GLI ARTISTI E LA COMUNE
Erano dei pazzi, ma avevano in sé quella fiammella
che non si estingue. Pierre-Auguste Renoir
La condizione dell’artista durante il Secondo Impero
L’arte francese durante il Secondo Impero era sottomessa al controllo
dall’Accademia di Belle Arti. L’aspirante artista doveva scegliersi un maestro
e sperare di passare l’esame di ammissione; una volta entrato, cominciava
un cursus fatto di committenze remunerative, borse di studio (la piú ambita
delle quali era il Prix de Rome) e della possibilità di esporre nelle grandi
esposizioni ufficiali dei Salon. La giuria che vagliava l’accesso a questi ultimi era composta dagli artisti legati ai canoni del piú rigido accademismo,
ovvero ad una rigorosa gerarchia dei generi, al primato del disegno e del
chiaroscuro sul colore, e al riferimento costante all’antichità classica e al
Rinascimento italiano. Il messaggio dell’arte sponsorizzata dallo Stato era
quindi chiaro e la disciplina pittorica e la scelta dei soggetti lasciavano pochi
margini di libertà. D’altra parte il Salon era l’unica fonte possibile di successo economico per un artista, essendo ancora troppo poche le gallerie private
e le altre occasioni espositive, tanto che gli stessi Courbet e Manet, i pittori
piú innovativi della Seconda Repubblica in aperto conflitto con l’accademismo, non rinunciarono mai ad esporvi le loro opere.
Anche al di fuori del mondo delle belle arti il Secondo Impero stendeva
un articolato sistema di controllo e censura sulla produzione letteraria e musicale, nonché sulle arti performative. I fatti del 1848 avevano suggerito al
governo la necessità, in particolare, di rendere i caffè-concerto e i teatri, cosí
diffusi nella cultura parigina dell’epoca, dei luoghi di puro intrattenimento
per impedire che agissero come centri di propaganda sovversiva. Bisognava
non solo sopprimere i dissidenti, ma anche inventare una cultura popolare
favorevole all’Impero.
In un periodo di grandi trasformazioni sociali, l’amalgama delle forme
culturali tradizionali rurali e urbane con le nuove rivendicazioni di un proletariato sottoposto alle condizioni del capitalismo aveva dimostrato una
forza dirompente sotto la monarchia di Luglio e la borghesia era conscia del
131
pericolo di un movimento culturale potenzialmente autonomo delle masse. Gli aspetti piú organizzati di questa cultura, come le goguettes – società
conviviali di canto in cui poeti, musicisti e persone comuni si riunivano per
scrivere e cantare canzoni satiriche, antigovernative e anticlericali – erano
veicoli effettivi di protesta politica1.
Di questo nuovo mondo che si ridefiniva tra città e campagna si fece
interprete di rottura artistica Gustave Courbet (1819-1877). Insignito di
una medaglia d’oro al Salon del 1849 che gli aveva dato la garanzia di poter
esporre le sue tele senza dover passare al vaglio della giuria, egli sparigliò le
carte dell’Accademia con un trittico di quadri esposti al Salon del 1851: Gli
spaccapietre, Funerali a Ornans e Il ritorno dei contadini dal mercato.
Convinto socialista, soprattutto a seguito dei fatti del 1848 e dell’amicizia con Proudhon, Courbet portava nella pittura ufficiale il popolo rurale
nella sua “nuda vita”, facendo cosí un affronto a quella borghesia cittadina
che aveva abbandonato la campagna per tentare l’ascesa sociale e voleva dimenticare il suo passato. «La materia essenziale del realismo courbetiano era
[...] il materiale sociale della Francia campagnola, i suoi mutamenti e le sue
ambiguità, la sua fatale stabilità di fondo, la sua struttura globale»2.
Rompendo il tabú per cui le tele di grande formato dovessero essere riservate ai soggetti biblici, mitologici o allegorici; osando mostrare la banalità e la
volgarità dei tipi umani; mancando completamente del chiaroscuro e di una
composizione elaborata con un preciso centro drammatico; facendo venire
meno la funzione dell’arte come creatrice di mondi immaginari lontani dalla
vita reale, la pittura di Courbet scandalizzava i borghesi ed esaltava i socialisti.
Cosí scriveva il giornalista conservatore Peisse: «la sua pittura è una macchina rivoluzionaria [...] Ci si aggiunge anche, ad aumentare il nostro sgomento, che quest’arte appena nata è figlia legittima della Repubblica, che è
il prodotto e la manifestazione del genio democratico e popolare. Attraverso
Courbet l’arte si è fatta popolo»3.
E cosí invece si esprimeva il futuro comunardo Jules Vallès: «Si era credo,
nel 1850. Si stava percorrendo, alcuni amici ed io, le sale dell’esposizione.
D’un tratto ci arrestammo di fronte ad una tela che, nel catalogo, era segnata come Gli spaccapietre ed era firmata in rosso: G.Courbet. La nostra emozione fu profonda. Eravamo tutti entusiasti. Era un’epoca in cui le nostre
teste straripavano di idee. Avevamo un rispetto profondamente radicato per
tutti coloro che soffrivano o erano sconfitti, e chiedevamo all’arte nuova di
fare la sua parte per il trionfo della giustizia e della verità»4. In Courbet reaCfr. A. Rifkin, Cultural movement and the Paris Commune, «Art History», n. 2, 1979,
pp. 201-220.
2
T.J. Clark, Immagine del popolo. Gustave Courbet e la rivoluzione del ’48, Torino, Einaudi, 1978, p. 104.
3
Citato in ivi, p.126.
4
Citato in ivi, p.127.
1
132
zionari e socialisti, con sentimenti opposti, vedevano la negazione dell’arte
per l’arte e il suo reinvestimento in strumento per l’emancipazione sociale.
