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Gli artisti e la Comune

2018, Il tempo del possibile: l'attualità della comune di Parigi

Saggio sul rapporto tra gli artisti e la Comune, con particolare riferimento all'idea del lusso comune, all'interno del volume collettivo "Il tempo dell possibile: l'attualità della Comune di Parigi", a cura di Francesco Biagi, Massimo Cappitti, Mario Pezzella, 2018

GLI ARTISTI E LA COMUNE Erano dei pazzi, ma avevano in sé quella fiammella che non si estingue. Pierre-Auguste Renoir La condizione dell’artista durante il Secondo Impero L’arte francese durante il Secondo Impero era sottomessa al controllo dall’Accademia di Belle Arti. L’aspirante artista doveva scegliersi un maestro e sperare di passare l’esame di ammissione; una volta entrato, cominciava un cursus fatto di committenze remunerative, borse di studio (la piú ambita delle quali era il Prix de Rome) e della possibilità di esporre nelle grandi esposizioni ufficiali dei Salon. La giuria che vagliava l’accesso a questi ultimi era composta dagli artisti legati ai canoni del piú rigido accademismo, ovvero ad una rigorosa gerarchia dei generi, al primato del disegno e del chiaroscuro sul colore, e al riferimento costante all’antichità classica e al Rinascimento italiano. Il messaggio dell’arte sponsorizzata dallo Stato era quindi chiaro e la disciplina pittorica e la scelta dei soggetti lasciavano pochi margini di libertà. D’altra parte il Salon era l’unica fonte possibile di successo economico per un artista, essendo ancora troppo poche le gallerie private e le altre occasioni espositive, tanto che gli stessi Courbet e Manet, i pittori piú innovativi della Seconda Repubblica in aperto conflitto con l’accademismo, non rinunciarono mai ad esporvi le loro opere. Anche al di fuori del mondo delle belle arti il Secondo Impero stendeva un articolato sistema di controllo e censura sulla produzione letteraria e musicale, nonché sulle arti performative. I fatti del 1848 avevano suggerito al governo la necessità, in particolare, di rendere i caffè-concerto e i teatri, cosí diffusi nella cultura parigina dell’epoca, dei luoghi di puro intrattenimento per impedire che agissero come centri di propaganda sovversiva. Bisognava non solo sopprimere i dissidenti, ma anche inventare una cultura popolare favorevole all’Impero. In un periodo di grandi trasformazioni sociali, l’amalgama delle forme culturali tradizionali rurali e urbane con le nuove rivendicazioni di un proletariato sottoposto alle condizioni del capitalismo aveva dimostrato una forza dirompente sotto la monarchia di Luglio e la borghesia era conscia del 131 pericolo di un movimento culturale potenzialmente autonomo delle masse. Gli aspetti piú organizzati di questa cultura, come le goguettes – società conviviali di canto in cui poeti, musicisti e persone comuni si riunivano per scrivere e cantare canzoni satiriche, antigovernative e anticlericali – erano veicoli effettivi di protesta politica1. Di questo nuovo mondo che si ridefiniva tra città e campagna si fece interprete di rottura artistica Gustave Courbet (1819-1877). Insignito di una medaglia d’oro al Salon del 1849 che gli aveva dato la garanzia di poter esporre le sue tele senza dover passare al vaglio della giuria, egli sparigliò le carte dell’Accademia con un trittico di quadri esposti al Salon del 1851: Gli spaccapietre, Funerali a Ornans e Il ritorno dei contadini dal mercato. Convinto socialista, soprattutto a seguito dei fatti del 1848 e dell’amicizia con Proudhon, Courbet portava nella pittura ufficiale il popolo rurale nella sua “nuda vita”, facendo cosí un affronto a quella borghesia cittadina che aveva abbandonato la campagna per tentare l’ascesa sociale e voleva dimenticare il suo passato. «La materia essenziale del realismo courbetiano era [...] il materiale sociale della Francia campagnola, i suoi mutamenti e le sue ambiguità, la sua fatale stabilità di fondo, la sua struttura globale»2. Rompendo il tabú per cui le tele di grande formato dovessero essere riservate ai soggetti biblici, mitologici o allegorici; osando mostrare la banalità e la volgarità dei tipi umani; mancando completamente del chiaroscuro e di una composizione elaborata con un preciso centro drammatico; facendo venire meno la funzione dell’arte come creatrice di mondi immaginari lontani dalla vita reale, la pittura di Courbet scandalizzava i borghesi ed esaltava i socialisti. Cosí scriveva il giornalista conservatore Peisse: «la sua pittura è una macchina rivoluzionaria [...] Ci si aggiunge anche, ad aumentare il nostro sgomento, che quest’arte appena nata è figlia legittima della Repubblica, che è il prodotto e la manifestazione del genio democratico e popolare. Attraverso Courbet l’arte si è fatta popolo»3. E cosí invece si esprimeva il futuro comunardo Jules Vallès: «Si era credo, nel 1850. Si stava percorrendo, alcuni amici ed io, le sale dell’esposizione. D’un tratto ci arrestammo di fronte ad una tela che, nel catalogo, era segnata come Gli spaccapietre ed era firmata in rosso: G.Courbet. La nostra emozione fu profonda. Eravamo tutti entusiasti. Era un’epoca in cui le nostre teste straripavano di idee. Avevamo un rispetto profondamente radicato per tutti coloro che soffrivano o erano sconfitti, e chiedevamo all’arte nuova di fare la sua parte per il trionfo della giustizia e della verità»4. In Courbet reaCfr. A. Rifkin, Cultural movement and the Paris Commune, «Art History», n. 2, 1979, pp. 201-220. 