C'è una sorta di curioso filo rosso che lega la parabola artistica e umana di Brisa Roché a quella delle Cocorosie, di Sierra Casady in particolare. Quell'infanzia tutt'altro che agevole, per cominciare, da figlia di genitori separati e inguaribilmente egocentrici, hippie dell'ultimo convoglio con il vizietto del nomadismo e un bel corredo di eccentricità da battaglia. Quindi una formazione musicale colta e tutto sommato anarchica, costruita in solitudine da autodidatta che insegua il proprio sogno arrangiandosi alla meno peggio, senza precludersi in partenza alcuna alternativa. E infine la fuga quasi inevitabile, gli Stati Uniti abbandonati a fronte della sola destinazione possibile, la fatale Parigi, per alimentare il proprio ideale scapigliato e non bucare l'appuntamento con un pur limitato successo, fissato in calendario come nella più appassionante delle sceneggiature. Certo, nel caso della Roché è mancata quella sorella cui ricongiungersi e da cui lasciarsi contagiare, impulso cruciale nella direzione della stravaganza freak. Nel segno della più comoda delle metafore, il ritrovamento si è risolto per lei in una questione squisitamente individuale e il cammino si è compiuto con maggiore coerenza rispetto alle premesse e al proprio effettivo sentire, nessun radicalismo kitsch e niente giochetti a effetto al di là di un look sempre piuttosto intrigante, da Björk americana.
Una faticosa gavetta
Brisa nasce il 26 aprile del 1974 ad Arcata, cittadina universitaria abbastanza isolata nell'estremo nord della California, all'epoca celebre per la sua comunità hippie. È l'unica figlia di una coppia fuori dagli schemi, lui scrittore, lei artista, che la porta a vivere la sua quotidianità esclusivamente a contatto con gli adulti e senza nemmeno il conforto di un vero nome di battesimo: fino all'adolescenza è per tutti "Baby Girl", mentre in seguito sarà chiamata col non meno ingombrante appellativo di La Brisa Day Roché.
Da bambina abita su una barca a vela, ma la separazione dei genitori segna l'inizio di un'esistenza ancor più disordinata e priva di radici. Il grosso del tempo lo trascorre a fianco del padre, un irregolare che viaggia moltissimo e non si fa mancare nulla in fatto di avventura e frenesia, compreso qualche guaio con le autorità per commercio di sostanze stupefacenti. Con la giovane madre e il patrigno trascorre molti fine settimana non meno alienanti in uno chalet di montagna costruito in proprio e sprovvisto di corrente elettrica, telefono e acqua calda, sperimentando la meditazione, il naturismo, e cominciando a esercitare in solitudine il proprio estro creativo. La sua colonna sonora domestica è rappresentata in questa fase dalle nenie che la genitrice improvvisa costantemente e che l'orecchio di Brisa assorbe assieme ai suoni delle radio, al blues ascoltato sui giradischi nelle innumerevoli dimore paterne e ai cori di bambini in cui lei stessa si esibisce nei brevi periodi di soggiorno all'estero, in Russia o Romania.
Un vicino di casa le insegna a suonare una rudimentale batteria, che abbandona presto per dedicarsi alla chitarra acustica. Influenzata da libri di poesia letteralmente divorati, alla luce di qualche lanterna al cherosene, la ragazzina compone le sue prime canzoni e addirittura le registra, prima su un registratore a cassette Philips K7, quindi in uno studio di registrazione di Arcata affittato per mezza giornata. È il 1984. Il disco, almeno idealmente accostabile al debutto eponimo dell'undicenne Björk, resterà un ricordo esclusivo dell'artista. Che a sedici anni lascia definitivamente il disagevole rifugio materno per trasferirsi in pianta stabile con il padre, a Seattle. Per una musicista dilettante ritrovarsi nella capitale del grunge nel pieno apogeo del movimento potrebbe apparire un colpo di fortuna, e di sicuro l'impulso aiuta la Roché ad affinare la propria passione. L'influenza di quella scena resta tuttavia marginale e la ragazza, che si fa le ossa in una band liceale - The Amazing Dimestore - di orientamento più tradizionalista, nei fine settimana si esibisce come busker solista al mercato pubblico. La morte improvvisa del padre rimescola le carte. Per un anno Brisa, all'epoca influenzata dai Can, da Joni Mitchell e da una ancora giovanissima PJ Harvey, vive a Parigi e si mantiene suonando in un trio roots. Quindi rientra in patria e inizia a frequentare il Reed College di Portland (in cui studiò tra gli altri, senza laurearsi, Steve Jobs), per quanto le sue energie siano per intero dedicate all'ossessione di una nuova band.
