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Legami che rendono liberi: lavoro, famiglia e reti sociali

2012

L’ossimoro del titolo vuole condurre l’attenzione sulla ambivalenza del ruolo dei legami nella costruzione della società. Si evidenzia come la presenza di legami sia fondamentale per la nascita di forme di aggregazione che supportino gli individui e la società stessa al fine di migliorarne le condizioni di vita e le prospettive di sviluppo. Contemporaneamente si ribadisce la necessità che tali legami lascino spazio a cambiamenti di relazioni e di struttura per favorire l’evoluzione delle società a cui danno sostegno e adattarsi ai cambiamenti che si susseguono nel tempo, a livello di struttura, di valori guida, di relazioni economiche che ne condizionano la disponibilità di risorse. Il primo capitolo descrive come i legami si sviluppano nel passato all’interno delle famiglie e come la loro estensione si attui attraverso forme parziali, come le associazioni mafiose e i legami clientelari. Nel secondo capitolo si osservano le relazioni nel mondo del lavoro, attraverso l’uso del concet...

View metadata, citation and similar papers at core.ac.uk brought to you by CORE provided by Electronic Thesis and Dissertation Archive - Università di Pisa Università di Pisa Facoltà di Scienze Politiche Corso di Laurea Specialistica in Sociologia Legami che rendono liberi: lavoro, famiglia e reti sociali Candidata Cinzia Ciardi Relatore Prof. Raffaello Ciucci Anno Accademico 2010/2011 Ringraziamenti Ai miei genitori, perché la loro soddisfazione completa la mia. Al professore Raffaello Ciucci che mi ha guidata nel lavoro di questa tesi perché, pur lasciandomi la più ampia libertà, mi ha consentito di trasformare un’idea modesta in un valido percorso di approfondimento e di crescita personale. Alla dottoressa Elisa Matutini per la sua pazienza e disponibilità e i preziosi consigli che ha saputo darmi. E infine, ma non meno importanti, ad Alessandro, Chiara e Giulia, perché è sul mio legame con loro che costruisco quotidianamente la mia libertà. INDICE 3 Introduzione Capitolo 1 Il ruolo della famiglia. Ovvero: la costruzione della fiducia come elemento fondamentale delle interazioni 1.1 – Esempi che vengono dal passato: indizi per costruire legami 11 1.1.1 - Le basi morali di una società arretrata e la definizione di familismo amorale 12 1.1.2 - Il Principe 18 1.1.3 - Robust Action and the Rise of the Medici, 1400-1434. - La famiglia al potere 22 1.2 – Mafie, clientele e tradizione civica 24 1.2.1 - Mafie in movimento 25 1.2.2 - Patrons, Clients and Friends: Interpersonal Relations and the 30 Structure of Trust in Society 1.2.3 – La tradizione civica nelle regioni italiane 35 Capitolo 2 Nel mondo del lavoro: dalla fiducia al capitale sociale 2.1 – Cos’è successo alla terza Italia? Il tessile a Prato raccontato da un imprenditore 41 2.1.1 – Storia della mia gente 41 2.2 – Cambiare per sopravvivere: fiducia e capitale sociale come strumenti di analisi 48 2.2.1 – La fiducia nelle società moderne 50 2.2.2 – Capitale sociale e sviluppo 54 2.2.3 – Il capitale sociale – istruzioni per l’uso 60 2.2.4 – Social Capital in the Creation of Human Capital 65 2.3 – Quanto possiamo contare sul capitale sociale? 2.3.1 – Bowling Alone: America’s Declining Social Capital 1 71 71 Capitolo 3 Reti sociali. Nuovi strumenti per descrivere la struttura della società 3.1 – La nuova società tra piccoli mondi e little boxes 75 3.1.1 An experimental study of the small world problem 77 3.1.2 The small world problem 79 3.1.3 From Little Boxes to Loosely-Bounded Networks: The Privatisation and Domestication of Community 81 3.2 – Legami deboli, ponti e vuoti strutturali per un’architettura della coesione sociale 85 3.2.1 – La forza dei legami deboli 87 3.2.4 – Structural Holes: the Social Structure of Competition 91 3.3 – L’individuo nella rete: il ruolo dell’identità 97 3.3.1 – The F-Connection: Families, Friends, and Firms and the 98 Organisation of Exchange Capitolo 4 Il ruolo dei legami per lo sviluppo di comunità 4.1 – Perché i legami contano 103 4.1.1 – Network theories for healthier communities 104 4.1.2 – Network perspectives for community building 106 4.2 – Capitale sociale e processi di impoverimento 109 4.3 – La diseguaglianza, un riesame critico 115 4.3.1 – La diseguaglianza nella rete, alcune considerazioni. 119 4.4 – Dal tempo della diseguaglianza alla vulnerabilità 121 4.4.1 – Rischio, vulnerabilità, sicurezza 123 Conclusioni 5.1 – Una sintesi del percorso 128 5.2 - Il presente proiettato nel futuro: i legami in prospettiva 132 Bibliografia 137 2 Legami che rendono liberi: lavoro, famiglia e reti sociali Introduzione L’ossimoro del titolo vuole condurre l’attenzione sulla ambivalenza del ruolo dei legami nella costruzione della società. Si vuole evidenziare come la presenza di legami sia fondamentale per la nascita di forme di aggregazione che supportino gli individui e la società stessa al fine di migliorare le condizioni di vita e le prospettive di sviluppo di entrambi. Allo stesso tempo si vuole ribadire quanto sia necessario che tali legami lascino spazio all’evolversi delle relazioni e della struttura per fare in modo che le società a cui danno sostegno siano in grado di mutare e di adattarsi ai cambiamenti che si susseguono nel tempo, sia a livello di struttura, sia a livello di valori che guidano la società, sia a livello di relazioni economiche che ne condizionano la disponibilità di risorse. Il termine legami significa: ciò che serve a legare, nesso, rapporto, relazione tra più persone o cose, e anche rapporto di obbligo, impegno, dovere. In questi significati sono espressi giudizi di valore diverso, ma sempre distanti dall’idea di libertà. Fa parte della natura dei legami l’ambivalenza di significato. Parlare di legami infatti evoca, a seconda del contesto, immagini di sofferenza e costrizione oppure il senso di conforto che dà l’immagine di persone che si salutano con un abbraccio. Lo stesso termine viene usato con significati opposti perché nell’azione di legare tra loro due persone o cose è implicita questa duplice valenza sia positiva che negativa. La capacità di costruire legami tra gli individui si forma fino dalle prime esperienze e anche nello sviluppo psichico i legami svolgono questo duplice ruolo: nell’infanzia sono indispensabili per favorire uno sviluppo equilibrato, ma col progredire della crescita è necessario che questi legami si facciano sempre meno costrittivi e sempre più blandi, per permettere scelte più autonome. 3 La persistenza nella parola “legami” di questo duplice significato è indice della compresenza dei due ruoli. La presenza nelle fasi iniziali di un ruolo forte e costrittivo è necessaria a garantire la sopravvivenza di individui incapaci di provvedere autonomamente alle proprie necessità. Mentre svolgono questo ruolo di supporto i legami contribuiscono anche a costruire il linguaggio comune su cui si stabiliranno i futuri rapporti. L’amore incondizionato, identificato con l’amore materno, è la prima forma di relazione su cui si costruisce la futura vita affettiva; la qualità di questo rapporto è capace di influenzare tutta la vita dell’individuo e, visto che le società sono in fin dei conti costituite da individui, delle società che andrà ad abitare. La libertà costruita dai legami si esplica nella possibilità di scegliere il proprio percorso avendo a disposizione le risorse che si rendono necessarie per compierlo. Proseguendo con la metafora dello sviluppo individuale si scopre che ben presto questi legami totalizzanti devono lasciare spazio ad altre relazioni o esplorazioni, e devono diventare sempre più deboli e sempre meno vincolanti, per permettere al bambino di scoprire autonomamente il mondo che lo circonda e sviluppare modalità sue di relazione. Quando questo non avviene e viene mantenuta una forte dipendenza lo sviluppo si arresta e si assiste all’insorgenza di patologie relazionali che saranno più o meno invalidanti a seconda di quanta autonomia è venuta a mancare. La prima forma di ambivalenza è questa: dei legami non si può fare a meno, altrimenti non è garantita nemmeno l’esistenza, ma la funzione di sostegno per lo sviluppo può diventare una trappola, una cornice troppo vincolante che può inibire le evoluzioni future. I legami sociali possono avere lo stesso effetto: una comunità appena sorta ha bisogno di costruire legami con una forte reciprocità, che si può tradurre in vincoli molto forti che impediscono il cambiamento. Ma il persistere di questa condizione conduce a situazioni di fissità che sono facilmente deleterie. Possiamo fare riferimento anche ad una lettura sistemica: un sistema chiuso, completamente autosufficiente può permettersi di rimanere inalterato nel tempo, 4 ammesso che non gli venga mai a mancare l’energia necessaria per la sua sopravvivenza e riproduzione. Ma nella realtà non esistono società identificabili con un sistema chiuso. L’evoluzione storica, con l’espansione dei sistemi di comunicazione, ha eliminato la possibilità che esistano comunità veramente isolate. Pertanto i legami sono diventati una variabile cruciale per lo sviluppo delle società: devono esistere, devono essere solidi, ma devono anche lasciare spazio al cambiamento che in certi casi coincide con l’allentamento o addirittura la rottura dei legami preesistenti. Un ruolo importante che hanno i legami per lo sviluppo di una comunità è l’azione che svolgono nei confronti dell’identità. Il tipo iniziale di legami costruisce l’identità degli individui: il luogo, la storia, il posto in cui sono nato determina quello che io voglio essere, gli obiettivi che voglio raggiungere, a chi voglio assomigliare. Legami molto forti presuppongono un altrettanto forte riconoscimento tra gli individui, che devono essere simili tra loro e condividere la maggior parte dei valori. Questa identità comune ha senso in un mondo chiuso senza interazioni con l’esterno. Nel momento in cui si entra in contatto con esperienze diverse il confronto può stimolare il desiderio di cambiamento. Anche l’identità dipende e deriva dai legami che l’hanno costruita e la sua flessibilità è in funzione dell’apertura verso l’esterno che i legami fondanti gli hanno trasmesso. La resistenza al cambiamento è un fenomeno frequente perché questo implica la perdita della prevedibilità. Tollerare l’incertezza è possibile solo se si hanno ampi margini di sicurezza, se non si mette in pericolo l’esistenza di una data identità, per cui il cambiamento è accettato solo all’interno di uno spazio che garantisca comunque continuità con la condizione precedente. L’apertura verso il cambiamento si è rivelata un punto di forza che consente alle società di continuare ad esistere anche in seguito all’incontro con realtà diverse, mentre l’incapacità di cambiare, e quindi di assorbirne e controllarne gli effetti, rischia spesso di danneggiare in modo drastico la realtà preesistente. 