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Gli “Apologi centum” di Leon Battista Alberti. Saggio di esegesi

2016, Giornale storico della letteratura italiana

This essay (which complements the article entitled Gli Apologi di Leon Battista Alberti. Preliminari all’edizione critica, in Cum fide amicitia. Per Rosanna Alhaique Pettinelli, Roma, Bulzoni, 2015, pp. 155-175) is an applied methodological analysis of a work that radically transformed the age-old ‘genre’ of the fable. The study focuses in particular on XXVII (ex XXXII), LXXIV and LXXV (all published in a critical edition along with corresponding paratexts) and involves an examination of all pertinent bibliographical references to date (i.e. editions, translations and interpretations), textual criticism, constant attention to structure and language, the dismantling of texts, and inter- and intratextuality, in an endeavour to identify the hypotexts and reused materials fashioned in new constructions and thus unveil the overall ‘design’ at work. Hence, the analysis is anchored in objective data. The three texts are re-examined from a humoristic perspective, thereby providing a novel reinterpretation, and Alberti’s ‘reform’ (i.e. using a pithy form to convey a profound thought) reveals itself to be all the more complex and subversive. The Apologi centum are truly one of the great contributions made by Italian Humanism to modern European literature, and yet at the same time they convey a surprising timelessness

CENTRO DI STUDI SUL CLASSICISMO MODERNI e ANTICHI Quaderni del Centro di Studi sul Classicismo diretti da Roberto Cardini II serie, III (2021) CENTRO DI STUDI SUL CLASSICISMO MODERNI e ANTICHI Quaderni del Centro di Studi sul Classicismo diretti da Roberto Cardini II serie, III (2021) Pubblicazioni del CENTRO DI STUDI SUL CLASSICISMO Prato Direttore Roberto Cardini Vicedirettore Mariangela Regoliosi Comitato scientifico Gabriella Albanese, Lucia Bertolini, Luca Boschetto, Luciano Canfora, Stefano Carrai, Hélène Casanova Robin, Jean-Louis Charlet, Donatella Coppini, Giuliana Crevatin, Francesca Fedi, Mirella Ferrari, Elena Giannarelli, Stefano Grazzini, Luigi Guerrini, Frank La Brasca, Clementina Marsico, Ruth Miguel Franco, Michel Paoli, Andrea Piccardi, Francisco Rico, Marielisa Rossi, Florian Schaffenrath, Natascia Tonelli, Claudia Villa, Paolo Viti Caporedattore Clementina Marsico Redazione Anna Gabriella Chisena, Alessio Patané PER CONTATTI E INVII: Direzione - Redazione Centro di Studi sul Classicismo, Via Luigi Muzzi, 38, 59100 Prato Tel./Fax 0574.607134 - E-mail: [email protected] http://www.centrostudiclassicismo.it Indirizzo postale: Ufficio Postale Firenze 18, casella 18104 Gli scritti proposti per la pubblicazione sono sottoposti a double blind peer review. www.polistampa.com © 2021 LEONARDO LIBRI srl Via Livorno, 8/32 - 50142 Firenze - Tel. 055 73787 [email protected] - www.leonardolibri.com ISBN 978-88-596-2230-7 TEMA 1 LEON BATTISTA ALBERTI ROBERTO CARDINI SUI PARATESTI DEGLI APOLOGI CENTUM DI LEON BATTISTA ALBERTI - II 1. Nella prima puntata della presente ricerca, ho introdotto una distinzione non saprei se e in quale misura nuova, ma comunque importante. Ho segnalato che nelle opere letterarie non esistono soltanto i paratesti, che essendo i «dintorni del testo», tutti sanno vedere; contigui a questi espliciti e spesso non meno significativi di questi, anche esistono i paratesti impliciti, zone del testo, e testo a tutti gli effetti, ma dotati al tempo stesso di una manifesta valenza paratestuale, tant’è che proseguono, precisano, completano, approfondiscono i paratesti espliciti.1 Ho di conseguenza suddiviso la trattazione in due puntate. Nella prima ho citato, tradotto2 e minuziosamente analizzato i quattro paratesti (titolo, dedica, lettera di Battista a Esopo, risposta di Esopo) sui quali da sempre si era fermata l’attenzione, ma che secondo me non erano stati interrogati a dovere, e a questi ne ho aggiunti due (subscriptio e numerazione romana e progressiva dei cento apologhi) da sempre sfuggiti; ma anche mi sono chiesto quale fosse stata la loro fortuna in età umanistico-rinascimentale e quale sia il posto dovuto alla centuria albertiana nella storia millenaria dell’apologo esopico. Ho invece riservato a questa seconda puntata la trattazione dei paratesti impliciti, paratesti che si annidano in numerosi apologhi e che pur essendo, ripeto, apologhi a tutti i titoli e quindi autonomi, sono al tempo stesso eteronomi, perché non soltanto si riallacciano, con tutta evidenza, ai paratesti espliciti, ma dipendono, nelle loro motivazioni e finalità, da questo o quel motivo dei paratesti espliciti. Talora anzi a queste due aggiungono una terza né meno fondamentale funzione: sono porzioni dell’architettura dell’opusculum. E sono tali perché, per l’Alberti, l’edificio ben costruito è un organismo animale 1 R. CARDINI, Sui paratesti degli Apologi centum di Leon Battista Alberti - I, «Moderni e Antichi», s. II, 2 (2020), pp. 213-65 (d’ora in poi CARDINI, Sui paratesti - I): 214-16. 2 CARDINI, Sui paratesti - I, pp. 214-16 e nn. 5-7. 7 ROBERTO CARDINI («veluti animal aedificium»). Ma siccome, per lui, anche i testi letterari sono edifici, sono i «privati diversori» dei loro autori, ne segue che pure loro sono organismi animali retti da geometrie interne e corrispondenze fra le parti.3 Mi occuperò pertanto (non però separatamente, bensì intrecciandole) di due questioni: i rapporti, nella centuria, fra testi e paratesti, e l’architettura dell’opera. A quanto ne so, è, per gli Apologi centum, una tematica strutturale tuttora, stranamente, allo stato vergine. *** 2. Della prima questione, nei miei studi sull’Alberti e su altri scrittori, mi sono già ampiamente occupato, ma in modo pragmatico. In ordine all’Alberti zone testuali con funzione paratestuale si riscontrano in diverse sue opere. Così come differenti sono i tipi di contaminazione. Nella Familia il testo con funzione di paratesto assume spesso la forma di un elenco bibliografico (principali testi impiegati per la stesura dei singoli libri).4 Nelle Intercenales le metamorfosi sono invece assai più complesse, tanto complesse e raffinate da aver tratto in inganno per secoli gli studiosi. Emblematico il caso del secondo paratesto del libro primo. Questo paratesto, che ha un titolo proprio (Scriptor), sembra a tal segno un testo come gli altri, da essere stato ininterrottamente battezzato la prima intercenale del libro primo.5 L’apologo è in quest’opera un genere prediletto, fa la sua priCARDINI, Sui paratesti - I, pp. 227-28. Il “catalogo” degli autori che hanno trattato di problemi relativi alla famiglia e all’educazione («Arete fra’ Greci Platone, Aristotele, Senofonte, Plutarco, Teofrasto, Demostene, Basilio, e tra’ Latini Cicerone, Varrone, Catone, Colomella, Plinio, Seneca e molti altri») e la magra “bibliografia” esistente de amicitia («Né io a te negherei, Lionardo, e’ precetti antiqui assai essere utilissimi, né però ti concederò che in questo artificio siano quanto vi desidero scrittori molto copiosi; già che oggi, come tu sai, troviamo in questa materia de’ nostri scrittori non molti più che solo Cicerone, e in qualche epistola Seneca; e de’ Greci hanno Aristotele, Luciano») sono rispettivamente calettati a circa un terzo del II e del IV libro familiare (L.B. ALBERTI, Opere volgari, 3 voll., a cura di C. GRAYSON, Bari, Laterza, 1960-1973 [d’ora in poi ALBERTI, Opere volgari], I, pp. 101.34-36, 286.31-36). 5 Scriptor «prima intercenale del libro primo» è una clamorosa bevue risalente a Girolamo Mancini (Vita di Leon Battista Alberti, seconda edizione completamente rinnovata con figure illustrative, Firenze, Carnesecchi, 1911, p. 159), e da allora è sempre stata ripetuta, senza eccezioni, da tutti gli studiosi dell’Alberti (cfr., ad es., L.B. ALBERTI, Intercenales, a cura di F. BACCHELLI e L. D’ASCIA, pre3 4 8 SUI PARATESTI DEGLI APOLOGI CENTUM DI LEON BATTISTA ALBERTI - II ma apparizione nel libro secondo, e poi crescit eundo, fino ad occupare da solo l’intero libro decimo. Deborda anzi, dal II libro in poi, nei paratesti. Che sono infatti, come vuole la tradizione esopica, quasi tutti bipartiti: all’apologo segue l’epimitio, che è una fondamentale dichiarazione di poetica e al tempo stesso un intervento sull’ufficio della letteratura. Ma queste dichiarazioni e questi interventi non hanno una forma propria (e meno ancora la forma che, di solito, hanno i paratesti), hanno la forma stessa di uno dei generi sperimentati nel testo. C’è pertanto una non infrequente contaminazione, ed anzi un’osmosi fra parti dell’opera che secondo i maestri dello strutturalismo sarebbero autonome e separate, e che tali dovrebbero essere considerate anche in sede critica. Un altro esempio concerne l’interpretazione umoristica dell’Alberti, e il ruolo che gli spetta nella storia dell’umorismo moderno. Contrariamente a quello che di recente si è sostenuto, io non ho mai additato in Defunctus «la base della» mia «interpretazione di Alberti».6 Il fondamento l’ho ripetutamente additato nel passo su Lepidus dell’intercenale Corolle,7 laddove Il morto l’ho definito «il banco di prova» per saggiare e datare il suo specifico umorismo.8 Dunque l’essenza del principale contributo dato dall’Alberti alla moderna letteratura europea non è in uno dei numerosi paratesti delle Intercenales o del Momus, è in un testo, e per l’esattezza in una zona paratestuale della seconda intercenale del libro quarto.9 messa di A. TENENTI, Bologna, Pendragon, 2003, p. 7). Si è anzi ritenuto di reiterarla anche dopo che, da parte mia, è stata dimostrata non solo la totale infondatezza di quello scambio fra paratesto e testo, ma le gravi conseguenze che necessariamente ne seguono in ordine alla comprensione dell’intero libro primo: cfr. R. CARDINI, Onomastica albertiana. Cosa è Libripeta, «Moderni e Antichi», s. II, 3 (2021), pp. 45-69 (d’ora in poi CARDINI, Cosa è Libripeta): 46-47, n. 6. 6 M. PAOLI, Incoerenze nel Defunctus?, in L.B. ALBERTI, Intercenales. Eine neulateinische Kurzprosasammlung zwischen Antike und Moderne, hrsg. von H. WULFRAM, unter redaktioneller Mitarbeit von M. BALTAS − K. GERHOLD − G. SCHÖFFBERGER, Stuttgart, Franz Steiner Verlag, 2021, pp. 269-83: 280. 7 R. CARDINI, Alberti o della nascita dell’umorismo moderno, «Schede umanistiche», n. s., 1 (1993), pp. 31-85 (d’ora in poi CARDINI, Alberti e l’umorismo): 54-60; ID., Alberti scrittore e umanista, in La vita e il mondo di Leon Battista Alberti. Atti dei Convegni internazionali del Comitato Nazionale VI centenario della nascita di Leon Battista Alberti, Genova, 19-21 febbraio 2004, Firenze, Olschki, 2008, pp. 23-40: 29-34; ID, Comicità e umorismo dal Boccaccio all’Alberti, «Albertiana», 22, 2 (2019), pp. 59-69 (d’ora in poi CARDINI, Comicità e umorismo): 66-67. 8 CARDINI, Alberti e l’umorismo, p. 79. 9 L.B. ALBERTI, Intercenales, introduzione, edizione critica e commento a cura di R. CARDINI, 9 ROBERTO CARDINI In ordine a scrittori diversi dall’Alberti addurrei un saggio recente in cui ho dimostrato che, nel Decameron, la più rilevante e chiara definizione della comicità (di cosa si ride e perché), e dunque il fondamento estetico della comicità dell’opera e insieme la chiave offerta dal Boccaccio per individuare, capire, delimitare tale comicità, non si trovano in uno dei tanti paratesti, si trovano all’interno di un testo, nello spazio liminare dell’ultima novella della V Giornata.10 Qui invece intenderei porre la questione in termini teorici. E dunque ab Iove principium. Giove è ovviamente Gérard Genette, cui si deve non solo il vocabolo (soglie, paratesti) ma la prima teorizzazione e soprattutto un’attenta classificazione dei paratesti e della loro funzione. L’opera è Seuils e nonostante si tratti di un libro di oltre trent’anni fa,11 resta fondamentale, se non altro perché, come ho detto, è proprio a Genette che si deve l’introduzione, ormai universalmente accolta, del termine “paratesto” per indicare “i dintorni del testo”. È un libro che tuttora può insegnare molte cose. Gli si possono però anche muovere alcune obiezioni. Ad es. l’intera documentazione, o quasi, è tratta dalla sola letteratura francese dell’Otto-Novecento. Del tutto o quasi assenti sono le due letterature classiche e la letteratura italiana, che, com’è noto, è alle origini delle moderne letterature europee. Quasi che i paratesti li avessero inventati i moderni, in particolare i romantici, e segnatamente i francesi. Ma questa ed altre che ometto sono questioni secondarie. Il punto è altrove. Genette, in un libro di oltre 400 pagine, non si occupa mai, dico mai, e neanche accenna all’eventualità che la soglia si proietti nell’interno dell’edificio, e che il dentro dell’edificio possa a sua volta proiettarsi sulla soglia. Donde l’interrogativo, a mio avviso non solo opportuno, ma necessario: è proprio vero che la manifesta ditraduzione a cura di M.L. BRACCIALI MAGNINI, in L.B. ALBERTI, Opere latine, a cura di R. CARDINI, Roma, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, 2010, pp. 167-818 [d’ora in poi ALBERTI, Intercenales]: Corolle §§ 57-75, pp. 335-36 (L.B. ALBERTI, Propos de table / Intercenales, Édition critique par R. CARDINI, Traduction de C. LAURENS, Introduction et commentaire de R. CARDINI, traduits par F. LA BRASCA, 2 voll., Paris, Les Belles Lettres, 2018, I, pp. 131-33). Lungo tutto il contributo si citerà dalla princeps del 2010 (ALBERTI, Intercenales), da tempo esaurita, ma consultabile anche in rete. 10 CARDINI, Comicità e umorismo, pp. 59-61. 