La Nostra passa quindi alla chitarra elettrica e canta in un gruppo emo chiamato Bing Ra, che abbandona però presto assieme agli studi, del tutto insoddisfatta. Rientrata ad Arcata, giura a se stessa di aver chiuso con la musica, salvo ritrovarsi poi a cantare vecchi brani popolari ogni volta che inforca la bicicletta per una pedalata notturna. Decide quindi di dare un'opportunità al jazz, un genere che ama e cui inizia ad approcciarsi nei mesi che la vedono relegata nel deserto del New Mexico, fidanzata assai passiva del bassista di una band punk-rock. La fine burrascosa di quel legame rappresenta la svolta che serviva. È il 2001 e la Roché si trova nuovamente nella capitale francese, questa volta per restarvi. L'immersione nel mondo dei jazz-bar di Saint-Germain-des-Prés è totale, schiavizzante, e la gavetta si rivela molto più dura del previsto: i soldi non bastano mai, la precarietà logora, gli impresari sono senza scrupoli e il pubblico è immancabilmente maleducato. E tuttavia c'è la musica a ripagare ogni sforzo, la collaborazione con colleghi pure sottopagati ma motivatissimi. "Ho vissuto la vita di un musicista jazz negli anni 50", racconterà lei in seguito, ben dopo aver strappato nel 2005 un contratto con la prestigiosa Blue Note. Alla firma arriva per gradi. Merito della sua voce e di una presenza sul palco definita "da regina ninja", che proprio non la fa passare inosservata.
E merito di un disco pubblicato in pochissime copie due anni prima, autoprodotto, che le consente di ottenere molte più date in tutta Parigi. Soothe Me contiene una dozzina di rivisitazioni, per lo più di standard jazz come "Azure Interlude" di Duke Ellington, "Melancholy Lullaby" del trombettista Benny Carter e "Oh, You Crazy Moon" di Jimmy Van Heusen, ma anche "Glad To Be Unhappy" di Richard Rodgers e "I Hear Music" di Burton Lane, entrambi autori di musical, "Gloomy Sunday" del compositore ungherese Rezső Seress e svariati altri brani assai popolari, tutti anni Trenta e Quaranta, tra cui "Black Coffee" di Sonny Burke e "I Get Along Without You Very Well (Except Sometimes)" di Hoagy Carmichael, portato al successo da Chet Baker, oltre alla "Jim" resa celebre da Billie Holiday ed Ella Fitzgerald.
È il suo disco jazz e Brisa se ne avvantaggia per farsi conoscere nel circuito locale, per quanto in quello stesso anno abbia già iniziato a esplorare altri territori musicali, le registrazioni (effettuate dagli studenti di una scuola per tecnici del suono a fine corso) non la soddisfino e i brani inclusi non siano certo tra i suoi preferiti o tra i migliori del repertorio che ha a lungo eseguito dal vivo. Un lavoro, insomma, non così rappresentativo di ciò che la cantante ha già iniziato a creare o ha in mente per il futuro prossimo; un album che, di fatto, viene disconosciuto, abbandonato all'oblio senza ulteriori ristampe, e resta oggi pressoché irreperibile anche sulle piattaforme di streaming in rete.
Frattanto Brisa Roché è pronta all'esordio ufficiale, The Chase, una monumentale raccolta di ventuno pezzi che già lascia ben intuire le potenzialità espressive della ragazza ed esce nell'ottobre del 2005 per Metro Blue, sussidiaria Emi-Capitol via Blue Note. La protagonista dell'inseguimento evocato nel titolo è proprio lei, provocante sirena in primo piano nella fotografia in copertina, che nella nota di presentazione descrive il disco come "cinematico, intimo, generoso, grandioso, femminile, rock'n'roll e anni Sessanta" e parte all'insegna di un gradevole noise-pop da cameretta ("Airplane"), salvo poi gingillarsi con il velluto e le atmosfere dreamy, con le seduzioni flautate di arrangiamenti comunque mai ampollosi e con quella sua voce nasale e amabilmente infantile, perfetta in episodi dalle tonalità tenui come il cantilenante singolo "Mistery Man".
Il suo easy-listening ammiccante e gentilmente riverberato, frutto dell'oculata produzione del contrabbassista Daniel Yvinek, è la formula vincente di questo primo passo importante, con l'americana che già si dimostra smaliziata e del tutto a suo agio negli slanci eclettici.
L'amore per il jazz e la chanson sofisticata ad ogni modo non può essere arginato a lungo e la Nostra dimostra una certa classe, oltre a un'innegabile aderenza al canone. Capita in "Dans le vert de ses yeux" come in "Du bout des yeux" e in "Coco", altro singolo, un raffinatissimo esercizio di stile come solo di rado ne riusciranno a una ben più quotata Coralie Clement. Ma non ci si ferma all'estetizzante corredo di nuance e ombreggiature, perché l'artista californiana ha dalla sua un garbo per nulla algido, una sensualità non simulata e una maestria impressionista (l'ottimo congedo di "Summer Surprise") che sbaragliano l'anonima faciloneria dello stereotipo e non lasciano indifferenti. Sono canzoncine da tre minuti e via, molto ben architettate, rese guizzanti dalle chitarre (quella di Ludovic Bruni e "la Distruttrice" di Brisa), anche senza sconfessare mai il look acqua e sapone della loro giovane autrice o la sua formazione di musicista forbita, pur orientata qui a un piacevolissimo disimpegno. Che con "Helmet Ray" svela un'esplosività garage-soul degna del circo berlinese del futuro amico King Khan e dei Sensational Shrines, mentre "Flying Too High" si impone come sofisticata trasfigurazione blues, ricercata ma eccentrica quanto basta per diventare godibile.
È già evidente la predilezione per un formulario di elegante e polveroso modernariato musicale, parente stretto tanto degli Stereolab più calligrafici quanto dei Nouvelle Vague pre-deriva manierista ("Little Robot") Ecco così, magari nello spazio di uno stesso brano ("Warned"), ninnenanne delicatissime che si accendono senza preavviso in brucianti frammenti bossa nova.