2 T.J. Clark, Immagine del popolo. Gustave Courbet e la rivoluzione del ’48, Torino, Einaudi, 1978, p. 104. 3 Citato in ivi, p.126. 4 Citato in ivi, p.127. 1 132 zionari e socialisti, con sentimenti opposti, vedevano la negazione dell’arte per l’arte e il suo reinvestimento in strumento per l’emancipazione sociale. Nel 1855 Courbet si vide respingere dalla giuria del Salon La bottega del pittore, che egli considerava un proprio manifesto estetico, e decise di organizzare una mostra personale nel Pavillon de Realisme, creando la prima aperta rottura con il mondo ufficiale dell’Accademia. Otto anni dopo, una giuria particolarmente severa arrivò a bocciare oltre tremila opere, sollevando una forte polemica tra gli artisti e spingendo Napoleone III stesso a interessarsi della faccenda e ad istituire un Salon des Refusés per tutti coloro che erano stati respinti; al suo interno Le déjuner sur l’herbe di Manet creò grande scandalo. Nel 1867, l’Esposizione Universale che si tenne a Parigi celebrò il trionfo dell’industrializzazione (i cannoni di Krupp e il petrolio furono tra le innovazioni piú cariche di conseguenze future) e la Francia si proclamava avanguardia del progresso capitalista. Nulla, in quel trionfo di ottimismo, faceva presagire che, nel giro di pochissimi anni, il Secondo Impero sarebbe naufragato nella disfatta della guerra contro i prussiani, nell’assedio di Parigi e nella la proclamazione della Comune. Mentre la nuova Parigi dei boulevards – disegnati pochi anni prima da Haussmann, come ci ricorda Walter Benjamin, anche per impedire le insurrezioni che avevano costellato la storia della città degli ultimi decenni – splendeva nella sua modernità affollata di visitatori e turisti, nel Quartiere Latino, un giovane arrabbiato, Raoul Rigaud, futuro capo della polizia comunarda, arringava studenti e bohémien nella protesta per essere stati cacciati dalle loro soffitte a causa dell’aumento degli affitti, secondo un modello di gentrificazione ante-litteram. La Federazione degli Artisti Nel 1869 il futuro comunardo Ernest Pichio scuoteva l’ambiente accademico con Il deputato Alphonse Baudin sulle barricate del Faubourg St Antoine, il 3 dicembre 1851, una tela che ricordava l’uccisione del repubblicano Baudin durante il colpo di Stato del 1851 in un momento storico in cui l’affaire Baudin stava creando non pochi problemi al governo imperiale. Nel novembre 1868 un’imponente manifestazione si era infatti recata alla tomba di Baudin al cimitero di Montmartre ergendolo a eroe del rinnovato sentimento repubblicano. L’opera di Pichio, un dipinto giacobino che rivendicava la solidarietà del popolo contro l’oppressione dei militari, infrangeva la barriera tra belle arti classiciste e reportage; perciò venne respinta al Salon del 1869, ma la sua massiccia diffusione tramite le riproduzioni spinse il governo ad ammetterla a quello successivo, con la speranza di placare il movimento di opposizione che stava montando. La riproducibilità tecnica dell’arte ne dimostrava il potenziale politico nella nascente società di massa5. 5 Cfr. G.J. Sanchez, Organizing Indipendence: The Artists Federation of the Paris Commu133 Le rivoluzioni moderne in Francia sono sempre state accompagnate da mobilitazioni degli artisti. Assemblee generali si tennero durante la Rivoluzione francese, nel 1830 e nel 1848, e la Comune del 1871 non fece eccezione. Già durante la sollevazione del settembre 1870 che aveva portato alla proclamazione della Repubblica nel pieno della guerra franco-prussiana, gli artisti si erano riuniti con l’obiettivo di salvare le opere dal conflitto, formando una Commissione artistica per la salvaguardia dei musei nazionali sotto la direzione di Courbet. Il 19 marzo 1871, un giorno dopo la proclamazione della Comune, lo stesso Courbet, unanimemente stimato dai rivoluzionari in virtú del suo status di pittore e di fiero repubblicano socialista (il 23 giugno 1870 aveva rifiutato il titolo di cavaliere della Legion d’Onore) – e, va detto, altrettanto osteggiato e deriso per gli stessi motivi dagli intellettuali ostili alla Comune – pubblicava sul giornale «Le Rappel» un appello dal titolo Le arti libere. Attaccando il governo dispotico che produceva un’arte aristocratica e teocratica, Courbet affermava che «oggi che la democrazia si deve estendere ad ogni cosa sarebbe illogico che l’arte, che dona al mondo l’iniziativa, restasse in ritardo nella rivoluzione che si attua ora in Francia», e invocava una sua riorganizzazione al di fuori del controllo dello Stato. «È desiderabile che gli artisti stessi prendano l’iniziativa sotto la loro direzione, che determinino il loro modo di esporre, che si organizzino in un comitato»6. Il 6 aprile Courbet scriveva un secondo appello che invitava concretamente gli artisti a prendere il loro posto nella battaglia della Comune convocando un’assemblea. La chiamata ottenne grande successo, dal momento che il 14 aprile furono in oltre quattrocento – tra pittori, scultori, architetti e artisti decorativi – ad affollare l’anfiteatro della Scuola di Medicina e ascoltare la lettura del Manifesto della Federazione degli Artisti, un documento preparatorio redatto da un comitato ristretto che venne pubblicato il giorno successivo sul «Journal Official»7. Tre erano le fondamenta su cui si appoggiava la Federazione degli Artisti: la libera espressione dell’arte, svincolata da ogni controllo del governo (compresi i sussidi statali); l’uguaglianza dei diritti tra tutti i membri della Federazione; l’indipendenza e la dignità di ogni artista che sarebbero state garantite da un Comitato eletto a suffragio universale dagli artisti stessi. Questo Comitato doveva essere composto da sedici pittori, dieci scultori, cinque architetti, sei litografi e dieci membri rappresentanti delle arti decorative. ne and Its Legacy, 1871-1889, University of Nebraska Press, 1997, pp. 11-28. 