Pubblicato su Lo Straniero, anno XX, n. 198/199/200, dicembre 2016/febbraio 2017 (Ultimo numero della rivista Lo Straniero -"Almanacco dello Straniero") Come è cambiata l'agricoltura italiana negli ultimi vent'anni e che trasformazioni ci...
morePubblicato su Lo Straniero, anno XX, n. 198/199/200, dicembre 2016/febbraio 2017 (Ultimo numero della rivista Lo Straniero -"Almanacco dello Straniero") Come è cambiata l'agricoltura italiana negli ultimi vent'anni e che trasformazioni ci saranno nel prossimo decennio? A livello europeo e mondiale vi sarebbero un gran numero di processi da analizzare e da descrivere: la PAC e le politiche di (parziale) liberalizzazione del commercio dei prodotti agricoli a livello internazionale (e vedremo se davvero la presidenza Trump sancirà la fine del TTIP), il land grabbing, la crescente attenzione di grandi attori finanziari al settore del cibo, ecc. In questo quadro, rispetto all'Italia mi sembra particolarmente importante interrogare tre processi (che, peraltro, sono grosso modo comuni a tutto il mondo occidentale): primo, la veloce diminuzione del numero di aziende agricole; secondo, l'aumento del numero di lavoratori non italiani impiegati in agricoltura; terzo, il restringimento dei canali di distribuzione del cibo, ormai controllati in gran parte dalle catene di supermercati italiane e straniere. Partiamo dalle aziende. Secondo i dati dei censimenti Istat dell'agricoltura, le aziende agricole in Italia erano più di 3,1 milioni nel 1982, quasi 2,4 nel 2000, 1,6 nel 2010. Si sono cioè dimezzate in trent'anni. Il dato è dovuto sì alla diminuzione della superficie agricola utilizzata (pensiamo all'enorme cementificazione che l'Italia ha vissuto tra gli anni novanta e i primi duemila), ma soprattutto al fatto che la dimensione media è salita da circa 5 ettari (nel 1982) a 5,5 (nel 2000) a quasi 8 (nel 2010). I dati più recenti (2013) confermano questa tendenza: le aziende agricole diminuiscono ancora (1,4 milioni) e la dimensione media aumenta (8,4 ettari). Sono scomparse soprattutto le aziende piccole e piccolissime, mentre quelle con più di 50 ettari sono in realtà aumentate (del 22% tra il 2000 e il 2010). Inoltre, meno di un terzo di questo milione e mezzo di aziende agricole sembra rappresentare davvero un'impresa attiva sul mercato. Infatti (dati Inps 2015), i lavoratori agricoli autonomi sono "solo" 450.000; è probabile che le altre aziende siano condotte da individui occupati in realtà in altri settori economici e per i quali l'agricoltura è un hobby o un secondo lavoro. (Una questione non secondaria: la scomparsa delle aziende si è verificata in proporzione maggiore in montagna, dove è più difficile fare un'agricoltura che risponda alle esigenze della distribuzione; e la diminuzione dei presìdi contadini in questi territori contribuisce ad aumentare i rischi di tenuta idrogeologica nella penisola.) Anche gli occupati nel settore agricolo negli ultimi due decenni sono diminuiti: i dati Istat parlavano di quasi 1,4 milioni di occupati nel 1992; nel 2015 sono circa 850 mila (il dato è però di nuovo in crescita dal 2013). Il secondo processo è l'aumento continuo del numero di lavoratori non italiani. L'Istituto nazionale di economia agraria stimava in circa 50.000 i lavoratori stranieri nel 1995 e poco più di 160.000 nel 2006. Nel 2015 sono 340.000, secondo il rapporto Idos sull'immigrazione, gli stranieri (comunitari e non comunitari) che hanno lavorato in agricoltura almeno per qualche giorno: il 30% circa del totale, quasi tutti concentrati in mansioni bracciantili. E non bisogna dimenticare che in agricoltura l'irregolarità ha un'incidenza del 21% sugli occupati. Si tratta del processo più visibile, anche a causa delle difficili condizioni abitative di questi operai (con gli arcinoti "ghetti" nelle campagne del Sud) e, ovviamente, dell'intermediazione di manodopera operata dai caporali nel Sud e da pseudo-cooperative in molte zone del Centro-Nord. L'altro grande processo riguarda i canali di distribuzione del cibo: secondo dati dell'Antitrust, il commercio al dettaglio del cibo fresco e trasformato in Italia passava per le catene della distribuzione moderna (cioè i supermercati) per il 50% nel 1996 e il 72% nel 2011, mentre il commercio tradizionale si è ridotto dal 41% al 18%. Questo settore è in rapido movimento: le principali catene della distribuzione operano congiuntamente a livello europeo, attraverso enormi centrali d'acquisto (Peraltro, queste corporation fanno talvolta gola anche ai grandi attori della finanza internazionale, per cui vi potrebbero essere nei prossimi anni investimenti e acquisizioni in questo senso). Cosa ci dicono questi dati? Come è possibile interpretarli? Quali i nessi? La concentrazione dei canali di distribuzione in pochi grandi attori e l'affermarsi dei supermercati come nuove "autorità del cibo" sta incidendo in maniera importantissima sulla produzione (oltre che sul