Nel 1855 Courbet si vide respingere dalla giuria del Salon La bottega del
pittore, che egli considerava un proprio manifesto estetico, e decise di organizzare una mostra personale nel Pavillon de Realisme, creando la prima aperta
rottura con il mondo ufficiale dell’Accademia. Otto anni dopo, una giuria
particolarmente severa arrivò a bocciare oltre tremila opere, sollevando una
forte polemica tra gli artisti e spingendo Napoleone III stesso a interessarsi
della faccenda e ad istituire un Salon des Refusés per tutti coloro che erano stati
respinti; al suo interno Le déjuner sur l’herbe di Manet creò grande scandalo.
Nel 1867, l’Esposizione Universale che si tenne a Parigi celebrò il trionfo dell’industrializzazione (i cannoni di Krupp e il petrolio furono tra le
innovazioni piú cariche di conseguenze future) e la Francia si proclamava
avanguardia del progresso capitalista. Nulla, in quel trionfo di ottimismo,
faceva presagire che, nel giro di pochissimi anni, il Secondo Impero sarebbe
naufragato nella disfatta della guerra contro i prussiani, nell’assedio di Parigi
e nella la proclamazione della Comune. Mentre la nuova Parigi dei boulevards – disegnati pochi anni prima da Haussmann, come ci ricorda Walter
Benjamin, anche per impedire le insurrezioni che avevano costellato la storia della città degli ultimi decenni – splendeva nella sua modernità affollata
di visitatori e turisti, nel Quartiere Latino, un giovane arrabbiato, Raoul
Rigaud, futuro capo della polizia comunarda, arringava studenti e bohémien
nella protesta per essere stati cacciati dalle loro soffitte a causa dell’aumento
degli affitti, secondo un modello di gentrificazione ante-litteram.
La Federazione degli Artisti
Nel 1869 il futuro comunardo Ernest Pichio scuoteva l’ambiente accademico con Il deputato Alphonse Baudin sulle barricate del Faubourg St Antoine, il 3 dicembre 1851, una tela che ricordava l’uccisione del repubblicano
Baudin durante il colpo di Stato del 1851 in un momento storico in cui
l’affaire Baudin stava creando non pochi problemi al governo imperiale.
Nel novembre 1868 un’imponente manifestazione si era infatti recata alla
tomba di Baudin al cimitero di Montmartre ergendolo a eroe del rinnovato
sentimento repubblicano. L’opera di Pichio, un dipinto giacobino che rivendicava la solidarietà del popolo contro l’oppressione dei militari, infrangeva la barriera tra belle arti classiciste e reportage; perciò venne respinta al
Salon del 1869, ma la sua massiccia diffusione tramite le riproduzioni spinse
il governo ad ammetterla a quello successivo, con la speranza di placare il
movimento di opposizione che stava montando. La riproducibilità tecnica
dell’arte ne dimostrava il potenziale politico nella nascente società di massa5.
5
Cfr. G.J. Sanchez, Organizing Indipendence: The Artists Federation of the Paris Commu133
Le rivoluzioni moderne in Francia sono sempre state accompagnate da
mobilitazioni degli artisti. Assemblee generali si tennero durante la Rivoluzione francese, nel 1830 e nel 1848, e la Comune del 1871 non fece
eccezione.
Già durante la sollevazione del settembre 1870 che aveva portato alla
proclamazione della Repubblica nel pieno della guerra franco-prussiana, gli
artisti si erano riuniti con l’obiettivo di salvare le opere dal conflitto, formando una Commissione artistica per la salvaguardia dei musei nazionali
sotto la direzione di Courbet.
Il 19 marzo 1871, un giorno dopo la proclamazione della Comune, lo
stesso Courbet, unanimemente stimato dai rivoluzionari in virtú del suo
status di pittore e di fiero repubblicano socialista (il 23 giugno 1870 aveva
rifiutato il titolo di cavaliere della Legion d’Onore) – e, va detto, altrettanto
osteggiato e deriso per gli stessi motivi dagli intellettuali ostili alla Comune
– pubblicava sul giornale «Le Rappel» un appello dal titolo Le arti libere.
Attaccando il governo dispotico che produceva un’arte aristocratica e teocratica, Courbet affermava che «oggi che la democrazia si deve estendere ad
ogni cosa sarebbe illogico che l’arte, che dona al mondo l’iniziativa, restasse
in ritardo nella rivoluzione che si attua ora in Francia», e invocava una sua
riorganizzazione al di fuori del controllo dello Stato. «È desiderabile che gli
artisti stessi prendano l’iniziativa sotto la loro direzione, che determinino il
loro modo di esporre, che si organizzino in un comitato»6.
Il 6 aprile Courbet scriveva un secondo appello che invitava concretamente gli artisti a prendere il loro posto nella battaglia della Comune convocando un’assemblea. La chiamata ottenne grande successo, dal momento
che il 14 aprile furono in oltre quattrocento – tra pittori, scultori, architetti
e artisti decorativi – ad affollare l’anfiteatro della Scuola di Medicina e ascoltare la lettura del Manifesto della Federazione degli Artisti, un documento
preparatorio redatto da un comitato ristretto che venne pubblicato il giorno
successivo sul «Journal Official»7.
Tre erano le fondamenta su cui si appoggiava la Federazione degli Artisti: la libera espressione dell’arte, svincolata da ogni controllo del governo
(compresi i sussidi statali); l’uguaglianza dei diritti tra tutti i membri della
Federazione; l’indipendenza e la dignità di ogni artista che sarebbero state
garantite da un Comitato eletto a suffragio universale dagli artisti stessi.
Questo Comitato doveva essere composto da sedici pittori, dieci scultori,
cinque architetti, sei litografi e dieci membri rappresentanti delle arti decorative.
ne and Its Legacy, 1871-1889, University of Nebraska Press, 1997, pp. 11-28.