Ma la Roché apre anche alle suggestioni di un esotismo non esasperato e brilla con l'incanto e la gentilezza di un voce e chitarra frugale in acustico, da autentica pelle d'oca ("Torchlight"). Oppure gioca nei panni dell'intrigante femme fatale, il riflettore in esclusiva sulla sua voce e un accompagnamento musicale ridotto allo stretto necessario ("A Luxury", "Baby Shut Your Eyes", la languida strizzata d'occhio di "Now That It's Long Over"). In un modo o nell'altro, il motore resta comunque la sconfinata meraviglia di cui Brisa è capace, una fantasmagoria tascabile ancora non adulterata da troppe falsificazioni formali e quindi genuina nel suo candore. Il risultato è quindi un'opera a tutto tondo, policroma e multiprospettica, che esalta il talento versatile di un'interprete già maiuscola, trascinante anche senza scadere mai nei leziosismi o nelle pose ruffiane.
È in particolare nelle sensuali riscritture del suo stravagante camerismo che si raccolgono gli spunti più interessanti di un disco a suo modo entusiasmante, per come sa reinventare e sposare registri che all'apparenza suonerebbero inconciliabili o sembrerebbero non avere più nulla di nuovo da dire. Una prova di superlativa libertà a cavallo tra generi, una commistione armonica di alto e basso che ha il pregio di non degenerare mai nella pacchianata kitsch. The Chase è accolto molto favorevolmente dalla stampa specializzata, ma la Roché se ne dichiara ancora una volta non troppo soddisfatta. Per scrivere e registrare il sophomore rientra temporaneamente in patria, nella natia Arcata, assieme a tre membri della band francese Frank!!! (Jeff Hallam, Sebastien Buffet, Fred Fortuny), a Henry Hirsch, produttore di fiducia di Lenny Kravitz, e al chitarrista degli Yeah Yeah Yeahs Nick Zinner.
Se la distribuzione del predecessore aveva fatto cilecca negli Stati Uniti e in mezza Europa, con Takes la ragazza sembra determinata a non replicare quel buco nell'acqua. La aiutano la scelta di abbandonare definitivamente le inflessioni jazz per abbracciare un folk-pop sbarazzino, la mìse notevole immortalata nello scatto in copertina e la nuova etichetta Discograph, indipendente ma assai più attiva della major di ieri. Il cambio di label segna un ritardo di sei mesi per l'effettiva pubblicazione, spostata da marzo all'autunno del 2007, ma la qualità del disco rende l'inconveniente un problema irrilevante.
Nipotina ideale per Laura Nyro e Joni Mitchell, sorella minore di Björk e Cat Power, Brisa Roché si impone con forza nella feconda cucciolata di giovani "cantantesse" in cui possiamo comprendere le già citate CocoRosie, Joanna Newsom, Shara Worden (aka My Brightest Diamond), St. Vincent e chissà quante altre ancora in attesa di essere scoperte e fatte brillare. Mica una roba tipo sorellanza, per carità, neanche un vero e proprio movimento; ad accomunarle, più che lo specifico musicale o il certificato anagrafico, sono alcuni tratti consustanziali che ne fregiano icasticamente le rispettive personalità: background musicale di profilo elevato, riferimenti overseas, retaggio controculturale ossessivamente nomade, hippie all'acqua di rose, onirico e fiabesco. Diversamente che per le connazionali (e ormai concittadine) Casady, a Brisa non interessa inoculare il germe della pop-song nelle forme vacue, aperte e fluttuanti della sperimentazione, quanto semmai comprimere queste ultime in un orecchiabile simulacro di modernariato melodico sixties, con risultati a tratti pressoché indistinguibili dai modelli originari. Lei stessa ammette di essersi lasciata andare a un estatico viaggio a ritroso nelle reminescenze hippie 60's che hanno allietato la sua infanzia, dal pop californiano alle armonie vocali dei Beach Boys, riletti attraverso l'ironica sensualità della canzone yéyé d'oltralpe (Gainsbourg, Renard, Hardy).
Ne sono valide testimonianze, in tal senso, il rapimento corale (e l'arrangiamento) alla Mamas & Papas di "Heavy Dreaming", la polifonia à-la Cocorosie (là due voci che sembrano una, qua una sdoppiata) puntellata in un accompagnamento arioso da girl-group spectoriano di "The Drum", "Trampoline" (un quasi duetto alla Hazlewood/Sinatra, controparte maschile in ombra), "The Choice" (con la medesima voce maschile - di Philippe "Philon" Rigal - che mima un sample di "I Will Follow Him" di Petula Clark, in italiano "Chariot" di Betty Curtis!) e quella delizia che è "Whistle" (un tema da spaghetti-western fischiato su due accordi di balalaika).