6 Les Arts libres, «Le Rappel», Parigi, 18 marzo 1871. 7 «Journal officiel de la République francaise», Parigi, 15 aprile 1871. I firmatari del Manifesto sono G. Courbet, Moulinet, S. Martin, A. Jousse, Roszezench, Trichon, Dalou, J. Héreau, C. Chabert, H. Dubois, A. Faleynière, E. Pottier, Perrin, A. Mouilliard. 134 Tre erano anche gli obiettivi principali che essa si prefiggeva: la conservazione dei tesori del passato; la messa in opera e l’esaltazione di tutti gli elementi del presente; la rigenerazione del futuro attraverso l’educazione. Nella proposta di un giornale, «L’Officiel des Arts», si apriva inoltre a chiunque la possibilità di poter discutere le questioni estetiche e si chiamavano i cittadini a supportare questo lavoro di rinnovamento che non poteva prescindere dal supporto popolare. «Noi – si chiudeva il Manifesto con un passaggio il cui senso affronteremo tra poco – lavoreremo alla nostra rigenerazione, all’avvio del lusso comunitario, degli splendori del futuro e della Repubblica Universale». Nelle intenzioni dei promotori il Comitato della Federazione doveva essere una sorta di ampio fronte popolare che andava da artisti fortemente politicizzati come Courbet, Dalou, Pichio, Gill e Pottier a grandi vecchi come Daumier, Corot e Manet, uniti dall’identificazione repubblicana con le masse parigine contro l’Impero. In realtà molti degli eletti a far parte del Comitato – elezione che avvenne il 17 aprile con 290 votanti8 – non fecero mai parte attiva della stessa, alcuni perché rimasero fuori Parigi, altri perché non vollero compromettersi con una causa cosí radicale. Non aderirono al Comitato i pittori piú famosi, Corot, Manet, Millet e Daumier. Daumier, pur declinando l’invito, rimase a Parigi e commentò i fatti con la sua satira pungente. Manet abbandonò invece la città subito dopo l’assedio nel gennaio 1871 e vi fece ritorno solo dopo la caduta della Comune, realizzando, come vedremo, due amare denunce della sua disfatta. Per capire l’atteggiamento degli artisti durante quei giorni è interessante citare la reazione di uno dei pochi di essi che rimase a Parigi, Pierre Auguste Renoir. Amico di Courbet, Renoir simpatizzava per la causa dei comunardi, anche se non abbastanza da parteciparvi direttamente, convinto che essi fossero in «ritardo di ottant’anni» (in riferimento alla Rivoluzione francese) e non condividendo gli atti piú violenti imposti dalla guerra civile, come le fucilazioni e gli incendi di edifici come le Tuileries, avvenuti nel disperato momento della resistenza finale9. Un giorno, dipingendo lungo la Senna, Renoir venne sospettato da alcuni comunardi di essere una spia di Versailles; catturato per essere portato davanti al plotone di esecuzione, fu risparmiato solo perché venne riconosciuto da Raoul Rigaud, divenuto nel frattempo capo della polizia comunarda, a cui a sua volta anni prima Renoir stesso aveva salvato la vita quando lo aveva trovato a vagare affamato per la foresta di Fontainebleau nel tentativo di sfuggire alla polizia dell’Impero10. Svincolare le arti dal controllo statale da un lato e tenere aperti i musei furono le prime attività di cui la Federazione si fece immediatamente proL’elenco completo degli eletti è riportato nel «Journal Officiel de la République francaise», Parigi, 22 aprile 1871. 9 J. Renoir, Renoir, mio padre, Milano, Adelphi, 2015, p. 131. 10 Ivi, pp.125-127. 8 135 motrice. Courbet fece riaprire il Louvre, il Museo di Storia Naturale e i saloni delle Tuileries, nonostante il conflitto. Il 13 aprile la Comune decretava la distruzione della Colonna Vendôme, considerata «un monumento alla barbarie, un simbolo di forza bruta e di falsa gloria, un’affermazione del militarismo». L’abbattimento avvenne il 16 maggio successivo durante una solenne cerimonia. Quest’affronto eclatante all’autorità imperiale creò scalpore (e costò prima il carcere e poi un enorme condanna pecuniaria a Courbet, individuato come il suo principale responsabile) perché dimostrava, per dirla con le parole di alcuni suoi estimatori postumi, che la Comune sapeva «attaccare sul campo i segni pietrificati dell’organizzazione dominante della vita, riconoscere lo spazio sociale in termini politici, non credere che un monumento possa essere innocente»11. Nel nome dell’autonomia e dell’autorganizzazione, il lavoro della Comune investiva la cultura nel senso piú ampio, tanto che vennero organizzati molti concerti, spettacoli ed eventi12. Il 30 aprile, in una lettera ai parenti, Courbet si dichiarava «incantato» e non esitava a definire la Parigi di quei giorni «un vero Paradiso», in cui tutti i poteri dello Stato si erano costituiti in federazione13. Meno di un mese dopo la Comune veniva stroncata nel sangue dalla feroce repressione guidata da Thiers. La Comune durò troppo poco per i tempi di produzione delle belle arti. Non esistono dipinti o sculture di rilievo realizzati in quei due mesi, tanto che qualche critico ha parlato di una «rivoluzione senza immagini»14. Se David era stato l’artista della Rivoluzione francese e Marat la sua opera piú rappresentativa, alla Comune mancano entrambi15. Le immagini della Comune vanno cercate soprattutto nelle litografie e nei disegni, tecniche molto piú agili e rapide nella velocità di esecuzione, adatte ai tempi convulsi degli avvenimenti. I caricaturisti, in particolare, che non erano mai stati teneri con Luigi Napoleone, documentarono quotidianamente sia l’assedio di Parigi da parte dei prussiani sia la successiva guerra civile16. L’opera piú rappresentativa resta l’esecuzione dei comunardi 11 Internazionale situazionista, Sulla Comune, 1962, in Internazionale situazionista 1958-1969, Torino, Nautilus, 1994, n. 12, p. 13. 