la caratteristica che accomuna le scelte musicali di Our Shadows Will Remain, dalle tastiere di “Devil’s Broom” al synth-pop autunnale e un po’ stucchevole di “Wasted”, sino al ritmo brioso di “Puppets”, che sembra rubato ai Cure più frivoli.
Non c’è da stupirsi, allora, che la fosca e splendida “Leave Us Alone”, posta significativamente in chiusura dell’album, venga presentata da Arthur come un brano ispirato alla tragica memoria del leader dei Joy Division, Ian Curtis: “Like a ghost without an atmosphere/ His voice sang without a song”.
Ad accrescere la ricchezza della veste musicale di Our Shadows Will Remain contribuisce poi la presenza in quattro brani dell’Orchestra Filarmonica di Praga, che conferisce una maestosa drammaticità a “Stumble And Pain” e dona a “Echo Park” la leggiadria delle partiture d'archi scritte per Nick Drake da Joe Boyd, prendendo vie di spensieratezza pop tra i risvolti incalzanti ed il falsetto black di “Even Tho”. Il rischio, tuttavia, è che la produzione di Mike Napolitano finisca per appesantire dei brani che non sembrano in realtà avere bisogno di orpelli troppo luccicanti per riuscire a brillare.
È allora nella collaborazione nata quasi per caso con la cantante neozelandese Julia Darling che il disco trova il suo momento più abbagliante, “A Smile That Explodes”, che trafigge con la sua scarna perfezione: le tastiere aleggiano come l’eco di un lontano oceano e, mentre un arpeggio si libra a mezz’aria, il piano sfiora appena la riva, lasciando la voce di Joseph Arthur sperduta in un’apatia quasi radioheadiana, fino a quando non si intreccia con il delicato controcanto di Julia Darling.
Le tetre radiografie di dolore delle figure disegnate da Joseph, che anche in questa occasione costituiscono l’artwork dell’album, dipingono un senso di precarietà e di caducità dell'esistenza che permea l’atmosfera del disco. Il brusco risveglio descritto in “Devil’s Broom” è quello di un uomo di fronte alla propria ontologica fragilità, il viso contro il marciapiede e tutto quello che possiede in un sacco dell'immondizia.
Eppure, allo stesso modo in cui, tra i toni plumbei della copertina del disco, si apre un inatteso squarcio di cielo, c’è qualcosa nell’uomo che, anche se apparentemente fuggevole come un’ombra, è destinato a durare in eterno. “Our shadows will remain/ Even after we are gone”, canta Joseph in “Even Tho”: nella ricerca di quell’ombra che non può essere cancellata sta il senso di tutto l’album.
Non è invece ricompresa nel disco l’apocalittica “All Of Our Hands”, bonus track offerta in download gratuito sul sito ufficiale del songwriter e successivamente pubblicata anche come singolo. Eppure si tratta di un tassello essenziale per comprendere lo spirito di Our Shadows Will Remain, con la sua amara riflessione sugli aridi tempi di guerra dell’inizio del nuovo millennio: quando tutti sembrano pronti a gridare senza esitazione che il male è da cercare altrove (nell’America di Bush o nel terrorismo islamico, a seconda degli schieramenti), Joseph Arthur non teme di affermare che il male è dentro ciascuno di noi, è il frutto delle nostre mani insanguinate.
Nell’estate del 2004, Arthur appoggia come molti altri artisti americani la campagna elettorale del candidato democratico John Kerry, offrendo sul proprio sito la possibilità di scaricare un concerto tenuto in suo sostegno a New York. Arthur dedica inoltre alla colonna sonora di “Shrek 2” la giocosità radiofonica dell’inedita “You’re So True” e presta la propria voce ai Faultline per una cover di “Wild Horses” dei Rolling Stones, inserita nell’album “Your Love Means Everything”.
Quindi riparte in tour insieme alla cantante e violinista Joan Wasser, altrimenti nota come Joan As A Police Woman, che lo ospiterà anche nel proprio album di debutto, “Real Life”. Il connubio tra i due artisti sul palco rappresenta una delle più affascinanti esperienze live della carriera di Joseph Arthur: la loro splendida cover del capolavoro degli Smiths, “There Is A Light That Never Goes Out”, si può ascoltare in una compilation venduta nelle caffetterie Starbucks, anche se in una versione meno efficace di quella proposta in concerto.
Come al solito, un album non basta a contenere la traboccante vena compositiva di Arthur. Ecco allora, alla fine del 2004, arrivare un nuovo Ep, And The Thieves Are Gone, contenente materiale proveniente dalle medesime session di Our Shadows Will Remain, fatta eccezione per la scabra “Papa”, ripescata dai tempi di Come To Where I’m From.
“My Home Is Your Head” sembra sbucare direttamente dagli anfratti di Big City Secrets, mentre la plasticità di “Saviour Of The Sun” e l’orecchiabile emotività di “Real As Rain” scorrono senza lasciare il segno. A farsi ricordare sono piuttosto la ritmica avvolgente di “Glass Pipe” e la vivacità di “Anywhere With You”, in cui Arthur snocciola i propri versi su un luccicante bordone d’organo, che lascia progressivamente spazio a una giostra di inserti digitali e chitarre spumeggianti.
Nel frattempo, Dan The Automator realizza un remix di “Even Tho” e Our Shadows Will Remain viene messo in vendita su iTunes con la prescindibile aggiunta di due nuovi brani, le ballate “You May Go” e “And The Night Goes On”. A completare il quadro, le b-side del singolo “Can’t Exist” riservano la morbidezza springsteeniana di “More To Give”, frutto ancora una volta della collaborazione con Julia Darling, e una scalpitante “Jump Out Boy”.
In the mirror everything’s reversed
L’attività di Joseph Arthur si fa sempre più frenetica. Tra la fine del 2004 e l’inizio 2005 suona di fronte a platee molto più affollate rispetto ai suoi standard, aprendo in numerose date i concerti dei R.E.M.. Peter Buck affianca Joseph alla chitarra in una struggente versione di “In The Sun”, che verrà pubblicata anche in una compilation allegata alla rivista Uncut. Ed alla fine dei loro concerti, i R.E.M. invitano Joseph a raggiungere la band sul palco e a unirsi a loro in alcuni bis, tra cui lo spensierato rock ‘n’ roll di “Permanent Vacation”, uno dei primi brani scritti dal giovane Stipe.
Michael Stipe rimane folgorato dal talento di Arthur, tanto da farsi promotore, nel 2006, di un’iniziativa benefica per raccogliere fondi a favore delle vittime dell’uragano Katrina battezzata “In The Sun Foundation”, realizzando un Ep di cover di “In The Sun” cui partecipano, oltre al cantante della band di Athens, anche il leader dei Coldplay Chris Martin e la popstar Justin Timberlake. “Deve essere una canzone dal cuore caritatevole”, commenta con una punta di ironia Arthur, ricordando che “In The Sun” era già stata cantata da Peter Gabriel nel tributo alla Principessa Diana del 1997. Del progetto viene anche realizzato un documentario e l’ASCAP (American Society of Composers, Authors and Publishers) assegna ad Arthur proprio per “In The Sun” il College Vanguard Award.
Tornato in tour in solitaria, Joseph Arthur introduce nei suoi concerti una sessione di pittura on stage, dipingendo ogni sera una nuova tela mentre canta “Crying Like A Man” e “Invisible Hands”. “All’inizio mi sentivo davvero vulnerabile”, osserva. “È come essere isolati dal pubblico, ma è anche un modo di comunicare a un diverso livello. Un livello che il pubblico non è abituato a vedere utilizzato per comunicare”.