6
Les Arts libres, «Le Rappel», Parigi, 18 marzo 1871.
7
«Journal officiel de la République francaise», Parigi, 15 aprile 1871. I firmatari del
Manifesto sono G. Courbet, Moulinet, S. Martin, A. Jousse, Roszezench, Trichon, Dalou,
J. Héreau, C. Chabert, H. Dubois, A. Faleynière, E. Pottier, Perrin, A. Mouilliard.
134
Tre erano anche gli obiettivi principali che essa si prefiggeva: la conservazione dei tesori del passato; la messa in opera e l’esaltazione di tutti gli elementi del presente; la rigenerazione del futuro attraverso l’educazione. Nella
proposta di un giornale, «L’Officiel des Arts», si apriva inoltre a chiunque la
possibilità di poter discutere le questioni estetiche e si chiamavano i cittadini a supportare questo lavoro di rinnovamento che non poteva prescindere
dal supporto popolare.
«Noi – si chiudeva il Manifesto con un passaggio il cui senso affronteremo tra poco – lavoreremo alla nostra rigenerazione, all’avvio del lusso
comunitario, degli splendori del futuro e della Repubblica Universale».
Nelle intenzioni dei promotori il Comitato della Federazione doveva essere una sorta di ampio fronte popolare che andava da artisti fortemente
politicizzati come Courbet, Dalou, Pichio, Gill e Pottier a grandi vecchi
come Daumier, Corot e Manet, uniti dall’identificazione repubblicana con
le masse parigine contro l’Impero. In realtà molti degli eletti a far parte del
Comitato – elezione che avvenne il 17 aprile con 290 votanti8 – non fecero
mai parte attiva della stessa, alcuni perché rimasero fuori Parigi, altri perché
non vollero compromettersi con una causa cosí radicale. Non aderirono al
Comitato i pittori piú famosi, Corot, Manet, Millet e Daumier. Daumier,
pur declinando l’invito, rimase a Parigi e commentò i fatti con la sua satira
pungente. Manet abbandonò invece la città subito dopo l’assedio nel gennaio 1871 e vi fece ritorno solo dopo la caduta della Comune, realizzando,
come vedremo, due amare denunce della sua disfatta.
Per capire l’atteggiamento degli artisti durante quei giorni è interessante
citare la reazione di uno dei pochi di essi che rimase a Parigi, Pierre Auguste
Renoir. Amico di Courbet, Renoir simpatizzava per la causa dei comunardi,
anche se non abbastanza da parteciparvi direttamente, convinto che essi
fossero in «ritardo di ottant’anni» (in riferimento alla Rivoluzione francese)
e non condividendo gli atti piú violenti imposti dalla guerra civile, come le
fucilazioni e gli incendi di edifici come le Tuileries, avvenuti nel disperato
momento della resistenza finale9. Un giorno, dipingendo lungo la Senna,
Renoir venne sospettato da alcuni comunardi di essere una spia di Versailles;
catturato per essere portato davanti al plotone di esecuzione, fu risparmiato
solo perché venne riconosciuto da Raoul Rigaud, divenuto nel frattempo
capo della polizia comunarda, a cui a sua volta anni prima Renoir stesso
aveva salvato la vita quando lo aveva trovato a vagare affamato per la foresta
di Fontainebleau nel tentativo di sfuggire alla polizia dell’Impero10.
Svincolare le arti dal controllo statale da un lato e tenere aperti i musei
furono le prime attività di cui la Federazione si fece immediatamente proL’elenco completo degli eletti è riportato nel «Journal Officiel de la République francaise», Parigi, 22 aprile 1871.
9
J. Renoir, Renoir, mio padre, Milano, Adelphi, 2015, p. 131.
10
Ivi, pp.125-127.
8
135
motrice. Courbet fece riaprire il Louvre, il Museo di Storia Naturale e i
saloni delle Tuileries, nonostante il conflitto.
Il 13 aprile la Comune decretava la distruzione della Colonna Vendôme,
considerata «un monumento alla barbarie, un simbolo di forza bruta e di
falsa gloria, un’affermazione del militarismo». L’abbattimento avvenne il 16
maggio successivo durante una solenne cerimonia. Quest’affronto eclatante
all’autorità imperiale creò scalpore (e costò prima il carcere e poi un enorme
condanna pecuniaria a Courbet, individuato come il suo principale responsabile) perché dimostrava, per dirla con le parole di alcuni suoi estimatori postumi, che la Comune sapeva «attaccare sul campo i segni pietrificati
dell’organizzazione dominante della vita, riconoscere lo spazio sociale in
termini politici, non credere che un monumento possa essere innocente»11.
Nel nome dell’autonomia e dell’autorganizzazione, il lavoro della Comune investiva la cultura nel senso piú ampio, tanto che vennero organizzati
molti concerti, spettacoli ed eventi12. Il 30 aprile, in una lettera ai parenti,
Courbet si dichiarava «incantato» e non esitava a definire la Parigi di quei
giorni «un vero Paradiso», in cui tutti i poteri dello Stato si erano costituiti
in federazione13. Meno di un mese dopo la Comune veniva stroncata nel
sangue dalla feroce repressione guidata da Thiers.
La Comune durò troppo poco per i tempi di produzione delle belle arti.
Non esistono dipinti o sculture di rilievo realizzati in quei due mesi, tanto
che qualche critico ha parlato di una «rivoluzione senza immagini»14. Se
David era stato l’artista della Rivoluzione francese e Marat la sua opera piú
rappresentativa, alla Comune mancano entrambi15.