12 Cfr. A. Rifkin, op. cit. e G.J. Sanchez, op. cit. 13 Citata in M. De Micheli, Carte d’artista. Dal neoclassicismo al simbolismo. Lettere, confessioni, interviste, Milano, Bruno Mondadori, 1995, p. 137. 14 B. Tillier, La Commune de Paris, révolution sans images? Politique et représentations dans la France républicaine (1871-1914), Paris, Editions Champ Vallon, 2004. 15 Courbet, inattivo durante la Comune, dipinse soltanto un autoritratto durante la prigionia a Saint-Pelagie e mai dipingerà soggetti tratti dalle vicende della Comune negli ultimi anni di vita nell’esilio in Svizzera. Jules Dalou, l’altro artista comunardo piú rinomato, realizzò il suo omaggio piú celebre a quegli eventi, la tomba di Blanqui, soltanto nel 1885. Altre opere prodotte in quei giorni non hanno lasciato tracce significative nella storia dell’arte. 16 Cfr. M. Daniels, Caricatures from the Franco-Prussian War of 1870 and the Paris Commune, in «Electronic British Library Journal», 2005, n. 5, pp. 1-9. 136 rappresentata da Manet nella litografia La Barricata (esecuzione sommaria dei comunardi), realizzata al suo immediato rientro a Parigi dopo la capitolazione della Comune. Adattando la composizione della di poco precedente Esecuzione dell’imperatore Massimiliano, egli raffigurò l’esecuzione degli insorti senza alcun compromesso sentimentale. La stessa forza espressiva caratterizza Civil War, una litografia dura ed essenziale raffigurante il cadavere di un comunardo steso dietro una barricata. La rivoluzione educativa e il lusso comunitario La Comune era piú interessata a rifondare lo statuto e la funzione sociale dell’arte che non a produrre delle opere di propaganda o uno stile. Seguendo gli studi fondamentali sull’argomento di Kristin Ross17, la rivoluzione artistica abbozzata dai comunardi in quei settantadue giorni di vita si articola in una serie di snodi fondamentali. Come disse Marx, la piú grande misura sociale della Comune era la sua stessa esistenza in atto. Configurandosi come una forma di smantellamento dello Stato burocratico portato avanti da uomini e donne comuni, i suoi atti piú radicali vanno ricercati nelle questioni riguardanti le strutture della vita quotidiana, nelle iniziative che, applicando i principi della cooperazione e dell’autogestione, ribaltavano giornalmente gerarchie e istituzioni in ogni campo della vita sociale. Tra gli atti di rinnovamento piú significativi vi furono quelli rivolti al sistema scolastico: «rigenerare il futuro attraverso l’educazione» fu infatti uno dei grandi obiettivi a cui i comunardi misero subito mano. Una commissione, formata da Édouard Vaillant, Jean-Baptiste Clément, Jules Vallès, Gustave Courbet e August Verdure, si fece promotrice di un progetto per un’istruzione pubblica laica, obbligatoria e gratuita che si proponeva tre obiettivi: laicizzare l’insegnamento estromettendo il clero e decristianizzando le scuole (soppressione di crocifissi, madonne e altri simboli offensivi della libertà di coscienza, divieto di insegnare dogmi e recitare preghiere); promuovere una formazione integrata, comprensiva di elementi di cultura generale quanto professionali che assecondassero le naturali predisposizioni dell’alunno; e infine riservare una particolare cura all’istruzione femminile. L’uomo nuovo si sarebbe plasmato fin dalla tenera età. Asili nidi ispirati alle teorie sul Falansterio di Fourier dovevano diffondersi in tutti i quartieri e ogni riferimento alla religione avrebbe dovuto essere rimpiazzato con immagini di animali e alberi, per combattere la noia, individuata come la piú grande malattia dei bambini. Come recitava un manifesto della Comune, 17 Si vedano il fondamentale K. Ross, Communal Luxury. The Political Imaginary of the Paris Commune, London, Verso, 2015, e, in seconda battuta, K. Ross, The Emergence of Social Space: Rimbaud and the Paris Commune, London, Verso, 2008. 137 gli scopi morali della nuova educazione erano «insegnare al bambino ad amare e rispettare gli altri; ispirare in lui il senso della giustizia; insegnargli che la sua istruzione è intrapresa in vista dell’interesse di tutti»18. Su queste basi tutti i ragazzi, senza distinzione di classe e genere, avrebbero avuto accesso alle scuole, dove avrebbero ricevuto una formazione integrata e politecnica mirata, sempre sulle orme di Fourier, a superare la divisione tra lavoro manuale e intellettuale. Alternando scuola e laboratorio, essi avrebbero sviluppato armoniosamente corpo e mente, diventando delle persone complete, «capaci di usare le loro facoltà per produrre non solo con le loro mani ma anche con l’intelligenza». Come affermava il giornale operaio «L’Atelier», «l’artigiano che vive maneggiando utensili deve essere anche in grado di scrivere un libro [...] dev’essere in grado di prendersi una pausa dal suo lavoro giornaliero attraverso la cultura artistica, letteraria e scientifica»19. In questo progetto maturava il superamento dell’istruzione finalizzata alla separazione gerarchica imposta dalla società di classe e dalla