5 L’immobilità può divenire sinonimo di sofferenza, anche fino al punto di determinare l’estinzione. I legami sono quindi un supporto per l’individuo e per la società quando sono sufficientemente elastici. I legami troppo vincolanti ostacolano il cambiamento e impediscono l’evoluzione indispensabile per la sopravvivenza. Ma le nuove architetture della società globale, o liquida, come viene definita da alcuni autori, hanno drasticamente ridotto le possibilità di avere certezze per la maggior parte degli individui, tutti quelli che vivono immersi nel proprio contesto locale ed hanno perduto le garanzie che derivavano dalla chiusura del sistema, cioè la prevedibilità di un percorso di vita, la stabilità del proprio ruolo nella società sviluppato attraverso l’inserimento nel processo lavorativo e la stabilità dei legami affettivi. Questa nuova condizione, mentre ne reclama a gran voce la necessità, chiede ai legami la massima flessibilità, in una continua oscillazione tra l’incertezza generata dall’assenza di una cornice sociale vincolante, e il bisogno di sicurezza che si cerca di risolvere attraverso la chiusura verso l’esterno. Sempre utilizzando la metafora sistemica, gli scambi con l’ambiente circostante possono essere assimilati alla funzione che svolge il respiro per un organismo: uno scambio continuo di energia tra individuo e ambiente. Se non c’è questo scambio l’organismo cessa di funzionare. I legami sono il mezzo attraverso cui avvengono gli scambi tra individui e società e tra gruppi sociali diversi. Gli scambi sono la funzione vitale che deve essere costantemente svolta per garantire una buona salute alle società e di conseguenza anche agli individui che le compongono. Questi scambi riguardano ad esempio: fiducia, risorse, opinioni, informazioni, emozioni, affettività, la consapevolezza di non essere soli, lo scambio di energia emozionale necessaria come motivazione per l’azione. A questo punto conviene definire che cosa si intende per elasticità dei legami. Possiamo utilizzare un concetto affine: la resilienza, cioè la capacità di assorbire i cambiamenti modificando solo parzialmente la propria forma e la capacità di ritornare alla condizione di partenza una volta assorbito lo stimolo. Questa definizione nasce dall’ingegneria per descrivere la proprietà di un materiale di 6 resistere alle sollecitazioni e viene utilizzata anche in psicologia per definire la capacità di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici; in questo secondo caso viene indicata come la capacità di individui (in genere bambini), che hanno subito traumi potenzialmente invalidanti, di costruire comunque relazioni sane e mantenere un equilibrio tale da consentire uno sviluppo normale dell’affettività e delle relazioni. La relazione che esiste tra i legami sociali e il cambiamento dovrebbe essere improntata su questa forma di elasticità, per permettere alle società di apprendere, dall’incontro con l’altro, nuove modalità di scambio che gli permettano di mantenersi vitale pur modificandosi. Identificare il capitale sociale con i legami conduce a pensare che quando questi legami vengono meno si sta perdendo capitale sociale. Ma se i legami che vanno a costituire il capitale sociale sono del tipo più vincolante, di quelli che favoriscono la chiusura e impediscono gli scambi con le realtà circostanti forse la loro funzione positiva non è così ovvia. Se i legami che vengono perduti sono quelli che rendevano immobile la struttura sociale e ne impedivano la trasformazione necessaria per la sopravvivenza, è probabile che la loro dissoluzione sia dovuta alla spinta per il cambiamento. Il capitale sociale si sta trasformando: non è più fondato solo su legami forti, ma su connessioni lasse fortemente variabili che consentono una maggiore mobilità in una società in continua evoluzione, in cui rimanere ancorati ai propri schemi è altamente deleterio perché rischia di far perdere opportunità importanti o di far rimanere ancorati a modalità disfunzionali. I legami sociali che costruiscono capitale sociale sono spesso quelli che forniscono supporto attraverso gli scambi, per cui si accusa il miglioramento delle condizioni di vita, con l’aumento del benessere che favorisce una maggiore autonomia degli individui e una minore dipendenza dagli aiuti degli altri, tra le cause che erodono capitale sociale perché rende meno necessaria la presenza di questi legami. Questa posizione identifica il capitale sociale con una forma specifica di legami, quelli più costrittivi, e sembra accusare la diffusione del benessere di essere 7 paradossalmente un fattore di rischio per la società. Forse questa valutazione deriva dall’incapacità di leggere il cambiamento della struttura sociale con strumenti adatti a identificarne meglio le caratteristiche. I legami che hanno costituito capitale sociale nel passato non servono altrettanto di fronte ad una maggiore diffusione di benessere. Servono altre forme di capitale sociale, probabilmente meno vincolanti, più aperte alla mobilità sociale, capaci di sostenere il cambiamento invece di ostacolarlo. Un modo per distinguere le società più immobili da quelle che valorizzano il cambiamento è attraverso il tipo di caratteristiche dell’individuo che prediligono. Tipicamente le società tradizionali, con una forte aspirazione a mantenere immutato l’ordine sociale, tendono a preferire le caratteristiche ascrittive, come la classe sociale o il genere. Solitamente questi gruppi sono caratterizzati da legami forti, l’identità degli individui è definita dall’appartenenza al gruppo, i valori sono condivisi e i legami sono ridondanti. Le società caratterizzate da una maggiore evoluzione tendono a valorizzare le caratteristiche acquisitive, come le capacità, la competenza, l’autorealizzazione. I legami che le sostengono sono spesso di tipo debole, ricchi di vuoti strutturali e consentono e favoriscono una cospicua mobilità. In queste società l’identità degli individui va ad occupare il ruolo precedentemente occupato dalla comunità e l’individualismo assume un valore positivo. La forma estrema di flessibilità delle comunità ha dato origine però ad una diffusa sensazione di incertezza: la rottura dei legami comunitari e la perdita di prevedibilità legata ai cambiamenti della struttura economica stanno generando una apparente comunità globale in realtà divisa in una miriade di mondi separati e desiderosi di erigere barriere nell’illusione di ritrovare la sicurezza perduta. Il bisogno dei legami e della costruzione di comunità si fa sempre più pressante per arginare il pericolo di un ritorno a condizioni di vulnerabilità e di indigenza per buona parte della popolazione mondiale, anche e soprattutto nelle società occidentali da cui ha preso origine il cambiamento in direzione della globalizzazione. 8 Questo lavoro parte dalla descrizione delle fasi primordiali di formazione dei legami, sia attraverso la lettura di testi e situazioni del passato, sia attraverso la descrizione dei soggetti che ne diventano i primi protagonisti. Il primo capitolo focalizza l’attenzione su due aspetti: il tema dell’arretratezza così come sviluppato da Banfield (1958) e attraverso la testimonianza di Machiavelli (1513), e il tema della parzialità, descritto attraverso lo studio dei sistemi mafiosi e dei sistemi clientelari, intesi entrambi come precursori di un sistema fiduciario esteso a tutto il consesso sociale. In questo primo capitolo il focus dell’attenzione è rivolto alla famiglia, intesa come nucleo da cui ha origine la costruzione dei legami. Nel secondo capitolo si approfondiscono le relazioni che sostengono il mondo del lavoro attraverso gli strumenti che si fondano sui legami: fiducia, norme e capitale sociale. Si analizzano situazioni concrete in cui la presenza di forme più evolute di legami ha costituito un punto di forza per la realizzazione di migliori condizioni, anche se in certi casi non destinate a durare. Si confrontano ricerche che hanno attribuito un ruolo positivo a questi strumenti, bilanciando sia valutazioni positive che critiche. In chiusura il lavoro di Putnam (1995) definisce un fermo immagine su una consolidata teoria del capitale sociale in un mondo in cui tale capitale si sta estinguendo. Il punto di vista è centrato sul livello macro-sociale. Nel terzo capitolo si prende atto dei mutamenti avvenuti nella struttura della società rispetto al passato. L’attenzione si sposta verso il livello micro-sociale dell’individuo. La concezione globale della società pone nuovi interrogativi su quali siano gli strumenti più adatti a descriverla, tenendo conto dei mutamenti indotti dall’esplosione dei mezzi di comunicazione, che hanno relativizzato lo spazio e il tempo, almeno per una parte della popolazione mondiale. Le ricerche indagate si muovono tra la consapevolezza della permanenza di alcune cesure che continuano a separare mondi in sottogruppi non necessariamente connessi e la fiducia nelle tecnologie comunicative per supportare le nuove forme di comunità che svincolate dallo spazio fisico e dalla assiduità offrono ulteriori opportunità. 9 Gli studi di analisi delle reti sociali dimostrano la loro appropriatezza per descrivere le nuove forme di organizzazione sociale. Gli strumenti che vengono portati in primo piano sono i legami deboli, i vuoti strutturali e il ruolo dell’identità così come costruito dalle F-connections. Nel quarto capitolo si evidenziano i motivi per cui i legami sociali, descritti attraverso l’analisi delle reti, sono importanti per la costruzione della comunità, e contemporaneamente si cerca di mettere in evidenza come l’appartenenza o meno degli individui a strutture comunitarie influenzi il loro benessere attraverso una azione redistributiva per quelle risorse che contribuiscono a dare qualità all’esistenza umana. A questo proposito si analizzano alcune teorie relative alla definizione di povertà, e si approfondiscono i concetti di disuguaglianza e vulnerabilità, distinzione particolarmente importante da tenere presente nella attuale configurazione globale della società. 10 Capitolo 1 Il ruolo della famiglia. Ovvero: la costruzione della fiducia come elemento fondamentale delle interazioni 1.1 – Esempi che vengono dal passato: indizi per costruire legami La fiducia che le attese saranno rispettate nello scambio di risorse o relazioni si impone come necessità fin dagli inizi della socialità, addirittura fino dai gruppi più semplici o composti da pochi soggetti. Alcuni autori identificano un parallelo tra lo sviluppo individuale e la capacità di interagire in società. La società stessa non si forma se non c’è da parte degli individui che la compongono la capacità di mettersi in relazione tra loro in modo da poter beneficiare delle differenze di abilità e risorse secondo quella che viene definita la divisione del lavoro sociale. Attraverso i lavori di alcuni autori cerchiamo di comprendere come vengono descritte le modalità con cui si sviluppano questi rapporti e relazioni, cercando di valutare il loro maggiore o minore apporto alla qualità della vita degli individui che fanno parte di questi gruppi. In questo capitolo sarà la famiglia a fare da cardine per l’analisi, attraverso le relazioni che le sono più prossime, come ad esempio i rapporti clientelari, che originano fino dalla Roma antica, oppure i rapporti che si sviluppano in un ambiente che fonda la sua esistenza su di essa, cioè i gruppi di tipo mafioso. Si parte da quelle che sembrano le condizioni meno efficaci per poi procedere ad analizzare le situazioni che danno il maggiore apporto in termini di potenzialità per lo sviluppo sia dell’individuo che delle società stesse. Nella prima parte di questo capitolo si confrontano tre lavori molto distanti tra loro per il periodo che trattano, le situazioni che analizzano e gli strumenti che utilizzano, che però hanno in comune alcune caratteristiche: in tutti e tre i casi la 11 fiducia è una risorsa non scontata nel tessuto sociale, in tutti ci si chiede come possa svilupparsi, o perché questo non sia possibile o quali siano le motivazioni che la possono far emergere. Il primo lavoro a cui faccio riferimento è una ricerca effettuata da un sociologo americano, Edward C. Banfield (1958), in un paese dell’Italia meridionale nell’immediato dopoguerra. L’autore attribuisce l’assenza di fiducia e solidarietà tra gli abitanti del paese all’ethos che pervade la comunità, individuandone l’origine nel passato, in particolare nella struttura politica latifondista che interessava questa parte dell’Italia, a differenza di altre, dove lo sviluppo dei Comuni ha permesso la nascita di modalità diverse di relazione maggiormente orientate allo scambio e confidenti nelle possibilità di miglioramento . A questo scopo ci si confronta con il secondo testo: Il Principe di Niccolò Machiavelli, dove l’autore, testimone in prima persona dell’età dei Comuni, espone le sue teorie sulla nascita di uno stato in senso moderno. Il terzo testo è una ricerca di J. F. Padgett e C. K. Ansell (1993) che, utilizzando la Social Network Analysis, descrive come un secolo prima di Machiavelli, la famiglia fiorentina dei Medici, nella persona di Cosimo, sia riuscita a costruire intorno a sé una rete di relazioni, obbligazioni e di conseguenza fiducia, che l’ha convogliata verso il governo della città. 