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L’onore, grandissimo, di poter tracciare un ricordo del proprio Maestro
richiama chi scrive all’obbligo di tenere costantemente presenti due tratti del
suo carattere, il contegno riservato e la modestia, che facciano da guida in
una simile occasione. Se dunque, nonostante i miei propositi, finirò,
evocando alcuni episodi, per parlare inevitabilmente anche di me, spero che
il lettore me ne faccia ammenda.1
***
1. Ho incontrato per la prima volta il Professore (come l’ho sempre
chiamato, visto che il passaggio al “tu” è avvenuto nell’ultimissimo periodo
della nostra frequentazione) nell’aprile del 2002, grazie a un preziosissimo
consiglio del suo amico e collega Alberto Mioni, dopo che, in cerca di asilo
tesistico, avevo preso contatto con Padova attraverso Maria Grazia Busà, cui
sono per questo molto grato. Ricordo che il Professor Mioni in quella
circostanza mi disse che, se avessi voluto fare una tesi linguistica di ambito
latino ed essere seguito passo dopo passo, Alberto Zamboni sarebbe stata la
persona adatta. Una breve consultazione sul sito del Dipartimento
dell’elenco delle tesi da lui licenziate conferma l’impressione che si trattasse
di un relatore esigente e attento: si vedono, infatti, un numero relativamente
limitato di laureati e una notevole varietà di argomenti, non di rado culti,
come dimostrano ad esempio i titoli Gli aggettivi latini in -indus.
Caratteristiche strutturali e solidarietà morfosemantiche (laureanda:
Cristina Zanetti); I deverbali in italiano (laureanda: Angiola Boniver);
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Lettere di Luciano Bonaparte a Bernardino Biondelli (laureanda: Elena
Baratella, cfr. Zamboni-Baratella 1994); L’europeizzazione del maltese
attraverso il linguaggio giornalistico (laureanda: Ingrid Viotto).
Fu così, dunque, che presi appuntamento con il Professore. All’inizio
egli, con la prudenza che poi scoprii essere tratto costante del suo carattere,
mi chiese se non fosse possibile per me recuperare la via, smarrita la quale
io, studente dell’Ateneo bolognese, ero venuto a cercare asilo in quel di
Padova. Lo fece però in modo tale da farmi capire che non si trattava da
parte sua di una volontà di respingermi, ma solo della verifica della certezza
che stessi agendo correttamente, e che così facendo non provocassi
situazioni spiacevoli o contrasti che il suo carattere per natura cercava
sempre di ricomporre. Questo tono gentile permeò il nostro primo incontro,
dal quale non emerse null’altro di concreto, se non un riaggiornamento per
decidere contenuto e tempistica di un eventuale lavoro di tesi sotto la sua
guida. Fui colpito però da un altro aspetto di quell’incontro: il tempo lasciato
a mia disposizione, senza limitazione alcuna, per presentarmi e spiegare la
situazione nella quale mi trovavo; tempo che il Professore ha sempre
concesso con pazienza e capacità di ascolto agli studenti, nei suoi canonici
ricevimenti, non di rado anche telefonici, della tarda mattina del mercoledì,
che provocavano la formazione di gruppetti d’attesa nel piccolo spazio
antistante al suo studio; tempo che in misura negli anni crescente egli ha
concesso al sottoscritto, che difatti imparò presto a lasciar passare avanti gli
altri e a prendersi una porzione sempre più tarda di mattinata, fino alla
completa sovrapposizione con la pausa pranzo.
Dopo quel primo interlocutorio incontro primaverile ve ne fu un secondo
a inizio estate in cui egli mi chiese di approntare per la settimana successiva
una sorta di recensione delle Origini delle lingue d’Europa di Alinei,
tacendo delle ponderose dimensioni del tomo in questione, che all’epoca non
avevo presenti. Non so se si trattasse di una prova di iniziazione; allora, di
certo, la interpretai come tale e, non intravedendo alternative, abbozzai
qualche riflessione scritta a penna intorno ai brani che ero riuscito a leggere,
sui quali riferii all’incontro successivo. A quel punto il Professore,
sorridendo, sentenziò che si poteva lavorare a una tesi, per la quale fu
peraltro lui a fornirmi la traccia iniziale. Sottoponendomi una fotocopia di
quel paragrafo del De Nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella,
in cui, a mo’ di formulario, vengono descritte le pronunce delle lettere
dell’alfabeto latino (III, 261), mi disse semplicemente: “Provi a vedere che
62
cosa riesce a tirare fuori da queste righe”. A muovere questa curiosità, credo
di poter dire, fu un duplice interesse: se quello linguistico era evidente, data
l’importanza delle testimonianze tardoantiche per la ricostruzione della
transizione latino-romanza, quello nei confronti del contesto storico e
culturale, riflesso di una passione personale, fu sottolineato dalla decisione
di coinvolgere come correlatore di tesi il latinista Romeo Schievenin, altra
persona dell’ambiente padovano a cui devo moltissimo.