divisione del lavoro capitalistiche. La prima ricaduta di questa rivoluzione del sistema educativo sul mondo dell’arte era la rivalutazione delle arti decorative, considerate minori rispetto alle belle arti. Uno dei principali promotori dell’educazione politecnica era Eugène Pottier (1816-1887), membro della Prima Internazionale, disegnatore di tessuti e ceramista, artista politecnico, poeta, divenuto celebre per aver scritto i versi dell’Internazionale, composti proprio in omaggio alla Comune. Pottier fu il protagonista piú originale della Federazione degli Artisti e il principale redattore del Manifesto; mentre Courbet si concentrava sull’organizzare l’autonomia degli artisti dalle istituzioni dello Stato, egli vedeva la possibilità di un processo liberatorio che attribuiva alla questione estetica un ruolo piú complesso. Erede della generazione degli artigiani degli anni trenta, Pottier era stato influenzato dai precetti pedagogici dell’educazione universale di Joseph Jacotot: «ogni cosa è in ogni cosa», «ognuno è in grado di connettere le vecchie conoscenze con quelle nuove», «tutti hanno uguale intelligenza», «impara qualcosa e collegalo a tutto il resto», erano tutti concetti portatori di una forte carica di emancipazione anti-istituzionale nel momento storico in cui lo Stato francese aveva un’urgente necessità di formare e condizionare culturalmente le masse emergenti. Tra il 1800 e il 1860 due terzi di coloro che venivano ammessi alla Scuola di Belle Arti e non riuscivano a fare la carriera da artisti furono assorbiti dal settore in espansione delle arti applicate, chiamati a decorare i nuovi oggetti dell’industria artistica che si stava rapidamente modernizzando in senso capitalista, diventando a tutti gli effetti degli operai. Parallelamente tanti altri, come Pottier, provenivano da un artigianato qualificato e, in nome della 18 19 138 K. Ross, Communal Luxury cit., p. 42. Ivi, p. 43. divisione tra belle arti e arti decorative, non avevano il diritto di firmare un’opera come potevano fare pittori e scultori. Il confluire della proletarizzazione degli artisti falliti e delle aspirazioni degli artigiani che reclamavano uno statuto pari a quello degli artisti costituí la base della Federazione. Si calcola che furono oltre diecimila gli artigiani qualificati e i lavoratori delle arti applicate che parteciparono alla Comune. D’altronde la loro politicizzazione non nasceva con la Comune. Già nel 1864 piú di un terzo dei firmatari della Carta che aveva dato origine alla sezione parigina della Prima Internazionale proveniva dalle arti decorative: lavoratori del bronzo e del legno, ceramisti, incisori. Significativamente, nel momento in cui gli artisti, minacciati dalla precarietà della loro condizione, avrebbero potuto agire per proteggerla, scelsero invece, tramite la Federazione, la linea opposta di accettare artigiani e artisti decorativi tra le loro fila, nel nome del progetto di unificare “tutte le intelligenze artistiche” in completa indipendenza dallo Stato. Il risultato principale delle risoluzioni del Manifesto fu, come disse uno scultore aderente alla Federazione, non di tutelare lo status delle belle arti ma di diffondere l’arte ovunque20. Per capire l’orizzonte in cui si inscriveva il progetto comunardo si pensi che il 12 maggio Vaillant, a nome della Commissione sull’educazione, nell’edificio della Scuola delle Belle Arti requisita e occupata, proclamava la creazione di una scuola professionale di arti industriali per sole ragazze. Mettendo in discussione il sistema educativo e la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, con la gerarchia che ne conseguiva tra arti nobili e minori, la Comune apriva una questione che sarebbe stata decisiva per il pensiero estetico a venire. Questo sovvertimento ne implicava uno piú radicale. Napoleon Gaillard (1815-1890) si definiva comunista, ateo, libero pensatore, nemico della morale borghese. Membro anch’egli della Prima Internazionale ed esponente di quelle classi pericolose che furono il nerbo della Comune, già condannato per aver partecipato alla manifestazione sulla tomba di Baudin, Gaillard era un artista decorativo (dipingeva porcellane) e soprattutto un artigiano, il piú famoso calzolaio di Parigi. Dopo la Comune scrisse un piccolo manuale, L’Arte del calzolaio, in cui sviluppò il modello di una calzatura naturale, adattabile al piede di ciascun individuo, a partire dallo studio delle statue antiche nei musei, esempio concreto di cosa volesse dire mettere l’arte al servizio della vita. Gaillard, che si definiva un artista-cazolaio, rifiutava l’industrializzazione imposta alla produzione di scarpe nel nome di un artigianato che offrisse al popolo oggetti di qualità. Durante la Comune Gaillard abbandonò il proprio mestiere di calzolaio per diventare il direttore generale responsabile dell’erezione delle barricate, uno strumento strategico fondamentale per l’insurrezione e la successiva resistenza, barricate che Gaillard stesso diceva che dovevano essere costruite 20 Citato in ivi, p. 54. 