11 G. GENETTE, Seuils, Paris, aux Éditions du Seuil, 1987 (trad. it. di C.M. CEDERNA, Torino, Einaudi, 1989). 10 SUI PARATESTI DEGLI APOLOGI CENTUM DI LEON BATTISTA ALBERTI - II versità fra testo e paratesti vada intesa come la intendevano gli strutturalisti, che i paratesti essendo faccenda degli autori devono essere tenuti assolutamente separati dai testi, la cui autonomia è assoluta, tant’è che vanno spiegati con se stessi, e dunque senza mai ricorrere ai paratesti? Un interrogativo da cui scaturisce l’altro: è proprio vero che testi e paratesti godano di reciproca e assoluta autonomia, e che siano pertanto incomunicabili, oppure fra testo e paratesti c’è contaminazione, travaso, addirittura osmosi? Sono interrogativi ai quali le risposte in astratto lasciano il tempo che trovano. Le uniche risposte valide le dà la pratica, l’analisi delle opere. Propongo pertanto, a mo’ di esperimento, il caso degli Apologi centum. *** 3. I paratesti veri e propri della centuria albertiana sono, sappiamo, sei. Cinque (titolo, dedica-proemio a Francesco Marescalchi, lettera di Battista a Esopo, risposta di Esopo, subscriptio), sono saldati al testo fin dalla prima redazione a noi nota, il sesto (la numerazione progressiva in numeri romani da uno a cento), fu invece aggiunto nella redazione definitiva.12 Negli Apologi centum i casi in cui si verificano, e sia pure con diversa intensità ed estensione, contaminazioni tra paratesti e testo sono assai numerosi. Ma per la dimostrazione dell’assunto, ed anche per esemplificare le varie fattispecie, undici possono bastare. Comincio dall’apologo X: Invidus a se primo inventum ignem sinu suo contegebat atque omnes eam rem latere optabat, at ignis, ustis vestibus, in medium excidit.13 12 R. CARDINI, Gli Apologi di Leon Battista Alberti. Preliminari all’edizione critica, in Cum fide amicitia. Per Rosanna Alhaique Pettinelli, a cura di S. BENEDETTI − F. LUCIOLI − P. PETTERUTI PELLEGRINO, Roma, Bulzoni, 2015, pp. 155-75: 172-74. 13 «Un invidioso scoprì per primo il fuoco. Se lo nascose in seno desiderando che la sua scoperta restasse sconosciuta a tutti. Ma il fuoco gli bruciò le vesti, venne allo scoperto e diventò di pubblico dominio». Anche in questa seconda puntata gli Apologi centum sono citati secondo il testo e la paragrafatura della nuova edizione critica da me allestita per l’Edizione nazionale. Mie sono anche le traduzioni di tutti gli apologhi citati o di altri testi, qualora non sia diversamente avvertito. 11 ROBERTO CARDINI Il tema è ovviamente l’invidia. L’apologo X dunque si connette ad un fondamentale paratesto, la lettera in cui Esopo incorona Battista nuovo caposcuola nel genere dell’apologo, e quindi necessariamente oggetto d’invidia, ma al tempo stesso si lega a numerosi testi, in particolare agli apologhi XCIII e C, che ugualmente vertono sull’invidia di cui è fatto oggetto, stavolta sotto il nome d’arte, Leone, l’autore degli Apologi. Questi richiami interni al testo hanno però anche un’altra valenza. Quando un apologo della prima decade trova esatta corrispondenza nell’ultima decade, non è un accidente, è un chiaro indizio, un sintomo che segnala e documenta un segmento di un’architettura. Suggerisce che siamo dinnanzi non ad un insieme di testi esclusivamente unificati dal “genere” (l’“apologo”), ma ad un insieme che è una costruzione retta da un ordine e governata da un disegno, un disegno e un ordine che trasformano l’insieme in un opus vero e proprio. L’apologo X ha dunque per tema l’invidia. L’invidia, lo notai molti anni fa, in Alberti è una vera e propria ossessione.14 In quest’opera è assolutamente centrale: la percorre da cima a fondo, dalla lettera di Esopo a Battista all’ultimo apologo, e di conseguenza è un motivo che coinvolge e contamina testo e paratesti. Ma la contaminazione non è una replica, è un’osmosi. I testi vanno ben oltre i paratesti, li approfondiscono, e quindi, riverberandosi sui paratesti, li arricchiscono. Nei testi l’Alberti non si limita a protestare contro gli invidi: acutamente li mette in scena, li notomizza, va alle radici della loro follia, li dileggia. Questo apologo pone quattro domande: perché l’invidioso ha il fuoco in seno, perché, avendolo scoperto, lo vuole tutto per sé, perché il fuoco lo arde, e finalmente perché, dopo averlo arso, cade per terra e quindi diventa, da proprietà esclusiva, «di pubblico dominio». Risponderei così. L’invidioso tiene il fuoco in seno perché il fuoco in seno è l’emblema dell’invidia. L’invidia è un fuoco ascoso e lento, un fuoco che non avvampa ma cova e arde poco a poco. Lo dice ad es. Ovidio: invidiosa della sorella Aglauro, «felicisque bonis non lenius uritur Herses, / quam cum spinosis ignis subponitur herbis, / quae neque dant flammas lenique tepore cremantur».15 Ma anzitutto lo dice l’Alberti. R. CARDINI, Mosaici. Il «nemico» dell’Alberti, Roma, Bulzoni, 1990 (20042), pp. 43-47. «Invidiosa dei beni di lei / arde così come fuoco sommesso agli spini virenti / che non avvampano e bruciano solo con lento tepore» (OV. Met. II 809-11: OVIDIO NASONE, Le Metamorfosi, testo latino e traduzione in versi italiani di F. BERNINI, 2 voll., Bologna, Zanichelli, 1961, I, p. 95). 14 15 12 SUI PARATESTI DEGLI APOLOGI CENTUM DI LEON BATTISTA ALBERTI - II Nella Familia l’invidia è una fiamma che s’incende,16 una fiamma che nei Profugia diventa un male occulto.17 Alla terza domanda (perché il fuoco arde l’invidioso?) l’autore risponde invece nell’Autobiografia e nel Theogenius. Nell’Autobiografia l’invidia è una «cecam …pestem et omnium insidiosissimam: eam enim per aures, per oculos, per nares, per os denique, ipsas etiam per unguiculas ad animum ingredi et cecis flammis inurere, ut etiam qui se sanos putent isthac ipsa peste contabescant».18 E questa cieca peste, precisa il Theogenius, è letale per lo stesso invidioso: «l’invidia nuoce a lui mentre che così perturbato sé stessi entro a sé compreme e agita»; cosicché a «questi maligni» «sempre interviene» che «sé stessi porgono a sommergersi in miseria».19 È del resto ben noto che invidia se ipsam cruciat.20 Quanto alla seconda domanda viene anzitutto da osservare che l’invidioso dell’apologo è una sorta di Anti-Prometeo. Il titano infatti non solo inventò il fuoco, ma lo comunicò all’uomo: sottrasse semi di fuoco alla ruota del sole e li portò sulla terra nascosti in una canna. Il parallelismo è flagrante: in entrambi i casi il fuoco è una scoperta ed è nascosto. Sennonché nell’apologo l’invidioso se lo nasconde in seno, perché lo vuole tutto per sé, nel mito, all’opposto, Prometeo il fuoco lo porta in dono agli uomini ai quali anche insegna come conservarlo,21 né teme, pur di favorirli, la terribile vendetta di Zeus. Battista (a stare all’Autobiografia, ma anche agli scritti) seguì l’esempio di Prometeo, il benefattore dell’umanità: le sue invenzioni e scoperte in ALBERTI, Opere volgari, I, p. 21.4-5. L.B. ALBERTI, Profugiorum ab erumna libri, a cura di G. PONTE, Genova, Tilgher, 1988 (d’ora in poi ALBERTI, Profugia), p. 58.18. 18 «l’invidia è una pestilenza occulta e la più insidiosa di tutte; e difatti entra nell’animo attraverso gli orecchi, gli occhi, il naso, la bocca, perfino attraverso le unghie, e lo fa ardere di oscure fiamme, tanto che anche chi pensa di essere sano si rode e langue per quella stessa pestilenza» (L.B. ALBERTI, Autobiografia, testo e nota al testo a cura di R. CARDINI, con la collaborazione di M. REGOLIOSI; traduzione e note a cura di M.L. BRACCIALI MAGNINI, in ALBERTI, Opere latine, pp. 987-1014 [d’ora in poi ALBERTI, Autobiografia]: 994 [§ 49]). 19 ALBERTI, Opere volgari, II, p. 97. 20 Non per nulla lo scrittore la raffigurò così: «mulier decrepita, toto corpore incurva, facie pallens, oculis lippis, supercilio prelongo, que quidem decempeda cruribus admota veluti puerulus obequitat; altera vero manu perpendiculum exercet; at cervicibus simiam sibi infestam, capillos, genas auresque unguibus lacerantem atque dentibus gestat. Huic mulieri superinscriptum nomen est INVIDIA MATER» (ALBERTI, Intercenales, Picture §§ 10-11, p. 299; corsivo mio). 21 «ignem […] adservare ferula Prometheus [invenit]» (PLIN. nat. hist. VII 198). 16 17 13 ROBERTO CARDINI ogni campo le comunicò volentieri non solo agli amici ma a chiunque volesse imparare, anche incolto, purché non avesse, beninteso, l’indole di un muro.22 Il giovare a tutti e cittadini, il giovare a molti piuttosto che piacere a pochi23 è del resto l’imperativo da cui nasce la sua rifondazione della lingua e della letteratura volgare. Se dunque questo apologo anche comporta un paragone tra valore e disvalore, tra Battista nuovo Prometeo e i suoi critici invidiosi, che di Prometeo sono la negazione, ne segue che dal testo si cava un addendum paratestuale tutt’altro che insignificante. Ma per compiutamente rispondere alla domanda “perché l’invidioso il fuoco lo vuole tutto per sé?” è indispensabile precisare che invidia e avarizia sono le due facce della stessa medaglia. L’invidioso non dà, tiene stretto ciò che ha. Lo spiega bene sant’Agostino, nel commento a Giovanni: «Tolle invidiam, et tuum est quod habeo; tollam invidiam, et meum est quod habes».24 Venendo all’ultimo interrogativo, già sappiamo che invidia se ipsam cruciat, cosicché l’invidia è delitto e castigo al tempo stesso. Da qui il contrappasso. Quella stessa scoperta che l’invidioso, per avarizia, voleva tutta per sé, quella stessa scoperta che, per invidia, non voleva mostrare a nessuno, proprio quella lo distrugge e, distruggendolo, diventa patrimonio di tutti. Ma il contrappasso non è attivato da una causa esterna, è logica conseguenza di un’interna concatenazione, perché è già nella premessa. In questo che dei brevissimi Apologi centum è fra i più laconici, poco più di un rigo, è dunque racchiuso un intero sistema morale. *** 4. Il secondo caso che propongo è un apologo ancora più conciso, un miracolo di brevitas, il n. XVIII: Fistula pulveribus obturata, «Nos – inquit – poete, saturi, non canimus».25 ALBERTI, Autobiografia, §§ 28-29, 79, 85-86 (pp. 992, 996). ALBERTI, Opere volgari, I, p. 155. 24 CL. 0278, tract. 32, § 8 («Sopprimi l’invidia, e ciò che posseggo è tuo; sopprimerò l’invidia e ciò che tu possiedi è mio»). 25 «La zampogna otturata dalla polvere esclamò: “Noi poeti non cantiamo a corpo pieno”». 22 23 14 SUI PARATESTI DEGLI APOLOGI CENTUM DI LEON BATTISTA ALBERTI - II L’apologo è giocato su una metonimia (fistula/poetae) e sul doppio senso, proprio e figurato, di obturatus: “turato” e “saziato”. Ciò precisato, il significato di Nos – inquit – poete, saturi, non canimus è chiaro: i poeti cantano solo quando hanno fame, cantano solo per procurarsi il cibo; sazi non cantano. Dunque da un lato poesia e povertà vanno necessariamente e sempre insieme, e dall’altro il canto dei poeti è “merce”, serve a comprare il cibo e a soddisfare i bisogni elementari. Ma anche ne segue che benessere e poesia sono un ἀδύνατον. L’incrocio di intratestualità e intertestualità non lascia dubbi: nel De commodis i veri letterati sono poveri,26 ma prima ancora Petrarca, attribuendo però il giudizio a «la turba a vil guadagno intesa», aveva scritto: «povera e nuda vai, Filosofia».27 L’apologo è pertanto l’esatto opposto della settima satira di Giovenale: «satur est cum dicit Horatius ‘euhoe’!».28 E ancora: «Nam si Vergilio puer et tolerabile deesset / hospitium, … / surda nihil gemeret grave bucina»; «Rara in tenui facundia panno».29 Il rovesciamento di Giovenale30 è tanto più interessante qualora si ricordi che la stessa satira l’Alberti l’ha sfruttata più volte condividendola. In Anuli la spreme per confermare che «Et spes et ratio studiorum in Caesare tantum»,31 e dunque, nell’Italia del XV secolo, nel papa e nei cardinali, in26 «An […] negabimus litteras parum admodum iuvare ad questum? An potius eam ob rem esse litteratos omnes egenos fatebimur, quia, litteris occupati, cetera admodum omnia negligendo, cum valitudinis, tum multo magis rei familiaris et pecuniarum curam aut solere aut posse habere non maximam? Mihi sane utraque causa videntur litterati discludi a copia opum: nam altera cupiditas, altera facultas ditandi tollitur»; «O rem duram, ex mille studiosis vix unum atque eum quidem nequissimum divitem fieri! Reliqui omnes mendicabitis, litterati, si probi eritis, si improbi non tamen omnes eritis locupletes: fortuna enim non semper omnibus, ex instituto, eadem facilis est» (L.B. ALBERTI, De commodis litterarum atque incommodis, a cura di M. REGOLIOSI, 2 voll., Firenze, Edizioni Polistampa, 2021 (Edizione nazionale delle opere di Leon Battista Alberti, III. Trattatistica morale, 1) [d’ora in poi ALBERTI, De commodis], p. 209 [IV 6-8] e p. 223 [IV 126]). 