Mi ritrovai dunque a essere laureando di Alberto Zamboni senza avere
mai seguito un suo corso, e nemmeno una sua lezione. Cominciò così una
prassi settimanale di ricevimenti, nei quali potevo esporre con grande libertà
i risultati delle giornate di lavoro nella straordinaria biblioteca di latino del
Liviano. È proprio in questa dimensione del ricevimento che da laureando
pian piano ho cominciato a sentirmi allievo del Professore: gli incontri,
infatti, sono proseguiti regolari, anche se più rarefatti e talvolta sostituiti da
lunghe telefonate, negli anni successivi. Egli, nell’atmosfera raccolta del suo
studio al pian terreno di Palazzo Maldura, pieno di libri e di carte ma con il
calendario accademico e le scadenze istituzionali in bella vista sul piano
della scrivania, ascoltava sempre con grande pazienza i miei spesso troppo
articolati resoconti, lo sguardo concentrato, e poi ne faceva una sintesi
puntuale, trovando il bandolo della matassa, porgendomelo generosamente e
invitandomi a proseguire nel dipanarla. All’ascolto accompagnava sempre il
suo parere, e quando si trattava di un giudizio critico o negativo, lo
esprimeva con molta delicatezza, per litoti o facendo riferimento a principi
generali da cui andava desunto il significato particolare. Strategie che, pur
senza ricorrere a toni perentori, sortivano l’effetto desiderato, perché non
facevano mai venire meno non solo il sostegno, che non necessariamente
sparisce per un rimprovero, ma anche la sensazione di esso, condizione
psicologica fondamentale per alimentare le motivazioni altrui. In questa
dimensione conversevole, libero di spaziare, il Professore esercitava nel
modo più pieno il suo ruolo di Maestro. Ha incoraggiato la pubblicazione di
molti miei lavori, primo tra tutti quello scaturito dai capitoli centrali della
tesi di laurea, da lui presentato nella prestigiosa sede dell’Istituto Veneto di
Scienze, Lettere ed Arti. Ne ha ispirati molti altri, alcuni dei quali devono
ancora essere scritti. Ha condiviso con animo sinceramente partecipe tutti i
momenti, felici e meno felici, delle mie acerbe vicende accademiche.
Quando gli telefonai per comunicargli l’esito positivo del mio concorso di
dottorato a Pisa, commentò dicendo “Sono la seconda persona più felice del
63
mondo, dopo di lei”. Non ha mai fatto mancare il suo aiuto: ricordo un
pomeriggio trascorso insieme nella sala di lettura del Dipartimento a
consultare atlanti linguistici per controllare la varietà degli esiti italoromanzi
dei nessi di muta cum liquida, su cui tornerò più avanti; ricordo, ancora,
come in un paio di occasioni mi abbia procurato dei libri che erano sfuggiti
ai miei spogli bibliografici, andando a prenderli di persona in biblioteca e
facendomeli già trovare nel suo ufficio. Senza dimenticare le consulenze
lampo sulle linee telefoniche internazionali, in cui la sua disponibilità non
veniva inficiata dalla sfavorevole diamesia: con naturale immediatezza
rispose una volta “certo, Parenzan, perché proveniente da Parenzo, in Istria”
alla mia domanda su chi fosse un tal Provenzan, autore di un saggio sul
dialetto di Pirano citato cursoriamente da Carlo Salvioni,2 del quale a Zurigo
si stava approntando la ristampa e l’indicizzazione degli scritti (Salvioni
2008). Del saggio (Parenzan 1901) non v’era traccia nel mare di internet,
fatto che aveva naturalmente messo i curatori in difficoltà; ve n’era però una
fotocopia nei dossier istriani di Zamboni, che già si era offerto di fornircela.
Così, nel tempo, oltre a un proficuo rapporto scientifico tra maestro e
allievo, in cui, come ha ricordato Michele Cortelazzo, ci si sentiva – e si era
– trattati da pari, nacque anche un profondo rapporto umano. Non si poteva
non volere bene a una persona che, come ha scritto Max Pfister (2010: 93)
con mirabile semplicità, era così buona.
***
2. Dopo qualche anno di vita accademica e no mi sono convinto del fatto
che il taglio che ogni studioso dà alla propria ricerca sia naturalmente
condizionato dalle proprie attitudini caratteriali, di cui gli interessi scientifici
non sono che una proiezione. Non bisogna secondo me vedere in ciò un
fattore di limitazione: al contrario, nel contesto di un dibattito scientifico
plurale, si tratta di un elemento di ricchezza. Alberto Zamboni, che ha
sempre prediletto i toni gentili e con grande tolleranza si è sempre sforzato di
comprendere le ragioni del prossimo, profondamente conscio della
limitatezza della natura umana, ha sovente ritradotto nell’attività scientifica
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la sua personalità attraverso il difficile esercizio della riconsiderazione
(termine a lui assai caro), da intendersi come un tentativo di sintesi, spesso
problematizzante, basato sul ricchissimo schedario di dati personale e sulla
ricognizione complessiva della bibliografia, in cui si cerca di tenere conto di
tutti i piani possibili dell’analisi. Esempi di questo esercizio sono, oltre alla
densissima monografia Alle origini dell’italiano (Zamboni 2000), che offre
prospettive e spunti differenti ogni qual volta la si rilegga, alcuni consuntivi
presentati in occasione dei convegni SIG, come per esempio Lessico(logia) e
morfologia: tra proiezione diacronica e sistema (al convegno di ChietiPescara del 1995, Zamboni 1997a) e Tipologie dialettali e classificazione (al
convegno di Catania del 2002, Zamboni 2004), sui quali tornerò brevemente
più avanti.
