Daniele Balicco
Fortini, la mutazione e il surrealismo di massa
Senza efficaci mezzi irrazionali, l’irrazionalità dei
fini della società borghese si sarebbe potuta
difficilmente stabilizzare.
Th.W. Adorno, Dialettica Negativa, p.304
Nel 1977 Fortini scrive una nuova introduzione all’antologia Garzanti,
curata insieme a Lanfranco Binni, Il movimento surrealista1. Come spesso capita a
chi segua da vicino il suo itinerario intellettuale, prefazioni o introduzioni
apparentemente pacificate nella loro semplice funzione editoriale, rivelano poi alla
lettura tutt’altro. Quest’articolo, infatti, è uno dei testi più importanti per capire
come Fortini interpreti quanto Pasolini chiamò, qualche anno prima, «mutazione
antropologica». E con quali correzioni e antidoti inizi a decifrare quello che,
qualche anno dopo, la teoria internazionale farà cadere sotto il nome di postmodernismo.2 L’anno della pubblicazione, come vedremo, è emblematico. E
qualcosa ha a che fare con il senso e l’intenzione politica di questa nuova
introduzione. Ma andiamo con ordine.
I. Un’avanguardia storica
La prima edizione de Il movimento surrealista esce per le edizioni Garzanti
nel 1959. Fortini la introduce con un saggio storico dove la parabola del
surrealismo è compresa come momento interno alla grande stagione delle
1
F.Fortini, Introduzione in Id., Il Movimento Surrealista, Garzanti, Milano 1997, pp. 728.[Da ora in avanti nel testo questa edizione del Movimento Surrealista verrà citata con la
sigla MS2; mentre per la prima edizione, uscita nel 1957, la sigla sarà MS1]
2
Il riferimento è soprattutto agli studi sull’età postmoderna, più che di scuola francese, di
tradizione statunitense e anglo-sassone. Su tutti, il saggio di David Harvey The Condition of
Postmodernity (Blackwell, Cambridge Ma 1990; tr. it La crisi della modernità, Il
Saggiatore, Milano 1991) e quello di Fredric Jameson Postmodernism or the Cultural Logic
of Late Capitalism (Verso, London – New York 1991; tr.it Postmodernismo. Ovvero la
logica culturale del tardo capitalismo, Fazi, Roma 2007).
1
avanguardie novecentesche; o, forse meglio, come il suo vero epilogo3.
Ricostruendone la storia, seguendo l’evolversi della sua poetica e dei conflitti
interni fra i vari esponenti, così come il suo controverso rapporto con il comunismo
internazionale, il surrealismo appare, all’altezza di questa prima introduzione,
come un movimento artistico ormai concluso. Disseminate qua e là possono
trovarsi, in singoli autori o opere contemporanee, tracce della sua poetica. E
tuttavia il suo progetto estetico resta sostanzialmente privo di continuatori:
Qual è dunque l’eredità surrealista, nella seconda metà del nostro secolo? Anzitutto
un’eredità di opere di poesia e di arte, che il tempo sfoltisce e su cui distribuisce luci
diverse […]. Poi tutto un ordine di esigenze etico-politiche ancora oggi, pur nei mutamenti
4
di prospettiva, valide.
Come si vede, per il Fortini di questa prima introduzione, non ci sono
grandi dubbi, né ostacoli interpretativi: il surrealismo ha concluso la sua parabola
storica. Della sua tumultuosa attività estetica e politica restano, nel presente, solo
poche tracce. Anzitutto alcune splendide opere di poesia e di arte, ormai
incorporate nel canone del grande modernismo europeo; quindi, alcuni manifesti
politici interessanti per intendere come sia stato consumato, fra le due guerre,
l’avvicinamento fra minoranze intellettuali di origine borghese e dirigenze
rivoluzionarie; infine, alcune esigenze di trasformazione della vita individuale e del
mondo che il movimento ha incarnato e che restano, benché per tantissime ragioni
inadempiute, e parzialmente da correggere, non per questo non più valide.
Per Fortini, quest’ultima traccia è la più importante. Sicuramente sarà
quella che lo costringerà a mutare giudizio sulla portata storica del fenomeno
surrealista, ma solo dopo che gli effetti combinati di boom economico, industria
culturale, nuova tecnologia e terrorismo di Stato, renderanno visibile la mutazione
come nuova forma di vita. All’altezza di questa prima introduzione, invece,
l’importanza storica del gruppo di Breton è ricondotta alla forza immaginifica con
cui provò ad armare, fra le due guerre, una negazione estetica radicale del
capitalismo liberale.
Il programma dei surrealisti era, infatti, molto ambizioso. Volevano
trasformare il mondo e insieme scardinare le forme con cui la società borghese
aveva bloccato, sequestrandola a proprio e unico vantaggio, l’energia vitale della
vita moderna trasformata. Il loro scopo era quello di trovare, magari attraverso
l’estetizzazione del caso o dell’arbitrio, quel punto archimedico oltre cui le
opposizioni si dissolvono e la vita appare per quello che è: flusso di trasformazione
ininterrotta. Breton, nel Secondo Manifesto del Surrealismo, può scrivere infatti
che «tutto porta a credere che esista un certo punto dello spirito nel quale la vita e
la morte, il reale e l’immaginario, il passato e il futuro, il comunicabile e
3
«Con il passare degli anni il surrealismo mostra di essere stato soprattutto una
conclusione, non un inizio» in MS1, p.40
4
Ivi, p.47
2
l’incomunicabile, l’alto e il basso cessino di essere percepiti in maniera
contraddittoria»5.
Il regno che più si avvicina a quel punto, dove il principio di non
contraddizione ha perso signoria e potere, è proprio la surrealtà. Il soggetto che la
abita è un soggetto libero perché è riuscito ad oltrepassare le opposizioni binarie –
come pubblico/ privato, arte/ natura, esteriorità/ interiorità, ragione/ inconscio,
lavoro/ amore – nelle quali era imprigionato. Non a caso, il mito che orienta da
lontano questo itinerario di emancipazione è quello romantico del soggetto come
sintesi degli opposti. Come scrive infatti Michael Löwy, in un saggio non troppo
distante, per giudizio e impostazione teorica, da questa prima introduzione di
Fortini:
l’approccio surrealista è unico per il livello e l’ardire della sua ambizione: nientemeno che
quella di superare le contrapposizioni stereotipate, il cui contrasto da lungo tempo alimenta
il teatro d’ombre della cultura: materia e spirito, esteriorità e interiorità, razionalità e
irrazionalità, veglia e sonno, passato e futuro, sacro e profano, arte e natura. Per il
surrealismo non si tratta di una misera «sintesi», ma quella formidabile operazione che la
dialettica hegeliana definisce come Aufhebung: la negazione/conservazione dei contrari, e il
6
loro superamento in un vista di un livello superiore.
Anche Fortini mostra chiaramente come il sogno dei surrealisti sia proprio
quello di oltrepassare le forme di una soggettività borghese ormai impotente,
annientando le opposizioni che la strutturano e, soprattutto, il bando che la
sovranità della ragione strumentale ha poderosamente eretto contro i poteri
sovversivi dell’inconscio, dell’arte e dell’amore. Quello che però lo affascina di più
di questo paradossale moto di reincantamento del mondo, è il suo essere atto
d’accusa contro la mutilazione dell’esistenza a cui condanna lo sviluppo
dell’accumulazione senza fine. Perché, proprio come Fortini del resto, i surrealisti
chiedono, e anticipano nell’estetico, una possibile riunificazione della vita
personale nel presente:
L’impresa surrealista si situa in una fase precisa del doppio movimento della società
contemporanea: movimento verso una sempre più esasperata divisione (specializzazione
tecnica, riduzione dell’unità umana alla somma inorganica dei comportamenti) e
movimento opposto, verso una riunificazione, come rivendicazione della unità personale
7
dell’uomo e, insieme, della intersoggettività .
Quella dei surrealisti è dunque una lotta per una soggettività di tipo nuovo,
moderna e post-borghese. Nei loro manifesti, non a caso, sommano Marx a
Rimbaud: vogliono cambiare la società, ma contemporaneamente la vita
individuale di tutti. Hanno un’idea alta, altissima di rivoluzione. E per quanto
politicamente velleitario, sarà proprio questo paradossale radicalismo a renderli
5
MS2, p.111.
M.Löwy, L'étoile du matin: surréalisme et marxisme, Éd. Syllepse, Paris 2000 (tr.it La
stella del mattino. Surrealismo e marxismo, Massari Editori, Bolsena 2001, p.10).
7
MS1, p.43.