1.1.1 - Le basi morali di una società arretrata e la definizione di familismo amorale Edward C. Banfield si reca a Chiaromonte in Basilicata nel 1954 assieme alla moglie di origini italiane per condurre la sua ricerca. Vi resterà per alcuni mesi durante i quali raccoglierà interviste tra gli abitanti del paese e osserverà i loro comportamenti. Dal libro che ne scaturisce ottiene in America molta notorietà. Successivamente si troverà a svolgere ruoli importanti a livello istituzionale, fino a diventare consigliere di alcuni presidenti. Con questo lavoro, che si inserisce in un 12 percorso di ricerca precedente su questi temi, sta cercando di dimostrare la tesi che alla base di un comportamento cooperativo, essenziale per lo sviluppo sociale ed economico di una comunità, è necessaria la presenza di un ethos orientato in tale direzione. La lente attraverso cui guarda alla realtà deprivata di quel paese isolato non ci impedisce comunque di trovare ancora oggi una testimonianza da cui poter estrapolare considerazioni valide. Il paese, che Banfield ribattezza Montegrano, si trova in collina, ha un clima temperato ma poche risorse agricole e una relativa scarsità d’acqua, le vie di comunicazione sono poche e la proprietà della terra è talmente frammentata da permettere a malapena la sopravvivenza di ciascuna famiglia. I contatti con il mondo esterno, col resto dell’Italia che sta entrando in una fase di sviluppo economico, sono rari e non producono altro che un acuirsi del senso di emarginazione e alimentano ancora di più il fatalismo. Il recente passato, con una storia di elevata mortalità, grava sulla popolazione, contribuendo a diffondere quel pervasivo senso di angoscia che Banfield rileva attraverso il TAT. Il Thematic Apperception Test (TAT), costruito dagli psicologi Morgan e Murray nel 1935, è uno degli strumenti proiettivi preferiti dagli psicologi di tutto il mondo, si basa “sul ruolo giocato, nella interpretazione di materiali ambigui, dalla ‘appercezione’, intesa come frutto delle passate esperienze percettive, piuttosto che su quello dei semplici processi proiettivi” (Pedrabissi e Santinello, 1997, p. 262). Consente di rappresentare gli stati d’animo sottostanti al comportamento. Ha una duplice utilizzazione: in ambito clinico, in cui è ritenuta controversa la validità, e in ambito psicosociale, in cui è riconosciuta la sua utilità per elaborazioni teoriche (ibid., p. 266). Si presta bene ad individuare le modalità relazionali di chi è sottoposto al test, e in questo caso, essendo stato somministrato ad un vasto campione della popolazione i risultati sono attendibili: pur tenendo presenti i bias1 intrinseci al test (toni cupi delle immagini che orientano verso storie negative) la prevalenza di storie luttuose è indizio del fatto che nella comunità di Chiaromonte predomina una forte ansietà nei confronti del futuro e grava una memoria collettiva di lutti e di insicurezza. 1 Distorsioni sistematiche dovute alle caratteristiche dello strumento utilizzato per la misurazione. 13 Quello che l’autore cerca per dimostrare le sue tesi sono gli indicatori di azioni cooperative, così come si trovano nella società americana degli anni ’50: associazionismo, giornali, partiti politici. Come viene evidenziato da A. Bagnasco, che cura l’introduzione dell’edizione italiana, questi indicatori non sono prevalenti nella storia e nella cultura dell’epoca nel nostro paese. Resta comunque interessante leggere i dati che sono stati raccolti attraverso una lente diversa. Secondo l’autore, una base culturale è indispensabile per costruire relazioni che diano un contributo allo sviluppo della comunità, e Banfield a questo proposito rammenta che un modo che hanno talvolta gli individui per migliorare la loro posizione sociale è proprio attraverso un titolo di studio, che consenta di passare per esempio dalla condizione di contadino a quella di maestro, anche se ci tiene a precisare che quelli che hanno avuto la possibilità di farlo utilizzano poi la loro cultura a danno dei più deboli. Quello che costituisce un mezzo per la mobilità sociale non provoca di per sé solidarietà. Non è immediato il passaggio da un maggiore sviluppo culturale alla diffusione della fiducia, come evidenziato da Putnam (1995, pp. 65-78) in un articolo di cui si parlerà in seguito, in cui l’autore si sorprende di trovare una correlazione negativa tra la diffusione della cultura e la partecipazione ad associazioni. Cultura e fiducia sono due prerequisiti per lo sviluppo che probabilmente non sono l’uno la causa dell’altro, anche se entrambi necessari. La storia e l’esperienza di deprivazione presente nella popolazione influisce sulla capacità di progettare e pensare il futuro: i Montegranesi sentono di non avere alcun controllo sul proprio destino e pertanto si abbandonano al fatalismo e vivono in condizioni di sopravvivenza. La mancanza di fiducia non si manifesta soltanto nei confronti del futuro: la totale mancanza di fiducia nel prossimo è pervasiva nelle descrizioni dell’autore, si manifesta in tutti gli aspetti delle relazioni sociali, sia nei confronti delle autorità che nelle relazioni tra pari. La paura, anzi la certezza di essere imbrogliato in qualunque situazione e la paura dell’invidia sono due aspetti della medesima medaglia: l’altro è visto solo come un potenziale competitore per le scarse risorse a disposizione. 14 Le modalità di collaborazione presenti sono le sole che hanno potuto attecchire in situazioni così misere: i legami tra genitori e figli, che erano stati costantemente minacciati dai numerosi lutti fino al recente avvento della penicillina. Nel 1954 abbiamo di fronte la prima generazione di genitori che può avere una ragionevole speranza di restare in vita fino a veder diventare adulti e a loro volta genitori i propri figli. Banfield fa inoltre notare che non esistono più gli obblighi feudali che imponevano al signore di prendersi cura dei suoi contadini e agli ultimi non rimane più alcuna risorsa in caso di bisogno, visto che anche la Chiesa agisce con le stesse logiche non solidali di tutto il resto della popolazione: nelle fasi di cambiamento non è infrequente che prima che si formino le nuove norme le vecchie vadano perdute con grave danno per il funzionamento della comunità. Vengono somministrate una serie di domande allo scopo di indagare quali siano le qualità preferite in un uomo o in una donna. Sono sorprendenti a questo proposito alcune delle risposte che vengono date: un uomo avaro ma amico fidato è preferito ad uno generoso ma di dubbia lealtà, a significare che la fiducia può essere un valore desiderabile; un uomo superbo ma non invidioso rispetto ad uno invidioso ma non superbo, ad indicare l’esasperazione nei confronti del tema dell’invidia. L’espressione di queste preferenze richiama l’attenzione su ciò che manca ma nello stesso tempo è fortemente desiderato dalla popolazione: la richiesta di una tregua nel quotidiano lottare, un amico di cui potersi fidare e vicini non invidiosi del proprio benessere. Anche i legami di parentela soffrono della medesima condizione di indigenza: le nuove famiglie quando si formano rompono con le famiglie d’origine, in un modo che sembra una forma “biologica” di protezione dal carico di obblighi che potrebbero essere letali alla sopravvivenza del nuovo nucleo. I litigi servono ad interrompere le catene di doveri che legano tra loro i familiari: l’educazione di un figlio avviene a scapito degli altri; la dote di una sorella sottrae risorse al fratello. Un marcato atteggiamento fatalistico traspare dai racconti relativi all’educazione dei giovani. 15 E’ diffusa la convinzione che nessuno sia responsabile del proprio comportamento ma che siano sempre le cattive compagnie a indirizzare sulla cattiva strada. Banfield ritrova questa convinzione nella favola di Pinocchio, che lui stesso definisce “nordica”, riconoscendo un simile modo di sentire anche in altre regioni italiane; il burattino sostiene che avrebbe voluto comportarsi bene, ma non ha saputo resistere alle lusinghe degli amici. Questa concezione che nega la responsabilità di ciascuno rispetto al proprio destino annulla ogni velleità di modificare la propria condizione, non ritenendola sotto il proprio controllo. Queste premesse contribuiscono a rendere difficile qualsiasi cambiamento. La storia di Montegrano costituisce di per sé quasi un esperimento naturale: mostra cosa può succedere se a una popolazione togliamo tutte le risorse. Come nella teoria cibernetica, se non c’è scambio di energia con l’esterno non c’è alcuna possibilità di modificare la situazione. In questo caso l’energia è da intendere come un flusso di risorse, cibo, educazione, condizioni abitative migliori, in grado di soddisfare almeno le esigenze basilari per poter uscire dalla condizione di indigenza. Il confronto con il resto del mondo ha prodotto un ulteriore senso di inadeguatezza tra i contadini di Montegrano: il disprezzo del lavoro manuale come retaggio del feudalesimo, la vergogna di chi sa di non poter migliorare la sua condizione anche se studia. E nello stesso tempo ha stimolato in alcuni la voglia di cambiare: una maggiore propensione al rischio, il desiderio di spese voluttuarie, la voglia e il coraggio di emigrare. Anche se l’autore mette in evidenza il fatto che con così pochi legami familiari non si formano quelle catene migratorie che caratterizzano altre realtà e permettono alle persone di muoversi verso luoghi che offrono maggiori opportunità. L’unica forma di tenue legame al di fuori di quello tra genitori e figli che sembra avere spazio è il rapporto di obbligazioni che si sviluppa tra vicini e tra proprietari e contadini. Come retaggio del passato feudale il contadino è tenuto a prestare il suo servizio o il suo asino senza ricevere niente in cambio al signore che ne abbia necessità. 16 Alcune testimonianze fanno riferimento al periodo del fascismo in termini positivi, in quanto la gestione autoritaria del mercato del lavoro garantiva contro i comportamenti disonesti dei proprietari, che nel 1954 invece non sempre corrispondevano il salario pattuito ai lavoratori. Come vedremo successivamente nel testo di Varese (2011) questa è una modalità importante nella costruzione delle reti della criminalità organizzata, in quanto la protezione offerta da qualunque istituzione che riesca ad imporre comportamenti prevedibili ad entrambe le parti e costringa a rispettare i patti costituisce un precursore di quella che sarà la fiducia su cui si possono fondare gli scambi. L’analogia tra il regime fascista e la criminalità organizzata in questo caso è riferita all’uso della coercizione da parte di entrambi i sistemi. La situazione descritta da Banfield rimanda a immagini di precarietà dell’esistenza e di fiducia scarsa. Più che la solidarietà nel contesto descritto prevale il rischio e l’incertezza. L’enorme povertà, che non consente per molti di loro un’adeguata nutrizione, contribuisce a rendere difficile la costruzione dei legami al di fuori del nucleo ristretto dei familiari. Se la costruzione di una rete di solidarietà è funzionale agli scambi di risorse, dove non ci sono risorse non si vede come possa svilupparsi tale rete. Questo testo ci descrive la situazione che possiamo trovare al livello più basso di risorse e possibilità: solo i montanari a cui Banfield accenna si trovano in condizioni peggiori, nella hobbesiana condizione di “homo homini lupus”. L’assenza di una rete di collaborazione impedisce qualsiasi miglioramento, ma allo stesso tempo il desiderio di costruire fiducia e relazioni di sostegno trapela da ogni testimonianza, per spegnersi subito nella disillusione. A questo proposito può essere utile un richiamo alla gerarchia dei bisogni di Maslow (1954)2: come si può pensare a migliorarsi quando è in ballo la semplice sopravvivenza? Per questo motivo la definizione di “familismo amorale” che Banfield conia ha suscitato vivace risentimento tra gli studiosi, soprattutto italiani, 2 Maslow definisce una gerarchia di bisogni che vengono gradualmente percepiti solo dopo che il bisogno precedente è stato soddisfatto; così avremo che finché non sono soddisfatti i bisogni legati alla sopravvivenza gli individui non riusciranno a percepire i bisogni legati al miglioramento delle proprie condizioni sociali e della propria realizzazione. 17 perché sembra attribuire ai montegranesi una responsabilità diretta della loro condizione. Si tratta di una comunità di persone che hanno enormi difficoltà a costruire legami di qualsiasi tipo perché le loro condizioni di sopravvivenza sono talmente precarie da non permettere nessun abbassamento della guardia: come dice lo stesso autore non si possono permettere nemici, ma neppure amici. Un mondo di rapporti a somma zero dove ogni vantaggio dell’altro è una sottrazione alle proprie risorse. Indubbiamente questa condizione è frutto di una socializzazione alla non cooperazione, a cui però non è estraneo l’oggettivo stato di deprivazione. I tre punti evidenziati dall’autore (l’alta mortalità, l’assetto fondiario e l’assenza di legami familiari che vadano oltre le dimensioni della famiglia nucleare) sono un dato di fatto, e costituiscono dei limiti oggettivi contro ogni forma di miglioramento, soprattutto perché sono immersi nella convinzione che non si possa agire per produrre qualche cambiamento. Di diverso avviso è Niccolò Machiavelli, che, pur ritenendo la fortuna arbitra della metà delle azioni dell’uomo, ne lascia la restante metà nelle sue mani. Per questo ho trovato interessante rileggere le sue riflessioni nella ben nota opera che descrive la realtà italiana agli inizi del 1500. Di fatto Il Principe è una ricerca finalizzata a studiare le condizioni su cui si può costruire la stabilità di uno stato, o in termini più moderni uno studio sulle ipotesi di sviluppo dell’ordine sociale. 