Le immagini della Comune vanno cercate soprattutto nelle litografie e
nei disegni, tecniche molto piú agili e rapide nella velocità di esecuzione,
adatte ai tempi convulsi degli avvenimenti. I caricaturisti, in particolare,
che non erano mai stati teneri con Luigi Napoleone, documentarono quotidianamente sia l’assedio di Parigi da parte dei prussiani sia la successiva
guerra civile16. L’opera piú rappresentativa resta l’esecuzione dei comunardi
11
Internazionale situazionista, Sulla Comune, 1962, in Internazionale situazionista
1958-1969, Torino, Nautilus, 1994, n. 12, p. 13.
12
Cfr. A. Rifkin, op. cit. e G.J. Sanchez, op. cit.
13
Citata in M. De Micheli, Carte d’artista. Dal neoclassicismo al simbolismo. Lettere,
confessioni, interviste, Milano, Bruno Mondadori, 1995, p. 137.
14
B. Tillier, La Commune de Paris, révolution sans images? Politique et représentations dans
la France républicaine (1871-1914), Paris, Editions Champ Vallon, 2004.
15
Courbet, inattivo durante la Comune, dipinse soltanto un autoritratto durante la
prigionia a Saint-Pelagie e mai dipingerà soggetti tratti dalle vicende della Comune negli
ultimi anni di vita nell’esilio in Svizzera. Jules Dalou, l’altro artista comunardo piú rinomato, realizzò il suo omaggio piú celebre a quegli eventi, la tomba di Blanqui, soltanto nel
1885. Altre opere prodotte in quei giorni non hanno lasciato tracce significative nella storia
dell’arte.
16
Cfr. M. Daniels, Caricatures from the Franco-Prussian War of 1870 and the Paris Commune, in «Electronic British Library Journal», 2005, n. 5, pp. 1-9.
136
rappresentata da Manet nella litografia La Barricata (esecuzione sommaria
dei comunardi), realizzata al suo immediato rientro a Parigi dopo la capitolazione della Comune. Adattando la composizione della di poco precedente
Esecuzione dell’imperatore Massimiliano, egli raffigurò l’esecuzione degli insorti senza alcun compromesso sentimentale. La stessa forza espressiva caratterizza Civil War, una litografia dura ed essenziale raffigurante il cadavere
di un comunardo steso dietro una barricata.
La rivoluzione educativa e il lusso comunitario
La Comune era piú interessata a rifondare lo statuto e la funzione sociale
dell’arte che non a produrre delle opere di propaganda o uno stile. Seguendo gli studi fondamentali sull’argomento di Kristin Ross17, la rivoluzione artistica abbozzata dai comunardi in quei settantadue giorni di vita si articola
in una serie di snodi fondamentali.
Come disse Marx, la piú grande misura sociale della Comune era la sua
stessa esistenza in atto. Configurandosi come una forma di smantellamento
dello Stato burocratico portato avanti da uomini e donne comuni, i suoi atti
piú radicali vanno ricercati nelle questioni riguardanti le strutture della vita
quotidiana, nelle iniziative che, applicando i principi della cooperazione e
dell’autogestione, ribaltavano giornalmente gerarchie e istituzioni in ogni
campo della vita sociale.
Tra gli atti di rinnovamento piú significativi vi furono quelli rivolti al
sistema scolastico: «rigenerare il futuro attraverso l’educazione» fu infatti
uno dei grandi obiettivi a cui i comunardi misero subito mano. Una commissione, formata da Édouard Vaillant, Jean-Baptiste Clément, Jules Vallès,
Gustave Courbet e August Verdure, si fece promotrice di un progetto per
un’istruzione pubblica laica, obbligatoria e gratuita che si proponeva tre
obiettivi: laicizzare l’insegnamento estromettendo il clero e decristianizzando le scuole (soppressione di crocifissi, madonne e altri simboli offensivi
della libertà di coscienza, divieto di insegnare dogmi e recitare preghiere);
promuovere una formazione integrata, comprensiva di elementi di cultura
generale quanto professionali che assecondassero le naturali predisposizioni
dell’alunno; e infine riservare una particolare cura all’istruzione femminile.
L’uomo nuovo si sarebbe plasmato fin dalla tenera età. Asili nidi ispirati
alle teorie sul Falansterio di Fourier dovevano diffondersi in tutti i quartieri
e ogni riferimento alla religione avrebbe dovuto essere rimpiazzato con immagini di animali e alberi, per combattere la noia, individuata come la piú
grande malattia dei bambini. Come recitava un manifesto della Comune,
17
Si vedano il fondamentale K. Ross, Communal Luxury. The Political Imaginary of the
Paris Commune, London, Verso, 2015, e, in seconda battuta, K. Ross, The Emergence of
Social Space: Rimbaud and the Paris Commune, London, Verso, 2008.
137
gli scopi morali della nuova educazione erano «insegnare al bambino ad
amare e rispettare gli altri; ispirare in lui il senso della giustizia; insegnargli
che la sua istruzione è intrapresa in vista dell’interesse di tutti»18.
Su queste basi tutti i ragazzi, senza distinzione di classe e genere, avrebbero avuto accesso alle scuole, dove avrebbero ricevuto una formazione
integrata e politecnica mirata, sempre sulle orme di Fourier, a superare la
divisione tra lavoro manuale e intellettuale. Alternando scuola e laboratorio,
essi avrebbero sviluppato armoniosamente corpo e mente, diventando delle
persone complete, «capaci di usare le loro facoltà per produrre non solo con
le loro mani ma anche con l’intelligenza». Come affermava il giornale operaio «L’Atelier», «l’artigiano che vive maneggiando utensili deve essere anche
in grado di scrivere un libro [...] dev’essere in grado di prendersi una pausa
dal suo lavoro giornaliero attraverso la cultura artistica, letteraria e scientifica»19. In questo progetto maturava il superamento dell’istruzione finalizzata
alla separazione gerarchica imposta dalla società di classe e dalla divisione
del lavoro capitalistiche.