27 RVF VII 10-11. 28 IUV. VII 62 («Sazio è Orazio quando canta», ossia “Orazio canta solo quando si è rimpinzato ben bene, solo quando è satollo”). 29 IUV. VII 67-71, 145. 30 Ma seguendo (come nota M. KORENJAK, Kritische und interpretatorische Bemerkungen zu den Apologi centum des Leon Battista Alberti, «Humanistica Lovaniensia», 57 [2008], pp. 61-90 [d’ora in poi KORENJAK, Bemerkungen]: 70) HOR. ep. II 2, 51-52 «paupertas impulit audax / ut versus facerem» («fui costretto / a scrivere versi dalla povertà / che rende audaci», trad. di Enzio Cetrangolo) e PERS. Prol. 8-14 «ingenii magister venter» (è il ventre, la fame che guida l’ispirazione, l’ingenium è mosso dalla fame). 31 IUV. VII 1. 15 ROBERTO CARDINI somma nella Curia romana.32 Laddove nel II dei Profugia la sfrutterà di nuovo a conferma di quanto grande sia il potere della fortuna su noi mortali.33 Siamo pertanto dinnanzi all’ennesimo caso in cui l’Alberti gioca due volte e su due tavoli diversi il classico che viene spremendo. Una sua specialità su cui, a suo tempo, già ho richiamato l’attenzione.34 Né va scordato che in Alberti corre una vena “prealfieriana” del tutto ignorata ma a mio parere indubitabile. L’ho documentata sia a proposito dell’appello ai posteri nel proemio al libro VIII delle Intercenales,35 sia a proposito del profondo disprezzo che l’umanista nutriva nei confronti degli adulatori,36 sia a proposito del conseguente rifiuto di elogiare nei propri scritti i potenti, ecclesiastici o laici che fossero. 37 Questo apologo scagliato contro i poeti che scrivono, non perché spinti da un bisogno interiore, ma perché incalzati dalla fame, cosicché, una svolta sfamati, tacciono, mi pare rientri in quella stessa vena. Pure Alfieri 32 Che tra le fonti principali di Anuli ci sia la VII satira di Giovenale, che tutta verte sul tema litterae non dant panem, è dimostrato nella terza chiosa al § 28 dell’intercenale (ALBERTI, Intercenales, p. 608). 33 «E che la fortuna possa in noi mortali, o Niccola, che in noi mortali possa la fortuna, tu, o Battista, riconosci. Riconosci e tempi nostri: quanti buoni vivono vita misera e non degna alle loro virtù! E contro, mira che monstri e quanto inauditi e incredibili crebbero nelle cose della fortuna; che dicea Iuvenale satiro poeta: Si fortuna volet, fies de rhetore consul; / si volet hec eadem, fies de consule rhetor [IUV. VII 197-98]» (ALBERTI, Profugia, p. 72.20-27). 34 R. CARDINI, Biografia, leggi e astrologia in un nuovo reperto albertiano, in Leon Battista Alberti umanista e scrittore. Filologia, esegesi, tradizione. Atti del Convegno internazionale del Comitato Nazionale VI centenario della nascita di Leon Battista Alberti, Arezzo, 24-26 giugno 2004, a cura di R. CARDINI e M. REGOLIOSI, 2 voll., Firenze, Edizioni Polistampa, 2007 (Edizione nazionale delle opere di Leon Battista Alberti, Strumenti, 3), I, pp. 21-189: 94-100. 35 ALBERTI, Intercenales, p. 426. 36 «his quatuor libris, ni me laboris mei amor decipit, cum nonnulla comperias, que ad optimum principem formandum spectent, tum etiam non paucissima sese offerant, que ad dinoscendos mores pertinent eorum, qui principem sectantur; ni forte illud desit, quod assentatorem, quo principum aule referte sunt, pretermiserim consulto: nam illum quidem veteres poete, presertim comici, abunde explicarunt. Tum a me tantum abest ut possim que assentatoris sunt ut interdum me redarguendum prebeam, quod meritas et locis debitas dignissimorum laudes omittam, ne mihi ipse videar id genus hominum voluisse ulla ex parte imitari, quos penitus oderim. Qui error nunc mihi habetur tecum. Nam quis est qui proemiis scribendis non blandiatur, non applaudere gestiat his ad quos scribat, ut fictis etiam collaudationibus vetere et prescripta proemiorum lege rem ornare ad decus ducant? Ego nudum proemium attuli, tuisque tantis tamque maximis ex virtutibus nullam recensui» (L.B. ALBERTI, Momus, testo, traduzione e note, nota al testo a cura di M.L. BRACCIALI MAGNINI, in ALBERTI, Opere latine, pp. 1039-261 [d’ora in poi ALBERTI, Momus]: 1043: Proemium). 37 CARDINI, Sui paratesti − I, pp. 235-36. 16 SUI PARATESTI DEGLI APOLOGI CENTUM DI LEON BATTISTA ALBERTI - II li disprezzava. Né meno li disprezzava Manzoni, tanto da giovane, quando si proclamava scolaro e ammiratore di Alfieri, quanto nella maturità. Ne fanno fede da un lato i Sermoni38 e dall’altro il «servo encomio» del Cinque maggio. Ma nella fistula obturata, e dunque non usata ed anzi inservibile, forse c’è un’implicazione ulteriore: l’exercitium, tema in Alberti centrale e che non per caso torna nell’apol. XX (un nesso, pure questo, che come quello tra gli apol. XVI e XVII, non può essere casuale). Il cervello è un coltello, e come un coltello, quando non è usato arrugginisce. In ordine invece ai poetae saturi viene in mente il proemio al IV delle Intercenales: chi si rimpinza (come le bufale) produce un’eloquenza volgare e venale.39 Talché, in entrambi i testi, in ultima analisi riaffiorano le posizioni del De commodis. Quel proemio e l’apol. XVIII non sono infatti in contraddizione, mettono in luce i due possibili esiti della letteratura cortigiana (e quindi “foraggiata”): sterilità o volgarità-venalità. Se questa interpretazione è giusta anche l’apologo in questione ha rilievo paratestuale. Integra eccome il profilo dell’umoristico rifondatore di quel genere letterario. *** 5. Più facilmente percepibile è la valenza paratestuale dell’apologo LXXIII: Dixerat philomela strepenti merule: «Aut tace aut sonorum aliquid cane!». Respondit illa: «Deliras tu quidem, que nihil nisi ex intima arte depromptum effers; namque sic vivitur hac etate, ut non qui didicerint, sed qui didicisse videantur periti in primis habeantur».40 Manifesto è infatti il legame che lo stringe a tre paratesti: i proemi al VII, all’VIII e al X delle Intercenales. Talché va interpretato alla loro luce. La 38 R. CARDINI, Postille ai «Sermoni» di Alessandro Manzoni, in ID., Classicismo e modernità. Monti, Foscolo, Leopardi, Firenze, Edizioni Polistampa, 2010, pp. 179-216. 39 ALBERTI, Intercenales, pp. 326-27. 40 «Al merlo che chioccolava disse l’usignolo: “O taci o canti qualcosa di armonioso”. “Non c’è dubbio che sei pazzo”, rispose il merlo, “tu che non mandi fuori suono che non sia cavato dal cuore stesso dell’arte. O non lo sai che oggidì la situazione è questa? Cime di competenza sono ritenuti non quelli che sanno ma quelli che mostrano di sapere”». 17 ROBERTO CARDINI secca alternativa che l’usignolo pone al merlo (aut tace aut sonorum aliquid cane), un’alternativa tra la perfezione e il silenzio, rinvia ad una tormentosa e ciclica riflessione sia, in generale, dell’umanesimo Tre-quattrocentesco, sia, in particolare, dell’Alberti. Ma laddove dal De commodis al proemio al II delle Intercenales la fuoruscita da quella alternativa (all’Alberti suggerita dai Dialogi ad Petrum Paulum Histrum e dal proemio alle Historiae Florentini Populi di Leonardo Bruni)41 è lo “scrivere almeno qualcosa di piacevole, per quanto remoto dalla perfezione, cui i moderni non possono aspirare” – qui l’aspirazione alla perfezione è giudicata da un’ottica diversa: quell’aspirazione è follia posto che, oggi (hac etate), esperti (periti) non sono giudicati gli scrittori veramente eccellenti, ma quelli che sembrano tali. È una posizione, davvero interessantissima, che non è mai stata né rilevata né segnalata. Sic vivitur hac etate è infatti un’altra fondamentale riflessione che lo scrittore fa sul suo tempo e sulla letteratura contemporanea. La risposta del merlo all’usignolo (Deliras tu quidem, que nihil nisi ex intima arte depromptum effers; namque sic vivitur hac etate, ut non qui didicerint, sed qui didicisse videantur periti in primis habeantur) chiama in causa vari testi: Corolle per la satira del Poeta e del Rhetor,42 il proemio al l. VII delle Intercenales per la polemica verso chi appena avendo un’infarinatura letteraria sale in bigoncia, e che dunque vuole apparire dotto senza esserlo,43 e naturalmente Libripeta, la cui essenza, fin dalla sua prima comparsa nelle Intercenales, è esattamente questa: io voglio parere, non essere letterato.44 Né meno conta, per valutare l’importanza di questo apologo, la collocazione. Come anche farà nel Momus,45 l’Alberti disloca queste avvertenze al lettore in prossimità dei tre quarti dell’opera, e lo fa sicuramente ad integrazione dei paratesti espliciti. Dunque l’apol. LXXIII va correlato ai tre paratesti incipitari. Racchiude infatti un giudizio sul presente letterario che completa in particolare la risposta di Esopo a Battista: hac aetate CARDINI, Alberti e Firenze, pp. 236-37 e n. 32. ALBERTI, Intercenales, pp. 333-34 (§§ 13-48) e chiose relative (pp. 337-38). 43 ALBERTI, Intercenales, Proem. l. VII § 12, pp. 375-76, e chiosa relativa a p. 378. 44 «LIBRIPETA. Oro, Apollo, fave. Hos libros dono affero. Aveo videri litteratus. APOLLO. Sis, atque ut sis noctes diesque assidue lectitato. LIBRIPETA. Tedet: longeque malo videri quam esse. Apollo. Omnium ergo litteratorum obtrectator esto (ALBERTI, Intercenales, p. 254 [Oraculum § 10]; corsivo mio). Che la prima comparsa di Libripeta, qualora se ne indaghi la genesi, vada individuata in Oraculum è dimostrato in CARDINI, Cosa è Libripeta, p. 61. 45 CARDINI, Alberti e l’umorismo, p. 64. 41 42 18 SUI PARATESTI DEGLI APOLOGI CENTUM DI LEON BATTISTA ALBERTI - II (guarda caso la stessa espressione usata nella generale stroncatura della letteratura contemporanea che si legge nel proemio al l. VII delle Intercenales), hac aetate tutti sono invidiosi, e soltanto contano le apparenze. Da qui lo sforzo eroico richiesto a chi (come l’Alberti) si sia affidato la missione di rovesciare una situazione tanto disperata e disperante. Si aggiunga che è strepenti (a mio parere non bene inteso dai traduttori precedenti)46 a spiegare il rimprovero dell’usignolo. Il merlo non viene aspramente apostrofato perché, per natura, negato al canto, perché, sempre, canta male; ma perché, in quel momento, chioccolava. Ossia emetteva suoni, rumori, non canto. Anche il merlo (risulta da tutta la tradizione letteraria e dall’esperienza) è per natura assai dotato, ma diversamente dall’usignolo, in quel momento faceva il lavativo perché, hac etate, contano le apparenze, non la sostanza. Dunque, perché impegnarsi, perché cercare la perfezione? È manifesto che il merlo simboleggia tutti coloro, ed erano tanti, che o con l’argomento dell’inarrivabile perfezione degli antichi, oppure con la constatazione che, hac etate, contano le apparenze e per di più ci sono gli invidiosi a tarpare le ali, concludevano che meglio era tacere e marcire in ozio, oppure chioccolare. Simboleggia insomma i rinunciatari e gli scansafatiche. *** 6. E questo è invece l’apologo XC: Minerve statue in arduo monte posite cum imbecillis quidam, qui non citato, ut ceteri, sed moderato gradu conscendisset, pedem neque anhelans neque desudans esset exosculatus, a sacerdotibus laudatus est. Feruntque deam dixisse plures ad se claudos et debiles quam valentes adivisse non fessos.47 46 «stridente merla» (OPUSCOLI MORALI / DI LEON BATISTA / ALBERTI / GENTIL’HUOMO FIRENTINO: / Ne’ quali si contengono molti ammaestramenti, / necesarij al uiuer de l’Huomo, così posto / in dignità, come priuato. / Tradotti, & parte corretti da M. / COSIMO BARTOLI. / In VENETIA, appresso Francesco Franceschi, Sanese, 1568, p. 291 [ma 391]); «stridulo merlo» (L.B. ALBERTI, Apologhi ed elogi, a cura di R. CONTARINO, presentazione di L. MALERBA, Genova, Costa & Nolan, 1984 [d’ora in poi ALBERTI, Apologhi ed elogi], p. 67); «troppo sforzato merlo» (L.B. ALBERTI, Apologhi, introduzione, traduzione e note di M. CICCUTO, Milano, BUR, 1989, p. 97); «merlo che gridava a squarciagola» (L.B. ALBERTI, Apologi centum, testo e nota al testo a cura di R. CARDINI, con la collaborazione di M. REGOLIOSI; traduzione a cura di V. NOVEMBRI, in ALBERTI, Opere latine, pp. 925-60: 947). 47 «La statua di Minerva era in vetta a una montagna difficile da scalare. Un tale, piuttosto 19 ROBERTO CARDINI Sugli zoppi, i gobbi e i variamente menomati che si sono dati agli studia humanitatis, l’Alberti aveva già scritto nel De commodis. Ma nello scintillante e amarissimo pamphlet giovanile sulla nessuna considerazione in cui nella società contemporanea erano tenuti i cultori di Minerva, il rapporto tra valentes e imbecilles era visto in quel quadro. Cosicché era stato paradossalmente sostenuto che soltanto gli handicappati potevano consacrarsi a quegli studi.48 Nell’apologo il rapporto tra valentes e imbecilles è viceversa riconsiderato in un’ottica completamente diversa. Affrontando la quaestio tradizionale se valgano di più, per diventare eloquenti, le doti naturali o l’applicazione, Quintiliano non aveva contrapposto questa a quelle, oppure l’impazienza al metodo, né aveva preposto la dottrina e l’exercitium alle doti naturali: aveva raccomandato il sinolo di natura e arte e il loro equilibrio, ma concluso che l’arte eccellente è migliore della migliore materia.49 Da quell’equilibrio, quando scrisse Defunctus, l’Alberti era remotissimo. Allora l’industria e la diligenza, nonché contribuire, a pari merito, con l’ingegno, alla conquista di «ogni laude di qual si sia virtù», erano rigracilino, che era salito con un passo, non come gli altri, affrettato, ma regolare e metodico, arrivò a baciare il piede della dea senza fiatone e senza sudare. I sacerdoti lo lodarono. La dea affermò, dicono, che riusciva ad arrivare fino a lei senza stancarsi un maggior numero di gracili e zoppi che non di gagliardi». 