Poi, che le doti prestidigitatrici della demoiselle Rochè sappiano coniugarsi anche in contesti meno frivoli, lo dimostrano i lieder cameristici "The Building" (per chitarra, vibrafono e violoncello) e "Breathe In Speak Out" (fra Cat Power ed Ellen Friedberger), lo space-pop a cappella di "High" (i soliloqui psicotropi dei Byrds nella maniera corale dei Beach Boys), i melismi atonali del raga-pop "Halfway On" e quello orchestrale alla Van Dyke Parks in "Pitch Black Spotlight" (con feedback e controtempi pop-noise di scuola newyorkese). Un talento compositivo in grado di soffiare voluttuosamente sul suo stesso castello di carte per trasformarlo in qualcosa di sfuggente e ineffabile come la ieratica bossa/chanson "The Mummy", il jazz-lounge da bistrot "Call Me" (una Billie Holiday che si affaccia sulla Rive Gauche da un balcone incoronato di petunie) e la ghost-track "Ali Baba", pura stregoneria indo-sciamanica, polifonia medianica fra Krishna e Manitù.
Insomma, tutto invita a facili e favorevoli pronostici. Inevitabile vaticinare come sia il carrozzone mainstream (Mtv già la tiene sott'occhio e lei non nasconde che le piacerebbe, eccome, vendere dischi a carrettate) che il mondo elitario della canzone d'autore (tutta questa insostenibile leggerezza poggia su radici che si alimentano a una profondità creativa non comune) dovranno ben presto inchinarsi all'oracolo della predestinata Brisa Roché. Invece, al di là di qualche recensione lusinghiera, Takes esce presto dai radar senza elevarla dal rango, ormai strettino, dell'artista di culto alla perenne ricerca di consacrazione. La californiana non si scompone e, assieme a un manipolo di musicisti di Lille (Jay in Space, Lena Deluxe, Pirzo, Richard Horon), si imbarca in un tour europeo di sei mesi che ha il suo culmine nell'esibizione al prestigioso Montreux Jazz Festival del 2008.
La ragazza invisibile
Per registrare il nuovo album, la Nostra è nuovamente in patria, a New York, stavolta con il produttore Rémy Deliers. All Right Now arriva nei negozi nel settembre del 2010, segna un ulteriore spostamento in avanti, in territori chiaramente condizionati dal meticciamento easy-listening, ma è anche opera che sa di consuntivo. Scritto durante la gravidanza, è il disco delle molte vite, intrecciate o parallele, nella giovane e movimentata vita di Brisa: la bambina californiana figlia di intellettuali fuori dagli schemi e cresciuta in contesti sempre precari e alternativi; la post-punkette innamorata di PJ Harvey che girovaga l'America post-grunge alla ricerca di una contrastata identità artistica; la chanteuse che alla testa di una band di jazzisti si fa un nome nei locali fumosi della Parigi fin de siecle; l'alchimista pop, colta, ambiziosa ma ancora poco conosciuta della seconda metà del decennio scorso. È questo bildungsroman che il terzo disco dell'artista franco-statunitense racconta. Non tanto attraverso la filigrana delle parole quanto seguendo il filo logico delle influenze e delle trame musicali - composite, spiazzanti - che compongono la tavolozza sonora cui attinge, in più di un'occasione, l'autrice.
Laddove il predecessore era un gioiellino di folk-pop nel senso molto lato del termine, cangiante e sofisticato, che sembrava elevare la Roché a un tiro di schioppo dal mainstream di qualità, il nuovo lavoro riscopre una componente alt-rock americana e cantautorale sui generis, inseguendo traiettorie oblique, eclettiche, giustapposte. La forza della scrittura di Brisa, tuttavia, ne esce fuori inalterata e facilmente individuabile: nelle melodie sgorganti e ricercate, negli arrangiamenti essenziali che giocano tutto sul tocco e sulla sottrazione (la strumentazione è ridotta al necessario: batteria, basso chitarra, tastiere o synth) e nel ruolo centrale che in esse riveste l'interpretazione vocale, tra le più argentee e duttili del panorama odierno.
Al primo filone, all'infanzia sbavata di nostalgia che sorvola i colli sterposi e assolati della West Coast, fanno riferimento brani come l'opener "Stone Trade" (rocky e flebilmente psichedelica) e l'abbandono quasi byrdsiano (ma con PJ alla voce) della bellissima "Past Contemplative". Poi la creatività autobiografica della Roché si espande trasversalmente: i quadretti da brava allieva di bottega di Kate Bush ("Penetrate", che a tratti rammenta Bat For Lashes, e "Open Your Lock), la post-wave operistica un po' alla My Brightest Diamond di "Hard As Love", quella nervosa e pop di "It's All Right", quella disco-oriented di un piccolo capolavoro come "Sweat King" (fra i Talking Heads e gli ABBA con mormorii sexy in francese à-la Birkin). In tanto naturale ed eccentrico (auto)citazionismo convivono senza problema i bozzetti freak di "Do What You Do" (giro praticamente blues e ritornello jingle futurista e iper-accelerato) e "Green Light" (west coast agrodolce che muta in un finalino da girl-group spectoriano) e il pop retrò, europeo e classicheggiante di "Bloom" e "Get Down".
Ancora una volta un disco prezioso, quindi, che tuttavia gode di scarsissima visibilità un po' ovunque e non arriva a replicare neppure i modesti apprezzamenti del predecessore. Delusa, Brisa stacca la spina per qualche tempo e torna a esibirsi solo occasionalmente e solo in Francia, in piccoli club. È proprio in questa fase che decide di dare vita a un progetto collaterale limitato al circuito transalpino, The Lightnin 3, formazione a tre voci condivisa con un'altra statunitense residente a Parigi, la frontwoman dei Moriarty, Rosemary Standley, e con Ndidi Onukwulu, nigeriana ma nata in Canada.