La prima ricaduta di questa rivoluzione del sistema educativo sul mondo
dell’arte era la rivalutazione delle arti decorative, considerate minori rispetto
alle belle arti.
Uno dei principali promotori dell’educazione politecnica era Eugène Pottier (1816-1887), membro della Prima Internazionale, disegnatore di tessuti
e ceramista, artista politecnico, poeta, divenuto celebre per aver scritto i
versi dell’Internazionale, composti proprio in omaggio alla Comune.
Pottier fu il protagonista piú originale della Federazione degli Artisti e il
principale redattore del Manifesto; mentre Courbet si concentrava sull’organizzare l’autonomia degli artisti dalle istituzioni dello Stato, egli vedeva
la possibilità di un processo liberatorio che attribuiva alla questione estetica
un ruolo piú complesso. Erede della generazione degli artigiani degli anni
trenta, Pottier era stato influenzato dai precetti pedagogici dell’educazione
universale di Joseph Jacotot: «ogni cosa è in ogni cosa», «ognuno è in grado
di connettere le vecchie conoscenze con quelle nuove», «tutti hanno uguale intelligenza», «impara qualcosa e collegalo a tutto il resto», erano tutti
concetti portatori di una forte carica di emancipazione anti-istituzionale
nel momento storico in cui lo Stato francese aveva un’urgente necessità di
formare e condizionare culturalmente le masse emergenti.
Tra il 1800 e il 1860 due terzi di coloro che venivano ammessi alla Scuola
di Belle Arti e non riuscivano a fare la carriera da artisti furono assorbiti dal
settore in espansione delle arti applicate, chiamati a decorare i nuovi oggetti
dell’industria artistica che si stava rapidamente modernizzando in senso capitalista, diventando a tutti gli effetti degli operai. Parallelamente tanti altri,
come Pottier, provenivano da un artigianato qualificato e, in nome della
18
19
138
K. Ross, Communal Luxury cit., p. 42.
Ivi, p. 43.
divisione tra belle arti e arti decorative, non avevano il diritto di firmare
un’opera come potevano fare pittori e scultori. Il confluire della proletarizzazione degli artisti falliti e delle aspirazioni degli artigiani che reclamavano
uno statuto pari a quello degli artisti costituí la base della Federazione. Si
calcola che furono oltre diecimila gli artigiani qualificati e i lavoratori delle
arti applicate che parteciparono alla Comune.
D’altronde la loro politicizzazione non nasceva con la Comune. Già nel
1864 piú di un terzo dei firmatari della Carta che aveva dato origine alla
sezione parigina della Prima Internazionale proveniva dalle arti decorative:
lavoratori del bronzo e del legno, ceramisti, incisori.
Significativamente, nel momento in cui gli artisti, minacciati dalla precarietà della loro condizione, avrebbero potuto agire per proteggerla, scelsero
invece, tramite la Federazione, la linea opposta di accettare artigiani e artisti
decorativi tra le loro fila, nel nome del progetto di unificare “tutte le intelligenze artistiche” in completa indipendenza dallo Stato. Il risultato principale delle risoluzioni del Manifesto fu, come disse uno scultore aderente alla
Federazione, non di tutelare lo status delle belle arti ma di diffondere l’arte
ovunque20. Per capire l’orizzonte in cui si inscriveva il progetto comunardo
si pensi che il 12 maggio Vaillant, a nome della Commissione sull’educazione, nell’edificio della Scuola delle Belle Arti requisita e occupata, proclamava la creazione di una scuola professionale di arti industriali per sole ragazze.
Mettendo in discussione il sistema educativo e la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, con la gerarchia che ne conseguiva tra arti nobili
e minori, la Comune apriva una questione che sarebbe stata decisiva per il
pensiero estetico a venire.
Questo sovvertimento ne implicava uno piú radicale.
Napoleon Gaillard (1815-1890) si definiva comunista, ateo, libero pensatore, nemico della morale borghese. Membro anch’egli della Prima Internazionale ed esponente di quelle classi pericolose che furono il nerbo
della Comune, già condannato per aver partecipato alla manifestazione sulla
tomba di Baudin, Gaillard era un artista decorativo (dipingeva porcellane) e
soprattutto un artigiano, il piú famoso calzolaio di Parigi. Dopo la Comune
scrisse un piccolo manuale, L’Arte del calzolaio, in cui sviluppò il modello
di una calzatura naturale, adattabile al piede di ciascun individuo, a partire
dallo studio delle statue antiche nei musei, esempio concreto di cosa volesse
dire mettere l’arte al servizio della vita. Gaillard, che si definiva un artista-cazolaio, rifiutava l’industrializzazione imposta alla produzione di scarpe
nel nome di un artigianato che offrisse al popolo oggetti di qualità.
Durante la Comune Gaillard abbandonò il proprio mestiere di calzolaio
per diventare il direttore generale responsabile dell’erezione delle barricate,
uno strumento strategico fondamentale per l’insurrezione e la successiva
resistenza, barricate che Gaillard stesso diceva che dovevano essere costruite
20
Citato in ivi, p. 54.
139
con scrupolo metodico e con la partecipazione generale della popolazione.
Il 20 maggio 1871 egli si fece fotografare in posa davanti alla barricata
piú maestosa eretta sotto la sua direzione in Place de la Concorde, «il castello
Gaillard», come l’avevano ribattezzata i parigini in onore della sua imponenza. Con quest’azione Gaillard, anticipando concettualmente le avanguardie,
poneva una firma alla sua creazione che ne rivendicava lo statuto d’opera
d’arte, come riconobbero subito i nemici della Comune: «Egli considera le
enormi barricate che ha costruito in Place Vendôme e in Place de la Concorde come opere d’arte e di lusso»21. Gaillard infrangeva la barriera tra la
fatica e l’estetica: la barricata diventava un oggetto che fondeva arte e vita,
utilità e bellezza, e lui stesso saldava in sé la condizione di umile artigiano
con quella di artista.