Nel febbraio del 2006, Arthur espone per la prima volta in una galleria londinese i suoi dipinti dal cupo primitivismo metropolitano, tra Basquiat e De Kooning. Una selezione di opere viene anche diffusa a pochi mesi di distanza tramite il sito ufficiale del songwriter nel volume a tiratura limitata “We Almost Made It”, al quale Arthur allega un disco strumentale dal titolo The Invisibile Parade, sospeso tra divagazioni indietroniche e suggestioni ambientali.
Sempre sul proprio sito, Arthur offre in download un brano inedito, “Last Train To Ithaca”, che affronta ancora il tema dell’uragano Katrina. Nella raccolta di canzoni marinaresche “Rogue’s Gallery: Pirate Ballads, Sea Songs & Chanteys”, realizzata nell’ambito del lancio del film “Pirati dei Carabi – La maledizione del forziere fantasma”, si può sentire Arthur interpretare “Coast Of High Barbary” travestito da Tom Waits, mentre una cover di “Look At Me” di John Lennon viene inserita in una compilation allegata alla rivista Q Magazine.
Nell’estate del 2006, Arthur viene invitato dall’associazione Barefoot Workshops a prendere parte a un festival artistico in Uganda e per l’occasione scrive un nuovo brano, “A River Blue”, che registra con un coro di un centinaio di orfani africani. “Ho scritto la canzone prima di andare in Uganda”, racconta, “ma mi sono sentito in imbarazzo a cantarla con quei bambini, perché non potrei mai comprendere fino in fondo la profondità della loro situazione. Durante il viaggio sono stato più interessato alle loro canzoni, ai loro disegni e alla loro incredibile bellezza”.
Nello stesso anno, Arthur collabora anche con i Twilight Singers per l’album “Powder Burns” e per il successivo Ep “A Stitch In Time”, oltre che con la band psych-rock Y e con la cantante e polistrumentista Caroline Glass. Come se non bastasse, Arthur decide di dare vita alla propria personale etichetta discografica, la Lonely Astronaut Records, alla ricerca di un’espressività artistica completamente libera da vincoli esterni.
Nel bel mezzo di una tale indigestione creativa, ecco fare la sua comparsa nel settembre del 2006 il quinto album vero e proprio del cantautore americano, Nuclear Daydream. Registrato tra Berlino e Los Angeles nel corso di una serie di session che originariamente avrebbero dovuto dare vita a due differenti dischi, il nuovo lavoro di Joseph Arthur abbandona il denso registro rock del predecessore, affidandosi ad una più essenziale atmosfera acustica. Sulla carta, la dimensione ideale per i chiaroscuri delle sue composizioni: eppure qualcosa sembra non funzionare fino in fondo.
Nonostante la qualità delle interpretazioni, Nuclear Daydream risente infatti di una produzione sin troppo convenzionale, tanto che i brani già presentati dal vivo nei mesi precedenti finiscono per risultare meno incisivi nella loro versione in studio. La pulizia del suono sembra levigare gli angoli: “è stato un po’ come dire «stavolta facciamo qualcosa di veramente user-friendly»”, confessa Arthur stesso. Il risultato finisce per avvicinarsi più ad una versione spogliata di enfasi del Richard Ashcroft solista che non all’icona di Jeff Buckley.
Non è un caso, allora, che ad anticipare il disco venga scelto un singolo a base di briosa malinconia e voglia di fuga come “Enough To Get Away”, che potrebbe appartenere senza troppe difficoltà alla penna di Stuart Murdoch. Nuclear Daydream prende le mosse proprio dal versante pop, con il ritmo plastico e il pianoforte alla Roy Bittan di “Too Much To Hide”, per arrivare poi a giocare con i miagolii di chitarra ed il falsetto in stile Prince di “Slide Away”.
Gli spunti wave di Our Shadows Will Remain tornano solo nei tratti marcati di synth di “Automatic Situation”. A dominare sono ballate dall’andamento classico come “You Are Free” e “When I Was Running Out Of Time”. “Electrical Storm” si libra su un arpeggio percorso da ululati di onde radio, mentre “Don’t Give Up On People” si distende su un pianoforte dal sapore lennoniano.
Ma è nelle pieghe dei momenti meno appariscenti del disco che si ritrova intatta la vena compositiva di Joseph Arthur: gli scabri accordi acustici di “Black Lexus”, parente diretta della vecchia “Mercedes”, danno modo alle tinte scure della voce di Joseph di addentrarsi in una dimensione di desolato straniamento, in cui la realtà sembra confondersi con uno specchio in cui ogni cosa è rovesciata. E gli intarsi della title track, lambiti da un velo di tastiere, vanno a posarsi sulle note del piano con un senso di amarezza dylaniana, che carezza dolorosamente le corde degli Stones di “Wild Horses”.
Quella di Nuclear Daydream è una dimensione fatta di rapporti che si consumano nelle ceneri del proprio abbraccio e di illusioni perdute in un viaggio privo di destinazione, lungo la linea di confine tra possesso e distacco: “Don’t tell your eyes are mine”, proclama Joseph, “Jesus loves you more than you know”.
Alla fine, la sensazione è che in più di un episodio l’album soffra di una scrittura eccessivamente prevedibile ed istintiva, visto anche il gran numero di nuove composizioni presentate dal vivo negli anni precedenti e rimaste escluse dal disco. Una maggiore ponderazione avrebbe probabilmente giovato all’equilibrio complessivo di Nuclear Daydream: i momenti di fascino non mancano, ma nell’insieme il disco non sembra riuscire a porsi compiutamente all’altezza del talento di Joseph Arthur.
L'album verrà ripubblicato in Europa nel 2009 dall'etichetta francese Fargo con l'aggiunta di ben sei bonus track, presentate come "Side Three". Tra la rotondità di "Moon In The Skull (Long Way Down)" e le punteggiature di "Flashing Lights And Cockfights", a spiccare sono soprattutto le pulsazioni di basso e synth di "My Eyes Follow You" e l'essenzialità voce/chitarra di "Can't Let You Stay": non una semplice appendice di scarti, insomma, ma un vero e proprio coronamento, capace di approfondire lo spessore di un disco che avrebbe potuto esprimere un ben diverso potenziale.
Trying to avoid the truth of who you really are
Alla fine del 2006, Joseph Arthur raccoglie una vera e propria backing band per accompagnarlo nel tour di supporto a Nuclear Daydream: il gruppo, battezzato Lonely Astronauts, vede alla chitarra e alle tastiere Kraig Jarret Johnson, già componente dei Jayhawks, ed alla batteria Greg “Wiz” Wieczorek, al fianco di Arthur sin dai tempi di Redemption’s Son e Our Shadows Will Remain, oltre a Jennifer Turner alla chitarra e Sibyl Buck al basso.
Dopo un paio di mesi di concerti, la band entra in studio a Los Angeles per registrare di getto oltre ottanta canzoni, una dozzina delle quali vengono subito offerte in download gratuito sul sito ufficiale di Arthur. Se le cose fossero rimaste allo stadio di un pugno di demo offerti in regalo ai fan o se si fosse trattato semplicemente di un progetto parallelo come gli Holding The Void, si sarebbe potuto liquidare il tutto con una scrollata di spalle. Ma il fatto che Arthur abbia deciso di tradurre un progetto del genere in un album ufficiale, pubblicato nella primavera del 2007 a nome “Joseph Arthur & The Lonely Astronauts”, obbliga inevitabilmente a chiedersi se il songwriter di Akron non abbia perso di vista la propria musa.
In effetti, l’ubriacatura di libertà concessagli dal fatto di poter ormai disporre della propria personale etichetta discografica sembra aver condotto Arthur ad una bulimia compositiva degna del peggior Ryan Adams. E il paragone è tutt’altro che causale, vista la maniera in cui il nuovo disco, intitolato Let’s Just Be, ricalca i luoghi comuni di un rock dai tratti convenzionali.