1.1.2 - Il Principe L’autore scrive questo saggio (Machiavelli, 1513) per conquistarsi i favori di Lorenzo dei Medici, da poco tornato alla guida di Firenze, da cui spera di ottenere un incarico politico. Nella lettera del 1513 “a Francesco Vettori in Roma” che accompagna l’opera descrive la sua vita oziosa, in attesa di riprendere l’attività, e al racconto fanno da sfondo boschi da tagliare, osterie frequentate e benessere a sufficienza da passare 18 parte della giornata a “uccellare a’ tordi”, un quadro sicuramente migliore di quanto abbiamo trovato descritto da Banfield. Oltre al desiderio di mostrare al Principe le sue competenze politiche, spinge il Nostro a scrivere il desiderio di dare alla sua terra una stabilità che permetta una migliore qualità della vita e serenità dei popoli, l’Italia infatti è stata terra di conquista per Francesi, Spagnoli e avventurieri nei decenni che precedono questo documento. Machiavelli si mette ad analizzare con rigore quanto ha visto accadere e quanto viene riportato nella storia di grandi condottieri del passato. La via che a lui appare praticabile per dare stabilità ad un territorio è che un Principe ne regga le sorti. La lettura del passato gli serve per estrapolare le norme e i comportamenti che servono a far durare un regno. La prima qualità che auspica è che il regno sia sufficientemente grande per non essere attaccato dai vicini. A questo proposito suggerisce la necessità di unire territori che abbiano costumi e lingua simili, per favorire la collaborazione. Inoltre suggerisce di utilizzare coloni anziché eserciti, per tenere unito un territorio, perché i primi provocano minore scontento tra la popolazione rispetto ai secondi e possono essere più fedeli al signore che ha concesso loro le terre, e soprattutto possono essere più facilmente governati, visto che il loro interesse primario è coltivare la terra e non fare la guerra. Machiavelli è attento ad evidenziare le situazioni in cui le obbligazioni reciproche costituiscono il legame che costruisce la stabilità, piuttosto che la paura suscitata dalle armi. E’ attento a notare come l’invidia, in questo caso tra potenti, debba essere controllata e utilizzata allo scopo di bilanciare gli equilibri: bisogna che il Principe faccia crescere i piccoli principati, in modo che gli siano alleati, ma non abbastanza da farli diventare più potenti di lui, a questo scopo porta ad esempio quello che hanno fatto i Cesari per far crescere e tenere l’impero romano. Tutto il libro è scritto con la convinzione che la realtà sia un campo in cui si può agire, che si possa influenzare il corso degli eventi e quindi che esista un futuro 19 che possiamo sperare di trasformare secondo i nostri scopi, se siamo in grado di conoscere le regole che guidano i comportamenti umani e agire di conseguenza. Descrive la calata di Luigi XII in Italia indicando ad uno ad uno gli errori da lui commessi: ribadisce come invece di preoccuparsi di tenere alleati i principati che potevano avere bisogno di lui si è alleato con il Papato facendolo crescere a tal punto da diventare un pericolo per gli altri alleati che gli si sono rivoltati contro. Racconta diversi episodi in cui con l’inganno e la violenza alcuni signori sono riusciti ad impossessarsi dei territori confinanti e può sembrare inquietante ai nostri occhi il modo in cui Machiavelli accetta l’uso della violenza come fatto normale delle vicende politiche della sua epoca. Il Nostro è un uomo del suo tempo: non è un idealista che usa una moralità che non gli appartiene. E’ un accorto stratega e acuto politico: pensa al fine che vuole raggiungere, uno stato forte e stabile, e osserva quanto accade intorno per dare indicazioni utili a procedere verso gli scopi prefissi. Non ama la violenza: ne giustifica l’uso per mantenere l’ordine e impressionare i popoli, tra virtù e scelleratezza preferisce la prima, antepone sempre il bene comune alle nefandezze. Poi precisa che “nel pigliare uno stato, debbe l’occupatore di esso discorrere tutte quelle offese che gli è necessario fare, e tutte farle a uno tratto, per non le avere a rinnovare ogni dì” (cap. VIII.8), per non tenere sempre il coltello in mano e la popolazione nell’insicurezza: eradicare con tutti i mezzi (e il più semplice sembra l’eliminazione fisica) tutti i potenziali nemici del potere, il più possibile rapidamente e in un’unica soluzione, e poi passare a mezzi più civili per mantenere l’ordine3. Il principe deve usare l’astuzia per tenere lo stato: i cittadini devono essere messi nella condizione di avere bisogno di lui e dello stato. Precisa poi che gli uomini si legano al principe facendo o ricevendo benefici. 3 Questo riferimento all’uso della violenza può essere spiegato con le parole di Émile Durkheim che ne “Le regole del metodo sociologico”, nella discussione sulla distinzione tra normale e patologico dice: “Affinché gli omicidi scompaiano, occorre che l’orrore per il sangue versato divenga maggiore negli strati sociali in cui si reclutano gli assassini; ma a tale scopo è necessario anche che esso divenga maggiore in tutta l’estensione della società” (Durkheim 1895). 20 È indispensabile tenere presente che il senso di cosa è bene e cosa è male cambia con il tempo e, quello che a noi oggi appare, per fortuna, inaccettabile, era purtroppo la norma di comportamento in Italia nel 1500. Machiavelli prosegue con la sua descrizione delle qualità che deve avere il Principe e, facendo presente che in ogni caso deve aver presenti e saper usare anche qualità disumane4 per mantenere il potere, costruisce una felice allegoria dicendo che deve prendere dalla “golpe” e dal “lione”, per difendersi dai lacci e dai lupi, intendendo che deve saper fare uso dell’astuzia per difendersi dagli inganni e della forza per poter rispondere con efficacia alle aggressioni, rappresentate in questo caso dai lupi. Si auspica poi che il regno si regga sia su buone armi che su buone leggi, ma tiene presente che se una delle due deve mancare è bene che non siano le armi. Quella che Machiavelli descrive è anche e soprattutto una visione del futuro, ancora calata in una realtà piuttosto dura, dove le regole sono poche e facilmente sovvertibili. Non si fa problemi di andare contro le opinioni della sua epoca pur di tenere fede ai suoi concetti. Di fronte ai suoi contemporanei che sostengono che bisogna “tenere Pistoia con le parte e Pisa con le fortezze” (cap. XX.4) replica di non approvare che per tenere una città si creino delle divisioni interne che poi potranno essere letali al Principe. E ribadisce che la miglior fortezza che un Principe possa avere è di non essere odiato dal popolo. Scopo a cui il sovrano deve dedicarsi permettendo e favorendo lo sviluppo delle arti e dei commerci. Fino ad adesso ho trascurato la parte forse più nota di questo saggio, e cioè i riferimenti a Cesare Borgia e al Papato di Alessandro VI. Machiavelli si sofferma a descrivere come il giovane Borgia si sia distinto per l’abilità di acquisire un regno vasto e compatto nel centro Italia, grazie anche alla rete di alleanze che gli derivava dal supporto del padre, e come la fortuna gli sia stata avversa facendo morire così prematuramente sia il padre, sia lui stesso, e come il regno si sia dissolto alla sua morte, per i troppi nemici accumulati. 4 Machiavelli, op. cit. cap. XVIII.3 “… Sendo adunque uno principe necessitato sapere bene usare la bestia …”. 21 Bisogna riconoscere che però non erano state costruite buone basi per la stabilità del regno costituito da Cesare Borgia, in quanto spesso i territori erano stati annessi a seguito dell’uccisione dell’oligarchia del posto, e non esisteva una rete di alleanze o obbligazioni che potesse garantire qualche forma di collaborazione. Al contrario le famiglie dei potenti danneggiate dalle scorribande dei Borgia avevano validi motivi per riappropriarsi dei territori sottratti non appena venisse meno la minaccia delle armi. Nel 1500 in Italia abbiamo comunque una quantità di risorse sufficienti a permettere scambi e benessere abbastanza da dedicare tempo alle arti e al commercio, e a svolgere attività intellettuali, come dimostra lo stesso lavoro di Machiavelli. La fiducia nella costruzione di legami è invece tutta da costruire: la paura e le armi sono ancora i metodi principali per potersi fidare che i patti verranno rispettati. A questo proposito è interessante, anche se ci riporta indietro di circa un secolo, la lettura di una ricerca che riguarda l’ascesa al potere di Cosimo dei Medici a Firenze nel 1434. In questo articolo di Padgett e Ansell (1993) si indagano i meccanismi che hanno consentito ad una famiglia fiorentina di emergere dall’oligarchia ed essere in grado di tenere unita sotto il suo governo la cittadinanza. 1.1.3 - Robust Action and the Rise of the Medici, 1400-1434. - La famiglia al potere In questa ricerca viene messo in evidenza il fatto che sono soprattutto i legami e le obbligazioni che Cosimo dei Medici riesce a costruire con buona parte della popolazione a permettergli di avere l’assenso per la sua ascesa al potere. Utilizzando la Social Network Analysis i ricercatori ricostruiscono la rete di relazioni che si era strutturata, senza alcuna intenzione manifesta da parte degli attori, ma come conseguenza dei fatti accaduti. 22 Bisogna riconoscere a Cosimo il merito di aver mostrato apertura per quelli che vengono definiti gli uomini nuovi, cioè la borghesia. I Medici facevano parte dell’oligarchia, ma in seguito alla loro presa di posizione durante la rivolta dei Ciompi, vennero emarginati e nessun matrimonio venne più celebrato tra loro e le altre famiglie nobili. Le politiche matrimoniali rischiano però di essere un’arma a doppio taglio: i legami di parentela possono essere un vincolo che inibisce l’autonomia e la capacità di azione degli individui5. Conviene stabilire rapporti commerciali con individui con cui non si hanno rapporti che possano comportare impegno reciproco, in modo da poter pretendere il rispetto degli accordi commerciali nel caso che una delle parti non li onori. Nel caso invece di un legame di parentela è disdicevole rivolgersi alla giustizia per chiedere l’osservanza dei patti e questo può danneggiare il soggetto più debole nella transazione. In seguito all’“embargo” matrimoniale da parte dell’oligarchia fiorentina nei confronti dei Medici, questi iniziano a rivolgersi a famiglie dello stesso lignaggio ma residenti fuori Firenze per le loro nozze, così che la distanza che si crea mette al riparo da obbligazioni troppo pressanti e da situazioni che oggi potremmo definire “conflitto di interessi”. Le politiche matrimoniali si differenziano anche secondo il sesso degli sposi: solitamente le spose che entrano nella famiglia Medici appartengono alla borghesia commerciale e quindi si trovano in posizione subordinata. Il fatto di acquisire status attraverso il matrimonio determina la dipendenza delle loro famiglie nei confronti di Cosimo. Per quanto riguarda le relazioni commerciali invece queste vengono tenute in modo massiccio con i “vicini di casa” residenti nel quartiere di San Giovanni, determinando così una comunanza di interessi dovuta alla necessità di difendere in solido un patrimonio comune. 5 Come già visto nel testo di Banfield (1958), dove la formazione di un nuovo nucleo avveniva quasi sempre in modo da rompere i rapporti con la famiglia d’origine e spesso causa di conflitti per motivi economici. 23 Intanto le altre famiglie dell’oligarchia erano strettamente imparentate tra loro e al tempo stesso coinvolte in attività commerciali, fatto che le indebolisce anche se determina un gruppo molto coeso, composto però da tanti cluster incapaci al bisogno di fare fronte comune. Cosimo si trova invece ad essere il legame ponte tra l’oligarchia e la borghesia. Diversificando i destinatari delle sue relazioni continua ad essere il tramite per qualunque relazione si voglia instaurare tra i vari membri della comunità cittadina. In questo modo la famiglia Medici diventa il fulcro delle attività politiche cittadine e finisce per ricoprire un ruolo di mediazione tra le parti che renderà inevitabile la sua ascesa al potere. Gli autori ci tengono a sottolineare il fatto che Cosimo non agisce con l’intenzione di diventare quello che poi diventerà, si trova però a fare le scelte giuste di fronte ai fatti che, come direbbe Machiavelli, la fortuna gli mette davanti. Realizza cioè una buona sinergia tra la sua capacità di gestire gli eventi e quello che il caso gli offre come opportunità. 