6
3
incompatibili con le deformazioni del comunismo stalinizzato. Nell’introduzione,
Fortini segue, passo passo, le varie tappe di quest’alleanza voluta ed
inevitabilmente tumultuosa. Si va dal primo incontro, nel 1925, con Pierre Naville
e la dissidenza trockijsta di Clarté, fino all’ingresso, due anni dopo, nel PCF; dalla
pubblicazione, nel 1929, del Secondo Manifesto del surrealismo, dove Breton
ribadirà la fedeltà del gruppo alle scelte politiche della III Internazionale, fino alla
condanna che il movimento subì al congresso di Charkov, perché ritenuto portatore
di un’ideologia individualistica e controrivoluzionaria. I surrealisti verranno
definitivamente espulsi dal PCF nel 1933, con l’esclusione di Louis Aragon. Non
smetteranno però di fare politica, come testimonia, tra gli altri, il bellissimo e
celebre intervento di Breton che Eluard lesse a Parigi, nel 1935, al Congresso degli
scrittori per la difesa della cultura. In quegli anni, messo al bando dal comunismo
stalinizzato, una parte del gruppo si avvicinò sempre di più alle posizioni di
Trockij. Ed è proprio con il capo rivoluzionario esule in Messico, infatti, che
Breton firmerà nel 1938, insieme a Diego Rivera, il manifesto Per un’arte
rivoluzionaria indipendente.
Con questa prima ricognizione sul movimento surrealista, Fortini ebbe
sicuramente la possibilità di attraversare fino in fondo una poetica affascinante,
quanto lontanissima dalla sua. E, nello stesso tempo, poté anche iniziare quel lungo
lavoro di scavo sui rapporti fra sperimentazione estetica e movimento
rivoluzionario internazionale che lo avrebbe portato, di lì a qualche anno, alla
stesura di uno dei suoi capolavori saggistici: Mandato degli scrittori e fine
dell’antifascismo8. Diventava visibile, infatti, ma solo allora, il significato storico
della proposta surrealista come alternativa all’engagement dei fronti popolari. E
solo allora diventano chiare le ragioni del legame profondo che una parte del
surrealismo aveva stretto con la dissidenza trockijsta9. Simile era infatti la volontà
progressista di portare fino alle estreme conseguenze le potenzialità interne alla
modernizzazione. In questo modo, la fede nella possibilità di una gestione comune
della razionalità industriale, si alleava per la prima, ma non per l’ultima volta, con
la volontà estetica di oltrepassare definitivamente i limiti della soggettività
borghese. Come si legge in queste breve passaggio, tratto dal manifesto del 1938:
se per lo sviluppo della produttività materiale la rivoluzione è costretta a mettere in piedi un
sistema socialista su base centralizzata, per quanto riguarda la creazione intellettuale, essa
8
F.Fortini, Mandato degli scrittori e fine dell’antifascismo in Id.,Verifica dei Poteri [1965],
Einaudi, Torino 1989, pp.113-162
9
Sulla qualità politica del legame che ha unito il gruppo di Breton a Trockij, in questa
prima introduzione, Fortini è talora eccessivamente ingeneroso: «la rivoluzione che i
surrealisti sentono prima interiore che esteriore (perché è intuita come la fine della
mediazione, della pazienza, dell’attesa tattica) è negazione ininterrotta (come la poesia),
dove si vuol far coincidere la ripetizione e l’istante, abolire il tempo. Ci sarà perciò una
coincidenza – ma prevalentemente verbale – con la formula di Trockij, della rivoluzione
permanente» in MS1, p.42
4
deve, fin dagli inizi, costituire e garantire un regime anarchico di libertà individuale.
10
Nessuna autorità, nessuna costrizione, nessun ordine, neanche minimo!
II. Fine e trasmutazione
Per la prima edizione di questo volume, come si è visto, Fortini ha
osservato il surrealismo con una lente teorica tutto sommato tradizionale: i progetti,
le opere, i manifesti, le proposte politiche del gruppo di Breton vanno per lui
collocati nella cornice delle avanguardie storiche e interpretati come episodio
significativo di una cooperazione complicata: quella fra minoranze intellettuali
radicali e comunismo stalinizzato. Non più così sarà, invece, per la seconda
edizione del libro, che è del 1977. Rispetto alla prima, la nuova edizione è molto
più ricca di testi, ora presentati all’interno di una vera e propria macrocornice di
commento. Quest’ultima però non è più di Fortini, ma di un suo giovane
collaboratore, Lanfranco Binni che tuttavia ripercorre, con affondi e
approfondimenti, l’impostazione teorica generale della prima edizione11.
Molto diversa è invece l’interpretazione che del fenomeno surrealista dà
Fortini nella nuova introduzione al libro. Il centro non è più costituito dalla storia
del gruppo e dei suoi rapporti con le dirigenze rivoluzionarie, quanto dalla
trasmutazione della sua eredità formale in alfabeto generico della comunicazione di
massa:
tutte le ipotesi di liberazione dalla realtà borghese, che erano state formulate dai militanti
surrealisti mezzo secolo fa, sono diventate pratica di massa (questa la «vittoria» del
surrealismo) ma, in definitiva, strumenti di schiavitù per le masse: dalla abolizione dei nessi
spazio-temporali all’automatismo verbale, dall’uso della droga e dell’erotismo in funzione
di perdita dell’identità e di estasi fino alla scomparsa – almeno apparente – di ogni
12
distinzione fra arte e non arte.
Osservato con questa nuova lente, il Surrealismo non appare più soltanto come una
corrente interna alla storia delle avanguardie della prima metà del secolo; quanto
come la variante storica più importante di un movimento generale di
sperimentazione artistica, esistenziale, politica il cui patrimonio simbolico è stato
progressivamente espropriato, saccheggiato ed incorporato nelle forme estetiche
prodotte dai nuovi media di massa:
il Surrealismo […] è divenuto, dopo aver concluso il proprio ciclo diacronico, come
l’Espressionismo, il Futurismo eccetera, il fissativo storico dell’Avanguardia, il veicolo che
10
MS2, p.137
Di Lanfranco Binni studioso del movimento surrealista si consulti anche il recente:
L.Binni, Potere surrealista, Meltemi, Roma 2001.
12
MS2, p.7
11
5
l’ha portata al di là dei suoi caratteri originari, ed ha finito col farla diventare una
contraddizione in termini: ossia l’Avanguardia-Di-Tutti. La grandezza storica del fenomeno
– ossia di quello che chiamiamo il Surrealismo di massa – non è contraddetta dalla sua
natura simmetrica e non antagonistica alla alienazione tecnocratica-produttivistica di
massa. Tale simmetria indica solo la reale conclusione delle avanguardie artistico-letterarie;
13
e una sempre maggiore penetrazione ideologica dei loro moduli.
La storia delle avanguardie si consuma così, ingloriosamente e senza soluzione di
continuità, in un tradimento tragico, quanto paradossale. Ed è un giudizio storico
che Fortini mette a fuoco a poco a poco. Non solo attraverso letture decisive, come
saranno per esempio gli scritti di Debord e Vaneigem, pubblicati nei fascicoli
dell’Internazionale Situazionista, o le tesi di Adorno sulla semicultura, ma
soprattutto attraverso l’osservazione diretta della mutazione italiana.
III. Preistoria
Il primo segnale che impone allo sguardo critico di Fortini un necessario
cambiamento di prospettiva teorica lo offre l’esperienza controversa del «Gruppo
’63». Ai suoi occhi apparirà, infatti, come sintomo eclatante di un profondo
snaturamento dell’eredità storica delle avanguardie primonovecentesche. Con la
neoavanguardia siamo, come è ovvio, ancora alla preistoria del surrealismo di
massa. E tuttavia il caso è interessante per almeno due ragioni: anzitutto perché i
novissimi mostrano in forma ancora artigianale - e per questo vanno letti come
esperimento a metà strada fra anticipazione e chiusura di un intero periodo storico quello slittamento dalla centralità estetica delle forme e dei significati a quella dei
significanti puri che, con ben altri mezzi, diffusione ed intensità, i media dello
spettacolo organizzeranno, ma ora in modo industriale.
La seconda ragione sta, invece, nel rendere sempre più chiara un’alleanza
solo apparentemente contraddittoria. Vediamo meglio. Si è detto, prima, della
comune matrice progressista che accomuna esperienze surrealiste e pensiero
politico di Trockij. Ebbene, quel medesimo connubio, ma ora amputato di
prospettive rivoluzionarie e dunque invertito di segno, si ripresenta all’inizio degli
anni sessanta sulla scena italiana proprio con il «Gruppo ’63». Mentre i novissimi
cercano invano di far esplodere il mondo facendo saltare in aria la sintassi, i
socialisti delle «riforme di struttura» entrano nel primo governo di Centro Sinistra:
per la prima volta nella storia italiana la cultura scientifica e razionalizzante di una
corrente socialista fu, anche se transitoriamente, consacrata a cultura di governo.14
13
Ivi, p.25
Per un’analisi dei rapporti fra Fortini e la cultura socialista delle «riforme di struttura»,
mi permetto di rimandare a D.Balicco, Non parlo a tutti. Franco Fortini intellettuale
politico, Manifestolibri, Roma 2006, pp. 129-135.