48 «Quod tametsi litteratos in honoris, gratie admirationisque loco esse olim constitutos audierim, nova tamen hec tempora alios mores ideo attulere, quod nimis multos et eos quidem insolentes, vilissimos abiectissimosque homines bone littere suscepere. […] Atque eo devenimus ut non modo nobilitate et auctoritate prestantes litterarum studia negligant, verum etiam nulli nisi abiectissimi atque ignavissimi se ad litteras conferant. Nam aut claudi, aut strume, aut distorti et comminuti, stolidi, hebetes, inertes atque rebus aliis obeundis invalidi et incompotes, omnes ad litteras deportantur: quos autem civilia negotia respuunt, eos putant esse ad otium litterarum accommodatos; quos muliercule maritos reiiciunt, hos litterarum cognitioni iniungunt, ut aperte sentire istud videantur: prestantissima ingenia pulchrius commodiusque quovis in alio negotio versari quam inter litteras» (ALBERTI, De commodis, V 83-87, pp. 240-41). 49 «Scio quaeri etiam, naturane plus ad eloquentiam conferat an doctrina. Quod ad propositum quidem operis nostri nihil pertinet (neque enim consummatus orator nisi ex utroque fieri potest), plurimum tamen referre arbitror, quam esse in hoc loco quaestionem velimus. Nam si parti utrilibet omnino alteram detrahas, natura etiam sine doctrina multum valebit, doctrina nulla esse sine natura poterit. Sin ex pari coeant, in mediocribus quidem utrisque maius adhuc naturae credam esse momentum, consummatos autem plus doctrinae debere quam naturae putabo […]. Denique natura materia doctrinae est: haec fingit, illa fingitur. Nihil ars sine materia, materiae etiam sine arte pretium est, ars summa materia optima melior» (QUINT. Inst. or. II 19, 1-3) 20 SUI PARATESTI DEGLI APOLOGI CENTUM DI LEON BATTISTA ALBERTI - II gidamente contrapposte e preposte, in quanto soltanto loro meritorie e virtuose, all’ingegno, perché l’ingegno nient’altro è che un «beneficio della natura» e della «fortuna».50 L’apol. XC si riallaccia in parte all’intercenale, e in parte alla lettera al Brunelleschi, che è al contrario un vero e proprio inno all’ingegno.51 Puntualizza che quell’equilibrio salta qualora i superdotati, nella scalata al sapere, siano «frettolosi», e quindi dimentichi (come i giovani presuntuosi di Quintiliano) che l’assimilazione di un manuale non basta, ma neanche bastano le doti naturali, perché «multo labore, adsiduo studio, varia exercitatione, plurimis experimentis, altissima prudentia, praesentissimo consilio constat ars dicendi».52 E non solo salta, ma i valentes rischiano, nella scalata, di essere battuti dai claudi et debiles, se questi siano in grado di annullare lo svantaggio naturale con l’applicazione, la costanza, il metodo. E perché l’ammonimento sia più efficace è trasformato in oracolo e messo addirittura in bocca a Minerva, ossia alla sapienza stessa. Gli apologhi XC e XCI sono connessi. Il XCI dice: Epistolam, que multa expectatissima attulerat, quod quodam in loco sui esset oblitterata, qui eam receperat ira ob id concitus dilacerarat. «O – inquit epistola – hominum naturam perversam, siquidem ita pro unico errato multam penam desumere et pro multis acceptis beneficiis gratias nullas agere consueverunt!».53 50 «Fuere namque illi veteres temporibus suis plane grati; nostra vero etate ob adeptam vetustate auctoritatem iidem longe gratissimi habentur. Sed quod ipse in primis laude dignum statuo, industriam, assiduitatem, curam, vigilantiam diligentiamque tuam lectitandi, discendi conscribendique quam in vita acerrimam et irrequietam habuisti, hanc ego nemini in comparando postponerem. Qui enim aliorum ingenia laudat magis quam ingeniorum exercitationem et cultum quique que natura tribuit, quam que studiis et arte suscepta et elaborata sunt, magis admiranda censet, is non virtutem sed fortunam extollit hominis. Neque enim laudibus in primis ornanda sunt ea que natura ipsa vel fortuna largita est, sed longe admiratione dignissima sunt que labor, sudor atque ars manusve hominum ad honestatem adiecit» (Defunctus §§ 266-69: ALBERTI, Intercenales, p. 562, e per il commento, p. 588). 51 L.B. ALBERTI, De pictura (redazione volgare), a cura di L. BERTOLINI, Firenze, Edizioni Polistampa, 2011 (Edizione nazionale delle opere di Leon Battista Alberti, II. Trattatistica d’arte, 1. 1), pp. 203-04. 52 QUINT. Inst. or. II 13, 15. 53 «Una lettera aveva arrecato molte notizie desideratissime. In un punto era però cancellata. Quell’unica cancellatura mandò su tutte furie il destinatario sicché la fece a pezzi. Gemette la lettera: “La natura degli uomini è davvero perversa: un unico errore lo puniscono con estrema durezza, per i molti benefici che hanno ricevuto neanche ringraziano!”». 21 ROBERTO CARDINI Questi due apologhi si susseguono a ruota perché contengono entrambi dichiarazioni di poetica, o comunque idee dell’autore sulla letteratura. Il primo ci dice che alla sapienza (Minerva) si perviene con il metodo e la costanza. L’altro verte invece sulla “ricezione”: sui giudizi che ricevono le opere letterarie una volta divulgate. Possono contenere cose desideratissime, rarissime, preziosissime, ma basta un solo errore per farle condannare e spregiare. È certamente quanto accadde più volte alle opere dell’Alberti. Da qui l’ossessiva autodifesa e polemica contro gli invidiosi. Ma da qui anche la rivelatrice ammissione (nel proemio all’Ecatonfilea) che lui Battista era «troppo negligente scrittore»;54 oppure, nell’Autobiografia, a giustificazione si direbbe degli infiniti errori onomastici che deturpano i suoi scritti, l’altra ammissione, che i nomi di persona non li ricordava;55 ma soprattutto, in Anuli, la confessione che gli scarsi e nulli apprezzamenti dei contemporanei lo avevano addirittura persuaso a mollare la carriera di scrittore.56 Dunque Battista di errata ne commetteva: e parecchi e (talora) gravi. Lo dimostrano del resto gli itinera redazionali di tutte le sue opere, gli autografi, gli idiografi, le correzioni di suo pugno (che appunto cercano di rimediare agli errata delle prime redazioni) oppure la lettera del Dati e del Ceffi sulla Familia.57 Non per nulla (già nel De commodis58 e poi tante altre volte) Battista dichiara che è preferibile scrivere opere imperfette (dunque anche, dal più al meno, disseminate di errata) piuttosto che marcire nell’ozio o invecchiare tacendo. Sicché l’apologo è pure autobiografico, nonché apologetico. Ma anche è protestatario. Si è puniti per un solo errore a fronte di infiniti benefici. L’apol. XCI è pertanto da connettere (oltre che all’apologo-intercenale Hedera)59 ALBERTI, Opere volgari, III, p. 197.23. ALBERTI, Autobiografia, § 9, p. 990. 56 ALBERTI, Intercenales, pp. 597-98 (§§ 14, 28-32, 33-41), e per il commento pp. 606-09. 57 L. DATHI […] Epistolae XXXIII, nunc primum ex Bibl. Mediceo-Laurentiana in lucem erutae, recensente L. MEHUS […], Florentiae, Ex novo typographio Jo. P. Giovannelli, 1743, pp. 18-20. 58 ALBERTI, De commodis, I 9, p. 194. 59 «Pirus arbos, cum a sacerdotibus ornari templum herba hedera intueretur cumque illic inter aureos apparatus non mediocri haberi in honore animadverteret, “Quid hoc rei est?”, inquit, “herbane hec petulca, insolens, infecunda, nullos ad utiles usus nata, que quidem muros templi nonnunquam in ruinam traxit, que deorum edificia non cessat multis in dies incommodis afficere, religioni 54 55 22 SUI PARATESTI DEGLI APOLOGI CENTUM DI LEON BATTISTA ALBERTI - II all’apol. LXXVII.60 È una corrispondenza interna dalla chiara portata architettonica. *** 7. Come si è visto non pochi apologhi hanno una triplice valenza: testuale, paratestuale, architettonica. I numerosi dittici (ne ho contati almeno sei, qui basta segnalarne tre: XXIII e XXIV; XLVIII e XLIX; LXXIV e LXXV), le riprese ravvicinate (LV e LVIII), le frequenti corrispondenze a distanza (ad es. LX e XCVIII), i percorsi tematici (la religione, i militari, le maschere, l’invidia, le arti), la dislocazione strategica (l’apol. LXXIII) delle principali dichiarazioni e prese di posizione non sono fatti accidentali, sono archi, pilastri di un edificio: obbediscono a un disegno. L’ultima decade, in particolare, è la prova più evidente della validità di tutti questi assunti. Gli apologhi XCIII, XCIV, XCVII, XCVIII, XCIX, C formano un gruppo omogeneo. Vertono tutti e sei sul tema dell’invidia (un tema, già l’ho detto, in Alberti “ossessivo”, ma qui addirittura parossistico). Sono pertanto da connettere ai paratesti incipitari, in particolare alla risposta di Esopo a Battista: «non iniuria tui diligerent, sed invidi sunt». Talché il motivo dell’invidia (esattamente come il centum del titolo e i due centum dell’epilogo — il numero dell’apologo e i cento ocelli della coda del pavone lì messo in scena) è un motivo circolare: una Ringkomposition che apre e chiude l’opera. Ha dunque anche funzione compositiva e costruttiva. et piis ministeriis dedicabitur? Me vero innoxiam, que fructus dulcissimos prebeo, que pauperibus victum paro, que secundas divitum mensas cenarumque delitias orno, puer quivis fustibus et saxis cedit?”. Itaque multa huiusmodi de rei iniquitate, de sua sorte, de sacerdotum improbitate deploranti piro respondit hedera his verbis: “Etenim tu eras inscia”, inquit, “quam hoc genus hominum nisi improbos, aut eos a quibus maiorem in modum possint ledi, neque vereri consueverit neque diligere? Esto, heus tu!, dura et acerba”» (ALBERTI, Intercenales, pp. 318-19; per l’interpretazione cfr. ibid.). 60 «Arbos cum per eum annum poma non tulisset, a villico ne se, uti instituerat, cederet, multis in futurum annum pollicitis muneribus impetravit. Dehinc secum ipsa: “En – inquit – quam intersit nos consuetudinem liberalitatis inisse ut, non sine periculo maximo, negare liceat!”» («L’albero in quell’anno non aveva prodotto frutti e il fattore aveva deciso di tagliarlo. Per dissuaderlo gli promise un’enorme raccolta per l’anno dopo. Ottenuto, con questa promessa, lo scopo, fra sé e sé commentò: “Mi sono avvezzato ad essere liberale ed eccolo qua il bel vantaggio che ne ho cavato: non posso dire di no senza rischiare la vita!”»). 23 ROBERTO CARDINI Ma proprio per questo sarebbe un grave errore ridurlo a fatto privato, e magari a “fissazione” di un grande scrittore dalla psicologia un po’ disturbata. In realtà, proprio perché, circolarmente, struttura l’intera opera, è anzitutto un fatto di rilievo letterario, ed anzi strutturale. Rimarca la sconvolgente originalità degli Apologi centum, e documenta che l’autore ne era perfettamente cosciente. Diversamente non avrebbe tanto insistito sull’impennata di invidia che quell’opera gli avrebbe guadagnato. Ma vediamo i testi. L’apologo XCIII dice: Cum leoni cuidam aditum in celum patuisse leo quidam intellexisset, cupiditate glorie flagrans, difficillima omnia rite exequebatur ut leonibus omnibus facile prestaret. «Etenim quid insanis – inquit Invidia –. Qui enim huic generi animantium locus debebatur iam pridem merenti consignatus est». Respondit leo: «Sat nobis erit promeruisse».61 L’apologo, che chiama subito in causa il leone Nemeo, è sicuramente una parziale riscrittura di MART. IX 71: Massyli leo fama iugi pecorisque maritus lanigeri, mirum, qua coiere fide! Ipsa liceat videas, cavea stabulantur in una et pariter socias carpit uterque dapes: nec fetu nemorum gaudent nec mitibus herbis, concordem satiat sed rudis agna famem. Quid meruit terror Nemees, quid portitor Helles, ut niteant celsi lucida signa poli? Sidera si possent pecudesque feraeque mereri, hic aries astris, hic leo dignus erat.62 61 «Quando un leone si accorse che a un altro leone si era spalancata la porta del cielo, infiammato dal desiderio di gloria si mise a fare tutte le cose più difficili. E le faceva alla perfezione, sì da primeggiare sopra tutti i suoi simili. “Sei proprio matto”, gli disse Invidia. “O non lo sai che il posto dovuto a questo genere di animali è già stato assegnato da un bel pezzo, e a chi ne era degno?”. Ribatté il leone: “A me basterà averlo meritato”». 