1.2 – Mafie, clientele e tradizione civica In questa parte del capitolo si fa riferimento a tre diverse ricerche: la prima, di Federico Varese (2011), è una analisi delle modalità di trasferimento di gruppi di tipo mafioso lontano dalla terra d’origine. Lo scopo dell’autore, attraverso il confronto tra tentativi riusciti e falliti, è di individuare i meccanismi che sono alla base dello sviluppo mafioso per costruire strumenti adatti a contrastarlo. Il secondo testo, di Eisenstadt e Roniger (1984), è una accurata descrizione dei legami clientelari e di amicizia, riguardo al loro sviluppo storico e alla loro diffusione attuale. Chiude il capitolo la ricerca di Putnam (1993), completando un ideale percorso iniziato con l’analisi di Banfield (1958), per mostrare come, nonostante la 24 presenza del “familismo amorale” si siano sviluppate in Italia realtà sociali che producono soddisfazione e benessere tra i loro abitanti. Non sempre i legami sociali servono al bene comune, se per questo intendiamo quello della collettività intera: in certi casi possono servire gli interessi di una ristretta parte della medesima e in alcuni casi proprio di quella parte che sta al di fuori della legalità. Ma anche il mondo della criminalità ha bisogno di regole per funzionare, e, ancor più della società civile, ha bisogno di reti di relazioni in quanto non può contare sulle leggi scritte nel codice civile per far rispettare i patti. È interessante l’analisi del fenomeno della costruzione della fiducia all’interno del mondo della criminalità organizzata che ci fornisce Federico Varese nel libro recentemente pubblicato che tratta le condizioni di sviluppo di gruppi di tipo mafioso in luoghi lontani dalla loro origine. 1.2.1 - Mafie in movimento Gli studi svolti finora sull’argomento definiscono le mafie come fondamentalmente stanziali. In questo testo l’autore descrive e analizza alcuni casi in cui gruppi mafiosi si sono mossi dalla loro terra d’origine per fondare nuovi gruppi in Italia, in America, nell’Europa dell’Est e in Cina, in alcuni casi con successo fino a diventare organizzazioni indipendenti, e in altri casi senza riuscire ad affermarsi. Uno dei principali aspetti che l’autore analizza è il legame con la madrepatria e se e in che modo tale legame persiste, che funzioni ha e per quali motivi viene interrotto. Di solito il legame con la madrepatria è necessario nelle prime fasi dell’insediamento, perché fornisce risorse altrimenti non disponibili e contribuisce a mantenere un’identità al gruppo che di solito si trova immerso in una cultura differente. 25 In alcuni casi il legame con la terra d’origine viene utilizzato per i riti di iniziazione, e in questo caso è indice di una non completa autonomia. In altri casi i nuovi membri vengono reclutati tra i nuovi arrivati ma sempre di provenienza dalla madrepatria. Quando il gruppo neoformato inizia a reclutare nuovi adepti sul posto il processo di autonomia è già in una fase avanzata. Appena riesce a sviluppare risorse in loco inizia il processo di distacco, che può essere più o meno turbolento e contrastato. Nel momento in cui la capacità di accumulare capitali nella nuova sede è maggiore di quella del gruppo di origine, i due gruppi diventano, per ovvie ragioni, indipendenti. Varese ci tiene a sottolineare, contrariamente a quanto sostenuto da Putnam (1993) e Coleman (1988, 1990), come il capitale sociale non sia una protezione sufficiente contro lo sviluppo di associazioni criminali, e non abbia un ruolo attivo nella prevenzione di tali infiltrazioni. Confrontando le due realtà di Bardonecchia negli anni ’50 e Verona negli anni ‘80, scopre che è stato il fattore fiducia (Varese 2011, p. 46)6 a fare la differenza e a permettere agli attori del mercato della droga a Verona di vanificare il tentativo di controllo di tale mercato da parte della mafia e quindi ad impedirne il radicamento. Gli spacciatori e i consumatori, proprio grazie ai loro legami di conoscenza reciproca e al codice di comportamento che regolava i loro scambi, sono riusciti ad eludere il tentativo dei gruppi mafiosi di gestire il mercato locale della droga e il traffico proveniente dal Medio Oriente ed hanno contribuito a facilitare l’azione repressiva delle forze dell’ordine. Si trattava di un mercato illegale, ma aveva delle regole condivise dagli attori e non aveva bisogno di un intervento che attraverso l’intimidazione garantisse il rispetto degli scambi. Perché è in questo modo che agiscono e si fanno spazio le mafie: si introducono in un vuoto normativo e ne prendono possesso. 6 Fiducia: “probabilità soggettiva grazie alla quale un attore sociale valuta che un altro attore agirà come promesso”. 26 Dove il monopolio della violenza non appartiene allo stato soltanto (secondo la nota definizione di Weber) questa può essere utilizzata a vantaggio di pochi. A Bardonecchia invece negli anni ’50 la presenza di mafiosi in soggiorno obbligato in un momento di notevole sviluppo del mercato edilizio ha creato le condizioni per costituire un monopolio della manodopera e del movimento terra controllato dalla ‘Ndrangheta, che è diventata il canale privilegiato dell’immigrazione di operai non specializzati che arrivavano per sopperire alla carenza di manodopera locale. A niente è servito lo sviluppato senso civico locale, gli interessi commerciali hanno avuto la meglio e la mafia è giunta fino a controllare la politica locale, senza suscitare opposizioni tra la popolazione. L’organizzazione criminale si è sostituita alla concorrenza, costringendo i lavoratori in condizioni disumane e eliminando eventuali rivendicazioni sindacali con la violenza. In un comune di piccole dimensioni come quello di Bardonecchia il numero di voti controllati dalla ‘Ndrangheta è stato sufficiente per vincere le elezioni e gli oppositori sono stati ridotti al silenzio con l’intimidazione. La tendenza a regolare i mercati tramite accordi privati per limitare i costi della concorrenza è un fenomeno diffuso, ma l’intervento della criminalità aggiunge al danno economico la totale arbitrarietà della tutela e soprattutto l’uso della violenza. Come sostiene Varese: “la differenza fondamentale tra una democrazia fondata sullo stato di diritto e un governo mafioso risiede nella certezza del diritto e nella possibilità per i cittadini di influenzare le decisioni dei governi nella prima e non nel secondo” (2011, p. 19). Gli altri esempi che Varese ci fornisce dimostrano come nelle situazioni di transizione dei mercati, dove si ha un rapido sviluppo o, come in altri casi che esamina, nel passaggio da economie comuniste ad economie di mercato, dove non esistono regole certe né attori accreditati, la criminalità organizzata può inserirsi a fare da intermediario, sostituendosi nella funzione regolativa che dovrebbe avere lo 27 stato, fornendo servizi che sono largamente apprezzati da qualcuno e fortemente iniqui per altri. Gli esempi a questo proposito riguardano uno stesso gruppo criminale di origine russa, la Solncevo, che negli anni ’90, tenta di radicarsi a Roma, senza successo, e a Budapest dove invece, grazie alla particolare situazione economica, riesce ad acquisire ampio spazio. La repentina trasformazione da un’economia regolata al libero mercato con la conseguente espansione e l’incapacità dello stato di costituire un baluardo ha favorito la domanda di protezione extralegale per le attività economiche che si sono facilmente collocate al di fuori della legalità. Il ruolo della criminalità organizzata come sostituto dello stato è particolarmente evidente nel caso della Cina, dove l’alta conflittualità tra lavoratori e datori di lavoro, in assenza di una efficiente presenza della magistratura, viene risolta con l’utilizzo della criminalità. Inoltre, sempre per la difficoltà di ottenere risarcimenti tramite la legge, sono sorte molte agenzie di recupero crediti, spesso gestite da pregiudicati che utilizzano ampiamente l’intimidazione e la violenza. Per arginare il fenomeno l’amministrazione statale ha deciso di dichiarare illecita l’attività di recupero crediti determinando in toto una loro collocazione al di fuori della legge. L’importanza di una rete di conoscenze si rende evidente anche in un aspetto alquanto peculiare dell’attività criminale: i crimini hanno bisogno di un pubblico e le minacce, per essere efficaci, devono essere credibili e i minacciati devono avere prova che quanto temuto può essere messo in atto, altrimenti possono rispondere all’intimidazione in modo difensivo oppure ignorarla. E’ necessario che la fama di terrore accompagni queste organizzazioni in modo tangibile perché possano essere efficaci. Spesso è necessaria una conoscenza diretta dei fatti o di testimoni di essi. Nei primi anni del ‘900 era diffusa a New York un’organizzazione che si firmava “La mano nera” perché siglava le sue lettere minatorie con il disegno di una piccola mano nera. Le lettere servivano ad estorcere soldi in cambio di protezione, minacciando tremende ritorsioni se il destinatario non avesse pagato. Ben presto si diffusero molti imitatori che non avevano nessuna capacità di mettere in atto le 28 minacce, e questo produsse l’effetto che in poco tempo i destinatari smisero di pagare e il fenomeno scomparve da solo. Un altro aspetto importante relativo alla fiducia riguarda il rapporto con gli emissari in territori lontani dalla casa madre: trattandosi di rapporti personali e non potendosi rivolgere alle autorità per recuperare eventuali furti, può capitare che un emissario si arricchisca ai danni del suo boss, salvo poi venire ucciso in modi spettacolari come azione dissuasiva nei confronti di simili comportamenti. Una situazione particolare si è creata a New York in seguito alle riforme del sistema di polizia nei primi del novecento. All’epoca la polizia newyorkese era corrotta e connivente con alcuni settori del commercio illegale: la prostituzione e il gioco d’azzardo. I poliziotti si facevano pagare per permettere ai gestori di lavorare indisturbati. Le riforme furono così efficaci da eliminare la funzione di protezione che veniva svolta da parte della polizia, lasciando così un vuoto che venne colmato dalla mafia siciliana. Una successiva espansione delle gang di mafiosi si ebbe con l’introduzione del proibizionismo, favorendo la nascita di un nuovo mercato illecito che aveva bisogno di funzioni di protezione e di regolazione degli scambi che non potevano certo essere chiesti alle autorità locali. La domanda che si pone Varese è se la democrazia favorisce le mafie, in quanto dalla sua analisi appare che alcuni paesi nella fase di transizione da mercati regolati a sistemi di democrazia hanno visto un forte incremento della criminalità di stampo mafioso. Questa domanda suscita ovviamente perplessità, ma la risposta va cercata nell’assenza di regole certe che lascia spazio ad abusi, quello che precedentemente ho definito vuoto normativo. Soprattutto la tutela del diritto di proprietà si rivela importante nelle fasi di transizione, assieme all’esistenza o meno di mercati illegali. Nel caso del proibizionismo in America è stato dato un forte impulso ad un mercato illegale che prima non esisteva e che ha beneficiato delle funzioni regolative che la criminalità già esistente sul territorio poteva offrire. In altri casi è stata la richiesta di frenare le rivendicazioni sindacali dei lavoratori da parte delle imprese a servire da stimolo alla criminalità organizzata, ma 29 dove questa funzione repressiva veniva svolta dallo stato non è stato necessario l’intervento illecito, come a Rosario in Argentina nei primi anni del ‘900. Anche in questo caso si trattava di un mercato edilizio, ma le dimensioni di tale mercato non permisero che una piccola organizzazione riuscisse ad avere il sopravvento. Per quanto riguarda le rivendicazioni operaie queste erano represse direttamente dalla polizia di stato, per cui non vi era spazio per lo sviluppo di questa forma di controllo da parte di associazioni illegali. Dove invece lo stato è riuscito a limitare l’ingerenza della polizia durante gli scioperi la criminalità è stata chiamata in campo dai proprietari, come nel caso di New York dopo le riforme che avevano sradicato la corruzione dei poliziotti. Certe organizzazioni criminali quando riescono a svilupparsi è perché svolgono un ruolo nelle nostre società; agiscono da regolatori o intermediari in certe sacche di mercato che non hanno a disposizione un sistema di norme funzionanti o non possono averlo perché esistono al di fuori della legalità. Questa funzione di regolazione può essere svolta dallo stato o da altri enti, può essere lecita oppure illecita. A metà di questi due estremi si collocano i legami personali e clientelari, che appartengono alla legalità, ma non sono gestiti dallo stato, possono essere formalizzati ma anche informali. Importante è sempre e comunque la loro funzione di costruzione della fiducia. 