“L’idea era di registrare tutte queste nuove canzoni direttamente su nastro, usando solo 16 tracce: una sorta di back to basics come registravano gli Stones o Neil Young”, osserva Arthur. E in effetti, il suono grezzo e sporco di Let’s Just Be è senz’altro la parte migliore del disco, insieme alla consueta accuratezza dell’artwork, che nell’edizione limitata dell’album presenta nuove litografie e disegni originali dell’artista americano.
Il fatto è che, nella maggior parte dei casi, la scrittura dei brani (non a caso firmati a quattro mani in più di un episodio con Kraig Jarret Johnson) è talmente scontata da non sembrare neppure possibile che appartenga davvero alla penna di uno dei migliori songwriter della propria generazione.
Il brano d’apertura, “Diamond Ring”, viene presentato come la miglior canzone che i Rolling Stones non hanno scritto per “Exile On Main Street”, un tributo nei confronti di una band che Arthur non ha mai nascosto di amare, tanto da ricordare che “Tattoo You” è stato il primo disco che ha comprato nella sua vita. Ma qualcuno sentiva davvero il bisogno di questa diligente riscrittura dei tempi d’oro di Mick Jagger e soci?
L’isteria alla Iggy Pop di “Cockteeze” e “Shake It Off” potrebbe andar bene al massimo per qualche gag di un film con Jack Black, mentre lo sferragliante hard-rock di “Good Life” suona sin troppo prevedibile. Così, tra i riff saturi di “Cocaine Feet” e la leziosità di “Precious One”, la scoperta devozione per gli Stones e per il primo Bowie finisce per scivolare spesso nella maniera.
Rispetto ai demo dell’album, l’unica differenza che si fa rimpiangere è l’assenza di “Famous Friends Along The Coast”, uno dei pochi brani che riscattavano la versione di Let’s Just Be messa online da Arthur in precedenza. E “Lonely Astronaut”, che dal vivo si era fatta notare come una delle migliori composizioni scritte dal songwriter americano dai tempi di Our Shadows Will Remain, viene immersa in una coda di oltre un quarto d’ora, capace di estenuare con la sua sconclusionata jam session anche il più sfegatato degli ammiratori. “Il titolo è ispirato ad una scena di “2001: Odissea nello spazio” di Kubrick”, spiega Arthur, “quando uno degli astronauti viene lanciato alla deriva nello spazio, destinato a morire nella solitudine più profonda”. Sprecare in questo modo il potenziale di un brano del genere sembra davvero una scelta suicida, oltretutto priva di quella forza eversiva che Arthur vorrebbe attribuirle.
Gli sfocati viaggi psichedelici di “Star Song” e “Spacemen”, che si dice sia stata scritta da Arthur sotto l’influenza allucinogena dei farmaci antimalarici presi in occasione del suo viaggio in Uganda, non aiutano certo a migliorare il risultato. A salvarsi, allora, sono ancora una volta le ballate più consone alle corde di Arthur, da “Lack A Vision” a “Take Me Home”, che non avrebbe sfigurato in un disco come Redemption’s Son, fino a quella “Chicago” già presentata sul palco sin dal 2004.
Il Joseph Arthur di Let’s Just Be, insomma, sembra davvero una caricatura irriconoscibile. “Bullshit King”, l’ha apostrofato senza mezze misure Juliette Lewis in una canzone del secondo disco a nome Juliette & The Licks, dedicata a quanto pare alla fine della sua focosa relazione con Arthur, che ha portato la coppia sotto i riflettori del gossip newyorchese. E non si tratta tanto del fatto di essersi presentato con una veste diversa rispetto alla sua abituale immagine: è piuttosto l'avere abdicato alla propria personalità, per ridursi all’imitazione di un rocker come tanti.
Il lato pittorico, in compenso, assume sempre più importanza nella sua ricerca di espressione artistica, tanto da spingerlo ad aprire a Brooklyn una vera e propria galleria d'arte, il "Momar" ("Museum Of Modern Arthur"). L'esperienza avrà vita breve e porterà Arthur a preferire la vendita online delle sue opere, compreso il coloring book "Colour Me Courageous".
Hanging out with the temporary people
“Il mio ideale è l’approccio artistico di Andy Warhol: fare arte e, mentre la gente sta decidendo se gli piace o no, fare ancora altra arte”. Per Joseph Arthur sembra essere diventata una sfida personale: sperimentare fino a dove può condurlo la più assoluta libertà artistica. Così, prima di pubblicare il suo secondo album con i Lonely Astronauts, nel 2008 il songwriter americano dà alle stampe in rapida successione ben quattro Ep, sul modello di quanto aveva fatto nel 2002 con Junkyard Hearts: una collezione di ben ventisei canzoni, probabilmente troppo disomogenee tra loro per essere riunite in un unico disco. E la sorpresa è che il primo capitolo di questo ennesimo profluvio creativo riporta Arthur a livelli che almeno dai tempi di Our Shadows Will Remain non aveva più raggiunto.
Could We Survive, l’Ep chiamato ad inaugurare la serie, prende le mosse da un folk-pop alla Nuclear Daydream per raccontare l’America ai tempi della guerra in Iraq, con una “Rages Of Babylon” che solo il consueto tono metaforico salva dall’abuso di retorica. Se le aperture melodiche di brani come “Shadows Of Lies” e “Walk Away” suscitano alla memoria le atmosfere di Redemption’s Son, l’approccio “ruvido e atmosferico” di “Morning Cup”, come lo definisce Arthur stesso, riporta indietro le lancette dell’orologio addirittura fino ai tempi di Vacancy.
Con il secondo Ep, Crazy Rain, si passa ad un suono aspro e tagliente a base di chitarre e drum machine: a dettare l’atmosfera è l’iniziale “Killer’s Knife”, presentata sul palco sin dal 2004, con la voce metallica di Arthur a farsi strada tra fragori di chitarra e tastiere wave. Arthur descrive Crazy Rain come un lavoro “quasi techno e meravigliosamente caotico”: in realtà, i ritmi pulsanti e l’incedere ossessivo di “I Wanna Get You Alone” e “I Come Down”, insieme alla voce della chitarrista Jen Turner che accompagna quella del songwriter americano, fanno pensare più che altro al blues sporco e abrasivo dei Kills.
A metà strada tra le atmosfere dei due primi Ep, Vagabond Skies conferma il febbrile momento creativo di Arthur, che non contento della quantità di nuove uscite discografiche avvia nel frattempo anche un blog, “Bag Is Hot”, per condividere ulteriori foto, dipinti e brani inediti. Nel suo terreno più congeniale, quello delle ballate pop, il songwriter americano si muove con la consueta sicurezza, ma anche senza veri slanci: nel brano più atteso dell’Ep, “She Paints Me Gold”, il falsetto onirico di Arthur si inacidisce in una divagazione chitarristica dal sapore psichedelico, ma il risultato non sembra pienamente all’altezza della fluttuante versione del brano realizzata nel 2005 con gli amici della band americana Y.
L’ultimo capitolo, Foreign Girls, si rivela il più solare dei quattro, con un pugno di canzoni piene di freschezza, anche se spesso dalla struttura poco più che abbozzata. È il brano che dà il titolo all’Ep ad offrire la melodia più efficace, con ai cori la fidanzata francese di Arthur, Cerise Leang, emblema delle ragazze straniere del titolo ed immortalata a più riprese anche sulle pagine di “Bag Is Hot”. Nel complesso, però, il bilancio finale dei quattro Ep non sembra sempre ugualmente ispirato, alternando alcuni dei migliori brani realizzati da Arthur a momenti di evidente scontatezza, in cui il songwriter americano sembra procedere con il pilota automatico.
Joseph Arthur non accoglie con spirito molto autocritico le stroncature collezionate da Let’s Just Be: nelle sue “Notes From The Road” si scaglia senza troppi complimenti contro il “Boston Globe”, reo di avere bollato il disco come “selvaggiamente incompiuto”. Così, al momento di ripresentarsi sulla lunga distanza, il songwriter americano non resiste alla tentazione di reclamare vendetta, deciso a riscattare la bocciatura rimediata dal primo disco con i Lonely Astronauts.