62 «Un leone, vanto dei monti dei Massili, e il maschio di una lanuta pecora, che mirabile fedele alleanza hanno stretto! Puoi controllarlo di persona: stanno nella stessa gabbia, mangiano in comune gli stessi cibi: non carne di bestie selvatiche né dolci erbaggi essi gustano, ma a sfamarli assieme è un’agnella di latte. Che ha fatto il terrore di Nemea, che ha fatto il portatore di Elle per risplendere, brillanti costellazioni del sublime firmamento? Se potessero meritarsi il cielo le greggi e le bestie selvagge, questo ariete, questo leone sarebbero degni degli astri» (M.V. MARZIALE, Epigrammi, 24 SUI PARATESTI DEGLI APOLOGI CENTUM DI LEON BATTISTA ALBERTI - II L’epigramma dall’Alberti è stato senza dubbio profondamente modificato e risemantizzato, ma il tema (limitatamente all’asterismo del Leone) è lo stesso: un leone che merita di essere trasformato in costellazione come il leone Nemeo. Né manca la spia linguistica: il verbo mereri presente tanto in Marziale (v. 9), quanto, per due volte, in Alberti (merenti, promeruisse). L’apologo XCIII è gremito di implicazioni di ogni sorta. Intanto questo leo quidam si contrappone al quidam dell’apol. LXXV:63 lui non «chiede in prestito» il segno esteriore dell’eccellenza sociale (la veste di un sovrano), l’eccellenza la vuole meritare, e quindi si sforza di raggiungerla. Ne segue che l’apologo in primo luogo verte sulla “vera nobiltà”. In secondo luogo il leone della costellazione è il leone Nemeo ucciso da Ercole e divinizzato. È dunque il leone stesso di cui Ercole andava in cerca quando, nel proemio al libro X delle Intercenales, Micrologus-Battista, che nella selva appunto Nemea si era smarrito, lo incontra e gli chiede come uscirne. L’eroe, per il solo fatto che lo sconosciuto era in viaggio per apprendere la virtù lo chiama fratello e lo aiuta. Siccome nell’epimitio l’Alberti afferma che nello stesso modo si dovrebbero comportare tutti i letterati, è intuitivo che quella «fatica» del modello doveva averlo parecchio colpito. E difatti è manifesto che questo agonistico leo quidam che si ripromette di imitare il leone dell’asterismo è “figura” o “proiezione” di Leon Battista (a cominciare dal nome d’arte: appunto Leone). In terzo luogo è altrettanto manifesto il parallelismo tra questi leoni degli Apologi e i cani del Canis (altra “maschera” di Battista): pure il canis Hispanus posseduto e compianto da Battista64 aveva per antenato, quindi a “modello”, uno dei due cani della costellazione del Cane.65 saggio introduttivo di M. CITRONI, traduzione di M. SCÀNDOLA, note di E. MERLI, 2 voll., Milano, BUR, 1996 [d’ora in poi MARZIALE, Epigrammi], II, pp. 770-71; corsivo mio). 63 «Quidam a rege, inspecto stemmate, picto, quod esset regium uti munificentia, petiit uti vestem illam auream, qua esset indutus, mutuo concederet. “Hanc si detraxeris vestem – inquit pictura – iam nullus sum”» («Durante un attento esame di un albero genealogico, un tale chiese al re che vi era dipinto di dargli in prestito la veste trapunta d’oro che indossava. Motivò la richiesta adducendo che la munificenza è virtù regale. “Se mi toglierai questa veste”, rispose la pittura, “di certo non sono più nessuno”»). Ho interpretato questo notevolissimo apologo in R. CARDINI, Gli “Apologi centum” di Leon Battista Alberti. Saggio di esegesi, «Giornale storico della letteratura italiana», 133 (2016), pp. 321-53: 330-45. 64 CARDINI, Alberti e Firenze, pp. 262-63, e n. 72. 65 L.B. ALBERTI, Canis, testo e nota al testo a cura di M. REGOLIOSI; traduzione e note a cura M.L. BRACCIALI MAGNINI, In ALBERTI, Opere latine, pp. 961-86: 964 (§ 9). 25 ROBERTO CARDINI In quarto luogo questi parallelismi provano che l’Alberti si è aggiunto il nome d’arte Leone per le ragioni dette nel primo libro familiare, dove tratta dei nomi da imporre ai neonati: vanno scelti nomina omina, nomi belli ma anzitutto in grado di stimolare chi li porta alla virtù, all’imitazione dei grandi uomini che li hanno portati prima, e che dunque divengono un modello cui guardare quotidianamente.66 L’apologo ci informa che Battista, quando si è aggiunto Leone, presumibilmente ha pensato al Leone della costellazione celeste (che non era la sua, era nato infatti il 18 febbraio e dunque nell’Acquario). E qui dice il perché. Quel nome era per lui (non meno dell’emblema dell’«occhio alato») uno sprone formidabile: un categorico imperativo morale all’agonismo, al primatismo. Entrambi (così il nome d’arte come l’emblema) doppi eroici a fronte di altri doppi (Philodoxus, Philoponius, Lepidus…), che viceversa evidenziano altri lati della prismatica e assai contraddittoria personalità albertiana. L’apologo si lega infine agli infiniti luoghi in cui l’autore parla dell’invidia. L’invidia tarpa le ali a chiunque voglia emergere, insinuando che lo sforzo è inutile (Scriptor): o perché il posto cui aspiriamo è già occupato (apol. XCIII) o perché l’opera in cui ci siamo impegnati sperando di ottenere, grazie ad essa, la «fama», verrà sicuramente ignorata oppure stroncata. Meglio dunque «dormire» (ancora Scriptor). Ma laddove in Scriptor all’invidioso Libripeta, Lepidus non replica (o piuttosto la replica l’affida ai fatti: nonostante le dissuasioni e le minacce, l’opera la pubblica lo stesso), qui esplicitamente e orgogliosamente dissente. In Corolle Invidia e Lepidus sono messi a diretto confronto come qui Leone e Invidia. La replica dello scrittore è diversamente ma parimenti significativa. In Corolle Lepidus ha ottenuto il premio agognato, ma subito lo dissacra, talché Invidia stizzita ribatte mettendo in evidenza tutta l’aggressività che si nasconde nell’apparentemente timido e mite Lepidus; qui a Invidia che gli fa un discorso analogo a quello di Libripeta in Scriptor, Leone risponde orgoglioso e sprezzante: a lui non importa niente che quel posto cui aspira sia già occupato, gli basta averlo meritato. Il passo «Qui enim huic generi animantium locus debebatur iam pridem merenti consignatus est» va anzitutto commentato storicamente. E 66 ALBERTI, Opere volgari, I, pp. 118-19; R. CARDINI, Onomastica albertiana, «Moderni e Antichi», 1 (2003), pp. 143-75: 157-59. 26 SUI PARATESTI DEGLI APOLOGI CENTUM DI LEON BATTISTA ALBERTI - II dunque, una volta di più, uscendo dai testi, nonché dall’intratestualità. Va chiosato alla luce del dibattito che attraversò l’intera letteratura augustea (ma che proseguì anche dopo, da Seneca a Quintiliano a Marziale) sui “classici” moderni a paragone dei classici antichi. Dai poetae novi in giù fu tutta una gara a mettere in discussione gli arcaici classici latini con l’obiettivo, spesso esplicito, di soppiantarli con altri ritenuti più degni di occupare, genere per genere, il posto loro assegnato. Virgilio soppianta Ennio nella poesia epica, Orazio soppianta Lucilio nella satira e così via. E c’era poi la questione dei posti tuttora vacanti, interi generi letterari brillantemente rappresentati nella letteratura greca, e viceversa paurosamente assenti in quella latina (l’elegia erotica, la bucolica, la lirica, l’epigramma…). Questo dibattito (antico, ma sempre attuale, ed anzi costitutivo di ogni nuova letteratura e di ogni fondamentale svolta letteraria) si intreccia all’inizio del Quattrocento con la querelle des anciens et des modernes, una querelle riaperta dai Dialogi del Bruni, e poi proseguita dall’Alberti e da altri. Già nel 1436 (con la dedica al Brunelleschi del De pictura volgare) l’Alberti era arrivato ad equiparare, quanto ad ingenia, antichi e moderni ed anche aveva, appunto con il De pictura, riempito un vuoto delle due letterature classiche, ossia un posto, dopo la totale scomparsa della trattatistica artistica classica, divenuto vacante. Con gli Apologi va oltre. In quel genere il posto non era affatto vacante, era saldamente occupato da Esopo, e poi c’era una ininterrotta tradizione di suoi seguaci e imitatori (da Fedro a Avieno, dal Romulus a “Gualtiero Anglico” all’Esopo toscano), pure loro aspiranti al ruolo di comprimari. E tuttavia Battista, già nei tre paratesti proemiali, li sfida tutti quanti, a cominciare da Esopo, dal quale si fa addirittura dare, in quella disciplina, un certificato di laurea con pieni voti. È dunque molto significativo che il tema dei posti occupati oppure vacanti, assegnati o da assegnare, venga trattato dall’Alberti nell’ultima decade della centuria, e pertanto in sede pressoché retrospettiva, né è meno significativo che trattandolo lo scrittore si riallacci al terzo paratesto proemiale, quello in cui Esopo di fatto confessa di essere stato eguagliato dall’«italum ingenium» ed apertamente sostiene che se i lettori degli Apologi centum non lo riconoscono è perché sono «invidiosi». Insomma quasi alla fine della sua fatica di scrittore di apologhi è come se Battista facesse un bilancio, si volgesse indietro, misurasse il cammino percorso e concludesse: l’obiettivo implicitamente dichiarato nei tre paratesti incipitari, soppiantare Esopo, secondo 27 ROBERTO CARDINI me l’ho raggiunto, ma gli invidiosi mi obiettano che il posto di classico nel genere degli apologhi è già occupato da Esopo, il quale certamente se lo merita (Qui enim huic generi animantium locus debebatur iam pridem merenti consignatus est). Cosa rispondere? Rispondo che quel posto a me basterà averlo meritato (sat erit nobis promeruisse). Col che l’Alberti, a ben vedere, ribadisce che in quanto scrittore di apologhi meriterebbe di occupare il posto che la tradizione ha assegnato ad Esopo, e che dunque è quantomeno alla pari con Esopo: è insomma un Aesopus alter. L’Esopo della modernità. Né la manifesta natura autobiografica dell’apologo è in contraddizione con la sua altrettanto manifesta natura e portata paratestuale. Anzi la conferma. L’apologo è paratestuale perché l’autore, proiettandosi nell’opera, fa ulteriori dichiarazioni di poetica, discute sul posto che alla sua opera spetta nella storia del genere cui essa appartiene. E quanto infine a sat erit nobis promeruisse è una massima non desunta, ma sicuramente dedotta da Quintiliano. Là dove parla dell’imitazione-emulazione, il sommo legislatore dell’eloquenza latina consiglia infatti di porsi un telos massimo e poi di contentarsi se invece del primo posto abbiamo raggiunto solo il secondo o il terzo.67 L’importante è averci provato. *** 8. L’apologo seguente, il XCIV, dice: Grillus, rana et huiusmodi animantia que aut saltitant aut consident tantum atque humo iacent, serpentem minime esse ad motum aptum arbitrabantur. At dum illum velocissime in ardua repere vidissent, admirantes agilitatem, «Proh dii! – dixere – itane aliorum mores, studia atque ingenium ex nostro sensu et viribus pensitamus?».68 67 «Sed etiam qui summa non adpetent, contendere potius quam sequi debent. Nam qui hoc agit, ut prior sit, forsitan, etiam si non transierit, aequabit. Eum vero nemo potest aequare, cuius vestigiis sibi utique insistendum putat: necesse est enim semper sit posterior qui sequitur» (QUINT. Inst. or. X 2, 9-10). 68 «Il grillo, la rana e siffatti animali avvezzi a saltellare oppure a starsene sdraiati per terra, ritenevano che il serpente fosse assolutamente negato per il movimento. Ma quando lo videro strisciare, veloce come un lampo, per luoghi erti e scoscesi, rimasero di stucco dinnanzi a tanta agilità. “Per Giove! – esclamarono. È mai possibile? I costumi, le capacità e le inclinazioni degli altri li valutiamo sulla base del nostro modo di pensare e delle nostre forze!”». 28 SUI PARATESTI DEGLI APOLOGI CENTUM DI LEON BATTISTA ALBERTI - II Questo apologo ha una portata filosofica e al tempo stesso letteraria. «Aliorum mores, studia atque ingenium ex nostro sensu et viribus pensitamus» è una precisa dichiarazione gnoseologica. Il “diverso” è affrontato e pesato ossia giudicato (pensito) sulla base di ciò che siamo noi, è ridotto ai nostri parametri, gusti, modi di pensare, pregiudizi: è dunque necessariamente rifiutato o frainteso o ridicolizzato. È un assunto ben esemplificato, ad esempio, da Les lettres persanes (1721) di Montesquieu. Ma l’assunto, e proprio dall’Alberti, è anche applicato alla critica letteraria. Nel proemio al libro VII delle Intercenales si legge: «Et utinam recto aliquo constantique iudicio, dum alios vituperant, uterentur! si nemo ferme est a quo doctior discedas, ex suoque quisque sensu non ex re ipsa, ut par esset, aliorum scripta reprobat, studiosorumque nemo est cui certa et non reliquorum iudiciis repugnans sententia adsit».69 La critica investe la violenza censoria di tutti contro tutti, e in particolare stigmatizza l’assenza di categorie rigorose di giudizio: ciascuno giudica basandosi non su ciò che le opere sono e vogliono essere, ma sul proprio modo di pensare e di sentire. Questa stigmatizzazione è lo sviluppo di un asserto ciceroniano («Suo enim quisque studio maxime ducitur»),70 e nondimeno il conseguente ammonimento dell’apologo, mai giudicare gli altri in base a noi stessi, quasi fossimo la misura di tutte le cose, è in parallelo tanto con l’apol. V (quello in cui il cane pensa che il toro, per difendersi, abbia, come lui, solo i denti),71 quanto con il terzo paratesto esplicito. Gli «invidi» di cui parla Esopo, c’è da giurarlo, avranno giudicato Battista in base a se stessi, sulla base delle proprie capacità (aliorum mores, studia atque ingenium ex nostro sensu et viribus pensitamus): e dunque sicuramente incapace di competere con Esopo. Il nesso col terzo paratesto lo suggerisce del resto 69 «E Dio volesse, che quando si giudicano gli altri, si usasse un criterio costante e corretto! Se non c’è quasi nessuno da cui imparare qualcosa, ciascuno critica gli scritti degli altri non basandosi, come sarebbe giusto, su ciò che sono e vogliono essere, ma sul proprio modo di pensare e sentire; e non c’è nessuno, tra i dotti, che possegga un criterio di giudizio certo e coerente e che non sia in contrasto con i giudizi degli altri». Il passo (§ 19) si collega ai §§ 14 e 17 (ALBERTI, Intercenales, pp. 376, e 378-79). 