In questa particolare occasione vorrei prendere in esame uno di questi
esercizi di riconsiderazione che ha interessato Alberto Zamboni negli ultimi
anni della sua attività di ricerca senza purtroppo arrivare a una pubblicazione
organica. Si tratta del problema di muta cum liquida tra latino e romanzo, del
quale, come accennato sopra, avevamo avuto anche modo di discutere
durante i nostri incontri, e su cui Zamboni tenne un seminario il 24 marzo
2006 alla Scuola Normale di Pisa. Conservo ancora il foglio di
accompagnamento a quel seminario e ricordo bene il tenore delle
argomentazioni e delle riflessioni, che ora, cercando di entrare con
discrezione nei cassetti della scrivania del Professore, vorrei mettere a
disposizione di un pubblico più vasto.
In questa sede commemorativa cercherò di ripercorrere le argomentazioni
di Zamboni per esemplificare il modo di procedere suo tipico. Riservo ad
altra sede una discussione puntuale, che assolutamente merita di essere
sviluppata. Cionondimeno, ho trasposto puntualmente in calce a questo testo
(v. infra) la bibliografia in apparato al foglio di accompagnamento al
seminario, integrandola con quanto ho reperito in alcuni materiali didattici
che il Professore aveva preparato sul tema per i suoi studenti padovani (che
citerò come Zamboni 2007).3
La comunicazione pisana aveva come titolo Tra prosodia classica e
‘volgare’: il problema di muta cum liquida (da qui in poi: Zamboni 2006). Il
foglio di lavoro è articolato in cinque sezioni: (1) preliminari e status
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quaestionis; (2) tendenze generali del consonantismo latino ed esiti romanzi;
(3) analisi recenti; (4) varia phonologica (con etichetta latina, secondo uno
stilema caro al Professore); infine (5) considerazioni finali su allegro ed
intero: quali soluzioni?, che si riallaccia alle questioni preliminari, secondo
una struttura a cornice. Mi soffermerò in particolare sulle sezioni (1)-(3) e
(5), essendo la sezione (4) una sorta di carrellata bibliografica volta a
confermare l’intuizione della coesione intrinseca del nesso muta cum liquida
(da qui in poi McL).4 La struttura del foglio di lavoro è aperta,
l’impostazione aporetica; ogni paragrafo è suddiviso in sottoparagrafi
contrassegnati da frecce piene ( ) o semipiene ( ): con le prime si
introducono i dati e i ragguagli di altri studi; con le seconde le osservazioni
personali, che rappresentano il vero e proprio materiale inedito di questo
dossier.
2.1. Nella prima sezione viene presa in esame la situazione canonica di
McL in latino. Il nesso non dà luogo ad allungamento sillabico per posizione,
se non per esigenze metriche; la brevità della vocale che lo precede, se in
penultima sillaba, provoca la ritrazione dell’accento; anche in condizioni
romanze la vocale non è in posizione, come dimostrano gli esiti del tipo
P TRA > pietra, in cui la dittongazione romanza > [j ] è indice di sillaba
aperta. D’altra parte, esiti romanzi come intéro (e recessivo intièro), rum.
întreg, fr. entier, sp. entero mostrano la presenza di due sillabazioni diverse,
ín$t $gro- ~ in$t g$ro-. Anticipando una delle conclusioni, Zamboni
suggerisce che la variante parossitona sia un residuo della sillabazione
primitiva (cfr. Zamboni 2000: 140), per *in-t g-ro- > int gru(m), con t g <
*tag (cfr. tango) esito di trattamento di sillaba chiusa (come cons cro
rispetto a sacru(m) analogo a conf ctus < *com-f c-tos e diverso da contineo
~ t neo, dec do ~ cado, con esito di sillaba aperta ). Il greco mostrerebbe la
stessa tendenza (Allen 1973: 210-3; 217-8): da una scansione protostorica
eterosillabica arresto + rilascio di McL si passa in attico classico al
trattamento tautosillabico del nesso (la nota correptio Attica), da considerarsi
foneticamente come rilascio complesso in posizione di attacco sillabico,
proprio della commedia e, anche in virtù di ciò, probabile riflesso della
lingua parlata.5
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2.2. Si passa poi ad analizzare le tendenze del consonantismo latino, su
cui Zamboni si era ampiamente soffermato nell’articolo Tra latino e
neolatino: l’evoluzione delle medie aspirate indoeuropee e le successive
ristrutturazioni del consonantismo (Zamboni 1986-7).
2.2.1. In sostanza, il consonantismo del latino di fase classica, con la
distinzione degli esiti delle medie aspirate indoeuropee,6 sarebbe il risultato
di un processo di fonologizzazione della variazione su base morfologica.
Dopo una fase in larga parte predocumentaria di protolenizione in cui in
posizione debole (senza rispetto per i confini di parola: regime di variazione
allofonica) si confondevano gli esiti delle occlusive e delle spiranti (< IE
medie aspirate) sonore, si sarebbe ristabilito un criterio morfologico di
marcamento del confine iniziale di parola, in cui si è fonologizzata la
variante non lenita: per esempio, */b/ e */ / (< IE */bh/) protolatine, confuse
come [ ] in posizione debole, vengono rifonologizzate rispettivamente come
/b/ e /f/ in posizione iniziale (dove si fonologizza la variante “forte”), mentre
in posizione interna (dove si fonologizza la variante “debole”) rimane, non
più recuperabile, la confusione, divenuta fusione, in /b/, comunque rafforzata
rispetto a [ ], che rimane latente a livello allofonico. In questo modo da IE
*/bh/, protolat. */ /, si arriva al caratteristico esito latino distinto per
posizione /f/-, -/b/-. La presenza di un accento protosillabico nella sua
funzione demarcativa non va tenuta separata dall’affermarsi di questo
processo di ristrutturazione: solo dopo questa sistemazione morfofonologica
si creano le condizioni strutturali per una determinazione postlessicale della
posizione dell’accento, regolata dal peso della penultima sillaba.