14
6
È una pura casualità o qualcosa di profondo, per quanto invisibile alla superficie,
lega questi due fenomeni così distanti fra loro per fini e portata storica? Per Fortini
un nesso che li accomuna c’è. L’alleanza, per quanto ora solo concomitante, fra
industrialismo progressista e avanguardia estetica cinicamente distruttiva risponde,
su piani diversi, ad un’esigenza storica: quella di portare a termine l’ancora
incompiuta modernizzazione italiana. Non a caso, infatti, entrambi nascono a
ridosso della prima crisi di quell’accumulazione originaria accelerata che fu il
boom italiano. A distanza di anni appaiono come tentavi, in parte falliti e in parte
no, di guidare l’industrializzazione economica e culturale del nostro Paese.
Certo, fra i due gruppi c’è una bella differenza per cultura, statura morale e
importanza storica: i novissimi, a differenza dei secondi, si volevano cinici
rivoluzionari e distruttori. Non lo erano. Stavano semplicemente introducendo, a
proprio vantaggio, nel campo della cultura italiana, un nuovo modo di essere
moderni. In un breve testo pubblicato sul Corriere della Sera all’inizio degli anni
’80, Fortini descrive, con tutta la violenza e il sarcasmo di cui la sua penna
epigrammatica è capace, la funzione di adeguamento modernizzante dei magnifici
ribelli del «Gruppo ’63». Vale la pena di citare la pagina quasi per intero.
Ci volevano morti. Ma abbiamo dovuto accompagnare non poche esequie di ex
neoavanguardisti, ricoveri in convento, conversioni alla TV. Ci volevano ridicoli. Ma non
abbiamo mai raggiunto i livelli di sublime chapliniano dei ritorni agli ovili istituzionali
parlamentari e partitici dei magnifici ribelli di vent’anni fa. Era facile prevedere che
sarebbero invecchiati male; anche quelli, voglio dire, che hanno avuto successo. Infatti, la
parte meno buona delle teorizzazioni di vent’anni fa è stata di chi proponeva l’accettazione
«cinica» dell’apparato produttivo, ossia di quello che si chiamava allora il «piano del
Capitale». Il Capitale, naturalmente, se ne infischia delle adesioni «ciniche» dei letterati che
telecomandano le esplosioni della sintassi; gli basta che siano adesioni. (…). Si guardi ai
fogli, ai libri, alle antologie, alle spiagge laziali, alle estasi dell’effimero; insomma alla
«modernizzazione» che questi intellettuali d’avanguardia degni del Kuomintang hanno
promossa e attuata mentre i loro connazionali passavano i poco lieti anni Settanta. Nessun
dono profetico ci aveva consentito di sapere in anticipo che l’ideologia della neonata
avanguardia si sarebbe conclusa nella «americanizzazione del dissenso» come dire nel
15
consenso; ma, lo ripeto, un po’ di esperienza e qualche lettura.
Osservata dalla giusta distanza, la neoavanguardia appare dunque come un
semplice fenomeno di innovazione tecnica delle forme estetiche interno allo
sviluppo dell’industria culturale italiana. Nessun rapporto può essere per tanto
pensato, o preteso, con la storia, di tutt’altro peso, delle avanguardie storiche
d’inizio secolo. Il giudizio è severo, ma è, in fondo, sempre lo stesso. Perché
Fortini, sui novissimi, non ha mai cambiato idea da quanto scritto nei primi saggi
raccolti a metà degli anni Sessanta in Verifica dei poteri16. E tuttavia va notato che
la sua riflessione critica sul «Gruppo ’63», se non cambia nella sostanza,
15
F.Fortini, Saggi ed epigrammi, Mondadori, Milano 2003, p. 1109-1110.
Per un’analisi critica della neoavanguardia, i saggi canonici di Fortini da cui partire sono:
Istituzioni letterarie e progresso del regime, pp.54-59; Due Avanguardie, pp.60-72;
Avanguardia e mediazione, pp.73-83 in Id., Verifica dei poteri cit.
16
7
progressivamente riproporziona la portata del fenomeno fino a ridurlo a sintomo, e
tutto sommato marginale, di una mutazione molto più vasta.
Si prenda come esempio un’intervista17 a cura di Franco Brioschi,
pubblicata sull’Unità il 23 ottobre 1983, in cui Fortini torna a discutere della
neoavanguardia a vent’anni precisi di distanza dal primo convegno dei novissimi. Il
pezzo è interessante perché avanza, al di là di un giudizio storico ormai fermo ed
inequivocabile («in realtà la nuova avanguardia era solo, a livello nazionale, un
momento particolare di un fenomeno vastissimo che coinvolgeva praticamente la
cultura di tutta l’Europa: ossia l’industrializzazione delle forme che erano state
elaborate dalle avanguardie storiche tra il 1895 e il 1935»18), un’interpretazione che
sarà definitiva sul nesso che lega esperienza del «Gruppo ‘63» a rinascita del
surrealismo. «Il vero evento nuovo» di quei primi anni Sessanta, così Fortini
risponde a Brioschi, «non è rappresentato dalla nascita della nuova avanguardia»
quanto dalla «rinascita del surrealismo». Completamente sbagliato era, infatti, il
suo giudizio storico su quel movimento, così come l’aveva calibrato all’altezza
della prima antologia Garzanti: «quando nel ’59 ho pubblicato un libro sul
movimento surrealista, avevo ritenuto di poterlo considerare un’esperienza ormai
conclusa. Mi sbagliavo; e di grosso»19.
IV. Espropriazione
A distanza di vent’anni, dunque, la neoavanguardia appare come un
gruppo artistico la cui storia vive ormai soltanto nei manuali scolastici e nelle
fortune professionali di alcuni dei suoi esponenti di spicco; mentre il surrealismo, e
proprio a partire da quegli anni, ritorna visibile ovunque sulla scena mondiale.
Certo non più come movimento artistico specifico, bensì come trasmutazione in
vero e proprio alfabeto della comunicazione di massa. Ed è proprio all’interno di
questa trasmutazione, semmai, che va riportata, come primitivo tentativo di
innovazione formale, l’esperienza della neoavanguardia italiana. La storia del
surrealismo non può più essere valutata solo come momento di una «rotazione dei
possibili» fra stili diversi e pratiche artistiche all’interno dell’avanguardia storica;
ma piuttosto studiata, capita, approfondita come il luogo originario di
un’espropriazione.
Per Fortini, infatti, gli effetti della modernizzazione accelerata del boom
rendevano visibile qualcosa di simile a quanto Marx aveva già descritto nella IV
17
F.Fortini, La neoavanguardia, vent’anni dopo in Id., Un dialogo ininterrotto, Bollati
Boringhieri, Torino 2003, pp.337-342.
18
Ivi, p.339.
8
sezione del I libro del Capitale. Il meccanismo logico che lì aveva guidato il
passaggio da cooperazione a manifattura e quindi a grande industria - con la
conseguente espropriazione di mezzi di lavoro, formazione e conoscenza pratica
del mestiere ora trasformati in un sistema operativo di macchine esterno al corpo
del lavoratore e alla sua coscienza - si stava ripetendo di nuovo in tutto
l’Occidente, ma questa volta dentro il mondo della cultura e della produzione
simbolica. I nuovi consumi culturali di massa ne erano la prova. Involontariamente
testimoniavano il fatto che le macchine dell’industria culturale avevano iniziato ad
incorporare la pratica estetica più funzionale a normare un’antropologia adeguata
al livello di sviluppo raggiunto.
E proprio qui sta, per Fortini, la vittoria e la catastrofe del surrealismo.
Perché il patrimonio di miti e simboli e procedure estetiche con cui Breton e
compagni hanno provato a pensare, e perché no a vivere, diversamente il mondo, si
è rivelato essere, a breve distanza, quello più adeguato allo sviluppo della
modernizzazione capitalistica. Ed è questo un giudizio critico che Fortini in parte
deriva dall’interpretazione che del surrealismo hanno dato, per primi, Debord e
Vaneigem nei bollettini dell’Internazionale Situazionista. Come si può leggere,
infatti, nel primo numero, datato 1958, di quella rivista:
nel quadro di un mondo che non è stato sostanzialmente trasformato, il surrealismo ha
vinto. Questa vittoria si ritorce contro il surrealismo che si aspettava qualcosa solo dal
20
rovesciamento dell’ordine sociale dominante .