70 CIC. De fin. V 5 (cfr. ALBERTI, Intercenales, p. 379, seconda chiosa al § 19). 71 «Canis cum tauro dimicaturus victoriam sperabat, quod adversario dentes superiores deessent. At cornibus tauri saucius, “non istuc – inquit – putassem”» («Un cane sul punto di combattere con un toro sperava di vincere perché alla mascella dell’avversario mancavano i denti anteriori. Ferito però dalle corna del toro, osservò: “a codesto non avevo pensato”»). 29 ROBERTO CARDINI e quasi lo impone ingenium, presente in entrambi i testi («Qui dixerit apud Italos non esse ingenia, quantum videre licet, fallitur; fateor tamen eam ingenii gloriam paucis mortalibus obtigisse» // «aliorum mores, studia atque ingenium ex nostro sensu et viribus pensitamus»). *** 9. E questo è invece l’apologo XCVII: Leo ille celeberrimus amicus hominis a servo illo hospite suo Rome per tabernas ductus loro, rogantibus quid ita ageret ut, cum in arena cursu pegaseos, saltu pardos, viribus tauros, humanitate homines exsuperasset, cumque inter leones forma et dignitate esset nulli secundus, idem tamen se loro ductari et canes latrantes post se insanire pateretur, respondit eiusdem esse animi et prodesse amicis et latratores despicere.72 Dopo quanto ho detto e ripetuto circa gli stretti nessi che, in quest’opera, stringono i testi ai paratesti (e viceversa), non ci vuol molto a capire che pure questo apologo è una ripresa e un approfondimento di un tipico motivo paratestuale: il rapporto fra autore e critici, l’atteggiamento che un autore ritiene di dover assumere nei confronti delle reazioni negative alla propria opera.73 Anche questo apologo è un mosaico. Un particolare (il leone è così docile perché nel servus ha riconosciuto chi a suo tempo lo aveva curato) suggerisce il principale ipotesto, che è Gell. V 14.74 Un ipotesto a quanto 72 «È assai celebrato quel leone amico dell’uomo che si faceva condurre a guinzaglio per le botteghe di Roma da un servo che era stato suo ospite. Gli chiesero come mai uno come lui che nell’arena vinceva nella corsa i cavalli più veloci, nel salto i leopardi, nella forza i tori, gli uomini in umanità, e che fra i leoni per bellezza e prestigio non era secondo a nessuno – proprio lui tollerasse di essere condotto a guinzaglio e di farsi abbaiare dietro da cani furibondi. Rispose: “Giovare agli amici e disprezzare gli abbaiatori sono le due facce della stessa disposizione d’animo”». 73 Quale fosse in proposito l’atteggiamento dell’Alberti ho cercato di chiarirlo in CARDINI, Cosa è Libripeta (passim). 74 Desumendo la notizia dalle Meraviglie d’Egitto di Apion, detto Plistonices, Gellio racconta dell’amicizia tra un uomo e un leone. L’uomo, un servo fuggitivo, si era rifugiato in una grotta dove gli si avvicina un leone ferito, che gli mostra il piede nel quale gli si era conficcata una spina. Il servo gliela toglie e lo medica. È il beneficio dal quale nasce la loro amicizia. Anni dopo il servo, catturato, è costretto in uno spettacolo circense a combattere con i leoni. Gli si avvicina il più maestoso e feroce, che invece di azzannarlo scodinzola e gli lecca gambe e mani. È il leone della 30 SUI PARATESTI DEGLI APOLOGI CENTUM DI LEON BATTISTA ALBERTI - II ne so sconosciuto ma confermato dal IV libro familiare dove quel capitolo di Gellio è larghissimamente citato.75 E da Gellio si deve partire sia per la corretta interpretazione dell’apologo, sia per misurarne il tasso di originalità, sia per comprendere che l’amicizia celebrata dall’Alberti così nell’apologo come in quel passo della Familia non è affatto (come vorrebbero altri studiosi) un’«amicizia […] assolutamente disinteressata».76 Se lo fosse sarebbe in stridente contrasto con l’impianto stesso di quel libro sull’amicizia. E difatti (così in Gellio come nel IV libro familiare) disinteressata non è: nasce da un «beneficio», e il beneficio è ricambiato con un altro beneficio (il che implica una sorta di do ut des). Come ad avallare a distanza i racconti di Piero Alberti sui modi con cui si era procurato, da Milano a Roma a Napoli, diversi amici potentissimi. Appunto con doni, favori, benefici. Ma anche è certo che l’Alberti proietta se stesso sul leone di Gellio e inserisce nella riscrittura una sua specifica e peculiare tematica: gli invidi detrattori e mordaci. Due novità che modificano in radice la fonte. La quale è altresì modificata da altri apporti intertestuali. All’ipotesto gelliano è «ammarginato» (per canes latrantes post se insanire pateretur e per latratores despicere) PLIN. nat. hist. VIII 50.77 Né sfugga che queste agnizioni hanno una portata metodologica. Sono la migliore conferma che possa darsi della validità sia del metodo dello smontaggio, sia dell’assunto che l’Alberti è un autore che si commenta con se stesso, sia della tesi che caverna che lo ha riconosciuto. Dice il servo: «‘Intellego autem’ […] ‘hunc quoque leonem me tunc separato captum gratiam mihi nunc beneficii et medicinae referre’. Haec Apion dixisse Androclum tradit eaque omnia scripta circumlataque tabula populo declarata atque ideo cunctis petentibus dimissum Androclum et poena solutum leonemque ei suffragiis populi donatum. ‘Postea’ inquit ‘videbamus Androclum et leonem loro tenui revinctum urbe tota circum tabernas ire, donari aere Androclum, floribus spargi leonem, omnes ubique obvios dicere: “Hic est leo hospes hominis, hic est homo medicus leonis”» (GELL. V 14, 28-30). 75 ALBERTI, Opere volgari, I, p. 290. 76 P. TESTI MASSETANI, Ricerche sugli “Apologi” di Leon Battista Alberti, «Rinascimento», s. II, 12 (1972) [ma 1974], pp. 79-134: 95-96 (corsivo mio). 77 «Generositas [i.e. leonis] in periculis maxime deprehenditur, non illo tantum modo, quo spernens tela diu se terrore solo tuetur ac velut cogi testatur cooriturque non tamquam periculo coactus, sed tamquam amentiae iratus. Illa nobilior animi significatio: quamlibet magna canum et venantium urguente vi contemptim restitansque cedit in campis et ubi spectari potest; idem ubi virgulta silvasque penetravit, acerrimo cursu fertur velut abscondente turpitudinem loco». Si aggiunga che Plinio, poco più avanti (§ 56), anche dà alcuni exempla fortuitae clementiae leonum non troppo dissimili da quello narrato da Gellio. 31 ROBERTO CARDINI l’umanista aveva l’abitudine di riscrivere sempre due volte e su due tavoli diversi i classici che veniva spremendo. Nella fattispecie quello stesso capitolo di Gellio lo gioca prima negli Apologi, e quindi su un tavolo umoristico, e poi nella Familia, e dunque su un tavolo serio. *** 10. L’apologo seguente, il XCVIII, dice: Lepus ille apud Martialem poetam celeberrimus, qui in os leonis confugerat, spectans a longe latrantes canes eos, qui se acrius essent prosecuti, «En, – inquit – quanti interest nos huic commendatos fore!».78 Questo apologo è in rapporto contrastivo con il LX,79 ma il tema è identico: la scelta dei protettori. Nell’ultima decade la lepre in bocca al leone si sente ed è protetta dalla canea che la insegue, nella sesta decade la farfalla ricercava invece un appoggio su una canna, ossia su chi trema ad ogni alito d’aria ed ha la testa vuota. È una di quelle “corrispondenze” a distanza che documentano, e quindi garantiscono, la compattezza di una compagine testuale. Ma l’apologo XCVIII non ha soltanto una valenza architettonica, anche ha un evidente risvolto autobiografico e al contempo paratestuale. Di solito, nelle dediche è detto che si è scelto quel certo dedicatario perché è in grado di proteggere la nuova opera dai morsi dei critici, frequentemente paragonati a cani rabbiosi. Così qui la lepre si rifugia in bocca al leone per proteggersi dalla canea che la incalza. E il ripiego funziona. Sennonché nell’apologo protettore e autore coincidono: Battista, ossia l’autore sotto figura di lepus è al contempo il leo (nome d’arte di 78 «Tutti abbiamo letto in Marziale di quella lepre che si era rifugiata in bocca ad un leone. Costei si mise ad osservare da lontano i cani che abbaiavano e che l’avevano inseguita tanto accanitamente. Quindi esclamò: “Ecco quanto conta che mi sia affidata a lui!”». 79 «“Volebam quidem apud vos divertere, – inquit papilio – sed dicite: quidnam periculi imminet, quod vos video trementes?”. Dixere rogata arundinum folia: “Tu proinde cogita ut recte nobiscum agi posse speremus, quandoquidem hec, quam colimus, cum vacui sensus est, tum in omnem partem ad casum nutat”» («“Volevo venire ad alloggiare da voi – sussurrò la farfalla – ma ditemi: qual è il pericolo che vi sovrasta, che vi vedo tutte tremanti?”. Le foglie delle canne risposero: “Pensa tu quale buona sorte possiamo aspettarci, dal momento che questa che onoriamo e adorniamo è tanto priva di senno da vacillare di qua e di là ed esser sempre sul punto di cadere”»). 32 SUI PARATESTI DEGLI APOLOGI CENTUM DI LEON BATTISTA ALBERTI - II Battista) nella cui bocca si rifugia il lepus! Notevole, no? Ma non strano.80 Nel proemio all’VIII delle Intercenales l’Alberti si appella, alfierianamente, alla Posterità,81 e nel proemio al Momus si rifiuta di elogiare il dedicatario (peraltro rimasto anonimo) perché detesta gli adulatori.82 Dunque «quanti interest nos huic commendatos fore», interpretato a questa luce, significa che l’Alberti si raccomanda a se stesso, perché conta solo su stesso. Un po’ come in Anuli dove celebra il matrimonio con se stesso, giura cioè eterna fedeltà ai valori del suo emblema, infilandosi l’anello dell’«occhio alato».83 L’invito a contare solo su stessi viene del resto anche e soprattutto da Oraculum (il cui martellante refrain è: “ciò che chiedi alla divinità ce l’hai nelle mani: usalo!”).84 E Oraculum è un testo fondante della religiosità e della morale dello scrittore, e quindi anche del suo modo di concepire le “dediche”. L’autoproiezione in una lepre può apparire sconcertante, ma non lo è. Una lepre inseguita da una muta di cani latranti che cercano di azzannarla è al contrario azzeccatissima “figura” di uno scrittore che si sente perennemente perseguitato e incalzato da canee di critici mordaci. Laddove è ovvio che pure questo apologo, vertendo sui critici mordaci, e sul modo di difendersene, si connette ai paratesti proemiali, in particolare alla risposta di Esopo. 80 Strano invece è sembrato a Martin Korenjak, che ha di conseguenza proposto per il ruolo del leone Leonello d’Este: «Mentre dietro i leoni degli Apologi 93, 96-97 e 99 facilmente si può intravedere la sagoma dell’Alberti, difficilmente si può qui attribuire all’autore il ruolo di protettore (Beschützer) impersonato dal leone. […] Per il ruolo del leone si propone, a causa del nome e parimenti per aspetti fattuali, il futuro mecenate dell’Alberti, Leonello d’Este, col quale Alberti in questo tempo allacciava i primi legami e la cui benevolenza (Aufmerksamkeit) sembra essersi attirato soprattutto con gli Apologi» (KORENJAK, Bemerkungen, p. 87). In realtà nel 1437 l’Alberti Leonello ancora non lo conosceva, tant’è vero che il 12 ottobre di quell’anno, e quindi due mesi e mezzo prima dalla composizione e dedica degli Apologi al Marescalchi (fine dicembre 1437) aveva bisogno dell’intermediazione di Poggio per dedicare a Leonello la redazione definitiva della Philodoxeos fabula. Il sicuro terminus ante quem della conoscenza diretta è la dedica del Theogenius (primi mesi del 1442), laddove è del tutto probabile che la conoscenza personale sia avvenuta durante il soggiorno ferrarese di Battista (gennaio-luglio 1438). Dunque che il leone dell’apol. XCVIII sia Leonello d’Este è ipotesi priva di fondamento. Si aggiunga che il lepus dell’apologo non cerca attenzione o premura (Aufmerksamkeit), cerca «protezione», e che l’Alberti, per difendersi dai morsi dei detrattori, non ha mai cercato la «protezione» dei potenti. 81 ALBERTI, Intercenales, Pr. l. VIII, § 12, p. 425. 82 Cfr. supra, n. 36. 83 ALBERTI, Intercenales, pp. 611-12. 84 ALBERTI, Intercenales, pp. 253-59. 