139 con scrupolo metodico e con la partecipazione generale della popolazione. Il 20 maggio 1871 egli si fece fotografare in posa davanti alla barricata piú maestosa eretta sotto la sua direzione in Place de la Concorde, «il castello Gaillard», come l’avevano ribattezzata i parigini in onore della sua imponenza. Con quest’azione Gaillard, anticipando concettualmente le avanguardie, poneva una firma alla sua creazione che ne rivendicava lo statuto d’opera d’arte, come riconobbero subito i nemici della Comune: «Egli considera le enormi barricate che ha costruito in Place Vendôme e in Place de la Concorde come opere d’arte e di lusso»21. Gaillard infrangeva la barriera tra la fatica e l’estetica: la barricata diventava un oggetto che fondeva arte e vita, utilità e bellezza, e lui stesso saldava in sé la condizione di umile artigiano con quella di artista. Il senso di questa rottura è testimoniato dalle parole del giornalista conservatore Mendès che, lamentandosi del disordine comunardo, non capiva perché Gaillard non producesse piú le sue belle scarpe e Courbet non dipingesse i suoi quadri22. Nell’ordine sociale imposto dal capitalismo industriale di fine Ottocento ognuno doveva stare al suo posto, attraverso una rigida divisione gerarchica di mestieri e attività e l’arte doveva essere l’Arte, un attività appannaggio di spiriti superiori che dovevano produrre immagini auliche ed astratte dalla vita reale. Un calzolaio che si proclamava artista nel costruire barricate funzionali alla rivoluzione rimetteva radicalmente in gioco la funzione dell’arte in relazione alla società e alla vita. «La poesia deve essere fatta da tutti, non da uno solo», scriveva pochi mesi prima Lautréamont (pseudonimo di Isidore-Lucien Ducasse), un comunardo mancato di poco, essendo stato trovato morto la mattina del 24 novembre 1870 nella sua camera in affitto mentre Parigi era assediata dall’esercito prussiano. Rimbaud, Reclus e Lafargue avrebbero formulato la stessa rivendicazione a nome della Comune: la rivoluzione doveva abbattere la divisione tra i pochissimi che potevano e i tantissimi che non potevano permettersi di giocare con le parole e le immagini. La Federazione degli Artisti voleva dunque allargare il piú possibile il campo dell’arte alla vita quotidiana, ridefinendo la prima come l’attività dell’uomo in grado di rendere piú ricca e appassionante la seconda. La bellezza doveva uscire dai musei e fiorire negli spazi comunitari, integrandosi totalmente nello spazio-tempo sociale e abbellendo villaggi e città, perché ogni persona aveva il diritto di vivere e lavorare in un ambiente piacevole. Questi erano gli obiettivi del lusso comunitario evocato nel finale del Manifesto. Il capitalismo industriale costringeva le arti decorative a produrre articoli di lusso inutili per i ricchi e una massa di oggetti brutti per il resto della popolazione. Erano gli albori del sistema mercantile che avrebbe dominato il 21 22 140 Citato in ivi, p.55. Cfr. K. Ross, The Emergence of Social Space cit., p. 13. Novecento. «Essendo la società stata divisa in classi nemiche – scriveva il comunardo Elisée Reclus – l’arte è diventata necessariamente falsa. Per il ricco si è trasformata in ostentazione, per il povero in null’altro che imitazione»23. L’arte comunitaria avrebbe trasformato l’iniziativa creativa da esclusiva di un’élite isolata ad attività spontanea del popolo e avrebbe ridisegnato materialmente la società. «Se i pittori e gli scultori fossero liberi – insisteva Reclus – non avrebbero bisogno di chiudersi nei Salon. Essi dovrebbero ricostruire le nostre città, prima demolendo questi ignobili cubi di pietra dove gli essere umani sono ammassati [...] Essi dovrebbero bruciare tutte le vecchie caserme del tempo della miseria in un immenso fuoco di gioia e io immagino che nei musei dove custodire le opere meritevoli di essere salvate ci sarebbe molto poco della pretesa arte del nostro tempo»24. L’Esposizione universale del 1867 si era posta tra i propri scopi quello di pubblicizzare gli «oggetti per il miglioramento fisico e morale delle masse»; cosí, per promuovere l’immagine della società ordinata e operosa della nuova industrializzazione, nella sezione “piccoli mestieri” erano stati messi in mostra gli operai stessi mentre producevano. L’esaltazione dell’etica del lavoro, con la conseguente accettazione della disciplina e dell’alienazione che comportava, veniva identificata dai comunardi come uno dei principali idoli da abbattere. Mentre Reclus coniava lo slogan «lavoriamo per renderci inutili», un altro celebre comunardo Paul Lafargue, alcuni anni dopo la fine della Comune, pubblicò Il diritto alla pigrizia (1884). Nel momento in cui la borghesia attaccava i comunardi sconfitti bollandoli come delle canaglie riottose al lavoro, la sinistra provava a riabilitarli come onesti lavoratori, di fatto condividendone e legittimandone i valori di fondo. Contro questo fronte monolitico, il diritto alla pigrizia, la poesia fatta da tutti e non da uno solo, il socialismo della bellezza, il lusso comunitario disegnavano la costellazione teorica di un’idea anti-utilitarista di vita incompatibile con la nascente «religione del capitalismo» (W.Benjamin). In questo senso la distruzione della colonna Vendôme assume un valore simbolico aggiunto, il fare spazio per il lusso comunitario. Questo sembra suggerire William Morris nel romanzo Notizie da nessun luogo (pubblicato nel 1890), trasfigurando l’abbattimento della Colonna Vendôme in quello della statua di Nelson a Trafalgar Square a Londra per lasciare il posto ad un frutteto di albicocche. La monumentalità nazionalistica lasciava il campo, nell’utopia morrisiana, a uno spazio-tempo dove la natura – la prima grande vittima del progresso industriale – donava la sua generosità lussuosa a un’umanità che si era liberata dai miasmi pestilenziali del capitalismo. Il riferimento a William Morris è importante, perché egli, insieme al movimento inglese delle Arts and Crafts, fu il primo erede delle istanze portate 23 24 Citato in K. Ross, Communal Luxury cit., p. 62. Citato in ivi, p.59. 