Temporary People, che vede la luce nell’autunno del 2008 (dopo una breve serie di concerti acustici in solitaria), sfoggia in effetti una maggiore cura e ponderazione. Le asperità garage vengono smussate, la trama dei brani si arricchisce di dettagli: merito anche dell’inconfondibile apporto dell’organo di Garth Hudson della Band, ospite in quasi la metà delle tracce del disco, oltre che della produzione di Kenny Siegal. Ma non basta per farne un disco all’altezza del passato del songwriter americano: i Lonely Astronauts rimangono anche in questa seconda incarnazione una band fin troppo ordinaria e le canzoni scritte da Arthur al loro fianco continuano ad apparire scontate.
Il nucleo centrale dell’album pulsa intorno ad un pugno di vigorose ballate elettroacustiche, già ampiamente rodate dal vivo, da “Drive” a “Sunrise Dolls”, passando per la chitarra acidula di “Faith”. Agli estremi opposti, il riff e le movenze alla Mick Jagger di “Winter Blades” riportano al clima di Let’s Just Be, mentre la spoglia recitazione di “A Dream Is Longer Than The Night” viene contornata da una frastagliata elettricità. La voce di Arthur è asciutta e graffiante e nello sfogo dylaniano di “Dead Savior” scandisce i versi con tono più beffardo che mai.
“Il titolo dell’album si riferisce alla fragilità della condizione umana, che è il tema di fondo del disco”, afferma Arthur. “Le cose migliori, le più vere, nascono dal bisogno, dalla necessità. Mi sono accostato alla registrazione di questo disco come farebbe un naufrago sperduto in mezzo al mare con un brandello di legno galleggiante”. Un senso di caducità che emerge soprattutto tra le pieghe melodiche dell’addio di “Say Goodbye”, anche se la tensione spirituale dei versi di un tempo si ritrova solo nell’episodio più pop del disco, “Look Into The Sky”.
“There must be twenty-five different people / Living inside me”, proclama Arthur in “Temporary People”. La sindrome da personalità multipla, però, ha i suoi inconvenienti: l’Arthur-rocker conferma di non avere lo stesso talento dell’Arthur-cantautore. I Lonely Astronauts guardano ancora una volta alla lezione del rock anni Settanta, tra le tinte black di “Heart’s a Soldier” e una “Turn You On” con l’organo di Hudson più in evidenza che mai. Ma se Let’s Just Be meritava l’insufficienza, Temporary People, pur presentandosi maggiormente conciso e focalizzato, non si spinge oltre la soglia della mediocrità.
Arthur torna in tour in versione solista (comprese alcune date come supporto di Tracy Chapman), presentandosi in scena solo con chitarra e armonica, senza i consueti loop e pedali. Per la prima volta, una raccolta di brani dal vivo del songwriter americano viene pubblicata in formato digitale su iTunes: Live From Montreal, registrato in occasione della performance nell'Apple Store della città canadese dell'ottobre 2008, sconta la predominanza di episodi tratti dai dischi con i Lonely Astronauts, che riescono tuttavia ad acquistare maggiore profondità una volta ridotti all'osso. Accanto a un paio di sguardi al passato ("Birthday Card" su tutti), sono soprattutto i due inediti in scaletta ad affascinare: nell'affabulatoria "All The Old Heroes" Arthur torna a sfoggiare il suo lato più dylaniano, mentre "Face In The Crowd" apre la strada al disco del ritorno solista, The Graduation Ceremony, che vedrà la luce nel 2011. Sempre a documentare l'esperienza sul palco, arriva anche il primo dvd di Arthur, "Live In Philadelphia", registrato nel dicembre del 2009: un tassello imprescindibile per i fan, con classici del calibro di "Vacancy" e "Honey And The Moon" e un altro inedito destinato a The Graduation Ceremony, "Watch Our Shadows Run".
Nel frattempo, Arthur collabora con i Gutter Twins di Mark Lanegan e Greg Dulli e prende parte al tributo agli Afghan Whigs "Summer's Kiss" con una cover di "Step Into The Light". In “Big Blue Ball”, raccolta di registrazioni della Real World dei primi anni Novanta, Arthur partecipa al viaggio dal sapore celtico di “Altus Silva” ed al classico scampolo funky alla Peter Gabriel di “Exit Through You”, mentre in “Canon”, prima antologia di Ani Di Franco, affianca la cantautrice di Buffalo sulle note di “Napoleon”. E al festival canadese “Pop Montreal” viene presentato in anteprima un documentario sul songwriter americano realizzato da Bryan Johnson, “You Are Free”, che propone interviste e brani da un concerto del 2005 al Troubadour di Los Angeles.
Friends with whom you belong
Tutto comincia con un sms. Un messaggio con cui Joseph Arthur invita Ben Harper a raggiungerlo sul palco del Troubadour di Los Angeles, dove Arthur ha in programma un concerto. I due, amici sin dai primi anni Novanta, non avevano mai trovato l'occasione per collaborare insieme: ma quella sera è subito evidente che il momento giusto è finalmente arrivato.
Manca ancora qualcosa, però, un ultimo tassello per completare il mosaico. E Harper si ricorda di un ragazzo che aveva conosciuto facendo skate: Dhani Harrison, il figlio del grande George. Armato di ukulele, Dhani si presenta puntuale in studio, chiedendo candidamente quali siano le canzoni da imparare. Arthur, seduto in mezzo alla sala a sistemare i propri strumenti, gli sorride: "Oh, non le abbiamo ancora scritte...".
Improvvisazione, istinto, condivisione: così nel 2010 nascono i Fistful Of Mercy, inedita band in cui Joseph Arthur affianca Harper e Harrison. Tre giorni trascorsi a suonare insieme tra le mura della Carriage House di Los Angeles, nove brani (di cui uno strumentale) scritti in un'aura di comunione artistica. All'inizio c'è solo un verso: "You love like I love". Una sorta di manifesto di affinità elettiva, diventato l'incipit di "As I Call You Down". Da lì in avanti, la musica comincia a prendere forma con una naturalezza tale da sorprendere gli stessi protagonisti.
"Come diceva Lester Bangs, il rock 'n' roll è non avere la minima idea di quello che si sta facendo": Arthur sintetizza così lo spirito di spontaneità e abbandono dei Fistful Of Mercy. Nonostante l'entusiasmo, però, gli esiti non sono altrettanto memorabili: la formula di ballate acustiche e armonie vocali che accomuna senza grosse sorprese tutti i brani di As I Call You Down, pubblicato ell'album chiama inevitabilmente in causa l'ingombrante modello di Crosby, Stills & Nash. Ma la scrittura soffre troppo spesso di incompiutezza e linearità, cedendo alla più classica "sindrome da supergruppo".
Il marchio di Ben Harper si trova impresso soprattutto nel vigore soul di "As I Call You Down", mentre Joseph Arthur conferisce il suo anelito spirituale a "Fistful Of Mercy", la canzone che (prendendo spunto del Sergio Leone di "Per un pugno di dollari") è diventata il nome di battesimo della band. A dare uno spessore pop alle iniziali registrazioni acustiche dei tre, Dhani Harrison chiama un vecchio amico di famiglia, il batterista Jim Keltner. Tra melodie ad alto tasso sentimentale ("In Vain Or True", "Restore Me") e passaggi a vuoto ("Things Go 'Round"), a movimentare l'atmosfera ci pensa il blues pimpante e campagnolo di "Father's Son", tra battimani e funambolismi di chitarra targati Harper.