La tesi dei situazionisti è semplice. La terza rivoluzione industriale – che
potremmo leggere seguendo Mandel e Jameson, vale a dire identificandola nel
salto tecnologico che motori nucleari ed elettronica hanno determinato
nell’accumulazione - ha rapidamente raggiunto il vantaggio formale che i
surrealisti avevano conquistato rispetto alla cultura del capitalismo liberale fra le
due guerre. E una volta fallita l’ipotesi rivoluzionaria, quel progetto di
emancipazione, voluto come compimento di una modernizzazione bloccata, si
realizza ora capovolto nel mondo plasmato dalle nuove macchine:
Il mondo moderno ha recuperato il vantaggio formale che il surrealismo aveva preso. Le
manifestazioni del nuovo nelle discipline che progrediscono effettivamente (tutte le
tecniche scientifiche) assumono un aspetto surrealista: nel 1955 hanno fatto scrivere ad un
robot dell’Università di Manchester una lettera d’amore che poteva passare per un saggio di
scrittura automatica di un surrealista mediocre. Ma la realtà che guida questo sviluppo è
che, mancata la rivoluzione, tutto ciò che ha costituito per il surrealismo un margine di
libertà si è trovato ricoperto e utilizzato dal mondo repressivo che i surrealisti avevano
21
combattuto.
20
21
MS2, p.170.
Ivi, p.171.
9
Se il sogno dei surrealisti era quello di conquistare una nuova forma di vita
absolument modern e antiborghese, quel sogno è diventato realtà; ma si è realizzato
attraverso, e non in antitesi, l’intensificazione dello sviluppo del capitale. È un
esito tragico, certo. Eppure, per Fortini, forse non del tutto paradossale. L’ethos dei
surrealisti, come voleva Benjamin, va criticato anche perché ora, nella sua
metamorfosi, appare chiaro il suo errore di partenza. L’idea di una soggettività
libertaria che sovranamente goda dell’assenza di vincoli, limiti e costrizioni è un
progetto in opposizione alle forme della società borghese liberale, ma non certo a
quelle pure sognate e conquistate dal capitalismo avanzato.
Per questa ragione, la volontà iconoclasta e disgregatrice dei surrealisti può
tranquillamente agire in concomitanza, e non in opposizione, con lo sviluppo
impetuoso di quest’ultimo. Del resto, che cos’è infatti l’accumulazione per Marx se
non la distruzione di ogni vincolo naturale, di ogni legame sociale, di ogni
gerarchia e distinzione simbolica in favore dell’illimitato come unico spazio
veramente adeguato alla produzione di merci per mezzo di merci? Nella
distruzione dei vincoli, nel sogno dell’indistinto, nella volontà di portare alle
estreme conseguenze questo tipo di modernizzazione, sta l’errore e l’illusione
ottica originaria dei surrealisti.
Per questa ragione, se negli anni Trenta furono capaci di un’opposizione
radicale e meritoria alle forme degenerate dello stalinismo mondiale, tuttavia, se si
potesse tornare al bivio dove fra le due opzioni in lotta vinse la prima – vale a dire
quella dell’engagement dei fronti popolari - neppure la seconda, come ora è
evidente, avrebbe portato molto lontano. Esisteva una terza possibilità, di fatto
ignorata. Era quella, fra gli altri di Brecht e di Musil, di chi non condivideva né
l’avanguardismo ultramoderno dei surrealisti, né il nicodemismo degli intellettuali
engagé. Bisognava superare l’inganno dell’arte, ma non il significato
antropologico, e dunque politico, che quel tipo di lavoro sulla forma
transitoriamente incarna.
V. Metamorfosi
Se non pochi, dunque, sono i punti di contatto fra la soggettività
estetizzante sognata da questo movimento e la nuova antropologia di massa che il
capitale coarta, tuttavia nella storia di questa progressiva metamorfosi esiste un
anello mancante. Perché i surrealisti, ricorda Fortini, di fatto spariscono dalla scena
nel secondo dopoguerra. L’attività del gruppo vicino a Breton, in realtà, non si
blocca affatto. Vengono organizzate esposizioni, fra cui, importante, nel 1947,
l’Esposizione Internazionale del Surrealismo alla Galérie Maeght di Parigi, dove si
incontreranno 90 artisti provenienti da 14 paesi del mondo. Ma non mancano, in
questi anni, neppure i consueti interventi pubblici, le collaborazioni a riviste – da
Les Quatre Ventes a Neon – le pubblicazioni letterarie, e soprattutto pittoriche; e
10
tuttavia la visibilità culturale del gruppo vicino a Breton tende a scemare sempre
più. Per almeno due ragioni: anzitutto perché con la vittoria dei fronti popolari e la
sconfitta dell’opposizione troskijsta, i surrealisti fatalmente subiscono il destino
della posizione politica di cui sono vivaci sostenitori, se non alleati. Per di più, in
Francia, nell’immediato dopoguerra, oltre agli inevitabili attacchi scagliati dal
PCF, ma anche da personaggi come Tzara e Roger Vailland, saranno soprattutto
Sartre e Merlau-Ponty, gli intellettuali di riferimento dell’area gauchiste non
stalinista, a metterli al bando perché ritenuti poco più che adolescenti visionari,
invecchiati senza crescere.
Apparentemente, dunque, dal 1945 in poi, i surrealisti escono di scena,
quanto meno da quella europea. Ma sono proprio questi gli anni, invece, in cui il
loro patrimonio estetico inizia a disseminare qua e là i semi della futura
metamorfosi. Una prima strada seguirà l’emigrazione americana: temi, miti e
procedure del gruppo, mediati da personaggi come Dalì e Coucteau, o da
pubblicazioni patinate come Minotaure, approdano nell’humus culturale
statunitense dove non sono mai esistite distinzioni nette fra arte contemporanea e
pubblicità, design, moda, cinema, narrativa di consumo e giornalismo. Ed è proprio
nel contatto naturale con le forme dell’industria culturale americana che avviene la
prima assimilazione del surrealismo; da qui verrà poi esportata in Europa solo dopo
che il boom economico avrà fatto dimenticare guerra e macerie, sostituendo etica
del risparmio e dura lotta politica con benessere, coazione al consumo ed edonismo
di massa.
La seconda strada invece deriva proprio dall’empasse europeo. Di fronte
all’ostracismo che la corrente più politicizzata del surrealismo subisce, vale a dire
quella legata a Breton, inizia simmetricamente ad ottenere sempre più visibilità e
potere simbolico l’altra parte del movimento, quella nichilista che riconosce in
Bataille ed Artaud i suoi due maestri più veri. Non si tratta più, ora, di un gruppo
organizzato, ma di una generica corrente culturale di successo, che va dalla
letteratura all’antropologia, dalla storia delle religioni alla psicanalisi, ed è
accomunata da una negazione radicale del presente, indisponibile però ad una
qualsiasi traduzione politica, poco importa se organizzata o meno. Scrittori come
Marguerite Duras, Pierre de Mandiargues, Julien Gracq, Pierre Klossowski hanno
in comune proprio «l’attenzione e la passione per la “bassezza” e “l’infamia”, nel
senso che Bataille ha conferito a tale area della vita morale nella sua teorizzazione
dell’erotismo come trasgressione e della letteratura come funzione del Male».22
Questa seconda strada ad un certo punto si incontra con la prima, quella
dell’emigrazione americana. E il surrealismo compie così la sua metamorfosi
22
Ivi, p.18
11
depurato degli originali presupposti politici ed identificato, usato ed assimilato
esclusivamente attraverso la sua versione maledetta23.
VI. Contenuto, forma e tecnologia
Di primo acchito, può apparire forse enigmatico il fatto che il mondo del
capitalismo avanzato, sempre più organizzato e plasmato dal lavoro razionale delle
macchine, utilizzi come narrazione più adeguata ai modi del suo sviluppo l’informe
e debordante irrazionalismo nero, proprio di questa tradizione surrealista. Eppure,
se i salti tecnologici vengono letti per quello che sono in realtà – e dunque non solo
come risultato transitorio della concorrenza fra capitalismi in lotta fra loro, ma
soprattutto come ininterrotta strategia di controllo e ortopedia del lavoro vivo –
diventa chiaro che contenuti e forma della comunicazione mediatica dissimulano
un’azione precisa: molto semplicemente, la loro prima funzione è quella di
impedire che l’acculturazione di massa si trasformi, in strati sempre più estesi di
popolazione, in comprensione politica del presente. E questa possibilità va
scongiurata normando, fin dove è possibile, un’antropologia di massa non
conflittuale. Del resto, se si ricorda che in Europa il potenziamento dell’industria
culturale come induzione al consumo arriva attraverso il compromesso keynesiano,
non sarà illecito leggere nella prima la ragione politica del secondo. Vale a dire,
l’essere entrambi risposta capitalistica alla possibilità della rivoluzione in
Occidente24.