141 avanti dalla Federazione degli Artisti, come testimonia simbolicamente la litografia Vive la commune realizzata da William Crane nel 1888. Come i comunardi, Morris era interessato a creare ed espandere le condizioni di un’arte fatta «dal popolo per il popolo» per suscitare felicità in chi la realizza e in chi la usa, mezzo di emancipazione e nobilitazione dell’uomo in un’ottica comunitaria, capace di portare la bellezza ad essere parte integrante della vita sociale. Tutto ciò veniva negato dal capitalismo, «perché una delle piú grandi cause della scarsità dell’arte popolare e dell’oppressione del lavoro senza gioia è l’obbligo imposto alla civiltà moderna di produrre merci misere per persone infelici»25. Nell’alienazione del lavoro industriale l’individuo perde il controllo creativo del processo produttivo e la forma di piacere che ne deriva; egli non è piú sollecitato ad usare l’intelligenza e diventa una macchina completamente separata dalla propria umanità. Come Pottier, Morris era preoccupato dalla condizione delle arti decorative devastate dai processi di industrializzazione, «rese triviali, meccaniche e stupide», mentre le belle arti si presentavano come «aggiunte idiote ad una pompa priva di significato, giochi ingegnosi per pochi uomini ricchi e inattivi»26. Il dominio capitalista non si materializzava soltanto nello sfruttamento economico dei lavoratori ma anche nella produzione di una massa di oggetti scadenti che, come le moderne città, popolavano la loro vita quotidiana e il loro immaginario di scenari di squallore funzionali ad abituarli ad una condizione di miseria e di rassegnazione alla sottomissione. Tutti, notava Morris attraverso un’analisi in anticipo sui tempi, venivano indistintamente soggiogati dalla fantasmagoria delle merci e dall’etica utilitaristica. L’attività artigianale e l’esperienza estetica negate dovevano essere una fondamentale rivendicazione proletaria; essendo portatrici di piacere e bellezza, esse erano l’antidoto naturale all’abbrutimento morale, ambientale e sociale dominante. Per Morris non poteva esistere socialismo senza un’arte popolare. «Invece di considerare l’arte un lusso accessorio solo per i piú privilegiati, i Socialisti rivendicano l’arte come una necessità umana che la società non ha il diritto di negare ad uno qualsiasi dei suoi cittadini»27. L’eredità Come in campo politico, cosí in quello artistico, la Terza Repubblica segnò il ritorno all’ordine. All’erezione della Basilica del Sacro Cuore sulla collina di Montmartre voluta dalla Chiesa per espiare i crimini della Comu- W. Morris, Arte, benessere e ricchezza (1883), in W. Morris, Arte e socialismo, Milano, Mimesis, 2015, p. 73. 26 Citato in K. Ross, Communal Luxury cit., p. 62. 27 W. Morris, L’ideale socialista: l’arte (1891), in W. Morris, Arte e socialismo cit., p. 85. 25 142 ne28, corrispose nei Salon il trionfo dei Gérôme e dei Bouguereau. Anche la principale rivoluzione del linguaggio artistico, quella impressionista, nei contenuti lavorava, piú o meno coscientemente, per il ristabilimento dello status quo: l’esaltazione della vita spensierata del tempo libero, filtrata attraverso la nuova luminosità, celebrava la borghesia e la Parigi nella sua modernità haussmaniana, contribuendo al programma delle classi dominanti di eliminare dalla memoria collettiva l’incubo della Comune e del socialismo29. Quando, nel 1875, l’ex comunardo Pichio realizzò una tela dedicata alla Comune significativamente intitolata Il trionfo dell’ordine, ricevette queste inequivocabili parole dal Direttore delle Belle arti: «Avete presentato all’Esposizione un dipinto nel quale il soggetto rievoca un episodio della nostra ultima guerra civile [...] Queste memorie dolorose non dovrebbero essere evocate in una competizione nazionale; esse sono di una natura che rivitalizza passione politiche dalle quali l’arte dovrebbe rimanere fuori [...] Il dipinto non deve essere mostrato, e le sue riproduzioni proibite»30. Mentre molti comunardi furono condannati all’impotenza nell’esilio e nella prigionia, altri provarono a realizzare i progetti della Federazione altrove, come Lucian Henry, allievo di Viollet le Duc, che venne prima spedito nella colonia penale di Noumea in Nuova Caledonia e poi, nel 1879, si trasferí in Australia dove tentò di dare all’arte decorativa il compito di trasformare l’ambiente in senso lussuoso31. La Comune è entrata rapidamente nel patrimonio del movimento rivoluzionario, tanto anarchico quanto comunista, e, di conseguenza, ha influenzato i numerosi artisti che, negli anni a venire, fecero professione pubblica di fede politica: alcuni, come Steinlen e Luce, marchiando esplicitamente la propria opera con l’appartenenza alla causa del proletariato; altri, come Camille Pissarro, Seurat, Signac, sganciando la propria arte da una funzione sociale e dichiarando la propria militanza in termini morali, come spiegava Signac: «Il pittore anarchico non è colui che fa dipinti anarchici ma colui che, senza preoccuparsi del denaro, senza desiderio di una ricompensa, lotta con tutta la sua individualità contro le convenzioni borghesi ed ufficiali [...] basando il suo lavoro sui principi eterni della bellezza, che sono semplici come quelli della moralità»32. 28 Sull’interessante operazione della Basilica del Sacro Cuore in relazione alla Comune si veda D. Harvey, L’esperienza urbana. Metropoli e trasformazioni sociali, Milano, il Saggiatore, 1998, pp. 235-265. 