"Questo album è il suono di un'amicizia che si sviluppa", riflette Arthur. "È la documentazione di un gruppo di amici che diventano fratelli". Perché essere amici, come suggerisce "Fistful Of Mercy", significa mettere in comune i desideri più profondi del cuore: "Maybe it comes from where we are / Land of the thirsty / And the hungry". È di amici così che c'è bisogno per vivere, e il coro finale di "With Whom You Belong" suona come l'augurio rivolto a ciascuno di riuscire un giorno a trovarli. Basta un pugno di misericordia.
Sempre nel 2010, Arthur torna a rendere omaggio ai Rolling Stones con una cover di "Sweet Black Angel" per la rivista francese "Eldorado" e partecipa al disco d'esordio del cantante inglese Gary Go (al secolo Gary Baker). L'inedita "I'm In Your Life" trova spazio nella compilation "1% For The Planet: The Music (Vol. 1)", mentre la cantauatrice americana Reni Lane intepreta in anteprima "Call", che comparirà l'anno successivo in The Graduation Ceremony. La collaborazione più significativa, però, viene dal rinnovarsi del sodalizio con Joan As A Police Woman, che nel suo fortunato "The Deep Field" riserva in diversi brani un posto di primo piano alla voce di Arthur.
I won't run away anymore
L'ultimo sguardo di un amore che finisce. Sembrava di averlo stretto tra le dita, di avere afferrato quella segreta corrispondenza. E invece fugge come un'ombra alle prime luci dall'alba. "Here comes the sun, watch our shadows run". Le canzoni di Joseph Arthur hanno da sempre a che vedere con le ombre dell'amore, ma mai come in The Graduation Ceremony i chiaroscuri erano stati così personali: un diario, una confessione, una tela bianca su cui tratteggiare l'azzurro della lontananza. Canzoni che hanno bisogno di solitudine, come non accadeva ormai da anni per il songwriter americano. Non il rock 'n' roll dei Lonely Astronauts, non la coralità dei Fistful Of Mercy. Un ritorno al formato solista capace di restituire a Joseph Arthur quell'ispirazione che, almeno dai tempi di Our Shadows Will Remain, sembrava essersi dispersa in una sorta di permanente estemporaneità.
The Graduation Ceremony, pubblicato alle porte dell'estate 2011, è un saggio della materia maggiormente congeniale ad Arthur: la ballata nello stile notturno e fremente dei momenti più intimi di Redemption's Son. Un'unica sessione negli studi di Sheldon Gomberg a Los Angeles, un pugno di brani in veste acustica, lontano da backing band e supergruppi. Qualcosa rimane, però, dell'esperienza con i Fistful Of Mercy: l'idea di coinvolgere alla batteria, anche in questa occasione, il leggendario Jim Keltner. Lo stesso connubio che aveva dato vita a Come To Where I'm From.
Non sarebbe servito altro, per far dimenticare i passi falsi del recente passato. Ma Arthur cede alla tentazione di affidare le registrazioni alle mani del produttore John Alagia, noto per il suo lavoro con nomi come Dave Matthews Band e John Mayer. Il risultato finale, come già altre volte, finisce così per risentire inevitabilmente di qualche smussatura di troppo. Non abbastanza, però, per tradire lo spirito di un disco dai lineamenti nitidi e coesi.
Arpeggi che cullano il rimpianto, pennellate di archi a distendersi sulle melodie: fin dall'iniziale "Out On A Limb" Arthur svela subito l'essenza di The Graduation Ceremony. Un album che privilegia la semplicità, il legame con l'anima cantautorale, tanto da spingersi in "Horses" ai limiti dell'autoplagio di un classico del vecchio repertorio come "Honey And The Moon". Il romanticismo si fa più indifeso nelle pieghe di "Love Never Asks You To Lie", anticipata l'anno scorso in veste di demo come regalo di San Valentino. "This Is Still My World" si dipana tra sfarfallii digitali e contorni di tastiere, "Face In The Crowd" si veste di soffici panneggi grazie al violino di Jessy Greene. E anche il consueto ricorso al falsetto, da "Horses" a "Watch Our Shadows Run", torna ad assumere sfumature eteree.
Non mancano i brani rimasti a lungo nel cassetto, omaggi a quella vera e propria discografia parallela costruita nel corso degli anni attraverso le registrazioni dal vivo pubblicate da Arthur sul proprio sito ufficiale. È il caso di "Someone To Love", risalente addirittura al 1997, e di "Almost Blue" (guastata nel chorus da un'enfasi pop alla Coldplay). Il tempo scorre ancora più indietro, fino al panorama desolato dell'Ohio dove Arthur ha trascorso l'infanzia, e la voce dell'ospite Liz Phair accompagna i cori di "Midwest" tra battimani e incursioni elettriche: "There's nothing to do in the Midwest but dream".
La fine di un amore è perdere una parte di sé. "Homeless in my home", come canta Arthur in "Horses". Il suo è un racconto schietto, a volte sin troppo colloquiale ("Call"). "Tutto il disco riguarda una lunga relazione", spiega. "Registrare questa musica è stato catartico e terapeutico: l'arte è la migliore medicina per trasformare l'amarezza del cuore in innocenza, ma accompagnata dalla saggezza. Essere innocente e saggio è essere illuminato". Illuminato da un riverbero di verità che nemmeno le bugie degli amanti posso negare: "You were as close to the truth as anything ever was", è il sussurro di "Love Never Asks You To Lie". Non è una menzogna, la promessa che sembra tradita: è un punto di fuga che né la purezza dell'amore, né la sua fragilità possono contenere. Una sofferta cerimonia di laurea, il segno dell'innocenza ritrovata.
A qualche mese di distanza dal convincente ritorno solista di The Graduation Ceremony, ecco comparire a sorpresa, sul sito ufficiale del songwriter americano, un nuovo album in download gratuito (con possibilità di offerta libera). Un doppio album, addirittura. Ventiquattro canzoni, più un ulteriore corollario di bonus track destinate ad aggiungersi nell'edizione in vinile. Il gesto in sé, dai Radiohead in poi, non ha certo una portata rivoluzionaria. Nel caso di Arthur, però, è emblematico di una filosofia ben precisa: "Non sono sottoposto ad alcuna regola o obbligo di adattarmi a una qualunque forma", afferma deciso su Twitter. "Free Freedom", insomma, come proclama il titolo di una delle tracce del disco. Ma la libertà, si sa, non basta da sola per la riuscita di un disco.
L'idea di fondo del disco, intitolato Redemption City, è semplice: mettere in musica le poesie con cui Arthur dà da sempre sfogo al suo lato più esplicitamente letterario. Poesie free-form, pensate per sgorgare come un flusso di coscienza senza filtro. Poesie che assumono la veste di un incalzante spoken word, sostenuto da beat martellanti e da ritornelli marcati di enfasi. La formula non manca di coraggio, ma il songwriting di Arthur ne esce irrimediabilmente appesantito. E, in un album di questa lunghezza, finisce per mostrare presto la corda.
La lavorazione dei brani, iniziata sin dal 2009, si svolge tutta nello studio di Arthur a Brooklyn. "È l'unico disco che ho fatto in cui mi sono occupato di tutto", spiega. "Ho suonato tutto quello che produce rumore, batteria, basso, synth e chitarre, l'ho prodotto e l'ho mixato". Un lavoro più che mai individuale, insomma, che nelle tastiere di "Wasted Day" e nelle frastagliature elettriche di "Mother Of Exiles" evoca le tonalità wave di Our Shadows Will Remain. Ma anche le intuizioni migliori ("Yer Only Job") rimangono soffocate da una veste ridondante, lasciando in disparte gli episodi dell'album dall'impianto più atmosferico.