Il senso di questa rottura è testimoniato dalle parole del giornalista conservatore Mendès che, lamentandosi del disordine comunardo, non capiva
perché Gaillard non producesse piú le sue belle scarpe e Courbet non dipingesse i suoi quadri22. Nell’ordine sociale imposto dal capitalismo industriale
di fine Ottocento ognuno doveva stare al suo posto, attraverso una rigida
divisione gerarchica di mestieri e attività e l’arte doveva essere l’Arte, un
attività appannaggio di spiriti superiori che dovevano produrre immagini
auliche ed astratte dalla vita reale. Un calzolaio che si proclamava artista
nel costruire barricate funzionali alla rivoluzione rimetteva radicalmente in
gioco la funzione dell’arte in relazione alla società e alla vita.
«La poesia deve essere fatta da tutti, non da uno solo», scriveva pochi
mesi prima Lautréamont (pseudonimo di Isidore-Lucien Ducasse), un comunardo mancato di poco, essendo stato trovato morto la mattina del 24
novembre 1870 nella sua camera in affitto mentre Parigi era assediata dall’esercito prussiano. Rimbaud, Reclus e Lafargue avrebbero formulato la stessa
rivendicazione a nome della Comune: la rivoluzione doveva abbattere la
divisione tra i pochissimi che potevano e i tantissimi che non potevano permettersi di giocare con le parole e le immagini.
La Federazione degli Artisti voleva dunque allargare il piú possibile il
campo dell’arte alla vita quotidiana, ridefinendo la prima come l’attività
dell’uomo in grado di rendere piú ricca e appassionante la seconda. La bellezza doveva uscire dai musei e fiorire negli spazi comunitari, integrandosi
totalmente nello spazio-tempo sociale e abbellendo villaggi e città, perché
ogni persona aveva il diritto di vivere e lavorare in un ambiente piacevole.
Questi erano gli obiettivi del lusso comunitario evocato nel finale del Manifesto.
Il capitalismo industriale costringeva le arti decorative a produrre articoli
di lusso inutili per i ricchi e una massa di oggetti brutti per il resto della popolazione. Erano gli albori del sistema mercantile che avrebbe dominato il
21
22
140
Citato in ivi, p.55.
Cfr. K. Ross, The Emergence of Social Space cit., p. 13.
Novecento. «Essendo la società stata divisa in classi nemiche – scriveva il comunardo Elisée Reclus – l’arte è diventata necessariamente falsa. Per il ricco
si è trasformata in ostentazione, per il povero in null’altro che imitazione»23.
L’arte comunitaria avrebbe trasformato l’iniziativa creativa da esclusiva di
un’élite isolata ad attività spontanea del popolo e avrebbe ridisegnato materialmente la società.
«Se i pittori e gli scultori fossero liberi – insisteva Reclus – non avrebbero
bisogno di chiudersi nei Salon. Essi dovrebbero ricostruire le nostre città,
prima demolendo questi ignobili cubi di pietra dove gli essere umani sono
ammassati [...] Essi dovrebbero bruciare tutte le vecchie caserme del tempo
della miseria in un immenso fuoco di gioia e io immagino che nei musei
dove custodire le opere meritevoli di essere salvate ci sarebbe molto poco
della pretesa arte del nostro tempo»24.
L’Esposizione universale del 1867 si era posta tra i propri scopi quello
di pubblicizzare gli «oggetti per il miglioramento fisico e morale delle masse»; cosí, per promuovere l’immagine della società ordinata e operosa della
nuova industrializzazione, nella sezione “piccoli mestieri” erano stati messi
in mostra gli operai stessi mentre producevano. L’esaltazione dell’etica del
lavoro, con la conseguente accettazione della disciplina e dell’alienazione
che comportava, veniva identificata dai comunardi come uno dei principali
idoli da abbattere. Mentre Reclus coniava lo slogan «lavoriamo per renderci
inutili», un altro celebre comunardo Paul Lafargue, alcuni anni dopo la fine
della Comune, pubblicò Il diritto alla pigrizia (1884). Nel momento in cui
la borghesia attaccava i comunardi sconfitti bollandoli come delle canaglie
riottose al lavoro, la sinistra provava a riabilitarli come onesti lavoratori, di
fatto condividendone e legittimandone i valori di fondo. Contro questo
fronte monolitico, il diritto alla pigrizia, la poesia fatta da tutti e non da
uno solo, il socialismo della bellezza, il lusso comunitario disegnavano la
costellazione teorica di un’idea anti-utilitarista di vita incompatibile con la
nascente «religione del capitalismo» (W.Benjamin).
In questo senso la distruzione della colonna Vendôme assume un valore
simbolico aggiunto, il fare spazio per il lusso comunitario. Questo sembra
suggerire William Morris nel romanzo Notizie da nessun luogo (pubblicato
nel 1890), trasfigurando l’abbattimento della Colonna Vendôme in quello
della statua di Nelson a Trafalgar Square a Londra per lasciare il posto ad un
frutteto di albicocche. La monumentalità nazionalistica lasciava il campo,
nell’utopia morrisiana, a uno spazio-tempo dove la natura – la prima grande
vittima del progresso industriale – donava la sua generosità lussuosa a un’umanità che si era liberata dai miasmi pestilenziali del capitalismo.
Il riferimento a William Morris è importante, perché egli, insieme al movimento inglese delle Arts and Crafts, fu il primo erede delle istanze portate
23
24
Citato in K. Ross, Communal Luxury cit., p. 62.
Citato in ivi, p.59.
141
avanti dalla Federazione degli Artisti, come testimonia simbolicamente la
litografia Vive la commune realizzata da William Crane nel 1888.