1.2.2 - Patrons, Clients and Friends: Interpersonal Relations and the Structure of Trust in Society Una ricerca molto importante sui modi in cui si costruisce e si diffonde la fiducia nelle società moderne è il lavoro di Eisenstadt e Roniger (1984). Si tratta di una analisi accurata di come si sviluppano i legami clientelari dall’epoca dell’impero romano ad oggi, tenendo presenti le diverse realtà dell’occidente e dell’oriente. Gli autori esaminano anche come si costruiscono altri tipi di legame e la loro esistenza nel dominio pubblico o nel dominio privato e la relazione tra questi due. 30 Benché la loro origine si perda nel passato, i legami clientelari non sono l’espressione di una fase primitiva di sviluppo della società, bensì sono legati all’orientamento culturale e alle modalità di costruzione della fiducia. Sono caratterizzati sempre dallo scambio contestuale di risorse di vario tipo, spesso mutue obbligazioni di tipo economico, e l’enfasi è posta sia sulla loro utilità che sulla loro reciprocità. A questi legami vengono attribuiti frequentemente valori morali e vengono strutturati attraverso riti che ne confermano la validità e la condivisione di significati. Le modalità in cui evolvono tali legami in certi casi possono condurre alla coercizione e all’abuso, questo dipende principalmente dalla asimmetria degli attori. I legami clientelari infatti hanno origine quasi sempre da situazioni precedenti in cui gli attori erano fortemente vincolati in un regime di totale dipendenza di uno dall’altro. Esempi di ciò sono i rapporti tra padroni e schiavi liberati nell’impero romano o tra i colonizzatori europei e le popolazioni autoctone in America Latina. I legami clientelari nascono storicamente quando individui che fanno parte della stessa società si trovano in situazioni diverse di potere e di accesso alle risorse. Il richiamo, contenuto anche nel nome, ai “clientes” latini è esemplare: diventavano clientes gli schiavi liberati e le colonie o i territori confinanti con l’impero, e il rapporto di clientela stabilisce alcune regole di comportamento che sono vantaggiose per entrambi. Da una parte gli schiavi liberati restano in condizioni di semi dipendenza dai loro precedenti padroni, dall’altra parte i “patrones” continuano ad usufruire di qualche servizio da parte degli ex schiavi senza però dover provvedere al loro mantenimento. Il rapporto si trasforma per le nuove esigenze che si manifestano con il cambiamento della struttura sociale o delle condizioni economiche. Tornando all’esempio degli schiavi liberati nell’antica Roma, questo poteva avvenire in seguito ad una acquisizione di risorse autonome da parte dello schiavo, ma anche per la necessità del padrone di avere un carico minore nella gestione della servitù. Lo schiavo liberato infatti, pur mantenendo certi obblighi di servitù, doveva provvedere autonomamente per alcuni aspetti alla sua sopravvivenza, invece di riceverli in toto dal padrone. 31 Questo fenomeno ricorda quanto avviene attualmente nelle imprese che decidono di delegare ad imprese satelliti certe attività svolte al loro interno su cui non riescono ad avere un buon controllo dei costi ma che gravano sul bilancio, quello che viene chiamato “outsourcing”. In questo modo le spese di certe attività, che generalmente non appartengono al core business dell’azienda, vengono demandate ad altri e il prodotto è acquistato ad un prezzo fisso. Qualcosa di simile a quanto è successo in alcune zone d’Italia in cui è stata diffusa un certo tipo di piccola impresa, come la realtà tessile pratese7, in cui l’azienda “madre” distribuiva il lavoro e i rischi tra tanti piccoli artigiani, o in grandi aziende, come ad esempio la FIAT di Torino, che ha fatto ampio ricorso all’Outsourcing, oppure, più di recente, l’uso di esternalizzare alcuni servizi un tempo strettamente municipalizzati come la fornitura di gas, acqua, trasporti pubblici, per ovviare alle riduzioni dei finanziamenti da parte dello stato. Il tratto comune a tutte queste realtà è che un allentamento dei rapporti e una maggiore autonomia del soggetto più debole corrisponde ad una diffusione dei costi e dei rischi su entrambi i membri che, per essere vantaggiosa per tutti, deve essere bilanciata da una diffusione anche delle risorse. Questo conduce ad un’altra analogia: quella tra madre e bambino. Questo richiamo è importante perché spesso viene attribuita la capacità degli individui di costruire relazioni alla loro singolare esperienza di fiducia incondizionata esperita nel rapporto primordiale con l’adulto; nei casi in cui tale fiducia è venuta a mancare si riscontrano spesso patologie comportamentali. L’aumento di autonomia del bambino viene sottolineato dalla sua capacità di farsi carico delle proprie necessità invece di ricorrere passivamente all’accudimento. In tutti questi casi il legame resta come traccia di una maggiore dipendenza esperita nel passato. Ci rimanda inoltre al concetto di divisione del lavoro, così come descritta da Adam Smith e come concettualizzata dai Padri Fondatori8 della Sociologia: Durkheim, Weber e in parte anche Marx, con la loro consapevolezza che tale 7 Una gradevole descrizione in merito si trova in Storia della mia gente (Nesi, 2010), che vediamo nel prossimo capitolo. 8 Eisenstadt e Roniger (1984), cap. 2, p. 20. 32 divisione, assieme ai meccanismi regolativi del mercato, non è sufficiente a spiegare il funzionamento dell’ordine sociale. Per questo vengono chiamate in causa la costruzione della fiducia e della solidarietà. Le inevitabili tensioni e i conflitti che sorgono a causa della divisione del lavoro devono essere risolti attraverso meccanismi di dialogo e scambio tra le parti che mitighino la tensione. Le teorie funzionaliste di Talcott Parsons e altri sociologi contemporanei sottolineano l’importanza della funzione di integrazione nel mantenimento dell’ordine sociale. Gli autori identificano le seguenti caratteristiche comuni a tutti i tipi di rapporti clientelari: a) Le relazioni tra patrono e cliente sono particolaristiche e diffuse. b) L’interazione è caratterizzata dallo scambio simultaneo di differenti tipologie di risorse. c) Lo scambio avviene in “pacchetti” standardizzati. d) In queste relazioni si costruisce una sorta di scambio senza condizioni e di credito a lungo termine. e) Lo scambio è caratterizzato da un forte elemento di obbligazione reciproca. f) La relazione non è completamente legale o contrattuale, è basata su accordi informali. g) La relazione patrono-cliente è generalmente volontaria. h) È una relazione verticale. i) È basata su una forte diseguaglianza tra le parti. Queste caratteristiche vengono individuate nelle varie tipologie di situazioni analizzate nel testo. Altro aspetto analizzato dagli autori è il dinamismo tra pubblico e privato: le società tribali, in cui i legami di parentela hanno uno spazio predominante, negano l’esistenza di uno spazio privato per gli individui. Questo può esser dovuto alle ridotte dimensioni di tali società che permettono un controllo sociale capillare. Rispecchia comunque l’idea di fondo di una società in cui non si distinguono spazi separati, bensì un insieme molto coeso. 33 Allo stesso modo nelle società totalitarie non viene concessa legittimità alle relazioni non pubbliche. Dove il privato acquista spazio è nelle società che gli autori definiscono Pluralistiche aperte e Consociazionali, a dimostrazione del fatto che in tali società diminuisce l’orientamento al controllo. È interessante notare che i rapporti clientelari tendono a svilupparsi nei punti di discontinuità del sistema sociale, dove la fiducia viene a mancare a causa delle differenze strutturali dei settori tra di loro, come ad esempio nel sistema indiano tra le diverse caste, oppure tra settori della stessa società che si rifanno a principi differenti. Nel caso di alcune società basate su principi universalistici di accesso alle risorse e alla gestione del potere, come ad esempio gli Stati Uniti d’America, si sono sviluppati sistemi clientelari legati al mondo della politica, in seguito all’enorme sviluppo dell’urbanizzazione. Questo è dovuto probabilmente alla necessità di gestire le relazioni in modo da ridurre la complessità del sistema per poterlo governare. Il paradosso più evidente sta nel fatto che dall’analisi degli autori risulta che le società in cui sono predominanti i rapporti clientelari sono caratterizzate da bassi livelli di fiducia. Al contrario dove la fiducia è diffusa non si sviluppano modelli clientelari a testimonianza quindi del suo ruolo di collante del sistema sociale. La peculiarità del rapporto clientelare, rispetto ad altre forme di relazione sta nel fatto di costituire un vincolo, un restringimento delle possibilità di diffusione delle risorse. E’ un rapporto finalizzato ad uno scambio che limita il numero di opzioni possibili. L’aspetto fondamentale di questi legami è che costruiscono fiducia, nel senso di prevedibilità agli eventi e agli effetti delle proprie azioni; costruiscono relazioni, che vincolano i soggetti che partecipano agli scambi, ma la loro peculiarità è proprio dovuta al fatto che la fiducia che veicolano è limitata agli individui che fanno parte del gruppo clientelare, anziché a tutta la società. Le conseguenze di questo tipo di relazioni hanno effetti che durano a lungo e, secondo alcuni autori, è molto difficile cambiare la struttura della società dopo che si sono stabiliti. Questa è anche la tesi di Robert Putnam (1993), che, come vediamo di seguito, attribuisce alla storia di rapporti clientelari, contrapposta all’esercizio della 34 democrazia, la responsabilità di determinare il diverso rendimento delle istituzioni nelle diverse regioni italiane. 1.2.3 – La tradizione civica nelle regioni italiane Dopo un lungo dibattito istituzionale, nel 1970 in Italia sono stati istituiti i Consigli Regionali, come era stato previsto nella Costituzione del 1948. I venti anni trascorsi tra la previsione e la loro effettiva costituzione erano stati segnati da un singolare sviluppo economico, che aveva dato al paese la necessaria stabilità per permettere di accogliere le istanze dei fautori del decentramento. Nel corso del primo decennio del loro funzionamento vengono trasferite funzioni e poteri dagli organi centrali alle Regioni, che si trovano a poter decidere su questioni economiche fino a quel momento gestite direttamente da Roma. La vicinanza dei decisori alle realtà locali era stata vista come l’occasione per sviluppare un sistema più democratico e più efficiente. Per Putnam e i suoi collaboratori questa situazione è un’opportunità irripetibile, in quanto una nuova istituzione viene creata dal nulla e se ne possono studiare gli effetti sul sistema sociale. È particolarmente significativo il fatto che la medesima forma istituzionale venga introdotta in zone che hanno situazioni storiche ed economiche profondamente diverse, così da poter studiare l’influenza del contesto sulle forme di governo. La ricerca che ha inizio nel 1970 si protrarrà per venti anni. Nella prefazione al libro che ne scaturisce Putnam descrive la mole di cambiamenti che hanno attraversato l’Italia e il suo mondo politico in questo periodo, e come i Consigli Regionali siano passati dall’essere una istituzione presente solo sulla carta a diventare organi effettivi del governo territoriale. La prima domanda che Putnam si pone è fino a quanto le istituzioni incidano sulla pratica politica e in che modo invece il contesto ne influenzi i risultati. Le differenze economiche e sociali di partenza tra le varie regioni italiane sono tali che determinano fin dall’inizio evidenti discontinuità nell’applicazione del mandato. 