Le strade della città della redenzione sono immerse in una notte al neon. Istantanee di vita metropolitana dal sapore loureediano che si sgranano sul tappeto di "I Miss The Zoo", pulsazioni elettroniche che danzano nel buio al ritmo di "There With Me". I volti che attraversano l'oscurità rimangono sfocati, lineamenti di un sogno che svanisce prima di imprimersi nella memoria. "I may have a purpose/ But it's mysterious to me", mormora Arthur in "Fractures". "In moments of strength or weakness/ I ask God for forgiveness and guidance/ Then I fall asleep/ And meet him somewhere along the fractures". La redenzione si nasconde nelle crepe della città. Ma è facile perdere la strada, inseguendo la libertà in questa lunga notte.
Sempre nel 2012, Arthur riprende anche le fila della sua vocazione più genuinamente rock, grazie alla militanza in un nuovo supergruppo. Al fianco del bassista dei Pearl Jam Jeff Ament e dell’ex-Fastbacks Richard Stuverud alla batteria, il songwriter americano dà infatti vita all’ennesimo progetto parallelo, battezzato RNDM (leggi “Random”).
L’incontro tra Arthur e Ament risale in realtà alla fine degli anni Novanta, quando Arthur aveva aperto un concerto dei Three Fish (in cui all’epoca militavano sia Ament che Stuverud). Arthur era poi apparso nel secondo disco solista di Ament, “While My Heart Beats”, e i due avevano condiviso il palco in occasione del festival per il ventennale dei Pearl Jam.
L’idea di lavorare insieme, insomma, era nell’aria da tempo quando, nell’aprile del 2012, Ament ha deciso di invitare Arthur a casa sua, nel Montana, per divertirsi a registrare qualche brano insieme a Stuverud nel suo studio personale. Una collaborazione iniziata senza il pensiero di dare vita a una band vera e propria, quindi. E il clima di rilassatezza e improvvisazione delle loro session si respira chiaramente nelle dodici tracce di Acts, il primo album targato RNDM.
Arthur firma direttamente la maggior parte dei brani, marchiando con la sua voce il tono complessivo di un album più che mai incline all’immediatezza pop-rock di stampo U2. Tra i riff di “Modern Times” e il passo funkeggiante di “Williamsburg”, la scrittura più ispirata Arthur la riserva però all’epilogo acustico di “Cherries In The Snow”.
In the city there is grace
Boogie Christ, chi era costui? Forse un profeta, forse un tentatore. Un mistico e un rocker, un santo e un peccatore. O forse solo il riflesso di Joseph Arthur allo specchio.
Di certo l’ambizione non è mai mancata al songwriter americano. Ma, per il capitolo numero dieci della sua torrenziale carriera, The Ballad Of Boogie Christ, Arthur decide di puntare ancora più in alto: un doppio album più ricco che mai, attraverso cui ripercorrere le tappe della sua traiettoria esistenziale.
Non un disco qualsiasi, insomma, ma un lavoro costruito e cesellato negli anni, con una ponderazione inusitata per un artista prolifico e istintivo come Arthur. “È l’album che aspettavo da anni di far uscire”, afferma deciso. “Una grande produzione con tanto di fiati e ottoni”. Tanto che The Ballad Of Boogie Christ segna anche il ritorno di Arthur tra le fila della Real World di Peter Gabriel dopo ormai un decennio.
Il primo atto dell'opera vede la luce nella primavera del 2013 e sin dalle prime note l'obiettivo dichiarato è quello di spiazzare, con una “Currency Of Love” che presenta Arthur nell’inedito contesto di un pop orchestrale alla Roy Orbison, marchiato da una performance vocale incisiva come non mai. “I have no real currency, but the currency of love/ I have no one to trust, but the Lord up above”, canta indossando i panni del crooner.
E sono proprio le parole a conquistare il centro della scena in The Ballad Of Boogie Christ, traendo spunto dalla vena più prettamente poetica di Arthur: “Tutto è nato da parole e poesie”, spiega, “come semi che sono sbocciati in canzoni”. Lo stesso procedimento di scrittura già adottato nel precedente Redemption City, con un flusso di coscienza contenuto a fatica nei confini dei brani. Dal punto di vista musicale, però, il parallelismo tra i due dischi non va oltre i beat sin troppo marcati di “Saint Of Impossible Causes”: a segnare il discrimine è la rilettura di “I Miss The Zoo”, che con la sua impalcatura acustica e il suo solenne bordone d’organo conquista un nuovo spessore rispetto alla versione inclusa in Redemption City, inanellando alla maniera loureediana i rimpianti di una vita spesa sul lato selvaggio.
La lunga gestazione di The Ballad Of Boogie Christ regala ai fan alcuni brani già ampiamente rodati dal vivo negli anni, a partire da una coppia di solide ballate nel tipico stile di Arthur come “Still Life Honey Rose” e “Famous Friends Along The Coast”. Allo stesso modo, la lunga lista di ospiti del disco (da Garth Hudson a Jim Keltner, da Juliette Lewis a Joan Wasser) è frutto di una serie di sessioni di registrazione che riassumono in pratica tutta la carriera recente del songwriter americano.
Ma la personalità di The Ballad Of Boogie Christ sta nel desiderio di accrescere suoni e aspirazioni, all’inseguimento di un canone soul-rock che non si sottrae agli eccessi, da qualche parte tra il trasformismo di David Bowie e il Dylan febbricitante di “Street Legal”. Una formula suggellata dal crescendo finale di “All The Old Heroes”, inno straripante e affabulatorio che celebra l’addio agli idoli dell’adolescenza in un tripudio di archi e cori.
Brano dopo brano, la figura di Boogie Christ comincia ad assumere lineamenti sempre più definiti: “Christ would eat pizza and cut blackjack decks”, proclama Arthur nella canzone che dà il titolo all’album. Non è una semplice provocazione, la sua: perché mai un Dio che accetta di mescolarsi con la carne dell’uomo non dovrebbe c’entrare anche con la pizza o con le carte da gioco? “Christ would be savage, but Christ would be true/ He’d say if you want him then look inside you”. La verità è qualcosa che sta dentro le cose, non sopra: al cuore della realtà.
La ballata di Boogie Christ, allora, non è altro che il percorso di questa ricerca: “È la storia di qualcuno che potrebbe essere illuminato o folle o un misto di entrambe le cose”, riflette Arthur.
La vita è un continuo alternarsi di rivelazioni e silenzi, di luce e oscurità, sembra suggerire tra le pieghe di “I Used To Know How To Walk On Water”: sempre sospesa tra la vertigine della consapevolezza e il tarlo del dubbio. “I could give riches to the beggars/ And give love to the one who hates”, canta tra le note sparse del piano e il baluginare di una tromba, fedele discepolo del vangelo apocrifo di Nick Cave. “But now I watch with awe and wonder/ Doubt has now befallen me”.
Non resta che una voce solitaria, come il dissolversi di un gospel denudato. È la voce di Ben Harper, amico di sempre e compagno di viaggio nei Fistful Of Mercy. A lui è affidato il compito di raccogliere le parole che palpitano dietro la maschera di Boogie Christ: “I am here/ And I am humble/ For I know not which way to go”. Le parole di chi ha lasciato tutto dietro di sé, tranne l’umiltà della domanda.
Il secondo atto di The Ballad Of Boogie Christ, pubblicato nell'autunno del 2013, comincia con una sconfitta: una rapina finita male, il miraggio infranto di una vita diversa. Un racconto dai toni cinematografici, tratteggiato sul folk-rock teso e diretto di “Blue Lights In The Rear View”. È così che, dopo un primo capitolo all’insegna della grandeur, Arthur riprende le fila della storia del suo Boogie Christ: con un taglio più asciutto e stringente, capace di offrire una convincente conferma del suo ritorno di ispirazione.
Tutto il disco è giocato sul filo dei parallelismi con la prima parte dell’opera. Anche stavolta c’è il recupero in chiave acustica di un episodio di Redemption’s City (“Travel As Equals”), che acquista nuova efficacia nella rilettura incentrata su pianoforte e chitarra. Anche stavolta ci sono poesie free-form messe in musica, come testimonia il verboso srotolarsi di “Whisper Of Whispers”.