A questo punto diventa chiara la ragione della sussunzione della corrente
nera del surrealismo a scienza sociale del simbolico di massa: il suo culto della
trasgressione vissuta come rifiuto individuale del presente è il progetto culturale
che meglio può opporsi al modello latu sensu comunista di formazione critica del
soggetto. Alla conquista di una coscienza comune dello sfruttamento capace di
mettere a fuoco individuazione e totalità, la surrealtà nichilista oppone
un’antropologia signorile e trasgressiva. Un soggetto che è capace di innalzarsi,
contro la banalità della vita quotidiana, nell’estasi dell’arbitrio, del male e della
violenza; ma che conosce anche molti modi di fuggire da un presente da cui si
sente tenuto in scacco: per esempio nell’allucinazione stupefacente, nella
regressione verso forme degradate di sessualità compulsiva, nella contemplazione
mistica dell’esotico.
23
«È con questa eredità surrealista, conferita tutta intera ai consumi di massa, che oggi
abbiamo a che fare quotidianamente. Una imponente attività intellettuale, cui hanno
contribuito alcune delle maggiori menti della letteratura e della riflessione europea
contemporanea, ha accolto soprattutto questa parte del Surrealismo» in Ibidem.
24
Il testo italiano che ha impostato l’interpretazione del keynesismo che seguo è: Aa.Vv.,
Operai e Stato: lotte operaie e riforma dello stato capitalistico tra rivoluzione d’Ottobre e
New Deal, Feltrinelli, Milano 1972.
12
Sono questi tutti moti di diversione di una realtà solo apparentemente
rifiutata che la comunicazione di massa farà propri e diffonderà, come ossigeno
nell’aria, attraverso pubblicità e macchine video. Come è dunque evidente, la
miscela che questo progetto culturale porta con sé è perfetta per convertire il
conflitto politico, sempre potenziale, in innocua, per quanto distruttiva possa
essere, trasgressione individuale.
Ma la tradizione surrealista non viene assimilata soltanto nei contenuti
della comunicazione, ma soprattutto nella sua forma. Il suo insegnamento estetico,
fatto di automatismi psichici e verbali, di sconnessione spazio temporale, di
scardinamento logico del discorso, di estetizzazione dell’arbitrio, organizza ormai
internamente la grande narrazione del capitalismo avanzato, che la impone
ovunque in modo performativo. Si potrebbe forse sostenere che il surrealismo di
massa è la compensazione simbolica della compressione spazio/temporale imposta,
all’intero mondo, dal capitalismo finanziario di questi ultimi anni25; perché è
l’unica vera grande narrazione capace di addestrare un’antropologia, di renderla
progressivamente capace di abitare uno spazio e un tempo radicalmente mutati. Il
surrealismo di massa agisce sulle forme di vita perché si impone per mimési
coartata: attraverso il total flow – concetto coniato da Raymond Williams per
definire il flusso continuo di immagini, parole, suoni, prodotto dal lavoro
ininterrotto delle macchine mediatiche26 - il suo modello simbolico penetra
ovunque; e senza fatica. La sua presenza ubiquitaria altera così le forme elementari
della percezione, decentrando le facoltà sintetiche del soggetto ed estetizzandone le
pulsioni.
Il suo linguaggio simbolico è efficace perché sabota la fatica e le
mediazioni della logica diurna, mentre sollecita le pulsioni dell’inconscio, di cui sa
parlare il linguaggio. Spostamento e condensazione, ma anche logica simmetrica,
appartengono al surrealismo di massa come propria attrezzatura tecnica. Per questo
la sua incorporazione nella comunicazione tecnologica colonizza l’inconscio:
perché è un discorso che, proprio come quello dei sogni, revoca il principio di non
contraddizione e le strutture della logica diurna. La sua forma fa sognare ad occhi
aperti proprio perché è a-logica. Non chiede verifica, né giudizio, ma solo
assimilazione. Il suo flusso ininterrotto scavalca così le difese della ragione. Non
può essere avvertito come illogico o contraddittorio. Ma non può essere neppure
percepito come debordante comunicazione intrusiva, estranea ed esterna al
soggetto. All’opposto. Il suo successo deriva proprio dalla sua apparente
familiarità, dall’illusione dell’immediatezza di cui si ammanta, dal suo essere cioè
25
Per un’analisi dell’accumulazione capitalistica come movimento progressivo di
compressione spazio/temporale il testo canonico è: D.Harvey, The Limit to Capital,
Blackwell, Oxford 1982.
26
R.Williams, Television: Technology and Cultural Form [1974], Routdlege, London New
York 2003 (tr.it Televisione, tecnologia e forma culturale. E altri scritti sulla TV, Editori
Riuniti, Roma 2000).
13
una comunicazione seducente, ed immediatamente comprensibile a tutti, perché
simile ed interna ai movimenti non linguistici della mente del soggetto.
L’ultimo aspetto che Fortini considera di questa potente trasformazione
della comunicazione umana è la tecnologia dominante che la diffonde: la macchina
video. Il rapporto sociale, che si rifrange per sineddoche in questa forma
tecnologica, testimonia, infatti, come non mai, della posizione che il soggetto,
individuale e sociale, deve occupare di fronte alla totalità del processo produttivo a
cui è sottomesso. È una posizione che forse non casualmente capovolge ancora una
volta uno degli obiettivi storici della cultura socialista a cui Fortini appartiene: il
«controllo delle macchine». Contro questa possibilità, e cioè che l’educazione
politica formi un soggetto attivo capace di controllo e di comando su cosa, come e
quanto produrre, la forma video oppone lo spettacolo, l’immobilità individuale e
passiva di fronte alla riproduzione di una realtà resa inverificabile, perché
allontanata, sottratta e capovolta in rappresentazione. È questa, come è noto, una
diagnosi che, con infinite variazioni, Guy Debord espone magnificamente nella sua
Società dello spettacolo27, libro di cui Fortini è lettore attento, anche perché non
poche sono le consonanze teoriche con il suo pensiero28.
VII. Rispecchiamento e dissimulazione
Può essere interessante, avanzando di qualche anno, vedere come un altro
lettore di Guy Debord, Fredric Jameson, porti alle estreme conseguenze questo tipo
di ragionamento facendo perfettamente incrociare, pur senza una conoscenza
diretta delle tesi di Fortini, surrealismo di massa e società dello spettacolo. In un
capitolo del suo libro più famoso sull’età postmoderna, il cui titolo, surrealismo
senza l’inconscio29, sembra proprio fare al caso nostro, Jameson mostra molto bene
come la forma video incarni perfettamente lo Zeitgeist nel quale siamo immersi:
27
G.Debord, La Société du Spectacle [1967], Edition Gallimard, Paris 1992 (tr.it La società
dello spettacolo, Baldini Castoldi, Milano, 1997).
28
Il rapporto di Fortini con il situazionismo è complicato. Per un verso, la tradizione teorica
a cui appartiene il gruppo di Debord e Vaneigem sembra proprio ereditare e rielaborare la
sua medesima costellazione teorica: Hegel, giovane Marx, Freud, Lukàcs, attraversamento
critico del surrealismo; comune è anche la capacità di attualizzare politicamente il pensiero
dei classici, spesso giocando sull’effetto straniante che questo gesto attiva. Per di più,
primo mentore del gruppo sarà Henri Lefebvre, un intellettuale che Fortini stima molto e di
cui introduce, in italiano, il primo saggio tradotto per Einaudi (H.Lefebvre, Le matérialisme
dialectique, Presses universitaires de France, Paris 1939 - tr.it Il materialismo dialettico,
Einaudi, Torino 1947). Ciò che Fortini, invece, non può accettare dell’ipotesi politica
situazionista è il suo rifiuto tragico del presente, il suo invito ad una secessione totale e
priva di mediazioni politiche.
29
F.Jameson, Surrealism without Unconscious in Postmodernism cit., pp. 82-110.
14
Ho inteso proporre l’idea che il video sia unico – e in tal senso privilegiato e sintomatico –
perché è l’unica arte o medium in cui il luogo preciso della forma è costituito da questa
fondamentale cesura tra spazio e tempo, e anche perché la macchina domina e
spersonalizza in maniera unica soggetto e oggetto in pari misura, trasformando il primo in
un apparato di registrazione quasi materiale per il tempo meccanico del secondo e
dell’immagine video, del «flusso totale». Se si intende prendere in considerazione l’ipotesi
che il capitalismo si possa periodizzare in base ai balzi in avanti o alle mutazioni
tecnologiche medianti le quali reagisce alle proprie crisi sistemiche più profonde, allora
potrebbe divenire un po’ più chiaro come e perché il video – così strettamente connesso al
computer e all’informatica dominanti nella fase tarda, la terza, del capitalismo – possa a
30
buon diritto dirsi la forma artistica par excellence del tardo capitalismo.