35 Attraverso la somministrazione di questionari, tesi a identificare il livello di soddisfazione dei principali attori di questa innovazione, cioè i consiglieri regionali e i cittadini, e attraverso il confronto di numerosi indicatori, i ricercatori riescono a confrontare il rendimento istituzionale e il grado di soddisfazione nelle varie regioni. Il più importante risultato che Putnam rileva, pur nelle regioni meno soddisfatte, è la considerazione unanime che in ogni caso il governo regionale costituisca un miglioramento rispetto al governo centrale, sia per la maggiore raggiungibilità, sia per la migliore conoscenza del contesto in cui si trova ad operare. Un altro risultato di rilievo è che a livello regionale la conflittualità tra schieramenti politici tende ad attenuarsi col tempo, e i consiglieri tendono ad orientarsi sempre di più alla risoluzione dei problemi piuttosto che alle contrapposizioni ideologiche. Putnam ritiene che la causa principale di questo effetto sia stata quella che lui definisce la “socializzazione istituzionale” cioè la partecipazione diretta ai problemi della Regione che ha convinto i protagonisti a passare dal dogmatismo ideologico a un pragmatismo più consensuale (ibid., cap. II, p. 44). L’esercizio del governo ha prodotto cambiamenti negli atteggiamenti dei consiglieri eletti, tali da orientarli verso le concrete realtà in cui sono immersi, piuttosto che limitarsi a bilanciare posizioni di potere. Queste differenze di orientamento vengono riscontrate in tutte le Regioni, dalle più alle meno civiche, indicando quindi un effetto di questa nuova istituzione sul senso civico. Oltre a questi risultati positivi vengono rilevate notevoli differenze di rendimento. Putnam individua tre livelli per distinguere le regioni con il massimo di senso civico da quelle in cui la nuova istituzione ha prodotto pochi miglioramenti. La classificazione si basa sulla identificazione dei seguenti dodici indicatori del rendimento delle istituzioni: 1 – la stabilità della giunta, 2 – la puntualità nella presentazione del bilancio, 3 – la presenza e l’utilizzo di servizi di informazione e statistica, 4 – le riforme legislative, di cui viene valutata l’estensione, la coerenza e l’inventiva, 5 – gli aspetti innovativi della legislazione regionale, 36 6 – la costituzione di asili nido, 7 – la costituzione di consultori familiari, 8 – gli strumenti di politica industriale, 9 – la capacità di spesa nel settore agricolo, 10 – le spese delle Unità Socio-Sanitarie Locali, 11 – l’edilizia e lo sviluppo urbanistico, 12 – la disponibilità dell’apparato burocratico nei confronti dei cittadini. La varietà di questi indicatori e la loro accuratezza ci da una visione d’insieme dell’estensione della ricerca e degli ambiti verso cui è orientata. Confrontando i risultati per ciascuno di questi indicatori è stato costruito un indice sintetico che ha permesso di ordinare le varie regioni secondo il loro rendimento. È stata rilevata una forte concordanza tra gli indicatori, a sostegno dell’attendibilità della ricerca. Accertata l’oggettiva differenza di rendimento, Putnam si chiede che cosa rende così diverso l’esito nelle varie Regioni. Le principali ipotesi ci riconducono alle differenze nella modernità socioeconomica e nella comunità civica, intesa come impegno politico e solidarietà. L’autore sostiene che una situazione di povertà può danneggiare lo sviluppo sociale, ma la ricchezza da sola non è in grado di stimolare lo sviluppo della civicness. Invece una buona diffusione della cultura civica ha senza dubbio effetti positivi sull’economia. A questo punto, stilata la graduatoria delle Regioni secondo il loro rendimento e andando ad analizzarne la storia, si trova che le Regioni con il miglior rendimento corrispondono a quelle che durante il Medioevo hanno visto fiorire i Comuni, mentre le altre appartengono al Meridione d’Italia e hanno sperimentato vari governi autocratici, dal Regno dei Normanni in poi. Queste condizioni di partenza hanno prodotto un circolo virtuoso nelle regioni del centro-nord, e un circolo vizioso al sud, dove il potere centrale ha impedito lo sviluppo di forme di cooperazione e di autonomie locali. Le condizioni economiche nel Medioevo non erano totalmente a favore delle regioni settentrionali: il forte potere centralizzato al sud aveva permesso la creazione del latifondo, con forti accumulazioni di ricchezze, e lo sviluppo delle arti e di città 37 tra le più popolose d’Europa, come ad esempio Napoli, mentre le continue dispute tra i Comuni determinavano una instabilità dannosa per i commerci. Ma mentre la situazione dei Comuni ha costituito una palestra per la costruzione del senso civico e ha stimolato i banchieri ad inventare strumenti che potessero ovviare alla mancanza di ingenti accumulazioni di denaro, come è stato il credito, la struttura fortemente verticale del Meridione ha stimolato solo lo sviluppo di rapporti clientelari tra la nobiltà terriera e il resto della popolazione. Sostanzialmente la profonda differenza tra le due realtà può ricondursi alla prevalenza di rapporti asimmetrici, di tipo verticale, nel sud, e la presenza di rapporti di tipo orizzontale nelle altre regioni. Queste tipologie di legami si sono rivelate particolarmente stabili e ostili al cambiamento: nonostante i secoli seguenti siano stati attraversati da varie calamità, invasioni straniere, pestilenze che hanno decimato la popolazione, soprattutto al centro e al nord, li ritroviamo pressoché inalterati nel ventesimo secolo. Nel 1860, al momento dell’unificazione d’Italia, quando il governo centrale, sotto la spinta ideologica del liberalismo, si è impegnato ad eliminare qualsiasi forma di associazionismo, così come è avvenuto in altri paesi europei, come la Francia, le varie zone dell’Italia hanno reagito in modo diverso a questo cambiamento. In quel periodo si è avuta una fioritura di nuove forme associative, dovute soprattutto alla necessità di fornire nuovi strumenti di solidarietà sociale ed economica alle classi lavoratrici. Il fenomeno ovviamente ha riguardato solo le zone che avevano avuto uno sviluppo imprenditoriale, per cui il meridione d’Italia, rimasto fermo al latifondo, non ne è stato interessato. Tra il 1860 e il 1890 sono nate diverse società di mutuo soccorso, e contemporaneamente ha preso un forte impulso la creazione di cooperative. Queste, pur essendo apolitiche, erano sostenute da ideali di largo respiro e svolgevano un’importante funzione politica latente, contribuendo alla diffusione di idee e corroborando la capacità di svolgere azioni collettive e di solidarietà tra i cittadini. Nel meridione invece nello stesso periodo la popolazione era divisa tra i pochi nobili proprietari delle terre e la massa dei contadini e braccianti che vivevano in condizioni di povertà. La pervasiva sfiducia, assieme alla mancanza di risorse, 38 impediva ai contadini di unirsi come al nord per formare consorzi e cooperative, e la nobiltà ricorreva alla violenza per mantenere il controllo delle campagne. Da questo particolare contesto ha avuto origine la Mafia. Putnam a questo proposito cita il lavoro di Banfield su Montegrano, e chiama in causa il concetto di “familismo amorale”, per spiegare l’incapacità degli abitanti delle regioni del sud Italia di collaborare e di sviluppare quel senso civico che avrebbe potuto agire da stimolo per lo sviluppo economico. La realtà italiana non è però esaurita da queste due tipologie: a metà strada tra gli estremi del nord industrializzato e del sud impantanato in forme di agricoltura arretrate esiste quella che è stata definita da Bagnasco et al. (2010) la “Terza Italia” cioè quella che si basa su un’economia diffusa, su piccola scala, ma altamente produttiva, quella dei “distretti industriali”. In queste zone le dimensioni delle imprese sono piccole, spesso a conduzione familiare, il tessuto produttivo è fortemente interconnesso e le fasi di lavorazione sono capillarmente distribuite. Quando questo tipo di struttura economica funziona e diventa redditizia, aumenta anche la mobilità sociale. Secondo Putnam questi distretti sono terreno fertile per lo sviluppo di forme di collaborazione e di solidarietà professionale. Le considerazioni conclusive dell’autore vertono su vari aspetti che riguardano il tema della collaborazione tra individui. Le teorie che si rifanno alla necessità di una guida autoritaria, il “Leviatano” che imponga con la forza l’ordine sociale, non tengono conto degli effetti sul lungo periodo: l’assuefazione all’obbedienza stimolerà lo sviluppo di astuzie e scorciatoie che alla fine si concretizzano nei rapporti clientelari o nelle Mafie, mentre solo l’esercizio dell’autonomia, con i suoi alti e bassi, può permettere l’apprendimento e la diffusione di quelle forme di collaborazione che sono indispensabili per lo sviluppo dell’economia. Questa capacità di collaborare diventa un capitale che, a differenza del capitale convenzionale, non si consuma con l’utilizzo, anzi ne è incrementato, proprio perché si diffonde e si riproduce. Ad una azione collaborativa possono seguire molteplici azioni di risposta, e la fiducia che è necessaria per questo tipo di 39 relazioni viene incrementata dallo scambio, mentre il non uso tende a farla affievolire fino a scomparire. La formazione della fiducia e il suo mantenimento hanno però bisogno di un ambiente di forte riconoscibilità: le sanzioni per le defezioni non hanno effetto tra sconosciuti. Questo rende possibile nelle società complesse l’opportunismo, proprio perché non è facile essere scoperti, ma rende nello stesso tempo più importante costruire relazioni basate sulla fiducia, perché una società complessa è sottoposta a molteplici forze disgreganti che possono essere contenute solo dalla rete di legami che si sviluppano al suo interno. Da questa ricerca Putnam cerca di trarre alcune indicazioni: la prima è che la storia di un paese non va trascurata, perché incide sui comportamenti, ma questo non va inteso come impossibilità di cambiare, bensì come punto di partenza di cui tenere conto perché le azioni intraprese abbiano successo. L’altro punto importante è che le istituzioni, interagendo con il contesto, producono cambiamenti, e si può sperare di interrompere il circolo vizioso attraverso di esse, purché si abbia l’accortezza di avere come scopo il favorire l’apprendimento sociale, cioè far partecipare gli attori al governo della cosa pubblica in modo da permettere loro l’apprendimento mediante l’azione. 40 Capitolo 2 Nel mondo del lavoro: dalla fiducia al capitale sociale 2.1 – Cos’è successo alla terza Italia? Il tessile a Prato raccontato da un imprenditore Anche questo capitolo inizia con la descrizione di una realtà circoscritta, di una città della toscana che ha vissuto una esperienza particolare. In questo caso l’autore non è uno scienziato sociale, ma un protagonista in prima persona dei fatti che narra. Lo scopo di questa testimonianza è allo stesso tempo privato e pubblico. L’autore narra a se stesso prima che agli altri le vicende della sua città. È un percorso alla ricerca di un senso e di una spiegazione. Nasce dal bisogno di comprendere se quanto è accaduto poteva svolgersi in altro modo, se quel patrimonio di alacrità e ricchezza diffusa in cui lui si è trovato a nascere aveva qualche speranza di venir tramandato alle generazioni future o se gli eventi erano ineluttabili e non c’era altro da fare che accettare la sorte cercando di uscirne nel modo migliore possibile. 2.1.1 – Storia della mia gente1 Una decina di anni dopo che Banfield ha iniziato la sua ricerca a Chiaromonte, nasce Edoardo Nesi in una famiglia di imprenditori tessili a Prato, una città nei pressi di Firenze che nel secondo dopoguerra ha avuto uno sviluppo incredibile. Negli anni ’50 la pianura ai piedi delle colline era una campagna costellata di campi, alla fine degli anni ’70 era diventata una distesa di capannoni industriali e adesso ospita la più grande colonia italiana di immigrati cinesi. 1 Nesi (2010). 