C’è il ricordo dell’infanzia, che in “Akron Skies” si insinua con l’atmosfera obliqua di certe pagine di Come To Where I’m From. Soprattutto, c’è quel connubio tra carnale e spirituale che rappresenta la cifra dell’affresco dipinto dal songwriter americano nel suo doppio album e che si riaffaccia negli interrogativi provocatori di “Maybe Yes”.
Tra perdizione e salvezza, il riavvolgersi dei ricordi si trasfigura in parabola universale, alla ricerca di un punto di verità dietro alla disillusione, all’amore, al tradimento, alla speranza. “In my hopes and dreams forgiveness will be the only memory”, canta Arthur sul battito sintetico di “House Of Your Love”, costruendo una delle sue migliori ballate degli ultimi anni.
Ci sono due vie per affrontare la vita, sosteneva Terrence Malick in “The Tree Of Life”: la via della natura e la via della grazia. Una ossessionata dal possesso, fatalmente ripiegata su sé stessa. L’altra aperta alla realtà, libera dall’autocompiacimento. Il Boogie Christ di Joseph Arthur non ha dubbi su quale scegliere: “In The City There Is Grace”, proclama deciso l’epilogo dell’album.
Accompagnato dalle voci di Jenni Muldaur (figlia d’arte del più celebre Geoff) e della cantante soul C.C. White, Arthur dà vita a una sorta di trionfale inno folk-gospel, tra fiati e svisate elettriche. “Give away your hunger, give away your pain/ Keep with you the wonder that saves you here again”: quando la grazia calca le strade della città, lo stupore è l'unica via per riconoscerla.
New York City man
Alla fine del 2013, Arthur perde uno dei suoi più grandi punti di riferimento: Lou Reed, diventato negli anni non più solo un eroe per lui, ma prima di tutto un amico. Alla sua memoria, Arthur dedica un articolo per “American Songwriter”, che suscita subito in Bill Bentley della Vanguard Records l'idea di proporgli di realizzare una cover di Reed.
All’inizio, Arthur è riluttante: “È strano danzare intorno alla morte, ancor più se si tratta della morte di una leggenda. Non sai mai che cosa sia appropriato e che cosa no, che cosa condividere e che cosa tenerti dentro”. Poi, rimasto da solo nel suo appartamento di Brooklyn dopo mesi di tour, comincia a provare a suonare “Coney Island Baby”, da sempre uno dei suo brani preferiti di Reed. E finalmente tutto il vuoto, il dolore e il rimpianto trattenuti fino a quel momento cominciano a sciogliersi nella musica. Mentre fuori la neve si accumula lungo le strade, Arthur rimane chiuso in casa per dieci giorni, immergendosi sempre più profondamente nel canzoniere del suo vecchio amico e maestro. Alla fine, invece di una sola cover, ha pronto un intero album, che decidere di intitolare sempicemente Lou.
Due microfoni per catturare il calore dell’istante, chitarra e pianoforte a intrecciare la trama, la voce che accarezza ogni verso come a volerne svelare il segreto: è tutto qui il cuore di Lou. “Mi sono dato una regola”, spiega Arthur. “Niente batteria o elettricità. Lou era elettrico. L’unico modo che conoscevo per dare nuova vita a qualcosa di così ricco di vita come le canzoni di Lou era affrontarle in una maniera completamente differente”.
La vita dei bassifondi della Grande Mela, cantata da Reed nei suoi brani più celebri (da “Walk On The Wild Side” a “Satellite Of Love”), assume nella versione di Arthur un tono di nostalgica dolcezza. Fare propria ogni canzone senza tradirne lo spirito: è questa la chiave che gli consente di addentrarsi anche negli angoli meno scontati del canzoniere di Reed. Brani come “NYC Man” o “Magic And Loss” potrebbero venire direttamente da The Ballad Of Boogie Christ (non a caso il capitolo più loureediano della discografia di Arthur), ma con lo spirito asciutto ed essenziale sfoggiato di solito dal vivo dal songwriter americano.
Ecco perché “Lou”, al di là del semplice album tributo, si rivela una delle migliori prove firmate da Arthur negli ultimi anni. Basta sentire come “Sword Of Damocles”, prosciugata da ogni traccia di enfasi, conserva intatti i suoi spunti melodici, trasfigurandosi in una trepidante parabola sull’incombere della morte. Non c’è miglior epilogo, allora, del brano da cui tutto è cominciato: “Coney Island Baby”, sussurrata da Arthur come una sorta di inno metropolitano alla “gloria dell’amore”. L’amore che ti guarda attraverso, fino a scoprire chi sei veramente. L’amore che sopravvive anche allo strappo dell’addio.
Del disco successivo di Arthur, Days Of Surrender, viene stampata nel 2015 un’unica copia in formato cd. Ed è venduta all’interno del suo vecchio tour van, trasformato nel frattempo in una sorta di affresco su ruote: “Un artefatto vivente del mio piccolo viaggio attraverso i confini del rock ’n’ roll”, lo definisce. “Ho sempre avuto il senso di essere impegnato in una missione. Questo van per me ha incarnato lo spirito di quella missione”.
Ma se il cd spetta soltanto al fortunato acquirente del van, anche per tutti gli altri Arthur decide di ideare delle modalità non esattamente ortodosse di diffusione del suo nuovo lavoro: su una chiavetta USB, personalizzata anche in questo caso secondo il suo ormai inconfondibile stile pittorico, o in alternativa sul nastro di una cara, vecchia cassetta musicale.
Insomma, già dalla presentazione si capisce subito che Days Of Surrender è destinato a occupare un posto atipico nella discografia di Arthur. Un episodio volutamente minore, concepito più come regalo ai fan che come vero e proprio successore di The Ballad Of Boogie Christ.
Lasciate da parte le produzioni più ambiziose, Arthur sceglie stavolta la strada del minimalismo, con un disco realizzato praticamente in solitudine e in maniera del tutto artigianale. Sin dall’iniziale “Pledge Of Allegiance” – che resta uno degli episodi migliori del lotto – è un’ossatura legnosa di batteria a sostenere i brani, mentre la chitarra semina schegge elettro-acustiche lungo i contorni.
“È quasi un ritorno al modo in cui scrivevo in passato”, riflette Arthur. “Le canzoni sono più inconsce e libere: a volte non centrano il punto, ma va bene lo stesso”. Ecco, il fatto è proprio questo: quelle di “Days Of Surrender” sono canzoni quasi mai completamente a fuoco, che la coerenza complessiva del progetto non basta a rendere davvero memorabili. Brevi abbozzi come “Come Back When You’re Poor” e “If I Could I’d Get Out” hanno il fascino dell’incompiutezza, della creatività di un songwriting colto in presa diretta. Ma se il metro sono i capitoli migliori del suo repertorio, stavolta per Arthur l’appuntamento è rinviato.
Nel 2016, Arthur rinnova il sodalizio con Jeff Ament e Richard Stuverud sotto l'egida RNDM. Il secondo lavoro intestato al side project, Ghost Riding, si propone di esplorare nuove strade rispetto al predecessore, ma finisce per scivolare in una superficialità pop-rock (con marcati inserti elettronici) in cui risulta difficile salvare qualcosa.
Endless mercy
C’era una volta un pianoforte. Uno Steinway Vertegrand del 1912, nobile e austero come quello che troneggiava negli studi di Abbey Road. Per un secolo è appartenuto alla stessa famiglia, in una villa da qualche parte nel Connecticut. Joseph Arthur lo compra da un restauratore di Brooklyn, lo fa portare nel suo studio, lo salva dagli allagamenti quando l’uragano Sandy si abbatte su New York. E appena si mette a suonarlo, le canzoni di The Family cominciano a sgorgare come un torrente in piena.