Il quadro che emerge da questa sistemazione è il portato dell’applicazione
della prospettiva latino-romanza di Weinrich (1958), ripresa da Lausberg
(1971) e Tekav i (1972), a un orizzonte indoeuropeo-latino, connesso ai
successivi esiti romanzi. Le tendenze lenitive del consonantismo debole,
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storia e della sua letterarietà» (Zamboni 1986-7: 124), continuerebbero a
manifestarsi diastraticamente e diafasicamente a livello popolare e parlato.
Le spinte centrifughe tardoantiche fanno dunque riemergere ciò che per
secoli era rimasto sottotraccia: ancora una volta, le lingue neolatine
mostreranno sintomi di instabilità del consonantismo analoghi a quelli del
latino preletterario, di fronte ai quali reagiranno in maniera diversificata.
2.2.1.1. Questo excursus è necessaria premessa per introdurre anche
nell’analisi dei nessi di McL il principio zamboniano della continuità tra
latino e neolatino, su cui si innesta la visione del latino, lingua «come tutte le
altre» (Zamboni 2000: 71) e come tale, viste anche le enormi dimensioni di
variazione del suo spazio linguistico, irriducibile al solo canone trasmesso
dai documenti letterari.
2.2.2. L’analisi dei nessi tautosillabici del latino rivela una differenza di
trattamento tra quelli con vibrante e quelli con laterale: mentre i primi
rimangono intatti (cr brum < *- rom < *-ðrom, invol crum < *-klom per
dissimilazione), i secondi sviluppano anaptittico (*sta-ðlo-m > *sta- lo-m
> stab lum). Alla luce di ciò, la laterale va considerata pinguis (in virtù del
timbro della vocale anaptittica) e [-continua], come confermano i processi
preletterari di reazione all’indebolimento di /d/ in [ð], che in posizione
iniziale (forte, §2.2.1.) danno /l/ (dingua > lingua), e di cui restano tracce
anche in posizione interna, dove altrimenti si recupera /d/ (solium ~ sed re).
La vibrante invece riappare come tale nel processo di rafforzamento che
seleziona la norma urbana a scapito della fricativa o approssimante
alveodentale [ ], nel cui spazio fonetico era stata intercettata /s/ > [z]
intervocalica, premessa del rotacismo. Si ha dunque una sostanziale
differenza tra il nesso muta cum l, da considerare [-continua] [-continua], e
quello muta cum r, che è invece un nesso [-continua] [+continua].7 Queste
caratteristiche dovrebbero suggerire una almeno parziale distinzione tra i
nessi Cl e quelli Cr, che gli esiti neolatini, sistemati da Zamboni attraverso
Lausberg (1971: §§337ss.), confermano. Si osserva infatti una sostanziale
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stabilità di Cr- di contro a parziale evoluzione di Cl-, che mostra diversi
gradi di palatalizzazione, intermedia sotto la linea La Spezia-Rimini,
avanzata nella Cisalpina e in iberoromanzo, intermedia e limitata ai nessi
con velare in rumeno. La palatalizzazione dei nessi -Cl- è ancora più
avanzata in posizione interna (Lausberg 1971: §§422-3), mentre -Cr- si
comporta come in posizione iniziale con oscillazioni per /br/ tra esito
rafforzante italiano (fabbro) e indebolito altrove (fr. orfèvre, rum. faur).8
2.3. La terza sezione del dossier è dedicata, come detto, alle analisi degli
ultimi decenni, la più articolata tra le quali è quella di Timpanaro (1965), che
postula quattro fasi nella vicenda di muta cum liquida.
La prima, a scansione eterosillabica, per cui in$t g$ro da tag- come
con$f c$tus da fac-, considerata già arcaismo metrico in Ennio e Plauto e
conservata nella tradizione per imitazione dei modelli greci e come
espediente metrico per ovviare alla sequenza delle tre brevi (§2.1.).
La seconda, a scansione tautosillabica, prevalente nella fase classica del
latino.9
La terza, nuovamente eterosillabica, di fase volgare ma non specificata in
termini cronologici, comprovata dalla parossitonia di intero, sp. tinieblas,
ecc.
La quarta, nuovamente tautosillabica, che spiega il trattamento romanzo
di sillaba aperta della vocale tonica (P TRA > pietra come H RI > ieri, lt.
tonico in sillaba aperta > tosc. [j ]).