Come i comunardi, Morris era interessato a creare ed espandere le condizioni di un’arte fatta «dal popolo per il popolo» per suscitare felicità in chi la
realizza e in chi la usa, mezzo di emancipazione e nobilitazione dell’uomo in
un’ottica comunitaria, capace di portare la bellezza ad essere parte integrante della vita sociale. Tutto ciò veniva negato dal capitalismo, «perché una
delle piú grandi cause della scarsità dell’arte popolare e dell’oppressione del
lavoro senza gioia è l’obbligo imposto alla civiltà moderna di produrre merci
misere per persone infelici»25. Nell’alienazione del lavoro industriale l’individuo perde il controllo creativo del processo produttivo e la forma di piacere
che ne deriva; egli non è piú sollecitato ad usare l’intelligenza e diventa una
macchina completamente separata dalla propria umanità.
Come Pottier, Morris era preoccupato dalla condizione delle arti decorative devastate dai processi di industrializzazione, «rese triviali, meccaniche
e stupide», mentre le belle arti si presentavano come «aggiunte idiote ad
una pompa priva di significato, giochi ingegnosi per pochi uomini ricchi e
inattivi»26. Il dominio capitalista non si materializzava soltanto nello sfruttamento economico dei lavoratori ma anche nella produzione di una massa di
oggetti scadenti che, come le moderne città, popolavano la loro vita quotidiana e il loro immaginario di scenari di squallore funzionali ad abituarli ad
una condizione di miseria e di rassegnazione alla sottomissione.
Tutti, notava Morris attraverso un’analisi in anticipo sui tempi, venivano
indistintamente soggiogati dalla fantasmagoria delle merci e dall’etica utilitaristica. L’attività artigianale e l’esperienza estetica negate dovevano essere
una fondamentale rivendicazione proletaria; essendo portatrici di piacere e
bellezza, esse erano l’antidoto naturale all’abbrutimento morale, ambientale
e sociale dominante. Per Morris non poteva esistere socialismo senza un’arte popolare. «Invece di considerare l’arte un lusso accessorio solo per i piú
privilegiati, i Socialisti rivendicano l’arte come una necessità umana che la
società non ha il diritto di negare ad uno qualsiasi dei suoi cittadini»27.
L’eredità
Come in campo politico, cosí in quello artistico, la Terza Repubblica
segnò il ritorno all’ordine. All’erezione della Basilica del Sacro Cuore sulla
collina di Montmartre voluta dalla Chiesa per espiare i crimini della Comu-
W. Morris, Arte, benessere e ricchezza (1883), in W. Morris, Arte e socialismo, Milano,
Mimesis, 2015, p. 73.
26
Citato in K. Ross, Communal Luxury cit., p. 62.
27
W. Morris, L’ideale socialista: l’arte (1891), in W. Morris, Arte e socialismo cit., p. 85.
25
142
ne28, corrispose nei Salon il trionfo dei Gérôme e dei Bouguereau. Anche
la principale rivoluzione del linguaggio artistico, quella impressionista, nei
contenuti lavorava, piú o meno coscientemente, per il ristabilimento dello
status quo: l’esaltazione della vita spensierata del tempo libero, filtrata attraverso la nuova luminosità, celebrava la borghesia e la Parigi nella sua modernità haussmaniana, contribuendo al programma delle classi dominanti di
eliminare dalla memoria collettiva l’incubo della Comune e del socialismo29.
Quando, nel 1875, l’ex comunardo Pichio realizzò una tela dedicata alla
Comune significativamente intitolata Il trionfo dell’ordine, ricevette queste
inequivocabili parole dal Direttore delle Belle arti: «Avete presentato all’Esposizione un dipinto nel quale il soggetto rievoca un episodio della nostra
ultima guerra civile [...] Queste memorie dolorose non dovrebbero essere
evocate in una competizione nazionale; esse sono di una natura che rivitalizza passione politiche dalle quali l’arte dovrebbe rimanere fuori [...] Il
dipinto non deve essere mostrato, e le sue riproduzioni proibite»30.
Mentre molti comunardi furono condannati all’impotenza nell’esilio e
nella prigionia, altri provarono a realizzare i progetti della Federazione altrove, come Lucian Henry, allievo di Viollet le Duc, che venne prima spedito
nella colonia penale di Noumea in Nuova Caledonia e poi, nel 1879, si
trasferí in Australia dove tentò di dare all’arte decorativa il compito di trasformare l’ambiente in senso lussuoso31.
La Comune è entrata rapidamente nel patrimonio del movimento rivoluzionario, tanto anarchico quanto comunista, e, di conseguenza, ha influenzato i numerosi artisti che, negli anni a venire, fecero professione pubblica
di fede politica: alcuni, come Steinlen e Luce, marchiando esplicitamente
la propria opera con l’appartenenza alla causa del proletariato; altri, come
Camille Pissarro, Seurat, Signac, sganciando la propria arte da una funzione
sociale e dichiarando la propria militanza in termini morali, come spiegava
Signac: «Il pittore anarchico non è colui che fa dipinti anarchici ma colui
che, senza preoccuparsi del denaro, senza desiderio di una ricompensa, lotta
con tutta la sua individualità contro le convenzioni borghesi ed ufficiali [...]
basando il suo lavoro sui principi eterni della bellezza, che sono semplici
come quelli della moralità»32.
28
Sull’interessante operazione della Basilica del Sacro Cuore in relazione alla Comune
si veda D. Harvey, L’esperienza urbana. Metropoli e trasformazioni sociali, Milano, il Saggiatore, 1998, pp. 235-265.
29
Cfr. A. Boime, Art and the French Commune. Imagining Paris after War and Revolution, Princeton University Press, 1995 e T.J Clark, The Painting of Modern Life: Paris in the
Art of Manet and His Followers, Princeton University Press, 1984.