“È come se queste storie fossero state lì ad aspettarmi”, racconta. “Forse erano chiuse in quel pianoforte. O forse comporre su quello strumento è stato come una liberazione”. Che sia stato il riscatto dalla frustrazione delle lezioni di piano prese da ragazzino o l’eco dei fantasmi nascosti nel vecchio Steinway, quel che è certo è che la musa di Arthur ritrova ancora una volta la propria voce. Misurandosi con un tema tutt’altro che semplice da affrontare come la famiglia. O, per dirlo con le sue stesse parole, “il modo in cui le dinamiche familiari ci formano e fanno di noi quello che siamo”.
Se alle note del pianoforte spetta definire l’ossatura dei brani, la veste sonora che le avvolge non lascia spazi vuoti, tra ritmiche rotonde, graffi elettrici e impasti vocali. Tutto gestito in prima persona da Arthur, che per la realizzazione del disco si è fatto carico letteralmente di ogni elemento (dalle chitarre alle tastiere e alla batteria, oltre ovviamente a piano e voce).
Dietro al mixer c’è Tchad Blake, come era già accaduto ai tempi di Redemption’s Son, ma il suono corposo del disco porta più alla memoria le atmosfere di Our Shadows Will Remain. Con l’icona di Lou Reed sempre ben presente davanti agli occhi (vedi l’iniziale “The Family”), il songwriter americano imprime il proprio marchio su un album dall’impianto compatto, in cui il trascolorare dei brani è fatto soprattutto di dettagli (dalle inclinazioni pop del singolo “Machines Of War” al passo più spedito di “Hold On Jerry”, passando per l’accentuarsi dei beat sintetici in “When I Look At You”).
L’album di famiglia di Arthur ha una vocazione corale, alla maniera della saga raccontata da Ben Cooper nella sua trilogia a firma Radical Face, “The Family Tree”. “In questo disco non c’è niente che nasca da un giudizio sugli altri”, spiega. “È fatto di storie raccontate da voci differenti e tempi misteriosi, che spero possano entrare in risonanza con qualsiasi famiglia, dappertutto”.
È grazie a un trittico di ballate, però, che The Family si riallaccia ai momenti più intensi della discografia di Arthur: “You Wear Me Out” è il primo brano scritto per l’album, il catalizzatore intorno a cui tutto il progetto ha preso forma; “Wishing Well” è un inno ai sogni e alle speranze dell’adolescenza, abbandonati come monetine sul fondo del pozzo dei desideri di un centro commerciale; “You Keep Hanging On” è una lettera d’amore scritta con l’inchiostro della fatica di ogni giorno, che si dipana su una trama acustica sostenuta dalle percussioni.
“Tutte le famiglie felici si somigliano, ogni famiglia infelice è disgraziata a modo suo”, recita la citazione di “Anna Karenina” posta da Arthur in apertura del disco. The Family è la famiglia da cui vorresti solo fuggire, come in “They Called Him Lightning”, e al tempo stesso la famiglia pronta a riaccogliere sempre nel suo abbraccio (“Endless mercy/ Hold me now”, invoca la litania in coda alla title track). Soprattutto, è il luogo in cui il sacrificio si rivela il solo modo di amare fino in fondo: “You say love is a church and a crucifix/ It will kill us in time after saving us”, riflette Arthur in “You Keep Hanging On”, e forse è proprio questo il cuore della questione. “Amore e perdita. Disfunzionalità e resa. Mancanza di speranza e violenza. E quello che a volte ci permette di trascendere tutto questo. Lasciare che le cose che a un certo punto ci hanno abbattuto diventino le stesse cose da cui possiamo trarre la nostra forza”.
Joseph Arthur è un artista eclettico e un interprete fascinoso, capace di racchiudere la densità dell’esperienza nell’immagine palpitante di un verso o nei grumi di colore di una pennellata. La sua maggiore debolezza è la tentazione di lasciarsi travolgere dall’onda di una frenetica creatività: ma quando la sostanza ha prevalso sull’istinto, come nel suo capolavoro Come To Where I’m From, ha saputo dare corpo come pochi altri songwriter del nuovo millennio al grido di redenzione che si solleva dai bassifondi dell’anima. Il suo rimane un invito che non perde di attrattiva: venite a scoprire il luogo al quale appartengo.
Cut & Blind (Ep, Sell My Soap, 1996) | 6,5 | |
Big City Secret (Real World, 1997) | 7 | |
Vacancy (Ep, Undercover, 1999) | 7,5 | |
Come To Where I'm From (Real World, 2000) | 7,5 | |
Junkyard Hearts I-IV (Ep, Real World, 2002) | 7 | |
Redemption's Son (Real World, 2002) | 7 | |
Our Shadows Will Remain (Vector, 2004) | 7 | |
And The Thieves Are Gone (Ep, Vector, 2004) | 6,5 | |
Nuclear Daydream (Lonely Astronaut, 2006) | 6,5 | |
Let's Just Be (Lonely Astronaut, 2007) | 5 | |
Could We Survive (Ep, Lonely Astronaut, 2008) | 7 | |
Crazy Rain (Ep, Lonely Astronaut, 2008) | 6,5 | |
Vagabond Skies (Ep, Lonely Astronaut, 2008) | 6,5 | |
Foreign Girls (Ep, Lonely Astronaut, 2008) | 6,5 | |
Temporary People (Lonely Astronaut, 2008) | 6 | |
Live From Montreal (live, Lonely Astronaut, 2009) | 6,5 | |
The Graduation Ceremony (Lonely Astronaut, 2011) | 7 | |
Redemption City (Lonely Astronaut, 2012) | 6 | |
The Ballad Of Boogie Christ - Act 1 (Real World, 2013) | 7 | |
The Ballad Of Boogie Christ - Act 2 (Real World, 2013) | 7 | |
Lou (Vanguard, 2014) | 7 | |
Days Of Surrender(Lonely Astronaut, 2015) | 6,5 | |
The Family (Real World, 2016) | 7 | |
Fistful Of Mercy | ||
As I Call You Down (Hot Records, 2010) | 6 | |
RNDM | ||
Acts (Monkeywrench, 2012) | 6 | |
Ghost Riding (Dine Alone, 2016) | 5 |
Daddy's On Prozac (da "Big City Secret", 1997) | |
Good About Me (live, da "Big City Secret", 1997) | |
In The Sun (live, da "Come To Where I'm From", 2000) | |
History (da "Come To Where I'm From", 2000) | |
Invisible Hands (live, da "Come To Where I'm From", 2000) | |
Honey And The Moon (live, da "Redemption's Son", 2002) | |
Favorite Girl (live, da "Redemption's Son", 2002) | |
Devil's Broom (live, da "Our Shadows Will Remain", 2004) | |
A Smile That Explodes (live, da "Our Shadows Will Remain", 2004) | |
Black Lexus (live, da "Nuclear Daydream", 2006) | |
Diamond Ring (da "Let's Just Be", 2007) | |
Morning Cup (live, da "Could We Survive", 2008) | |
Temporary People (da "Temporary People", 2008) | |
This Is Still My World (da "The Graduation Ceremony", 2011) | |
Face In The Crowd (da "The Graduation Ceremony", 2011) | |
Travel As Equals (live, da "Redemption City", 2012) | |
I Miss The Zoo (da "Redemption City", 2012) | |
I Used To Know How To Walk On Water (da "The Ballad Of Boogie Christ", 2013) | |
Currency Of Love (da "The Ballad Of Boogie Christ", 2013) | |
All The Old Heroes (da "The Ballad Of Boogie Christ", 2013) | |
Walk On The Wild Side (da "Lou", 2014) | |
Maybe You (da "Days Of Surrender", 2015) | |
You Keep Hanging On (da "The Family", 2016) |
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