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2.3.1. Data questa scansione, se ne deduce che gli esiti romanzi del tipo
intièro implicano la sequenza (1) spostamento accentuale (in virtù di una
nuova scansione eterosillabica di McL con conseguente pesantezza della
penultima sillaba, la terza fase di Timpanaro) (2) apertura sillabica senza
ulteriore spostamento accentuale (in virtù di una nuova scansione
tautosillabica di McL – la quarta fase di Timpanaro – che non provoca
ulteriori conseguenze prosodiche essendo a questo punto venuta meno la
regola fonologica dell’accento, la cui posizione si è lessicalizzata) (3)
allungamento di vocale tonica in sillaba libera (regola fonologica sincronica
protoromanza), da cui poi la dittongazione. Dunque, CV$CV$CRV > (1)
CV$ CVC$RV > (2) CV$ CV$CRV10 > (3) CV$ CV $CRV. A supporto di
questa ricostruzione vi sono, oltre agli esiti romanzi parossitoni, prove
ricostruttive, filologiche e testimonianze artigrafiche, addotte in particolare
da studi recenti di Loporcaro (2005, 2007) e Mancini (2007a, 2007b).11
2.3.1.1. Per quanto concerne l’artigrafia, è di grande rilievo il passo delle
Origines (1, 32, 1) di Isidoro di Siviglia (inizio VII secolo d.C.) che recita
«barbarismus est uerbum corrupta littera vel sono enuntiatum [...]; sono, si
pro media syllaba, prima producatur, ut ‘latebrae’, ‘tenebrae’» (Loporcaro
2005: 425, Mancini 2007b: 449, 454; già in Rodriguez Pantoja 1987: 374, n.
12). La prescrizione della parossitonia in queste parole contenenti McL
oblitera le oscillazioni dei secoli precedenti, palesi nelle prescrizioni del
terzo frammento dell’Appendix Probi, che raccomanda un delubrum
parossitono e un baratrum proparossitono sottintendendo la circolazione di
varianti *délubrum e *barátrum (Mancini 2007b: 449). 12
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2.3.1.2. Prove filologiche si ricavano dal conteggio delle scansioni lunghe
in positio debilis nella metrica arcaica, classica e tarda. Col progredire del
tempo, infatti, l’incidenza di queste scansioni aumenta considerevolmente
(Loporcaro 2005: 425-6):13 rarissime in Ennio (3 su 40 nei 600 esametri
superstiti, v. supra), opzionali in Lucrezio e Virgilio (rispettivamente 20 su
83 e 36 su 109 ricavati dai primi 600 versi dei libri I-III del De rerum natura
e dell’Eneide), esse diventano nettamente maggioritarie in Ausonio (36 su 60
in 403 esametri analizzati) e rappresentano quasi la totalità dei dati in opere
di minore consistenza artistica come il Carmen de ponderibus (26 su 29 in
208 esametri).
2.3.1.3. Le prove ricostruttive provengono dalle varietà romanze del
versante adriatico dell’Italia centro-meridionale (Loporcaro 2005: 427), nelle
quali è possibile osservare che il trattamento delle vocali toniche seguite da
McL è analogo a quello delle vocali toniche in sillaba chiusa. Per esempio,
nel dialetto di Bisceglie, */e/ si dittonga in pajp (‘pepe’) e si mantiene in
allegr (‘allegro’) così come in stedd (‘stella’); */a/ si posteriorizza in k p
(‘capo’) e si mantiene in latr (‘ladro’) così come in varv (‘barba’), e così
via.14 Trattamento di sillaba chiusa significa, naturalmente, scansione
eterosillabica di McL, e quindi mancato passaggio alla quarta fase di
Timpanaro ma prova diretta dell’esistenza della terza.
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2.3.2. Gli elementi fin qui addotti sono da considerare a favore
dell’attendibilità della ricostruzione di Timpanaro, che infatti sia Loporcaro
(2005: 422) sia Mancini (2007b: 450) ritengono condivisibile. L’elemento di
diversità della riflessione zamboniana sul tema è, appunto, la messa in
discussione di questa impostazione. In particolare, secondo Zamboni, sono
lo statuto e l’effettiva consistenza della terza fase a destare maggiori
perplessità.
2.3.2.1. Dal punto di vista della cronologia del latino, anche ammettendo
che la testimonianza di Isidoro (come detto, inizio VII secolo) si collochi in
quarta fase, i dati ricavati dai poeti tardolatini e quelli della tradizione
artigrafica suggeriscono di ipotizzare che il pieno svolgersi della terza fase si
attui tra il IV e il VI secolo. Ciò significa accettare che a quell’altezza
cronologica la sensibilità per il rapporto quantità/accento fosse ancora viva,15
dal momento che si postula che lo spostamento del confine sillabico nel
nesso di McL sia il primum movens dello spostamento accentuale.16 Nella
ricostruzione prospettata da Zamboni (cfr. 2000: 141) il sistema quantitativo
del latino, e con esso la legge del trisillabismo, viene ritenuto in crisi già a
partire dal III secolo.17 Prova di questa cronologia sarebbe data dall’analisi
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dei prestiti greci (cfr. Zamboni 2000: 138-9), che evidenziano il cedimento
strutturale dalla fase di epoca classica in cui essi vengono adeguati alla legge
della penultima (
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cfr. Mancini 2007b: 436, 442). Questi dati indurrebbero a collocare l’inizio
della terza fase di Timpanaro in un periodo non successivo al II secolo d.C.
2.3.2.2. Oltre a ciò viene sottolineato da Zamboni il fatto che le scansioni
lunghe della positio debilis erano già presenti negli autori classici, anche se
in misura non preponderante come in fase tarda (v. supra); un simile dato
indicherebbe dunque «la possibilità d’una prosodia [...] diversa da quella
canonica ma comunque riconosciuta, non certo un monstrum».