33 ROBERTO CARDINI Che l’autore sfruttato sia in questo caso Marziale, lo dichiara lo stesso autore. Rosario Contarino ha interpretato così il rapporto intertestuale: «è una scena circense ricorrente nel libro I degli Epigrammata (6, 14, 22, 44, 48, 51, 60, 104); una lepre viene rincorsa nell’arena dal leone che, sazio di prede più grandi, si diverte a far passare indenne il piccolo animale attraverso le sue fauci. L’apologo è la risposta all’epigramma 48: ‘Si vitare canum morsus, lepus improbe, quaeris, / ad quae confugias ora leonis habes’ (vv. 7-8)».85 Confesso che non ho capito in che senso l’apologo albertiano possa definirsi una «risposta all’epigramma 48». Ma il rinvio a MART. I 48 è giusto. Aggiungo che anche MART. I 104, 12-22 ha secondo me inciso sull’apologo,86 ma soprattutto colgo la palla al balzo per avanzare alcune considerazioni che Contarino ha tralasciato. Le schematizzerei così: – l’apologo albertiano non è una «risposta», è una riscrittura dell’epigramma di Marziale: tant’è che lo trasforma in tutt’altra cosa; – il ciclo sul leone e la lepre è in Marziale condito di bassa (e francamente insopportabile) adulazione nei confronti di Domiziano: nell’apologo di adulazione non c’è ombra (anzi, se la mia interpretazione è giusta, l’adulazione è negata in radice); ALBERTI, Apologhi ed elogi, p. 76, n. 24. Per non obliterare il contesto di quel ciclo poetico riporto l’epigramma per intero, ponendo in corsivo i vv. 12-22: «Picto quod iuga delicata collo / pardus sustinet inprobaeque tigres / indulgent patientiam flagello, / mordent aurea quod lupata cervi, / quod frenis Libyci domantur ursi / et, quantum Calydon tulisse fertur, / paret purpureis aper capistris, / turpes esseda quod trahunt visontes / et molles dare iussa quod choreas / nigro belva non negat magistro: / quis spectacula non putet deorum? / Haec transit tamen, ut minora, quisquis / venatus humiles videt leonum, / quos velox leporum timor fatigat. / Dimittunt, repetunt, amantque captos, / et securior est in ore praeda, / laxos cui dare perviosque rictus / gaudent et timidos tenere dentes, / mollem frangere dum pudet rapinam, / stratis cum modo venerint iuvencis. / Haec clementia non paratur arte, / sed norunt cui serviant leones» («Il leopardo che porta leggiadri gioghi sul suo collo screziato, le tigri feroci che sopportano con pazienza la frusta, i cervi che mordono i loro freni dorati, gli orsi libici che si assoggettano alle briglie; e così pure il cinghiale che, simile a quello che secondo il mito Calidone sopportò, si lascia mettere un guinzaglio di porpora, orrendi bisonti che tirano carri da guerra e l’elefante che non si rifiuta d’eseguire al comando del suo nero domatore flessuosi passi di danza: chi non giudicherebbe questi spettacoli opera degli dèi? Ma questa è roba da poco per chiunque vede i leoni a caccia di modesta selvaggina, sfiancati dalla impaurita agilità delle lepri. Le lasciano, le riprendono e amano la preda, che si sente più al sicuro tra le loro fauci; e quelli si divertono a socchiuderle e poi a spalancarle per farla passare e a usare cautela con le zanne per timore di stritolare una così tenera preda, loro che hanno appena finito di atterrare dei torelli. Questa clemenza non la si ottiene con l’addestramento: i leoni sanno bene di chi sono al servizio», MARZIALE, Epigrammi, p. 217). 85 86 34 SUI PARATESTI DEGLI APOLOGI CENTUM DI LEON BATTISTA ALBERTI - II – Marziale descrive per ben otto volte lo stesso «spettacolo», forse spassoso (per gli spettatori, il poeta e anche il leone), ma sicuramente parecchio crudele − una povera lepre inseguita da un leone che si diverte a tormentarla: nell’apologo non si accenna che implicitamente, grazie alla citazione della fonte, a tale «spettacolo»; – in tutti gli epigrammi del ciclo suddetto la lepre non si rifugia affatto nelle fauci del leone, è inseguita dal leone, il quale la lascia, la riprende, la fa entrare e uscire dalle zanne etc. (Le lasciano, le riprendono […] tra le loro fauci; […] si divertono a socchiuderle e poi a spalancarle per farle passare); – laddove Marziale invita la lepre a rifugiarsi nella bocca del leone, nell’apologo non c’è nessun invito: è la lepre a decidere di saltare in bocca al leone e quindi di raccomandarsi alla sua protezione; – di conseguenza l’invito di Marziale l’Alberti lo trasforma in una scelta e poi in commento della lepre; – l’invito di Marziale è un’arguzia, o piuttosto una freddura: l’Alberti trasforma la freddura in rassegnata saggezza; – in Marziale cani, leone, lepre sono semplici comparse di uno spettacolo, significano cioè ciò che sembrano e sono: l’Alberti li allegorizza tutti quanti e li trasforma in simboli (i cani sono gli invidiosi, e così via); – e finalmente la conclusione conferma la premessa: quell’epigramma di Marziale l’Alberti se l’è appropriato perché l’ha giudicato un materiale suscettibile di entrare a far parte di un nuovo edificio, di un personale «diversorio» costruito sulla base di un suo proprio «concetto» e «disegno».87 Anzi la manipolazione del prelievo (ne abbiamo appena visto i principali passaggi) è un ottimo esempio per illustrare le modalità impiegate dall’umanista per costruire, con materiali di riuso, i suoi testi. Ma questo elenco non sarebbe completo se non lo munissi di due addenda. Il primo è che la citazione esplicita di Marziale è un omaggio a quell’«ottimo poeta»88 che faceva parte dello “scaffale comico” (ossia umoristico) dell’Alberti,89 ma è al tempo stesso un’avvertenza al lettore. Un omaggio perché Marziale negli Apologi centum, a cominciare dalla dedica e dai primi apologhi ma so87 88 89 ALBERTI, Profugia, pp. 81-83. ALBERTI, Opere volgari, II, p. 72.36. ALBERTI, Opere volgari, II, p. 74.11-14. 35 ROBERTO CARDINI prattutto negli ultimi, è parecchio sfruttato, cosicché la citazione equivale al riconoscimento del debito e al saldo. Un’avvertenza al lettore perché l’autore, appena prima di congedarlo, lo mette sull’avviso, qualora, sbadato o ignorante, non se ne fosse finora accorto, che Marziale è uno dei principali ipotesti di tutto ciò che ha letto. E quanto alla fattispecie, è come se gli dicesse: rileggi gli Epigrammata, ritrova il ciclo del leone e della lepre, e misura lo scarto fra testi di partenza e testo d’arrivo. Che è poi quanto ho cercato di fare in questi appunti. Ma Marziale, proprio perché fa parte dello “scaffale comico” dell’Alberti, e proprio perché tanto viene sfruttato in un testo “comico” come gli Apologi centum, è anche l’oggetto di un confronto agonistico: e proprio sul terreno del “comico”. Certo è che ogni volta che lo riusa, l’Alberti profondamente lo trasforma. Oppure, quando la licenziosità confligge con uno dei principi basilari del suo umorismo (la signorilità del sorriso, possibile solo se sia fatto salvo il decoro),90 chirurgicamente lo scarta. Il secondo addendum l’ho anticipato nella prima parte di questa inchiesta, là dove ho sostenuto che gli Apologi centum sono, a cominciare dalla dedica al Marescalchi, uno xenium, anzi un apophoretum e che il modello va cercato negli xenia e negli apophoreta di Marziale.91 Talché tra la dedica al Marescalchi, che è un paratesto, e questo apologo c’è un’indubbia corrispondenza, e questa corrispondenza è un esempio della frequente osmosi, negli Apologi centum, tra soglia e interno dell’edificio. Un dato fondamentale per la comprensione dell’opusculum albertiano. *** 11. È ora il turno del penultimo apologo (XCIX): Theatrum non mediocri admiratione detinebatur leonem spectando, qui modo discum in altum perquam belle iactare, modo immanem orbem marmoreum maximis viribus volvere, modo ovo lepidissime ludere perdoctus esset. «Et quidnam? – inquit invidus – Levia hec sunt ac videntur quidem diversa, sed ea unum sunt. Nam illorum quodque volubile quippiam est». Respondit leo: «Fateor, o rerum peritissime, istuc esse ut asseris, sed te id nolo fugiat ovum esse hoc fragile quod volvo, mi homo, non pilam».92 «servata dignitate» (Corolle, § 64: ALBERTI, Intercenales, p. 335). CARDINI, Sui paratesti − I, pp. 237-41. 92 «Il pubblico di un circo non finiva di stupirsi osservando i virtuosismi di un leone: ora, con indicibile grazia, lanciava in alto un disco, ora, con sforzo immane, rotolava un’enorme sfera di marmo, 90 91 36 SUI PARATESTI DEGLI APOLOGI CENTUM DI LEON BATTISTA ALBERTI - II È pure questo tramato di riusi di Marziale (in particolare: Spectacula, giochi al circo e I libro, il ciclo del leone). È dunque strettamente connesso sia al precedente (la scena è in entrambi un anfiteatro o circo e in entrambi al centro c’è un leone ammaestrato e mansueto), sia al XCVII, pure quello ambientato in un circo e con protagonista un leone ammaestrato e mansueto e ugualmente vertente sull’invidia. Anche questo apologo è manifestamente autobiografico: che il leone sia “maschera” di Battista lo prova l’Autobiografia dove è Battista a prodursi in consimili prodezze (di forza, agilità, abilità, versatilità).93 Né l’invidia manca mai specie quando Battista fa qualcosa di eccezionale. Difatti è sempre presente nei paratesti (e spesso anche nei testi) delle sue opere principali: Intercenales, Familia e così via. Negli Apologi però il tema dell’invidia è strutturale: apre e chiude l’opera e torna ossessivamente molte volte (nei paratesti con lo scambio epistolare Battista-Esopo e negli apologhi X, XXX, XXXVIII, XCIII, C). E c’è poi, parimenti strutturale, il consueto spiazzamento affidato all’ironica replica. Il leone smaschera il ragionamento dell’invidioso, analizzandone il meccanismo e facendolo deflagrare. Una delle vie più praticate dagli invidiosi, dal più al meno tutti ne abbiamo fatta amara esperienza, è la diminuzione dei meriti altrui: è la riduzione all’ovvio, è la banalizzazione delle altrui eccellenze. Nella fattispecie è l’annichilimento dei virtuosismi del leone grazie a tre osservazioni: la prima mazzata è che tutto ciò che ha fatto il leone è privo di importanza, è anzi inconsistente (levia hec sunt); la seconda è che tutte le sue prodezze sembrano tante, e invece sono una sola; la terza è che nonché prodezze, sono banalità, posto che tutti gli oggetti che ha fatto ruzzolare, per aria e per terra, sono tondi e quindi per definizione roteabili. Il leone denuncia il vizio logico immanente in questo ragionamento: è vero, concede, tutti e tre gli oggetti sembrano uguali, ma non lo sono. Un uovo assomiglia a una palla, ma far ruzzolare una palla è cosa ben diversa dal far ruzzolare un uovo. ora amabilmente giocherellava con un uovo. “E cosa sarà mai? – disse un invidioso. Codeste sono coserelline da nulla: sembrano diverse ma sono una cosa sola. E difatti sono tutti quanti oggetti rotolabili”. “Sei un pozzo di scienza – rispose il leone – ed io sono pienamente d’accordo con te. Non vorrei però ti sfuggisse, amico caro, che questa cosetta fragile che ruzzolo non è una palla, è un uovo”». 93 ALBERTI, Autobiografia, p. 989 (§§ 3-4). 37 ROBERTO CARDINI È un’ironia che si direbbe socratica,94 anche per il contestuale elogio dell’invidioso. Un elogio appunto ironico («sei un pozzo di scienza, e io sono completamente d’accordo con te»), sì da smascherarlo e insieme ridicolizzarlo: dandogli pure dell’imbecille. Ma l’ironia è una faccia dell’umorismo, e quindi assolutamente conforme alla natura, appunto umoristica, dell’opera. Conforme all’umorismo è anche l’analisi (che ho prima evidenziato) del meccanismo dell’invidia. L’umorismo è arte analitica perché visione e rappresentazione sono filtrate dalla riflessione.95 E qui si tocca il cuore della riforma albertiana dell’apologo: ogni suo apologo è un sinolo di analisi e concisione. È dunque, intrinsecamente, un ossimoro. Ma l'ossimoro è la cifra stessa dell’umorismo. Né quello dell’Alberti sfugge alla regola. Pianto-riso l’ho definito in Alberti o della nascita dell'umorismo moderno, laddove nel Saggio di esegesi ho concluso che è forma breve e pensiero lungo. Ho detto che anche questo è un apologo autobiografico. Ma qui l’allusione non è soltanto all’abilità atletica di Battista, è anche alla sua abilità letteraria: anzi quella è “figura” di questa. L’autoelogio significa che Battista è in grado di trattare, con somma disinvoltura, tutti i generi letterari, di vittoriosamente affrontare qualunque sfida. Come provano gli Apologi centum e come confermano sia la lettera di Esopo sia talune pericopi di questo stesso apologo: – Non mediocri admiratione: è quanto succede a Battista che stupisce tutti con la novità e varietà dei suoi scritti. – Ludere: non escluderei un’allusione ai generi “leggeri” in cui, in quegli anni, ma anche prima, si era impegnato Battista: le Intercenales e 94 Non per nulla lo scrittore doveva moltissimo a Socrate e lo amava moltissimo. La “scoperta” di Erumna 131-32 («Itaque sic statuo prudentis esse, se velle eum esse qui sit. Quam ad sententiam, superi boni, quos et memoria et mente celeres et mirificos ipse mecum discursus nunc primum feci! Longum esset enumerare omnes qui, male contenti vestigiis <in> quibus domestica instituta eos constituissent, rerum novarum cupiditate periere. Sed aliud erit ea pulcherrima, que ingenio et mente perspicio, enumerandi tempus») – una fondamentale “scoperta” che sta alla base degli scritti morali e umoristici dell’umanista, nient’altro è che un assioma socratico mediato da CIC. off. II 43 «Quamquam praeclare Socrates hanc viam ad gloriam proximam et quasi compendiariam dicebat esse, si quis id ageret, ut qualis haberi vellet, talis esset» (ALBERTI, Intercenales, pp. 359, 360, 364); laddove nell’universale spaccio che nel Momus viene fatto dei filosofi solo due sono salvati: Socrate, perché frequentava le piazze e i mercati, e dialogava con tutti, anche con gli artigiani, e Democrito, perché studiava, da filosofo e da scienziato, gli animali (ALBERTI, Momus, pp. 1103-06). 