I concerti del terzetto hanno riscontri così buoni da rendere quasi ineludibile la pubblicazione di un album apposito. Che esce per la piccola True Velvet nell'ottobre del 2012, con il titolo Morning, Noon and Night. L'avvio è sontuoso e davvero intrigante, con la voce della californiana alle prese con un'infettiva rilettura di "Casanova (Your Playing Days Are Over)" di Ruby Andrews. L'indirizzo espressivo è un soul scintillante, bacharachiano, rischiarato ora dai fiati, ora dal coro femminile, e illuminato dal virtuosismo della cantante di turno. Una prova per lei meno rischiosa e più conservativa, ma anche frutto di un disimpegno evidentemente avvertito come una necessità. Il tenore resta improntato al frizzantino anche quando il ruolo di primattrice spetta a una delle due compagne, a partire dal gospel da camera della Onukwulu in "Show Me". Buonissime suggestioni arrivano in particolare dalla versione tra il calypso e il doo-wop di "Bette Davis Eyes", affidata all'ottima Standley, che in "The Light Pours Out Of Me" stravolge il post-punk dei Magazine presentandosi come perfetta duplicazione femminile del Tim Buckley più lirico.
L'operina si qualifica presto per quel che è, un raffinato divertissement, registrato con gusto e innegabile professionalità da un terzetto di interpreti in tenuta vacanziera (ma mai sbracate) che condividono le origini nordamericane, la passione per Parigi, per la musica anni Sessanta, Stax e Motown, Aretha Franklin e i girl-group stile Shirelles o Supremes. La mattina, il mezzogiorno e la sera del titolo corrispondono a tre anime musicali che si armonizzano e completano in modo mirabile. Ndidi spicca per versatilità, credibile come consumata fatalona in una "Cherry Bomb" (dei Runaways l'originale) particolarmente turgida, più equilibrata nel congedo R&B di "Love & Communication" (da Cat Power, nientemeno), ma comunque destinata a imporsi come voce più speziata delle tre. La stessa Brisa in fondo se la cava a meraviglia, spaziando dal revival bubblegum della frivolissima "The Safety Dance" (dei new-waver Men Without Hats) alla sorprendente rivisitazione di "Thirteen" dei Big Star, favolosa nel contrasto tra la malia nostalgica dell'intonazione e lo slancio calorosissimo di una veste tutta ottoni, passando per gli svolazzi e l'affettazione di "You're No Good" di Dee Dee Warwick, da chanteuse di razza.
Quattro anni dopo, la Roché è di nuovo nei luoghi della sua infanzia. Le ci è voluto un quindicennio per concludere quell'entusiasmante esperienza di vita bohémienne, da parigina d'adozione, e fare rientro nella natia California. Che non è quella delle spiagge o delle arterie a dodici corsie, bensì la sua controparte aspra e isolata, a nord, puntellata di sequoie a perdita d'occhio e abitata dai leoni di montagna. Pochi mesi prima, nel corso del 2015, la Nostra ha pubblicato su YouTube una miriade di demo inediti, accompagnati da videoclip artigianali e senza pretese, quasi fosse sua intenzione svuotare i cassetti di ogni rimasuglio per prepararsi a partire.
Nel suo chalet studio nelle foreste sopra Arcata registra il nuovo album, appena il quarto in una dozzina di anni, chiarendo come più che di un ritorno si dovrebbe parlare in realtà di un addio. Al "felice incontro tra Feist e My Brightest Diamond" con cui la si salutava nei suoi giorni da piccola rivelazione. Agli spectorismi, al modernariato melodico anni Sessanta, alla chanson yéyé, i lieder cameristici e il folk spacey di Takes, ma anche all'eclettismo stile Bat For Lashes e il pop retrofuturista di All Right Now. Con Invisible 1 la metamorfosi è compiuta ma difficilmente si arresterà ora.
La strategia diversiva era in realtà iniziata qualche tempo fa, con il divertissement "Jamaican Boy", rivisitazione reggae dell'"American Boy" di Estelle e Kanye West, condivisa nel 2009 con Bost & Bim. Seguendo questa direttrice, ma edulcorando con classe la formula, la fanciulla aveva dato vita nel 2012 all'incarnazione collaterale delle già citate Lightnin 3, per poi prolungare la propria licenza con un pugno di brani scritti appositamente per la colonna sonora del film "Yves Saint Laurent" di Jalil Lespert.
La sua ultima fatica è un album di contrasti, alquanto preciso nel restituire quel senso di inevitabile sradicamento. Metà canzoni intimiste, condivise con Thibaut Barbillon, metà estroverse e più elettroniche, plasmate con il supporto di Jérôme Caron, in arte Blackjoy, e Marc Collin dei Nouvelle Vague. "Lit Accent" e il singolo "Vinylize" riprendono il discorso da dove si era interrotto, un chamber-pop mutante, giusto per stupire al primo refrain con relativo slancio etereo, deviazioni cantilenanti degne della miglior Oh Land, in un caso, o dei Brunettes dediti al travestitismo, nell'altro.