Su questa possibile coesistenza di scansioni differenti si articola un altro
aspetto fondamentale della critica all’impostazione di Timpanaro, che,
secondo Zamboni, dalle sue pagine lascia trapelare l’assunto dell’esistenza
di un latino lingua una e uguale per tutti, premessa che consente di impostare
la scansione in quattro fasi della vicenda di McL, di cui egli critica l’eccesso
di determinismo storicistico. A tale visione si contrappone quella che
considera verosimile la possibilità di una cooccorrenza di pronunce marcata
sociolinguisticamente: «indipendentemente da condizioni sillabiche, la
coesistenza di pronunce diverse è normale: l’accento di fase antica si può
considerare mantenuto nel repertorio latino, non solo nei livelli bassi o
periferici, e tradotto alle soglie del neolatino (in una fase in cui in tutti gli
strati della lingua l’accento è lessicalizzato) evitando costosi andirivieni»
(2006: 8).18 In quest’ottica è possibile ritenere un esito come intero residuo
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della sillabazione primitiva, cioè della prima fase eterosillabica,19 senza
bisogno di doverne postulare una seconda di epoca tarda, idea che agli occhi
di Zamboni rappresenta un’«ipotesi costosa perché sminuisce la portata
generale del processo basico d’alleggerimento dei confini sillabici» (2006:
8). In modo analogo, anche per quanto concerne i dati dialettali centromeridionali (§2.3.1.), viene sottolineata la distribuzione areale del fenomeno,
che viene inquadrato in una dimensione di variazione diatopica che prevede
(o perlomeno accetta) cooccorrenza di trattamenti nello spazio linguistico
latino.20
2.3.2.3. A proposito dei confini sillabici, Zamboni solleva il «sospetto
d’un indebito rovesciamento delle cause, che eleva la sillab(ific)azione a
criterio superiore di giudizio per i fenomeni fonologici, mentre in realtà sono
questi che giustificano quella» (2006: 6). Egli si rifà alle considerazioni di
Bertinetto (1993: 39-40),21 secondo cui «la struttura sillabica può risentire di
ogni sorta di mutamento che intervenga nel componente fonologico», dal
momento che «la sillaba acquisisce un proprio ruolo interpretativo in
rapporto al mutamento fonologico, in quanto forza (a sua volta risultante da
un complesso di forze) che contribuisce a modellare la fonotassi di ciascuna
lingua». Uno spostamento di confine sillabico non andrebbe dunque visto
come un fattore sovraordinato, ma come una ristrutturazione
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epifenomenica.22 In quest’ottica, Zamboni propone di considerare le
risillabificazioni neolatine come processi antilenitivi o lenitivi pertinenti al
segmento intersonantico della muta, entrambi convergenti su un risultato
eterosillabico, i primi per rafforzamento del segmento (il tipo *FABRU >
fabbro),23 che rafforzandosi si divide tra coda e testa sillabica, i secondi
ovviamente come indebolimenti dello stesso, che conducono a una sua
inevitabile risillabificazione come coda.
2.4. La quarta sezione, varia phonologica, elenca una serie di studi di
fonotassi italoromanza (Mayerthaler 1996, Schmid 1998, 2000), fonetica e
fonologia teorica (Higginbottom 1964, Chomsky-Halle 1968, Trubetskoj
1971, Allen 1973, Bertinetto 1993, 1999), fonetica sperimentale (Magno
Caldognetto-Panzeri-Tonelli 1999, Vallone 2003, Dal Maso 2005) che
confermano a livello interlinguistico da una parte la coesione intrinseca McL,
dall’altra la differenza tra i nessi con vibrante e quelli con laterale.
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2.5. Una volta accettata la coesistenza di diverse accentazioni, Zamboni
tenta di fornire, in chiusura, una possibile soluzione per allegro ed intero.24
Gli indizi più cogenti per una possibile spiegazione dell’origine di allegro25
riconducono a un’elaborazione settentrionale: in questa direzione andrebbero
la sonorizzazione di McL (cfr. altri – presunti – settentrionalismi come agro,
magro, ecc.), il trattamento timbrico della vocale tonica (con esito
medioalto) e la geminazione di l, giustificabile in pretonia. Il vocalismo
anteriore avrebbe dovuto favorire la soluzione McL > r osservabile in nero e
intero (v. infra): va tuttavia considerato che il nesso non è risolto all’altezza
cronologica del negro semen dell’Indovinello Veronese.26 Tale elaborazione
appare evidente per intéro, dominante sul recessivo intièro, la cui soluzione
del nesso trova riscontro nella carta AIS 1574Cp. per nero: infatti, esiti come
il lig. neigru (con /g/ di refezione toscana?, 2006: 12), il piem nair, neir, il
galloitalico di Sicilia (San Fratello) nair lasciano presumere «un *nejro,
*neiro, con eliminazione del secondo elemento di dittongo discendente per
la nota ‘avversione’ dell’italiano a questo tratto»;27 risultati simili si
evincono dalla carta 185Cp. per magro, che attesta ampie fasce di intacco
(palatalizzazione, spirantizzazione, vocalizzazione, scomparsa) della velare
sonora, una a settentrione tra piemontese e ladino anaunico (máyr(e))
attraverso il lombardo alpino, una in Sicilia in area di fonetica galloitalica.28
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Tornando dunque a intero, la «soluzione decisiva» (Zamboni 2007: 6)
sembra essere offerta dall’omonima carta dell’AIS, la 976, «nel quadro della
nota questione dell’influsso galloromanzo e settentrionale (con epicentro a
Milano) sul fiorentino e di qui sul resto delle parlate toscane, ora riesaminata
a fondo da Franceschi (2004) e responsabile tra l’altro di tante forme a
consonantismo interno sonoro (lenito)».29 Oltre al dileguo di g, l’altro tratto
settentrionale è l’esito del vocalismo tonico (come in allegro), che, dati AIS
alla mano, occupa quasi integralmente l’area toscana,30 probabilmente
investita da nord attraverso il canale appenninico tra l’Emilia-Romagna e
l’area pistoiese e fiorentina.