30
Citato in A. Rifkin, op.cit., p. 181.
31
Cfr. A. Stephen, Visions of a Republic: the Work of Lucien Henry, Powerhouse Publishing, 2001.
32
Citato in J. Kaplow, The Paris Commune and the Artists, in J. Hicks, R.Tucker (a cura
di), Revolution & Reaction. The Paris Commune 1871, The University of Massachusetts
143
Ma, come detto, l’eredità piú profonda della Comune in campo estetico
non va cercata nell’adesione degli artisti a un’ideologia o a soggetti partigiani, quanto in una ridefinizione della funzione dell’arte stessa, legata a
un’educazione politecnica e integrata al servizio di un uomo nuovo, a una
rivalutazione dell’artigianato e delle arti decorative che reinvestisse il progetto della bellezza nella vita quotidiana, e al progetto di un lusso comunitario.
Quest’eredità, attraverso William Morris e le Arts and Crafts, sarebbe ulteriormente filtrata tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, tramite
figure come Henry Van de Velde e l’anima antipositivista e anti-industriale
di un certo Art nouveau, fino al primo Bauhaus di Weimar, quello che voleva costruire la cattedrale del socialismo attraverso un’integrazione organica
tra tutte le arti, nonché, contemporaneamente, nel Vchutemas in Russia.
Se Gropius e i maestri del Bauhaus rivendicarono le idee e le attività di
Morris come fonte primigenia della propria ispirazione, si può retrodatare
questa filiazione ai Pottier e Gaillard. «Non c’è alcuna differenza sostanziale
fra l’artista e l’artigiano [...] Formiamo una nuova corporazione di artefici
senza quell’arroganza di classe che vorrebbe erigere un muro di alterigia tra
artigiani e artisti»33: queste parole, scritte da Gropius nel Programma del
Bauhaus dell’aprile 1919, sembrano essere tratte dal Manifesto della Federazione degli Artisti.
Questa corrente si è presto esaurita nella normalizzazione industriale
imposta contemporaneamente dalla progressista Repubblica di Weimar tedesca e dal totalitarismo socialista in Unione Sovietica, per riapparire improvvisamente nel secondo dopoguerra in un ultimo sussulto nel pensiero
e nell’azione di Asger Jorn, dapprima nel Movimento Internazionale per un
Bauhaus Immaginista (1954-1956) e poi nell’Internazionale situazionista
(1957-1972).
Jorn era un estimatore delle teorie di Morris e il progetto originario situazionista fu un tentativo di aggiornare la realizzazione del lusso comunitario, promuovendo una creatività diffusa capace di rivoluzionare l’ambiente
e lo spazio-tempo collettivo e rovesciare cosí il dominio ormai totalitario
del capitalismo mercantil-spettacolare34. Provando a costruire delle città,
«l’ambiente favorevole al dispiegarsi di nuove passioni», Jorn e i situazionisti cospirarono per alcuni anni per un’insurrezione dell’homo ludens contro
Press, 1973, p.166.
33
W. Gropius, Programma del Bauhaus Statale di Weimar, 1919, in M. De Benedetti,
A. Pracchi, (a cura di), Antologia dell’architettura moderna. Testi, manifesti, utopie, Bologna,
Zanichelli, 1988, pp. 538-539.
34
Su questo aspetto dell’attività di Jorn e sul progetto architettonico dell’Internazionale
situazionista cfr. L. Lippolis, Asger Jorn e l’architettura: superare il funzionalismo attraverso
“nuove giungle caotiche”, in L. Bochicchio, P. Valenti, (a cura di), Asger Jorn. Oltre la forma,
Genova, De Ferrari, 2014, pp. 92-99, e L. Lippolis, La nuova Babilonia. Il progetto architettonico di una civiltà situazionista, Costa & Nolan, 2007.
144
la tirannia secolare dell’homo oeconomicus, contaminando un marxismo alquanto eterodosso con elementi, tra tanti altri, anche del pensiero di Fourier, Rimbaud, Lafargue, Morris e della tradizione utopica e sovversiva del
romanticismo35.
In questo senso non stupisce che l’Internazionale situazionista vide nella
Comune una rivoluzione abbozzata ancora carica di potenzialità, come dimostra Sulla Comune, un testo concepito insieme a Henri Lefebvre (poco
importa qui il dissidio che nacque tra di loro a seguito della stesura del testo)
e pubblicato nel 1962, nel momento della svolta strategica che avrebbe portato il gruppo verso la critica radicale della “società dello spettacolo” (svolta
che Jorn, fedele a una progettualità costruttiva, non condivise, portandolo
ad un distacco dalle attività del gruppo).
«La Comune – scrivevano i situazionisti – è stata la piú grande festa del
XIX secolo, in cui i ribelli sembravano essere diventati i padroni della propria storia, non tanto al livello delle decisioni politiche quanto in quelle
della vita quotidiana della primavera del 1871. In questo senso dobbiamo
comprendere Marx: la piú grande misura sociale della Comune era il suo
essere in atto»36.
I situazionisti non lo citarono mai, ma la parabola di Napoleon Gaillard
è l’immagine riassuntiva del loro progetto e del percorso artistico e politico
racchiuso tra quel 1871 e il 1968. Non a caso essi definirono le barricate del
maggio parigino l’unica arte possibile della loro epoca.
LEONARDO LIPPOLIS
Cfr. M. Lowy, Il romanticismo nero di Guy Debord, in M. Lowy, La stella del mattino.
Surrealismo e marxismo, Bolsena, Massari, 2001, pp. 79-90 e M. Lowy, R. Sayre, Rivolta e
malinconia. Il romanticismo contro la modernità, Milano, Neri Pozza, 2017.
36
Internazionale situazionista, Sulla Comune cit., p. 113.
35
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