Tutti gli scritti di Fortini di questi anni si muovono proprio contro la possibilità,
ben avvertita, che il soggetto umano muti radicalmente trasformandosi appunto in
un semplice «apparato di registrazione quasi materiale per il tempo meccanico»
della comunicazione video di massa. Qui sta, infatti, il pericolo di fondo
dell’attrazione magnetica che spinge, l’uno verso l’altra, razionalismo tecnocratico
ed estetica surrealista: quello di essere attori gemelli di un indebolimento senza
precedenti dell’Io. Solo apparentemente opposte, infatti, queste due tradizioni
culturali si sovrappongono nel surrealismo di massa, oltre che per la comune
matrice nichilista, soprattutto per il moto di sradicamento che impongono, come
permanente rivoluzione delle tecniche razionali e dei linguaggi espressivi, alle
forme comuni della vita quotidiana. E lo sradicamento, proprio come insegna
Simone Weil in un lontano saggio tradotto da Fortini31, è la forma più potente e
pericolosa di colonizzazione. Vale la pena di citare quasi per intero,
dall’introduzione del 1977, il passaggio centrale di questo ragionamento:
i procedimenti fondamentali del Surrealismo […] sono penetrati tanto profondamente ed
estesamente nella esperienza così detta quotidiana da dover essere considerati come la sola
forma veramente corrispondente e conseguente alla mutazione tecnologica del nostro
secolo. Nessuno nega che quella mutazione abbia operato e continui ad operare trasferendo
la razionalità (e l’irrazionalità) scientifico-tecnologica in modi di essere mentali,
atteggiamenti ideologici, criteri di valutazione; però, al livello delle percezioni sensibili e
del codice delle immaginazioni e dei desideri […] i comportamenti mentali e linguistici che
il Surrealismo ha indicato come valori ed ha organizzato (automatismi psichici e verbali,
sovvertimento dei rapporti spazio-temporali, esaltazione dell’arbitrio eccetera) sono
penetrati nella generalità dei nostri contemporanei soprattutto attraverso le strumentazioni
dominanti, visive e verbali, del secolo; cioè la televisione e la pubblicità. La «verità»
dell’universo tecnologico (di prodotti, profitti e merci) non consiste, oggi è chiarissimo,
nella massificazione temuta dai pensatori e dagli utopisti della prima metà del secolo ma
nel suo contrario, nell’onirismo e nell’immediatismo, che sono stati rivestiti di dignità
30
Ivi, pp.90-91
S.Weil, L’enracinement. Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain,
Edition Gallimar, Paris 1949 (tr.it La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei
doveri verso l’essere umano, Edizioni Comunità, Milano 1954).
31
15
etico-politica man mano che si introducevano nella percezione spazio-temporale del
32
quotidiano.
Nell’interpretazione di Fortini, il surrealismo di massa va dunque letto
come «la solo forma veramente corrispondente e conseguente alla mutazione
tecnologica del nostro secolo». Contro il senso comune scientifico, che da Max
Weber eredita una lettura del progresso e della modernità come estensione della
razionalizzazione ad ogni ambito della vita umana, Fortini oppone, ancora una
volta, Marx e la sua analisi dello sviluppo del capitale come razionalizzazione
irrazionale della società. Perché quello che i tardi anni Settanta rendono visibile è
proprio lo scatenamento di questa contraddizione originaria. Con la sconfitta
politica del lavoro, infatti, la logica dell’accumulazione può ormai avanzare pura,
libera dai vincoli storici, politici, antropologici che, ancora un decennio prima,
quanto meno in Italia, ne frenavano parzialmente il moto. E avanzando pura, nel
suo inesausto tentativo di plasmare a propria immagine e somiglianza la società di
cui si nutre, può ora dispiegare, sempre più chiaramente, la contraddizione di fondo
che la muove.
Di quest’ultima, il surrealismo di massa è rispecchiamento oggettivo e
insieme dissimulazione. Perché per un verso è l’effetto ultimo e combinato di una
razionalità piegata a fini irrazionali; per un altro, è la forma simbolica attraverso
cui questo moto di sviluppo autodistruttivo si dissimula. Strumento potente di
seduzione e di controllo, il surrealismo di massa non a caso lusinga l’impotenza
visionaria di un individualismo nichilista. Perché quello che oggettivamente la sua
logica separa è proprio il rifiuto del presente, vissuto come libertà personale di
trasgredire, dal concetto, accuratamente revocato, di giustizia sociale.
Qualora questi due piani distinti entrassero invece in cortocircuito, come
accadrà in Italia, seppur in modo contraddittorio, con il movimento del ’77, la
reazione dello Stato sarà durissima e mirata. Attraverso l’uso di ogni mezzo lecito
e illecito, la ribellione sociale verrà progressivamente trasformata in un vero e
proprio capro espiatorio. E una volta rimossa la dimensione politica, forzatamente
fatta coincidere con terrorismo e insubordinazione violenta, l’individualismo
trasgressivo lusingato dai media potrà definitivamente essere incoronato nei confini
imprigionati del suo regno: il consumo.
VIII. Una frattura storica
Veniamo, dunque, all’anno di questa seconda introduzione che, come si è
visto, esce proprio nel 1977. Va ricordato che, nello stesso anno, Fortini pubblica
altri due volumi. Il primo, presso le edizioni Laterza con il titolo I poeti italiani del
32
MS2, pp.21-22
16
Novecento, è un saggio critico, con antologia di testi, sulla storia della poesia
italiana contemporanea. Il secondo, che invece esce per Einaudi, si intitola
Questioni di Frontiera ed è la sua terza raccolta di saggi politici, organizzata su un
modello ormai collaudato di scrittura militante e critica della letteratura. E tuttavia
proprio questo modello classico fortiniano, voluto e praticato come forma di lavoro
intellettuale interno, anche se non organico, ad un movimento politico, verrà
abbandonato proprio a partire da quest’anno.
Pur mantenendo costante uno sguardo saggistico capace di rifrangere nei
pretesti la totalità del discorso politico, la scrittura di Fortini si organizzerà ora in
due forme relativamente distinte e dominanti. Per un verso, infatti, Fortini sceglierà
l’intervento giornalistico come critica del presente, proseguendo l’innovazione
formale del genere inaugurata dall’ultimo Pasolini con gli scritti corsari e luterani.
Insistenze ed Extrema ratio analizzano, anche se in modo più circostanziato, il
problema che abbaglia, fino al delirio profetico, gli ultimi lavori dell’amato/odiato
Pier Paolo: la mutazione dell’Italia. L’altro versante del suo lavoro vira invece, più
decisamente, verso la teoria pura: saggi come Classico o la voce Letteratura per
l’Enciclopedia Europea, mostrano un Fortini ormai quasi pacificato nel suo ruolo
di teorico della letteratura e professore universitario; e tuttavia, letti insieme ai
pezzi giornalisti coevi, questi stessi saggi scientifici rivelano molto chiaramente il
presupposto politico che li muove: la ricerca di antidoti di fronte all’avanzare di
quello che, anche ai suoi occhi, ormai appare come una vera e propria mutazione.
L’anno che simbolicamente segna il passaggio fra queste due diverse
modalità - ben inteso: già presenti nel lavoro intellettuale di Fortini, ma ora
dominanti – è il 1977. Per Fortini, questo è un anno che segna una frattura
periodizzante. Lo può dimostrare, come esempio fra tanti, il titolo di un testo
poetico compreso nella terza sezione di Composita Solvantur, che è la sua ultima
raccolta di poesie pubblicata in vita, intitolato, emblematicamente: Italia 1977199333. È una poesia su cui torneremo. Per ora basti notare che definisce l’inizio e
la fine di un periodo storico, un quindicennio tutto sommato omogeneo, il cui
punto di partenza è, appunto, il 1977. La poesia descrive la condizione sociale e
politica di questi anni come tragica, bloccata e priva di soluzioni immediate. Da
una parte, infatti, separate dall’Io poetico («ma voi senza parlare/mi rispondete»)
ci sono le nuove generazioni, il loro movimento di contestazione e la feroce
reazione politica che su di loro si è scatenata:
Ma voi senza parlare
mi rispondete: «Non ricordi
quel ragazzo sfregiato
la sera dell’undici marzo 1971
che correva gridando
“Cercate di capire
questa sera ci ammazzano
33
F.Fortini, Composita Solvantur, Einaudi, Torino 1994
17
cercate di
capire!»