Certo, al di là dell'eleganza e della misura nel tocco, un minimo spiazzamento alle prese con un simile artificio va messo in conto. A stretto giro di posta, i battiti sintetici di "Echo Of What I Want" spostano senza equivoci gli equilibri verso l'electro-pop, ma la cantante si dimostra assai brava nel non smorzare la qualità dei suoi spunti con una veste giocoforza algida. Al pari della collega scandinava, riesce a infondere un alito di vita e un senso di freschezza grazie ai suoi celestiali svolazzi, ai ghirigori di una voce mai tanto leggiadra e ardita nelle sue esplorazioni.
Con la delicatezza e la meticolosità di una ballerina, Brisa si serve del suo canto per danzare, come tante artiste per lo più nordiche in scenari ugualmente disadorni. Qua e là ricorda anche la Björk di "Vespertine", così che quella vaga somiglianza fisiognomica trovi in fondo un necessario riscontro anche sul piano squisitamente musicale. E la sua indole ludica si vede premiata, alla fine, in una "Baby Come Over" che è tanto briosa quanto irregolare, ancora una volta illuminata da una disciplina davvero propizia per non eccedere in ridondanza, per non farsi schiacciare dagli espedienti della forma.
Quello di Invisible 1 è un easy-listening scritto come sempre a regola d'arte ma inevitabilmente disinnescato in quanto a esplosività dalle onnipresenti adulterazioni produttive, mai prossime alla pacchianata e tuttavia non di rado rutilanti o aggressive. Nomen omen, "Disco" guarda a una frivolezza ballabile, salottiera e contaminata dai più svariati riferimenti, dal funk al soul, dal jazz redivivo al lounge. Inventiva e perizia ancora una volta non mancano, anche se i nuovi abiti espressivi, vistosi e sofisticati, finiscono per catalizzare tutte le attenzioni e togliere incisività a un songwriting al solito mirabile. A tratti la Roché ritrova quella trasparenza a lei così congeniale, pur mostrandosi forse sempre un tantino svagata nelle sue pose confidenziali, sornione, un po' da gattamorta. Nella sua illimitata comfort-zone tende quindi ad addormentare il gioco, ma in più di un passaggio pecca di autoreferenzialità, incapace di toccare il cuore come le riusciva di fare con naturalezza grazie a quel suo estro superlativo. Così, a parte quando Brisa si rifugia nella fascinazione a tutto tondo (il congedo di "Find Me") o nell'apparente verità di ben più sobri voce e chitarra (la dimessa ma orgogliosa "You Like A Fire", ad esempio, multiprospettica e dolcemente aliena), qualche occasionale sbadiglio vale come dazio quasi obbligato.
Continua a prediligere le atmosfere languide e notturne che, al riparo da contraffazioni marchiane, riescono ancora superbe e regolano con qualche decimale di margine anche una fuoriclasse come Britta Phillips. È in brani come "Each One Of Us" che la statunitense mostra tutta la perfezione del suo charme per quanto, a differenza della signora Wareham, non intenda appiattirsi su quella formula stereotipata e diversifichi fin troppo la propria proposta, verso un folk a base di sussurri e sottili effrazioni sinfoniche ("Walk With Me") come verso un gospel oligominerale ("Diamond Snake"), abile a schivare le trappole del kitsch ma non altrettanto a emozionare come un tempo.
Il risultato, impregnato di colori, è quindi un'opera raffinata ma per certi versi pachidermica, rigonfia e dispersiva, ben al di là forse delle intenzioni.
Due anni dopo, ecco qualcosa di completamente diverso: un disco nel nome del padre, doloroso, sfrondato, maturo e in bianco e nero come la copertina di Jean-Baptiste Mondino. Brisa Roché cambia pelle in modo del tutto inatteso e la sua quinta sorprendente raccolta si impone abbastanza perentoriamente tra i titoli più convincenti del suo catalogo, forte di un’urgenza emotiva oltreché espressiva che mai la songwriter californiana aveva mostrato a simili livelli. Come lei stessa ha spiegato, le canzoni di Father riguardano le dolci e non di rado disagevoli esperienze della sua vita fino ai sedici anni, l’età in cui perse il genitore, e si configurano appunto come “storie di perdita, sogni e luminosità”. Lasciata da parte la policroma frivolezza delle sue cose recenti, la cantante sceglie l’azzardo di un passo complicato e sofferto, ma dai risvolti indubbiamente radiosi e di straordinaria suggestione. Per compierlo ha rimesso mano al molto materiale già offerto ai fan negli anni passati via Youtube, nella forma di demo registrate alla meno peggio, optando per l’aiuto professionale dei fuoriclasse John Parish e Ali Chant. Beh, dalla Paris fumosa dei localini jazz al Parish delle ovvie evocazioni americane, corre un’intera galassia stilistica.
Il più esplicito riferimento alla figura paterna di questa collezione di memorie è quello che nel brano di apertura si configura a tutti gli effetti come un atto di amore incondizionato, disinvolto, estatico e sinceramente commovente, e che l’autrice allestisce con una delicatezza e una lucidità impressionanti. L'indirizzo affabulatorio ripiega verso un'aneddotica frugale ma illuminante con “Cypress” che, per dirne una, vela di austera amarezza il candore che Brisa esibiva con naturalezza ai tempi della rivelazione Takes e che qui si riconosce intatto dietro lo schermo del disincanto. Il tocco di Parish é al solito asciutto, minimalista, e lascia risplendere la purezza della voce della statunitense, mai così controllata prima d'ora. Non meno emblematico appare un altro episodio, scelto tra i tanti possibili per l'arrivederci di “Carnation”, con una tenerezza nell'intonazione che ammalia nonostante i cupi presagi (à la Lisa Germano) dell'infausto epilogo che già si affacciano all'orizzonte.