2.6. Riepilogando, la critica zamboniana alla scansione di Timpanaro
muove sia da argomenti interni, strutturali, sia da argomenti esterni,
sociolinguistici. Per quanto concerne questi ultimi, si prospetta una visione
del latino che accolga compiutamente nel metodo le dimensioni della
variazione e ne accetti nella prassi le conseguenze. Per quanto concerne la
ricostruzione strutturale, Zamboni considera il passaggio dalla prima fase
eterosillabica alla fase tautosillabica classica della scansione di McL come il
riflesso di un processo di portata ben più ampia che vede il passaggio da una
computazione morfologica, con accento protosillabico, ad una fonologica,31
con accento regolato postlessicalmente, in cui il tautosillabismo di McL è
determinato naturalmente dalla sua coesione fonetica. Le scansioni
parossitone riscontrabili negli esiti romanzi intero, tinieblas, ecc. vanno in
quest’ottica considerate come fissazioni di posizioni accentuali di prima
fase, svincolatesi da computazioni di peso sillabico in determinati strati di
latino in cui il sistema quantitativo ad accento postlessicale è entrato da
subito in concorrenza con un sistema timbrico ad accento lessicalizzato,
precursore di condizioni romanze. In virtù di questa ricostruzione non è
necessario postulare una seconda fase eterosillabica, perché le chiusure
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sillabiche di epoca latina tarda, compresi i rafforzamenti dell’elemento
occlusivo di McL, sono da considerarsi come strategie di rafforzamento di
una muta intersonantica, sottoposta a lenizione, per migliorare il contatto
sillabico, in una prospettiva in cui i mutamenti fonologici sono la causa della
ristrutturazione sillabica, e non viceversa. Anche la seconda fase
tautosillabica di McL, necessaria da ipotizzare visti gli esiti timbrici del
vocalismo tonico romanzo ante McL, decade, perché dopo la ricomputazione
su base fonologica di epoca preclassica tale processo si è semplicemente
perpetuato. Tale ricostruzione rientra nell’ottica, cara a Zamboni,
dell’inquadramento «in grandi spinte generali risalenti addirittura alla
protostoria latina […], per cui Romània settentrionale e Romània
meridionale configurano […] due grandi sviluppi divergenti di premesse
simili»32 (2006: 10), e all’interno del quale il processo di semplificazione e
alleggerimento della sillaba viene visto in fase di attuazione già a partire
dall’epoca preletteraria.
***
3. Come si può osservare, siamo davanti a un lavoro di vaste proporzioni,
che sarebbe sicuramente rientrato nel novero di quelle ampie
riconsiderazioni di cui ho detto in precedenza. Visto l’approccio critico e
non dogmatico di molti dei lavori del Professore, non è da escludere che una
parte delle aporie ancora presenti in officina avrebbero trovato posto anche
nel testo definitivo. Naturalmente, l’analisi che in questa sede ho cercato di
ricostruire non è esente da possibili rilievi e obiezioni: ma, come detto, darne
conto avrebbe esulato dalle finalità di questo testo.
Un aspetto non irrilevante di questa vicenda è il fatto che egli avesse
fornito ai suoi uditori in quell’occasione pisana la traccia di un progetto e
non un prodotto realizzato, interpretando in termini dialettici la dimensione
del seminario e confermando le sue attitudini di apertura alla discussione e di
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condivisione delle conoscenze. Certo, un simile dossier richiedeva grande
impegno da parte del pubblico, vista la densità dei contenuti e delle
riflessioni, che in qualche modo riassumono i tratti più rilevanti dell’attività
di ricerca zamboniana.
Nell’impostare l’ampia prospettiva della continuità tra radici indoeuropee
ed esiti romanzi, ambiti peraltro da lui solidamente controllati, emerge la
centralità del latino, che nelle sue ricerche sussiste sia come necessità teorica
sia come passione personale.33 Un latino visto nella sua complessità, nella
sua variabilità diacronica, diatopica, diastratica, diafasica, ma con la
consapevolezza dell’autonomia dell’analisi linguistica, in cui la
morfosintassi svolge un ruolo centrale. Sull’ineludibile pluralità dei dati si
applica dunque la necessità della tassonomia, secondo una visione
dell’universo di parlanti come estensione di una coesistenza di strutture.