La gente alle finestre
applaudiva la polizia
e urlava: “Ammazzateli tutti!”
Non ti ricordi?»
Dall’altra parte, senza alcuna possibilità di trasmissione di memoria e saggezza
politica, c’è invece l’Io poetico, ora completamente isolato, che descrive con
raccapriccio le forme di una contestazione radicale a suoi occhi insensata,
autodistruttiva e priva di disegno:
Hanno portato le tempie
al colpo di martello
la vena all’ago
la mente al niente.
Per le nostre vie
ancora rispondevano
a pugno su gli elmetti.
O imparavano nelle cantine
come il polso può resistere
allo scatto
dello sparo.
L’Io poetico ammonisce i più giovani:
Compagni.
Non andate così.
Ma il suo invito cade nel vuoto. Se li riconosce come «compagni» di un
movimento molto più grande, di cui anche lui stesso è parte, loro non lo possono
fare. È avvenuto qualcosa che li ha separati, annientando il legame fra le
generazioni. L’Io poetico può solo ricordare («Si, mi ricordo.») che le forme
insensate di ribellione che quei ragazzi hanno scelto e praticano sono effetto, e non
causa, di un moto di reazione che li sovrasta. Di qui l’antinomia: quello che appare
in superficie come rifiuto radicale e violento del presente è in realtà un moto coatto
di identificazione con l’aggressore.
18
IX. Rivoluzione passiva
Il divenire maggioritario di questo tipo di opposizione, su cui la poesia
dispera, segna così la fine di un’intera stagione politica; e l’inizio di una nuova.
Con la sua implacabile chiaroveggenza Fortini intuisce, infatti, che le nuove forme
di contestazione, ben incarnate dal movimento del ’77, sono in realtà una
trappola34, esattamente come, negli stessi anni, lo sarà la lotta armata. Perché sono
forme politiche indotte, subite, escogitate anzitutto per creare un capro espiatorio
capace di trasformare la reazione, fin qui ben riconoscibile nel suo amalgama di
violenza militare, stragismo, crisi e ristrutturazione economica, in una vera e
propria rivoluzione passiva. È come se l’Italia confermasse, infatti, ancora una
volta, questo antico schema gramsciano: una trasformazione politica e sociale
imposta con la violenza, per stabilizzarsi, deve essere capace di alzare il livello
dello scontro, ma dissimulandolo. Deve essere capace, cioè, di invadere la vita
quotidiana, di organizzare la cultura e l’immaginario; di conquistare, in poche
parole, l’egemonia.
Tenendo fermo questo ragionamento, non stupisce che Fortini legga il
modello di rifiuto del presente, che gli autonomi esibiscono, come una forma di
individualismo trasgressivo contigua a quella prodotta in serie, negli stessi anni, dal
surrealismo di massa. In fondo, la nuova contestazione non fa altro che declinare,
anche se in modo vistosamente aggressivo, la medesima antropologia libertaria e
nichilista. Come non pochi, del resto, sono anche i punti di contatto con la vecchia
tradizione surrealista, di cui è inconsapevolmente figlia adottiva35.
34
A distanza di quarant’anni le intuizioni di Fortini sono state ampiamente confermate
dalla letteratura storiografica, dal lavoro parlamentare della commissione stragi, dallo
studio degli archivi NATO, ora parzialmente accessibili. Cito, di una bibliografia molto
vasta, alcuni testi decisivi: Come studiare il terrorismo e le stragi. Fonti e metodi, (a cura
di) C.Venturoli, Marsilio, Padova 2001; G.Fasanella, G.Pellegrino, C.Sestieri, Segreto di
Stato. Verità e riconciliazione sugli anni di piombo, Sperkling & Kupfer, Milano 2008;
U.Gentiloni Silveri, L’Italia sospesa. La crisi degli anni Settanta vista da Washington,
Einaudi, Torino 2009; A.Burgio, Senza democrazia. Un’analisi della crisi, Deriveapprodi,
Roma 2009.
35
La cultura di questo movimento, se osservata un po’ più da vicino, appare in realtà come
un amalgama composito. Dal punto di vista politico, fanno scuola l’Autonomia e le sue
forme di lotta (rifiuto del lavoro, guerriglia urbana, occupazioni di spazi pubblici e di case);
ma un ruolo non secondario lo avranno pure il femminismo e il movimento di liberazione
omosessuale. Per un verso, è una politica di contestazione aggressiva, violenta e talora
contigua alla lotta armata; per un altro, è più simile al modello dei movements americani,
vissuto come lotta, anche radicale, per la conquista dei diritti civili della persona. Di area
anglosassone è anche la sua cultura dominante, soprattutto musicale. Basti pensare
all’importanza che avrà la diffusione, proprio nel 1977, del British e dell’American Punk
come suo specifico elemento di distinzione generazionale. A cui, per altro, contribuirà non
poco l’esplosione del fenomeno delle radio libere. Ma saranno i raduni organizzati sul
19
In un articolo pubblicato sul Manifesto, e intitolato «Note per una falsa
guerra civile», Fortini mostra molto chiaramente la genealogia di questa nuova
contestazione. Proprio come il movimento di Breton, infatti, gli autonomi venerano
la trasgressione come autenticità, l’informe come immediatezza, la vita sociale
come flusso indistinto di poteri, sogni, desideri e azioni. Nella loro idea di
emancipazione è come se si saldasse, in una sorta di cortocircuito, il fallimento
della politica dei movimenti antisistemici, di cui però ereditano il concetto di
giustizia sociale, e l’antropologia nichilista del surrealismo di massa. La loro
pretesa secessione dal presente mostra così, nella contraddizione mascherata a cui è
costretta, una verità storica. Può essere letta, infatti, come un’inconsapevole presa
d’atto che le forme tradizionali dell’agire politico novecentesco sono ormai arrivate
al capolinea.
Ed è proprio questa la ragione per cui il movimento del ’77 chiude
un’intera stagione di lotte politiche e ne apre una nuova; che però della politica farà
forzatamente a meno. Il suo anticonformismo, infatti, non potrà non opporsi al
riflusso istituzionale di gran parte della nuova sinistra italiana nel Pci, dopo il
1976; così come poco potrà sopportare le forme caricaturali di organizzazione
minacciosamente esibite dalla avanguardie extraparlamentari. Nello stesso tempo
però, il concetto di giustizia sociale a cui gli autonomi non rinunciano, trasforma
l’orizzonte individuale della trasgressione, a cui sarebbero destinati, in una forma
di contestazione generale della società. Si potrebbe dire, in una battuta, che, per
Fortini, quello dell’autonomia è un passo giusto, ma nella direzione sbagliata:
La più recente opposizione, area autonoma (erede di tutto un decennio «situazionista»), si
fonda sul rifiuto di distinguere fra la sfera del sociale come immediatezza e del politico
come mediazione-organizzazione. Ha compreso che da più di un secolo il volontarismo
politico (giacobino, poi delle sètte) ha contraddetto quel consiglio di prudenza ai
rivoluzionari che è il marxismo; che il genio di Lenin, il suo «tanto peggio per i fatti» ha
avuto torto. Sa che l’organizzazione è una trappola. Vi ha veduto cadere tutte le formazioni
nuove. Non vuole farsi identificare con un programma, un comitato, una sede. Vuole
coincidere con il «movimento»: come se la vita fosse l’informe. È il suo tributo alle
tragiche coglionerie delle avanguardie. È il sogno dell’illimitata adolescenza che torna a
proporsi; come nel 1968 e con i medesimi pessimi maestri, i surrealisti che non volevano
36
diventare adulti e sono solo invecchiati .
Come si vede, il movimento del ’77 eredita dai surrealisti la medesima
capacità, quasi epidermica, di percepire come errore irredimibile la deformazione
burocratica che la tradizione comunista ha imposto alle forme dell’agire politico.
modello Woodstock, nel 1975 e nel 1976, dalla rivista Re Nudo al Parco Lambro di Milano,
a conferire al movimento il suo stile più riconoscibile: vale a dire l’anticonformismo
estremo vissuto come modello politico di emancipazione dell’individuo. Vale la pena
indicare, sull’argomento, un volume collettaneo che ripercorre, in modo approfondito, la
storia del movimento del ’77, seppur seguendo una linea interpretativa distante da quella di
Fortini qui riproposta: Settantasette. La rivoluzione che viene, (a cura di) S.Bianchi –
F.Caminiti, Deriveapprodi, Roma 2004.