I debiti verso l’adorata P.J.Harvey, pur mai taciuti, si fanno ora espliciti e piuttosto pesanti, ben al di là della scelta del tecnico-portafortuna, in passaggi crudi e palpitanti come “Fuck My Love” o “Black Mane”, e nel crepuscolo gentile del capolavoro “Before I'm Gone”. La Roché non si era mai mostrata tanto adulta e incline alla concretezza, e a destare vivo stupore è che in queste nuove vesti dimesse riesca più credibile che in quelle della rutilante sirena nella fantasmagoria synth-pop del precedente Invisible 1. Così, da talento del technicolor avant-pop, Brisa si reinventa (alla maniera di Nina Nastasia) superba interprete di chiaroscuri, risoluta e gioviale a un tempo, grazie ai bei fondali desertici rischiarati dai bagliori elettrici marca Giant Sand apparecchiati dall’amico di lunga data Nick Zinner, chitarrista degli Yeah Yeah Yeahs.
La pazienza evocata nel brano eponimo é quella materna nei confronti di un partner con tanti pregi quanti difetti, impossibili da cogliere nella prospettiva adorante di una sedicenne condannata alla confusione. La delicatezza del suo sguardo, oggi, suggella un affetto che trascende le parole dette o non dette in passato e che ancora una volta conquista per garbo e spontaneità. Qui e in “Holy Badness” Brisa evita la facile agiografia da santino rassicurante scegliendo di non silenziare magagne, difficoltà e piccoli drammi personali di un uomo che ha evidentemente bruciato la candela da entrambi i lati. Al contrario, le sue imperfezioni sono affrontate con grazia, umanizzando e asciugando rancori, ferite e delusioni. “Father” riesce così a suonare straordinariamente intenso nella fragilità che porta in scena, senza espedienti insinceri o forzature. “Blue Night”, per fare un esempio, é una litania apparecchiata solo con organo e voce e rasenta il misticismo per il rigore e il pudore che riesce a esprimere. I battiti sintetici al minimo sindacale di “Engine Off” non intralciano la limpidezza della trama di chitarra e la magia del cantilenare della Nostra, mentre l’inconfondibile firma percussiva del produttore conferisce ulteriore profondità a questo edificio sonoro e l'autorevole fermezza dell'artista lascia ammirati. Con “Can't Control” fa capolino l'introspezione, secondo lo stesso formulario per nulla angusto che la Roché adotterà per il secondo disco di riappropriazione delle radici, pubblicato a stretto giro di posta.
L'album termina con “Trout Fishing Again” lasciando la parola al convitato di pietra e a un suo monologo. Nessuna musica, solo un leggero rumore di traffico sullo sfondo e una voce oltremodo affaticata ma anche ardente, nell’atto di recitare quella che sembra una poesia ispirata a uno dei manifesti della controcultura respirata fino in fondo da Roché padre, “Pesca Alla Trota in America”, dello spirito affine Richard Brautigan.
Non tutte le vecchie demo sono offerte a Parish e Chant. Buona parte Brisa le tiene per sé, così da trarre da tutto quel materiale un vero e proprio dittico, coerente e al tempo stesso discontinuo. Se Father era un intenso memoriale sonoro consacrato a una figura paterna da romanzo, non è meno sincera l’intestazione di Low Fidelity, dimessa ma luminosa rievocazione degli anni trascorsi a stretto contatto con la natura in compagnia di una madre non meno stravagante. Registrato in totale autonomia proprio nella quiete della California settentrionale, il disco parte con un voce e chitarra scarno ma confidenziale, in presa diretta e senza edulcorazioni formali, che dice già molto del nuovo indirizzo. L'effetto é depurante e non tetro, premia l'inconfondibile e mesmerica voce da sirena di Brisa, costretta per scelta a una nudità sostanziale ma per nulla penalizzante. E’ corretto leggere in questa sesta fatica della Roché la colonna sonora dei giorni della sua infanzia, nella soave imperfezione del contesto bucolico in cui la quarantatreenne é cresciuta, e non a caso nei tag su Bandcamp appare il nome della natia Arcata accanto a etichette meno inattese come folk e soul. Le nenie improvvisate dalla madre, carpite e fatte proprie in tenera età, rivivono in quello che a ragione può essere considerato il necessario contraltare all'immediato predecessore, un album dedicato in questo caso proprio alla genitrice: dedito alla concretezza quello quanto etereo questo, con l'arte povera e silvana in vece degli incomparabili scheletri elettrici plasmati da Parish e dal sodale, ma senza rinunciare alla modica quantità di vezzi eccentrici.