Centrale al riguardo è quanto Zamboni scrive in apertura del suo già più
volte citato lavoro del 1986-7 (207-8):
È d’altronde (o è ritornato) classico nella linguistica degli ultimi anni il tema
della ciclicità ~ circolarità dell’evoluzione diacronica, sviluppato soprattutto nella
tipologia sintattica di Vennemann ma anche in altri livelli di analisi. Ma anche più di
questo è significativo, sempre dietro diretta ispirazione delle più moderne correnti di
pensiero, il recupero dei principi della g e r a r c h i a dei livelli, che applicato
all’oggetto in questione significa la critica dell’autonomia pura e semplice del
significante (livello fonologico) e dell’ipotesi che le sue modificazioni siano
governate u n i c a m e n t e da fatti dello stesso livello (tra cui per es. fattori di
interferenza e possibili conseguenti reazioni individualmente o socialmente
motivate): pare dunque ormai difficile persistere nella negazione che su questo si
eserciti, anche, e spesso in modo p r e m i n e n t e , il controllo dei livelli superiori e
basilari della competenza linguistica, morfologia e sintassi soprattutto, in altre parole
rifiutare l’idea della competenza a t t i v a del parlante (~ gruppo di parlanti) e del
reale controllo (o ‘filtro’) da lui esercitato sul proprio sistema. Ciò vuol dire in
definitiva riaffermazione della validità di una linguistica i n t e r n a , che spiega i fatti
linguistici con il ricorso primario alla struttura specifica accogliendo anche ma non
esclusivamente – pena un relativismo senza sbocchi – motivazioni di carattere
sociolinguistico o più genericamente culturale.
Ciò peraltro non contraddice il profilo dello Zamboni dialettologo
tratteggiato in questa sede da Giovanni Ruffino. Infatti, riguardo al tema
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della crisi d’identità della dialettologia, sollevato un paio di decenni fa da
Alinei (et al. 1991: 207), si legge nel contributo al convegno SIG del 2002
citato in precedenza (2004: 12; cfr. anche l’intervento di Zamboni in Alinei
et al. 1992: 137):
Di fatto [...], l’indeterminatezza dello status teorico della dialettologia, lungi
dall’essere una condizione favorevole al suo regresso, sembra al contrario
rafforzarne la vitalità e consentirne espansioni e collegamenti nelle direzioni più
diverse ed apparentemente contrastanti. Non ho molto da aggiungere, o da
modificare, in argomento, se non ribadirne la specificità e dunque il primario
fondamento linguistico nonostante il connotato realmente e fortemente
interdisciplinare della materia, che pure, come del resto la linguistica in genere, trae
nutrimenti sostanziali da altre e disparate scienze, naturali, astratte ed umane.
Dal che si evince ancora una volta la costante opzione prioritaria per la
linguistica interna, ma la necessità di confronto con la linguistica esterna, in
una prospettiva passibile di ricalibrature (2004: 78-79):
Esiste un modello capace di ‘misurare’ una lingua, tanto nella sua entità
sistematica che nelle sue implicazioni storico-culturali? La diversità essenziale dei
parametri in gioco sembra escludere senz’altro l’ipotesi più forte [...], ma anche per
quanto riguarda la consistenza linguistica in senso proprio e stretto nemmeno i più
recenti e potenti metodi descrittivi ed esplicativi sono giunti ad approntare livelli di
computo generali e definitivi. Tuttavia, il fatto che una varietà non possa esser
concepita esclusivamente in termini lineari non significa di per sé l’impossibilità di
assoggettarla ad una qualche tassonomia: e dunque nell’ottica di una classificazione
‘polinomica’ [...] ogni espressione linguistica può trovare il posto che le compete.
Tornando al controllo dei dati, non sfugge il fatto che lo schedario
materiale e il bagaglio di conoscenze del Professore fosse pressoché
sterminato. Uno stimolo, osservandolo e scambiando opinioni con lui, ad
arricchire il proprio bagaglio culturale, non trascurando l’importanza di altre
discipline umanistiche, come la storia, la geografia e la storia letteraria.
Queste conoscenze, oltre a essere fonte di diletto per l’interlocutore, che
poteva beneficiare di un racconto piano e dai toni mai sussiegosi,
permettono, tra le altre cose, la straordinaria pennellata storica in calce al
lavoro sul bisiacco apparso nella Festschrift Elwert (Zamboni 1986) e il
“codicillo” a pressus (Zamboni 2008), suscitato da una scintilla della
memoria, il dantesco aere perso di If V, 89 da Zamboni immediatamente
ricollegato ai significati cromatici dell’aggettivo latino classificati in un mio
80
lavoro di poco precedente (Filipponio 2006) che egli stesso aveva
calorosamente incoraggiato.
Non solo linguistica, dunque, ma cultura generale, che con la linguistica
dialoga continuamente e che adduce argomenti di supporto fondamentali per
l’intelligenza di quello che è, a ben vedere, anche un prodotto storico e
culturale.
***
Questa è la lezione che mi ha lasciato Alberto Zamboni. Questo modo di
intendere i fondamenti della disciplina e la ricerca è il portato più
significativo dell’educazione che da lui ho ricevuto, al di là degli specifici
interessi tematici che ho condiviso con lui. E tutta questa messe di
insegnamenti, ed è la cosa che ricordo con maggiore gratitudine, è stata
sempre dispensata con grande saggezza e con sincero e partecipe affetto.
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marzo 2006, foglio d’accompagnamento.
Zamboni, Alberto (2007), Capitoli di storia linguistica italoromanza, Università di
Padova, Materiali didattici per il corso di Linguistica Storica, www.lettere.
unipd.it/static/docenti/13/MatDid3.pdf (consultato il 06.09.2011).
Apparato bibliografico dei materiali inediti
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