95 L. PIRANDELLO, L’umorismo, a cura di S. GUGLIEMINO, Milano, Mondadori, 1986 (passim). 38 SUI PARATESTI DEGLI APOLOGI CENTUM DI LEON BATTISTA ALBERTI - II gli Apologi rientrano nei generi “leggeri” e il loro stile è prevalentemente humilis; ma ancor più humilis è lo stile di Mirtia e Agilitta, un dittico elegiaco dove la contaminatio con la bucolica è pervasiva e strutturale.96 – Sed te id nolo fugiat ovum esse quod volvo, non pilam: i tre esercizi credo alludano alla varietas, fondamentale sempre nella poetica dell’Alberti, e ben attiva anche negli Apologi, laddove l’ironica battuta sull’uovo che non è una palla, penso significhi: “trattare con arte l’apologo non è così facile come sembra”. *** 12. Ma in questa serie sul leone, che conclude l’opera, va anche vista una delle manifestazioni più impressionanti dello sfrenato narcisismo dell’Alberti. Un narcisismo addirittura rivendicato ed esibito nell’ultimo apologo: In pavonem invidus: «O inepte – dixerat – tune tibi coronam imposuisti?». Respondit pavo: «Quod torquem tam variis coloribus susceperim, nondum etiam perpendisti?». Risere nymphe.97 È manifesto che quest’ultimo apologo si riallaccia ai paratesti iniziali, proseguendoli e completandoli, cosicché pure l’epilogo ha funzione paratestuale. E non solo perché sia lì (nella risposta di Esopo) sia qui figurano gli invidi (l’opera, lo constatiamo una volta di più, si apre dunque e si chiude sotto il segno dell’invidia), ma perché Battista, soprattutto nel fittizio scambio epistolare con Esopo, si era incoronato da solo scrittore di genio, e re-inventore, più che rifondatore, di un genere letterario. Talché tanto il paragone con il pavone (simbolo tradizionale di vanità) quanto la battuta «o scriteriato, ti incoroni da solo?» erano reazioni da parte degli invidiosi colleghi umanisti facilmente immaginabili. La replica dell’Alberti è beffarda, uno sberleffo. Accetta 96 L’ho, ritengo, dimostrato in Albertiana. Appunti su “Agilitta”, un seminario del 16 giugno 2021 promosso dal Centro di Studi sul Classicismo in collaborazione con il “Dottorato in Filologia, Letteratura italiana, Linguistica” del Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze. 97 «L’invidioso attaccò il pavone: “O grullo, o che ti metti la corona da solo?”. Il pavone di rimando: “Che ho messo su una corona tempestata di pietre dai mille colori, non l’hai ancora notato?”. Risero le ninfe». 39 ROBERTO CARDINI tanto il paragone con il pavone quanto la battuta sull’auto-incoronazione, ma rilancia: «Che ho messo su una corona tempestata di pietre dai mille colori, non l’avete ancora notato?». Si tratta di una sorta di perfezionamento dell’atteggiamento da tenere nei confronti degli invidiosi. Suggerisce infatti un altro modo di affrontarli e spiazzarli. Nell’apol. XCIX ne ha smontato il ragionamento, squadernando la catena argomentativa ad esso sottesa e al contempo mostrandone il punto debole. Qui gira invece il coltello nella piaga: all’invidioso getta in faccia un’altra eccellenza, sì da farlo schiattare. Non è semplicemente la tecnica del “rilancio” ironico. L’invidioso “abbassa” le eccellenze del pavone al ciuffo sulla nuca, lo interpreta (quasi fosse esclusivo di quel volatile) come «corona» e dileggia il pavone che «si incorona da solo». L’eccellenza la sposta cioè su un particolare trascurabile, comunque non eccezionale, e le affibbia un’interpretazione malevola. Il pavone capisce il malizioso raggiro, mette in primo piano ciò che l’invidioso aveva cercato di nascondere, e glielo sbatte in faccia: “e sulla ruota, che è la mia vera corona e che è il vero motivo di tutto il tuo livore, non hai nulla da dire?”. Le ninfe, che assistono a questo ribaltamento, un capolavoro di intelligenza, prontezza ed ironia, ridono. Ma l’invidus, c’è da giurarlo, sbianca e ammutolisce. È un apologo da accostare al passo su Lepidus dell’intercenale Corolle. Anche lì c’è in ballo una corona e c’è un invidus, c’è anzi Invidia. Né lo sberleffo è meno sarcastico. In Corolle Battista non si paragona né è paragonato a un pavone, né si incorona e incensa da solo. E tuttavia è vincitore unico del certame coronario lì rappresentato, perché è l’unico che possiede perfettamente l’arte che dice di professare, l’umorismo. Ma appena è incoronato da Lode, la corona subito la dissacra, affermando che è ottima per pulire le padelle. Risere nymphe. Sebbene presumibilmente si tratti di un calco dalle Bucoliche di Virgilio,98 è un explicit che non può essere trascurato per mettere a fuoco i rapporti che negli Apologi intercorrono fra testo e paratesti. Perché è evidente che pure questo explicit ha una valenza paratestuale. È vero che un’analoga o identica clausola la si incontra nell’apologo che fa da proemio 98 «set faciles nymphae risere» (VERG. Ecl. III 9). 40 SUI PARATESTI DEGLI APOLOGI CENTUM DI LEON BATTISTA ALBERTI - II al libro VII delle Intercenales99 nonché nell’apol. LXX,100 ma qui Risere nymphe sigilla un’intera opera, e sicuramente i due vocaboli che la compongono sono entrambi molto significativi. Il primo ricorda che l’opera è da cima a fondo comica; chiarisce anzi in cosa, spesso, consista il sorriso umoristico degli Apologi (e in genere dell’Alberti): consiste in una battuta spiazzante, e dunque in uno smascheramento ottenuto grazie all’ironia. Il secondo trasferisce il genere dell’apologo in Arcadia o giù di lì (e la provenienza da un testo bucolico ne è chiara conferma). La dedica al Marescalchi ci aveva subito introdotti negli horti dell’Alberti, alcuni apologhi (direttamente o indirettamente) avevano chiamato in causa Priapo, che è il dio degli orti, la conclusione è di nuovo una scena agreste: popolata da pavoni e da ninfe. Né guasta ricordare, a questo proposito, che con le sue bucoliche in volgare l’Alberti inventa un’Arcadia toscana, il Mugello.101 Il pavo è, senza dubbio, Battista, che con gli apologhi precedenti, appena velandosi sotto la trasparente maschera del leone, si era ampiamente lodato. “Alberti pavone” non è troppo diverso da “Alberti Narciso”. Sono innumerevoli gli autoelogi che lo scrittore semina in tutte le sue opere, diretti, o messi in bocca agli interlocutori, oppure rivolti alle sue infinite maschere. Né forse è un caso che arrivi a sostenere che essendo «la pittura fiore di ogni arte», l’intera favola di Narciso «viene a proposito»: si può infatti dire che il dipingere è «altra cosa che simile abbracciare con arte quella ivi superficie del fonte?».102 Ma fondamentale è che di “Alberti pavone” Battista rida, così come ride di sé nel proemio al VII delle Intercenales, e pure lì in clausola ad un altro paratesto.103 È un nesso decisivo per sostenere la natura umoristica anche degli Apologi centum. Umoristica perché laddove lo scrittore comico non si mette in gioco, non si guarda dall’esterno, ma ride degli altrui difetti, lo scrittore umoristico ride invece anche di se stesso, direttamente o più spesso della maschera che ha indossato:104 qui quella del pavone, in Uxoria quella di «Risere Naiades» (ALBERTI, Intercenales, Pr. l. VII, § 11, p. 375). «Risere satyri». 101 L.B. ALBERTI, Rime e versioni poetiche, edizione critica e commento a cura di G. GORNI, Milano-Napoli, Ricciardi, 1975, p. 63. 102 ALBERTI, De pictura (redazione volgare), pp. 250-51. 103 ALBERTI, Intercenales, p. 376 (§§ 25-26), e la relativa chiosa a p. 381. 104 CARDINI, Comicità e umorismo, (passim). 99 100 41 ROBERTO CARDINI Trissophus, il «tre volte saggio», l’implacabile derisore atrocemente deriso, smascherato e messo alla berlina.105 In ordine poi a coronam, osservo che la corona (come ad esempio documentano Corolle, il Certame coronario, la Protesta) è una delle non poche ossessioni dell’Alberti. Ma lasciando le ossessioni alla critica psicanalitica, il fatto che negli Apologi lo scrittore si sia incoronato da solo significa che l’impresa annunciata nei paratesti incipitari a suo giudizio è perfettamente riuscita, e che dunque ha vinto, come in Corolle, la scommessa: nell’intercenale quella di rifondare l’umorismo, qui l’altra di rifondare l’apologo. Questa auto-incoronazione anche svela però una curiosa affinità tra Battista e Dante. Ancor prima di tagliare il traguardo, ma in prossimità della meta, il poeta aveva aperto il XXV del Paradiso pure lui aspramente polemizzando con i suoi nemici e incoronandosi da solo.106 Quanto invece alla pericope quod torquem tam variis coloribus susceperim nondum etiam perpendisti? ricordo che l’erroneo torqual di una parte della tradizione107 seguita dall’edizione tuttora di riferimento, quella curata da Paola Testi Massetani, ha dato del filo da torcere agli studiosi. Per Martin Korenjak l’inesistente torqual sarebbe una «collana» che circonda il collo del pavone.108 Sennonché tutta la parte anteriore dei pavoni, collo compreso, è uniformemente blu, talché al collo non hanno nulla che possa ricordare una collana. Laddove è evidente che il corretto torques, ossia circulus,109 qui significa “ruota”, perché la “ruota” dei pavoni è quasi esattamente un cerchio. Com’è noto i pavoni fanno la ruota solo in due 105 R. CARDINI, Smontaggio e umorismo. Uxoria dell’Alberti, «Moderni e Antichi», s. II, 1 (2019), pp. 125-54: 152-54. 106 «Se mai continga che ’l poema sacro / al quale ha posto mano e cielo e terra, / sì che m’ha fatto per più anni macro, / vinca la crudeltà che fuor mi serra / del bello ovile ov’io dormi’ agnello, / nimico ai lupi che li danno guerra; / con altra voce omai, con altro vello / ritornerò poeta, ed in sul fonte / del mio battesmo prenderò il cappello» (corsivo mio). 107 Torqual, come anche dico alla nota seguente, è errore congiuntivo dei testimoni della prima redazione reperibile anche in alcuni contaminati. 108 A suo parere torqual sarebbe infatti un «neologismo del tutto involontario nel significato del classico torques “collana”», e non (com’è in effetti) un errore della famiglia β irragionevolmente messo a testo da TESTI MASSETANI, Ricerche, p. 133 (testo e apparato). Dopodiché lo studioso affastella le più diverse (e tra loro contraddittorie) spiegazioni del significato dell’apologo: il pavone albertiano sarebbe la prima reincarnazione di Omero, ma anche il simbolo cristiano della resurrezione e dell’immortalità, ma anche l’occhio alato dello scrittore, e così via (KORENJAK, Bemerkungen, pp. 88-89; corsivo mio) 109 «Torquis est circulus» (FORCELLINI, s.v.). 42 SUI PARATESTI DEGLI APOLOGI CENTUM DI LEON BATTISTA ALBERTI - II occasioni: per far colpo sul loro harem (ogni pavone ha a disposizione almeno cinque pavonesse) e quando sono lodati. Il pavo dell’apologo è però dileggiato, non lodato. Dunque la ruota la fa come tutta risposta all’invidioso. Gli squaderna dinnanzi la sua coda tempestata di gemme stellanti, sì da lasciarlo senza parole. Ed è stellante e abbagliante perché è notoriamente munita, come ad es. si legge in Ovidio, dei cento occhi di Argo: «Arge, iaces, quodque in tot lumina lumen habebas, / exstinctum est, centum oculos nox occupat una. / Excipit hos volucrisque suae Saturnia pennis / conlocat et gemmis caudam stellantibus implet».110 Ma gli ocelli della coda del pavone sono cento (centum oculos), esattamente come gli Apologi centum. Dunque Battista, sub specie pavonis, all’invidioso che gli rinfaccia di essersi, nei paratesti incipitari, incoronato da solo nuovo Esopo, replica sciorinando la sua cauda meravigliosa. Una cauda dai cento occhi come cento sono gli apologhi che ormai ha ultimato. È un geniale sberleffo che ha al tempo stesso una portata strutturale. Il centesimo apologo unisce principio e fine, titolo e paratesti incipitari da un lato ed epilogo dall’altro. L’opera ha dunque una solida architettura circolare, è, insisto, una Ringkomposition: e l’ultimo apologo è tutt’insieme un apologo, una proiezione autobiografica, un paratesto apologetico (mette in scena infatti i lettori malevoli e la replica dell’autore). Ma anche e soprattutto è un eccellente testo umoristico. Un autore che non si perita di presentarsi come un pavone è certamente un autore che sa ridere di se stesso. Ed è un autore raro. Non so quanti altri scrittori, antichi o moderni, abbiano avuto il coraggio di apertamente presentarsi come un pavone e di presentare la propria opera come un pavone che fa la ruota. E al tempo stesso di riderci su. 110 OV. Met. I 720-23 («Argo, tu giaci disteso; e la luce, che dentro tant’occhi / ti scintillava una volta, s’è spenta del tutto! La notte, / unica notte perenne ricopre i tuoi cento occhi! / Ma li raccoglie Giunone e li colloca sopra le penne / del suo pavone, a cui empie la coda di gemme stellanti», OVIDIO, Le Metamorfosi, p. 43; corsivi miei). 43