29 Cfr. A. Boime, Art and the French Commune. Imagining Paris after War and Revolution, Princeton University Press, 1995 e T.J Clark, The Painting of Modern Life: Paris in the Art of Manet and His Followers, Princeton University Press, 1984. 30 Citato in A. Rifkin, op.cit., p. 181. 31 Cfr. A. Stephen, Visions of a Republic: the Work of Lucien Henry, Powerhouse Publishing, 2001. 32 Citato in J. Kaplow, The Paris Commune and the Artists, in J. Hicks, R.Tucker (a cura di), Revolution & Reaction. The Paris Commune 1871, The University of Massachusetts 143 Ma, come detto, l’eredità piú profonda della Comune in campo estetico non va cercata nell’adesione degli artisti a un’ideologia o a soggetti partigiani, quanto in una ridefinizione della funzione dell’arte stessa, legata a un’educazione politecnica e integrata al servizio di un uomo nuovo, a una rivalutazione dell’artigianato e delle arti decorative che reinvestisse il progetto della bellezza nella vita quotidiana, e al progetto di un lusso comunitario. Quest’eredità, attraverso William Morris e le Arts and Crafts, sarebbe ulteriormente filtrata tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, tramite figure come Henry Van de Velde e l’anima antipositivista e anti-industriale di un certo Art nouveau, fino al primo Bauhaus di Weimar, quello che voleva costruire la cattedrale del socialismo attraverso un’integrazione organica tra tutte le arti, nonché, contemporaneamente, nel Vchutemas in Russia. Se Gropius e i maestri del Bauhaus rivendicarono le idee e le attività di Morris come fonte primigenia della propria ispirazione, si può retrodatare questa filiazione ai Pottier e Gaillard. «Non c’è alcuna differenza sostanziale fra l’artista e l’artigiano [...] Formiamo una nuova corporazione di artefici senza quell’arroganza di classe che vorrebbe erigere un muro di alterigia tra artigiani e artisti»33: queste parole, scritte da Gropius nel Programma del Bauhaus dell’aprile 1919, sembrano essere tratte dal Manifesto della Federazione degli Artisti. Questa corrente si è presto esaurita nella normalizzazione industriale imposta contemporaneamente dalla progressista Repubblica di Weimar tedesca e dal totalitarismo socialista in Unione Sovietica, per riapparire improvvisamente nel secondo dopoguerra in un ultimo sussulto nel pensiero e nell’azione di Asger Jorn, dapprima nel Movimento Internazionale per un Bauhaus Immaginista (1954-1956) e poi nell’Internazionale situazionista (1957-1972). Jorn era un estimatore delle teorie di Morris e il progetto originario situazionista fu un tentativo di aggiornare la realizzazione del lusso comunitario, promuovendo una creatività diffusa capace di rivoluzionare l’ambiente e lo spazio-tempo collettivo e rovesciare cosí il dominio ormai totalitario del capitalismo mercantil-spettacolare34. Provando a costruire delle città, «l’ambiente favorevole al dispiegarsi di nuove passioni», Jorn e i situazionisti cospirarono per alcuni anni per un’insurrezione dell’homo ludens contro Press, 1973, p.166. 33 W. Gropius, Programma del Bauhaus Statale di Weimar, 1919, in M. De Benedetti, A. Pracchi, (a cura di), Antologia dell’architettura moderna. Testi, manifesti, utopie, Bologna, Zanichelli, 1988, pp. 538-539. 34 Su questo aspetto dell’attività di Jorn e sul progetto architettonico dell’Internazionale situazionista cfr. L. Lippolis, Asger Jorn e l’architettura: superare il funzionalismo attraverso “nuove giungle caotiche”, in L. Bochicchio, P. Valenti, (a cura di), Asger Jorn. Oltre la forma, Genova, De Ferrari, 2014, pp. 92-99, e L. Lippolis, La nuova Babilonia. Il progetto architettonico di una civiltà situazionista, Costa & Nolan, 2007. 144 la tirannia secolare dell’homo oeconomicus, contaminando un marxismo alquanto eterodosso con elementi, tra tanti altri, anche del pensiero di Fourier, Rimbaud, Lafargue, Morris e della tradizione utopica e sovversiva del romanticismo35. In questo senso non stupisce che l’Internazionale situazionista vide nella Comune una rivoluzione abbozzata ancora carica di potenzialità, come dimostra Sulla Comune, un testo concepito insieme a Henri Lefebvre (poco importa qui il dissidio che nacque tra di loro a seguito della stesura del testo) e pubblicato nel 1962, nel momento della svolta strategica che avrebbe portato il gruppo verso la critica radicale della “società dello spettacolo” (svolta che Jorn, fedele a una progettualità costruttiva, non condivise, portandolo ad un distacco dalle attività del gruppo). «La Comune – scrivevano i situazionisti – è stata la piú grande festa del XIX secolo, in cui i ribelli sembravano essere diventati i padroni della propria storia, non tanto al livello delle decisioni politiche quanto in quelle della vita quotidiana della primavera del 1871. In questo senso dobbiamo comprendere Marx: la piú grande misura sociale della Comune era il suo essere in atto»36. I situazionisti non lo citarono mai, ma la parabola di Napoleon Gaillard è l’immagine riassuntiva del loro progetto e del percorso artistico e politico racchiuso tra quel 1871 e il 1968. Non a caso essi definirono le barricate del maggio parigino l’unica arte possibile della loro epoca. LEONARDO LIPPOLIS Cfr. M. Lowy, Il romanticismo nero di Guy Debord, in M. Lowy, La stella del mattino. Surrealismo e marxismo, Bolsena, Massari, 2001, pp. 79-90 e M. Lowy, R. Sayre, Rivolta e malinconia. Il romanticismo contro la modernità, Milano, Neri Pozza, 2017. 36 Internazionale situazionista, Sulla Comune cit., p. 113. 35 145