36
F.Fortini, Disobbedienze, Manifestolibri, Roma 1997, I, p.168
20
Ma, come Fortini insegna, le tradizioni non scelte si subiscono. E dagli stessi
maestri gli autonomi ereditano così anche l’errore di fondo. Vale a dire, una lettura
ingenua della modernizzazione, di fatto incapace di riconoscere, nell’apologia
dell’informe, del vitalistico e dell’immediatezza a cui induce, la sua vera logica
disgregativa. Qui sta, come è ovvio, il fraintendimento più grave, nonché la
sussunzione tragicamente prevedibile di questo tipo di contestazione in una forma
di individualismo depotenziato a consumo:
Nelle pulsioni istintuali, nel desiderio – ma anche nei bisogni -, nella carenza di essere,
nella vocazione a distruggere e a morire, piuttosto che nella negazione cosciente e critica è
oggi tendenza corrente a identificare quella che Hegel ebbe a chiamare «l’immane potenza
del negativo». E la «rivoluzione» sociale è affidata (o meglio: non è affidata affatto, se non
a fior di labbra) a queste forze e pulsioni, alla razionalità, che si vorrebbe oggettiva e solo
apparentemente irrazionale e cieca, dei «dannati della terra». Di qui agli attuali ideologi del
desiderio dissidente il passo è breve. E tutto lo spazio lasciato alla gestione eternamente
37
disumana della «vecchia» politica viene così occupato dal peggio.
Dovrebbe essere chiara, a questo punto, la ragione profonda che spinge
Fortini alla scrittura di questa seconda introduzione al Movimento Surrealista.
Mentre ricostruisce i passaggi della sua metamorfosi da corrente d’avanguardia a
forma di vita comune sotto il capitalismo finanziario, la sua analisi vuol mostrare
l’ennesima, e forse più pericolosa, deformazione a cui è stata sottoposta quell’idea
di soggetto politico, inteso come lavoro comune di emancipazione cosciente, così
faticosamente costruita, anche grazie al suo lavoro, negli anni dei movimenti
antisistemici. Deformazione che, inconsapevoli, le nuove generazioni ereditano,
come chiaramente mostra il moto di contestazione che dall’anno di questa seconda
introduzione prende il nome.
Il movimento del ’77, come si è visto, chiude un periodo storico, mimando
i gesti di una tradizione che non conosce e che per questo non può correggere, né
vendicare. Nello stesso tempo però, contro se stesso, inaugura una nuova stagione
politica: la feroce repressione che subisce trasformerà, infatti, perfino quella vaga
idea di giustizia sociale da lui ancora malamente difesa, in un rimosso culturale
profondo e duraturo. Mentre le forme simboliche del suo individualismo libertario,
dopo l’iniziale cortocircuito con una società ancora diffusamente politicizzata,
torneranno a funzionare in modo corretto: vale a dire come semplice conversione
tecnica del conflitto sociale in innocua trasgressione individuale.
37
MS2, p.18.
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X. La mutazione
Così finisce l’ultima incarnazione politica del movimento surrealista. E
con la fine del movimento del ’77, si può sostenere, credo senza troppi problemi,
che l’Italia entri definitivamente nella post-modernità. Nessun altro paese
occidentale uscì dalla crisi dei lunghi anni Settanta mutando la propria fisionomia
generale con un tale cumulo di violenza militare subita, di disgregazione sociale e
di corruzione istituzionale:
Qualche volta penso a tutti quelli che da più di un decennio, ascritti alla criminalità politica,
sono già condannati o in attesa di giudizio oppure di qualche legge d’oblio […]; penso a
inquisiti e inquisitori; ai sospettati e ai loro fratelli; alle madri degli ammazzati; ai fermati e
alle loro mogli; ai rilasciati e ai loro datori di lavoro; ai licenziati e ai loro delegati
sindacali. Quanti sono! Dovete aggiungere, sia chiaro, tutti i settori e i gradi della
amministrazione che si affaticano per le carte e i corpi di tutti costoro; e i magistrati, i
poliziotti e i carabinieri assassinati e i loro figli e famiglie. E poi le folle dei giovani senza
lavoro, dei cassintegrati che perdono il proprio passato e il mestiere, dei marginali che
perdono l’orizzonte, dei drogati che conversano con il demonio: mai era stata nel nostro
paese così densa e oleosa la spremitura sociale, ormai color pece, crescente, stabilizzata,
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accettata.
E tuttavia non può neppure essere dimenticato che l’eredità vera di quella
stagione di lotte va cercata, anche come espressione momentanea di un mutato
rapporto di forze, in una profonda democratizzazione degli apparati ideologici
dello stato (scuola, università, magistratura, fisco, polizia, ospedali, manicomi).
Processo che può essere ben compendiato in due straordinarie conquiste
legislative: lo Statuto dei lavoratori e la legge 180. Il problema, semmai, fu che
quel moto di trasformazione, per precise ragioni e vincoli internazionali, non
poteva superare un certo limite. Non poteva cioè raggiungere né i centri di
comando della macchina dello Stato; e neppure i centri di selezione delle sue vere
élite.
Nel periodo che va dal ’63 al ’73 si erano determinate nel nostro paese le condizioni perché
una gran parte degli italiani politicamente attivi uscisse dai termini politici stabiliti dalle
organizzazioni sindacali e politiche della sinistra storica, dominanti già nel ventennio
successivo alla guerra. La classe politica dominante, quindi anche buona parte della classe
politica della sinistra storica, ha combattuto quella realtà con tutti i mezzi, legali e illegali;
dal terrorismo di stato allo sfruttamento di quello di altra origine, dalla provocazione ai
normali metodi politici. Ciò nonostante la spinta fu così forte da determinare alcune
fondamentali vittorie civili e da accettare di confluire nel ’76 in un voto di fiducia delle
giovani generazioni al maggior partito della sinistra storica. La risposta è stata per un verso
il terrorismo senza disegno politico, la degenerazione intellettuale e morale, la diffusione
del cinismo e della droga, la politica di unità nazionale, la legislazione speciale, le stragi, i
poteri occulti. A questo punto, chi condivida anche solo per sommi capi questo schema non
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F.Fortini, Insistenze, Garzanti, Milano 1985, pp.263-264.
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può accettare di limitare il discorso a questa o a quella puntualizzazione storica. Capire
indietro vuol dire capire avanti, avere dei reali progetti politici, avere la pazienza di
spiegarli; mi rifiuto di rispondere a chi mi chieda di dare una valutazione morale di questo
o di quel comportamento, perché l’esecrazione non è un giudizio né politico, né morale, è
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un atto di propaganda.
Gli ultimi scritti di Fortini, quelli saggistici, ma - con i dovuti giochi di
rifrazione propri del genere - in parte anche quelli poetici, possono essere
interpretati come tentativi di trovare una ragione a questa sconfitta e al suo
conseguente collasso sociale. Letti oggi molti dei suoi saggi appaiono come referti
di un paesaggio devastato. Perché anche se ostinatamente invitano «ad un buon uso
delle rovine»40 sottendono sempre uno sguardo tragico sul presente. Sono testi che
ragionano a fondo su una sconfitta violenta. Ma ragionare a fondo su una sconfitta
violenta significa anche assumersi la responsabilità politica degli errori commessi.
E Fortini non era certo un ingenuo, né tanto meno un velleitario. Sapeva cos’erano
i rapporti di forza e che una politica incapace di calibrarli era destinata, nella
migliore delle ipotesi, all’irrilevanza. Per questo non era un minoritario per scelta,
ma un militante che sapeva stare in minoranza. Ed è una cosa ben diversa.
Se cercò negli ultimi anni di capire le ragioni della sconfitta dei movimenti
italiani, sapeva che una politica all’altezza del presente andava ripensata da capo,
fin dalle radici. E il primo passo da fare, come sempre è stato nella sua rigorosa
autoeducazione politica, non poteva che essere quello di attraversare le false
immagini di Sé ora imposte dall’unica vera grande narrazione postmoderna: il
surrealismo di massa.
Il surrealismo, amputato della sua utopia e speranza maggiore, si è dissolto, religio inferior,
in una società divisa in se stessa, conferendo un codice e un linguaggio ad una delle due
facce di quella società, e, quindi, una giustificazione all’altra e dominante, ossia la ratio
tecnologica. La sua eredità deve essere assunta e a un tempo internamente e risolutamente
consumata e mutata. Superare definitivamente il Surrealismo e il suo errore antropologico;
l’avanguardia e il suo errore morale; l’utopia e il suo errore pseudo religioso: questi sono i
compiti che troppo si è tardato ad adempiere e che non debbono più a lungo farci mancare
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l’esistenza.
39
F.Fortini, Violenza e non violenza in Id., Non solo oggi. Cinquantanove voci, Editori
Riuniti, Roma 1991, pp. 302-303.
40
Come ironicamente indica il sottotitolo della sua ultima raccolta di saggi politici: Id.,
Extrema ratio. Note per un buon uso delle rovine, Garzanti, Milano 1990.
41
MS2, p.26
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