“California Man” lo dice chiaramente: la cantante ha ritrovato sicurezze e ispirazione al netto degli artifici, un intimismo che si dimostra assai comunicativo, quanto di meno angusto nonostante la solitudine non solo nominale dietro la sua realizzazione. Cori e controcori sopperiscono ai rischi dell'afflizione con buona efficacia, a dispetto dell'estrema economia delle risorse in gioco. Più che altro, Brisa mostra di aver recuperato una leggerezza insperata e vi si libra con assoluta libertà, sgravata da scafandri espressivi che ne avevano evidentemente contaminato la vena creativa con cliché, manierismi o sperimentazioni tanto audaci quanto poco calzanti. Dentro “Secret Song” l'immediatezza é contagiosa e profuma di instant classic, pur se offerta al di fuori dei più consolidati itinerari della tradizione folk nordamericana. Per spirito, é come fossero tornate alla luce le prime registrazioni naif della Nostra, allora nemmeno adolescente, filtrate però attraverso la sensibilità e la consapevolezza di un’artista matura, oggi madre a sua volta.
La frugalità giova, e non poco, in un’opera che é anche la più Americana della Roché, un ritorno alle origini per tramite di nuovi modelli come Alela Diane, ben intuibile nei solchi di “Hey Little Boy”. Dietro il canto arrochito di “Can You Run”, dietro la ricerca di polifonie costruite con nulla (come avviene tra sfrontatezza e estatica introspezione in “Daughter Of A Teacher”) non mancano bizzarre evocazioni o quella weirdness da terza sorella Casady, anche se in questa occasione appare maggioritaria la componente che non si preclude scampoli di incanto campestre. E’ l’estro di una novella Josephine Foster, vero riferimento chiave qui, né più né meno come Polly Jean Harvey per “Father”: si ascolti in proposito come il breve voce e organo di “Tiger Song” tratteggi un idillio sottile ma sufficientemente ammaliante, con grazia e nostalgia, o come in “Terribly Hard” la songwriter riesca a essere espressiva con pochissimo, e a scandagliare le proprie innumerevoli sfaccettature grazie a un trasformismo noncurante e persino leggiadro. Quel che ne vien fuori, al di là delle modeste pretese della confezione, è insomma una raccolta strana ma quanto mai autentica – fa fede il cuore in mano della miniatura al piano, minimale eppure densissima, di “Rings” – che fino al congedo di “Babe” non sconfessa l'impianto pauperista, un prodigio per l'incantevole franchezza e la serenità che trasmette, un senso di pacificazione finalmente conquistata. Detto questo, dove possa condurci la deliziosa Brisa con la prossima uscita rinunciamo francamente a pronosticarlo. Questo non è l'approdo definitivo, ne siamo certi, di un'artista che non ha mai smesso di peregrinare tra i generi musicali come tra i continenti, alla ricerca di una casa che con ogni probabilità non troverà mai.
Nel 2023 Brisa Roché si presenta assieme a Nicolas Laureau, alias Don Niño, in un nuovo progetto, di nome RAD.
Stampato su un inconsueto e accattivante vinile trasparente largo appena 10”, Magenta. Cyan. White. è il loro esordio su Lp dopo due anni di attività.
Lo stile jazz della cantante franco-americana trova nel muro di suono iper-psichedelico arrangiato da Laureau un luogo ideale dove far crescere tre melodie che rapiscono fin dal primo ascolto: “Magenta” è una ninna-nanna in cui la voce salmodiante della Roché avvolge le chitarre burrascose di Laureau, tra pulsioni post-shoegaze e un drone più noise che new age; “Cyan” è un assalto post-punk, tra Primal Scream e Royal Trux; “White” è il capolavoro dell’Ep, una valanga di rumore ultra-black trasporta la voce disincantata e sempre elegante della Roché in un mare in tempesta.
Nelle parole dei diretti interessati, RAD è: “Una ninna nanna punk, un dialogo interiore rivolto all'esterno, una chitarra che respira, New York che incontra la California che incontra la Francia con trasformazione transgender, FX, natura/montagne, paesaggi urbani e atmosfere da sogno. Fuoco e ghiaccio”.
Contributi di Simone Coacci ("Takes", "All Right Now"), Roberto Mandolini ("Magenta. Cyan. White.")
BRISA ROCHÉ | ||
Soothe Me(self-produced, 2003) | ||
The Chase(Blue Note, 2005) | 7 | |
Takes (Discograph, 2007) | 7,5 | |
All Right Now(Discograph, 2010) | 7 | |
Invisible 1(Kwaidan, 2016) | 6,5 | |
Father(One Hot Minute, 2018) | 7,5 | |
Low Fidelity (Black Ash, 2019) | 7 | |
THE LIGHTNIN 3 | ||
Morning, Noon & Night(True Velvet, 2012) | 6,5 | |
RAD | ||
Magenta. Cyan. White. (Ouvré, 2023) | 7 |
Mystery Man | |
Coco | |
Whistle | |
The Drum | |
The Building | |
Penetrate | |
Hard As Love | |
Sweat King | |
Bloom | |
Casanova | |
R.I.P. (feat. John Mitchell Fleet) | |
For One Moment | |
Looking For Sunshine (feat. Yannick Berger) | |
Bright Lights | |
Cypress | |
Before I’m Gone | |
Lift Off | |
Can’t Stand | |
Fuck My Love | |
Terribly Hard | |
Little Dragon | |
Black Mane | |
Guitar Mood | |
D Of T | |
Hey Little Boy | |
Tigersong | |
Blue Night | |
The Land | |
Though I Know | |
Summerelo | |
Watch Out | |
Birches | |
Palace Eyes | |
With Jules On | |
Each One Of Us | |
Disco |
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