41 La fioritura dell’industria tessile a Prato è durata una o due generazioni; negli anni ’60, come del resto buona parte dell’Italia del centro nord, era in piena espansione e i contadini lasciavano i campi per dedicarsi alla tessitura. A 40 anni, nel 2004, l’autore vende l’azienda di famiglia perché tutto il settore è in crisi e non ci sono più margini per poter proseguire l’attività proficuamente. Quello che per lui sembrava un destino obbligato, cioè continuare a gestire l’azienda di famiglia, sfuma da solo, per colpa dell’apertura dei mercati. Anche se Nesi si sofferma più a lungo sulle emozioni che lo hanno accompagnato, il quadro che delinea descrive bene la realtà pratese: bastava aver voglia di lavorare e i soldi arrivavano, tutto quello che veniva prodotto veniva venduto immediatamente. La struttura che si era sviluppata era costituita da tante piccole aziende a conduzione familiare o poco più, che coprivano tutte le fasi di lavorazione dei tessuti: dalla scelta degli stracci che arrivavano dall’America alla stoffa finita che veniva venduta alle confezioni. Intorno fiorivano tutta una serie di servizi accessori tali da non lasciare disoccupato nemmeno il più analfabeta degli operai. Era un mercato che “tirava” e grazie a questo non era necessaria alcuna abilità particolare per riuscire a guadagnare. L’effetto di questa situazione era la sensazione di non avere limiti, soprattutto per un imprenditore, e di essere l’unico responsabile dei propri fallimenti. Nesi però non si identifica con la ditta di famiglia: ha altre aspirazioni, va spesso in America per imparare la lingua, si sforza di far funzionare l’azienda con metodi più rigorosi, legge i romanzi di Fitzgerald e se ne appassiona, scrive romanzi, tra cui uno, che intitola “L’età dell’oro”, in cui prevede la decadenza del sistema di produzione tessile a Prato, con alcuni anni di anticipo rispetto a quando succede realmente. In “Storia della mia gente” ripercorre le tappe della sua formazione in parallelo con la storia della ditta e della realtà che lo circondava. Le parti finali raccontano la crisi, l’arrivo dei cinesi e lo sgomento delle persone che restano incredule ad osservare tutte le promesse di prosperità che si sono sciolte come neve al sole. 42 A vederla dall’interno, la realtà pratese negli anni ’60 e ’70 sembrava veramente difficile pensare che potesse cambiare. In realtà si reggeva su un equilibrio molto fragile. L’aspetto più solido di questa struttura era la divisione dei rischi, cioè il fatto che i costi di eventuali perdite si ripartivano tra una miriade di imprese, in modo da non costituire il fallimento di nessuna, ma solo un minor guadagno. Dal punto di vista degli imprenditori la storia di Prato è stata un continuo progresso fino al punto in cui non è iniziato il declino, ma dal punto di vista dei tessitori, cioè quelle piccole imprese che gravitavano intorno al lanificio e che si occupavano solo di una parte della lavorazione, le crisi erano ricorrenti. Il problema principale era che ad ogni flessione delle vendite, prevalentemente verso mercati esteri, e quindi soggette a tutti i cambiamenti legati all’andamento dei cambi, il proprietario della ditta cercava di abbassare i costi di produzione, generalmente pagando meno i tessitori. Esistevano accordi per stabilire i compensi pagati agli artigiani, ma spesso c’era chi era disposto a lavorare “sotto tariffa” lasciando senza lavoro chi non si adeguava e vanificando quindi gli accordi. Fino al momento dell’introduzione del documento di trasporto merci, la cosiddetta “Bolla di accompagnamento”, il lavoro al nero era ampiamente diffuso e veniva percepito come la fonte di guadagno migliore, perché non tassata. Anche il reddito di chi lavorava all’interno delle fabbriche poteva giovarsi di una parte di lavoro al nero: spesso le ore di straordinario erano pagate “fuori busta”, con la miopia dei lavoratori che in questo modo hanno visto decurtati i loro contributi. Fondamentalmente la prosperità di Prato si basava su questi ingredienti: una capillare distribuzione dei rischi, un mercato in espansione che accoglieva tutta la produzione senza troppe richieste di qualità e quindi senza bisogno di manodopera qualificata, una cospicua evasione che consentiva di reinvestire anche le quote che avrebbero dovuto confluire nelle imposte e servire eventualmente a politiche di welfare e redistributive. Al momento dell’apertura dei mercati alla produzione tessile proveniente da tutto il mondo la produzione pratese non è stata più concorrenziale, molte imprese hanno chiuso e parte della loro attività è stata rilevata dalla comunità di immigrati 43 cinesi che sono arrivati in gran numero, che spesso utilizzano manodopera, sempre cinese, sottopagata e senza garanzie di nessun tipo, spesso tenuta in condizioni di lavoro e di vita per noi inaccettabili. Per adesso la maggioranza di ex lavoratori del tessile sono protetti dalle reti sociali sviluppate in precedenza. Il periodo di prosperità ha permesso a quasi tutti di diventare proprietari almeno della propria abitazione. Molti sono già in pensione e a questa forma di reddito possono fare riferimento i loro figli che non siano riusciti a ricollocarsi in una nuova attività. Il sistema sanitario pubblico garantisce le spese mediche della popolazione anziana in modo che la pensione possa costituire un supporto per tutta la famiglia senza essere intaccata dalle necessità sanitarie. Chi era riuscito ad accumulare qualcosa in più e aveva iniziato una impresa in proprio può affittare i laboratori ai nuovi imprenditori, molto spesso cinesi, in modo da ricavarne una rendita. Ma tutto questo potrà trasmettersi alla generazione successiva? Probabilmente no, visto che si tratta di una forma di capitale che si sta semplicemente consumando. E tutto quanto è successo, questa fine dell’età dell’oro, poteva essere evitata? Nesi accusa di miopia i nostri governanti nei confronti degli effetti dell’apertura dei mercati ed in particolare gli economisti, per aver visto solo un bene in questo cambiamento, senza prevedere le conseguenze nefaste sul sistema pratese. Indubbiamente la transizione da un mercato protetto allo scambio globale poteva essere gestita con delle cautele e forme di avvicinamento graduale che non sono state implementate, ma questo non è il nostro oggetto d’indagine. Come negli esempi di Federico Varese (2011) che confronta le differenze tra Bardonecchia e Verona, e senza voler alludere all’aspetto di illegalità dei mercati, ma solo al fatto che ci troviamo di fronte a delle realtà che hanno subito un cambiamento determinato dall’arrivo di agenti esterni e sono riuscite o meno a mantenere la loro struttura e identità, vorrei provare ad individuare eventuali punti di forza che non sono entrati in gioco nella realtà pratese, tenendo conto anche di quelli che sono stati i più evidenti punti di debolezza. Per quanto riguarda i concetti che abbiamo finora esaminato possiamo cercare di leggere questi eventi cercando di individuare fino a che punto erano diffuse la 44 fiducia e le norme condivise, e quale fosse la forma di capitale sociale che si è sviluppato a Prato nel ventesimo secolo. La fiducia è stata un elemento presente, altrimenti non avrebbe potuto svilupparsi questa capillare suddivisione del lavoro. Dimostra però di essere facilmente vulnerabile, per esempio nel momento in cui non vengono rispettati gli accordi per le tariffe. L’aver permesso questo è stato una grande debolezza, perché ha fatto sì che aziende non efficienti potessero proseguire la loro attività, quando invece sarebbe stato opportuno cercare di fare economie eliminando gli sprechi o iniziando a fare ricerca per migliorare la produzione, invece che far ricadere i costi solo sull’ultimo anello del sistema. Lo stesso Nesi racconta che, appena entrato in azienda e ancora inesperto, si era messo a fare controlli sulle fatture e aveva trovato irregolarità nella gestione che producevano diseconomie a svantaggio della ditta. Il rispetto delle norme è più difficile da analizzare, ma l’atteggiamento (non descritto da Nesi ma ben noto) nei confronti delle regole fiscali non fa ben sperare. E lo stesso fenomeno del sottotariffa ne è un esempio. Anche in questo caso i guadagni effettuati tramite l’evasione fiscale hanno avuto un ulteriore effetto di ammortizzare le inefficienze invece di stimolarne la correzione. Qual è stata quindi la forma di capitale sociale che si è sviluppata a Prato? Dalla testimonianza di Nesi traspare una grande laboriosità, il senso della famiglia, come nel nome della ditta: “T.O. Nesi & Figli S.p.A” dove la prospettiva futura si concretizza in questi Figli verso cui è protesa: opportunità e condanna, come dimostra il padre dell’autore, quando è ben contento che questo abbandoni gli studi universitari e entri finalmente a lavorare in azienda. Lo studio e la cultura in generale sembravano vezzi inutili, che potevano solo distogliere dall’unica attività produttiva, cioè lavorare. Un aspetto peculiare dei rapporti tra imprenditori e tessitori è la relativa orizzontalità di tali legami. Nonostante sia innegabile che la posizione del proprietario della ditta sia un gradino sopra quella degli artigiani a cui distribuisce il lavoro, gli scambi avvengono a un livello paritario: non c’è l’idea di una nobiltà per diritto di nascita, ma solo la consapevolezza di migliori condizioni derivate 45 dall’impegno e dalla fortuna di essere partiti con maggiori capitali a disposizione. Il livello culturale e i valori sono gli stessi in entrambi i gruppi. Da alcune testimonianze da me raccolte tra ex tessitori ormai in pensione è emerso che poteva capitare frequentemente che un imprenditore prestasse denaro per aiutare un artigiano a comprare nuovi telai o semplicemente per risolvere qualche problema di liquidità, e questo avveniva di solito tramite accordi informali. Questo atteggiamento testimonia una notevole fiducia tra gli attori e la consapevolezza di far parte di una comunità in cui il benessere di ciascuno poteva contribuire al miglior funzionamento di tutto il sistema. Il capitale sociale che è sopravvissuto e di cui si nutre Prato adesso non è frutto solo della storia locale: è il capitale sviluppato in tutta Italia, quello delle strutture di welfare che adesso consentono una dignitosa sopravvivenza degli ex tessitori e delle loro famiglie, quel capitale che è stato solo parzialmente nutrito dai redditi prodotti a Prato. Un altro limite di questa realtà è stato di vivere nel presente senza pensare al futuro: come un Pinocchio sulle giostre che non pensa a cosa lo può aspettare domani. Ma di questo non se ne può far colpa agli individui. Nello stesso modo in cui è necessario diventare coscienti dei compiti oltre che dei privilegi che comporta la democrazia, anche il benessere e la ricchezza necessitano di tempo perché si riesca a prendere confidenza e apprenderne l’uso: le particolari condizioni di partenza erano un caso che non poteva durare in eterno e bisognava costruire strumenti che modificassero il sistema per resistere a tempi meno fortunati. Cosa che non è stata fatta. Solo i più lungimiranti, e Nesi va annoverato tra questi, si sono fatti domande, hanno guardato oltre il loro orizzonte, hanno cercato di immaginare come poteva cambiare il mondo. E hanno cercato di apprendere le nuove forme della realtà per venirci a patti. L’enorme flusso di ricchezza che si è capillarmente riversato su quella cittadina è stato per i più un’abbuffata, un godere del quotidiano senza pensare al futuro, un’ubriacatura di consumi che quando è finita ha riportato le persone alle sobrie abitudini di prima senza scomporsi più di tanto: erano gente semplice prima, tornano ad esserlo dopo. 46 Per questo l’autore rammenta Fitzgerald e ne è affascinato: la stessa età dell’oro degli anni ’20 in America, lo stesso carnevale, la stessa malinconia nei confronti di una ricchezza che non arricchisce le persone. Forse il senso che questa ricchezza fosse un regalo non meritato si è mostrata nella docile arrendevolezza e disponibilità ad abbassare i prezzi invece di puntare in direzione opposta a migliorare la qualità. Ma in una guerra al ribasso si trova sempre qualcuno più povero, disposto a farsi pagare meno. I lavoratori non qualificati sono storicamente sostituibili: chiunque può fare un lavoro che non richiede grandi abilità. I lavoratori molto specializzati invece diventano insostituibili e hanno maggior potere di mantenere inalterato il loro reddito e di continuare a svolgere il loro lavoro. Questa realtà aveva già sperimentato nel corso degli anni forme di cambiamento legate all’evoluzione della tecnologia: alcune fasi della lavorazione che negli anni ’70 venivano svolte a mano sono state sostituite da macchinari. Anche il trasporto dei semilavorati tra le varie sedi di lavorazione all’inizio veniva gestito da persone che di mestiere facevano i “barrocciai”; poi, con l’aumento della prosperità, ogni singolo tessitore o cardatore, ecc. si era dotato di un camioncino, più o meno grosso a seconda della mole di lavoro da trasportare, e i subbi2 e le tele venivano presi e consegnati in proprio. Alcune attrezzature, più costose e di uso limitato, hanno continuato ad essere gestite con un addetto dedicato: l’annodatura dei fili dell’ordito3 tra le licciate4 della tela finita e quella nuova da tessere veniva nei primi tempi fatta a mano, e questo lavoro poteva richiedere anche una intera giornata, con la macchina invece si concludeva in una mezz’ora, per cui sono esistiti fino agli ultimi anni degli artigiani che giravano di tessitura in tessitura con la macchina per annodare caricata sul camioncino e vivevano del reddito ricavato da questo servizio. L’organizzazione del lavoro a Prato si adattava male ad una struttura industriale con operai e orari fissi di lavoro; in genere a questa attività si dedicavano 2 Tubi metallici delle dimensioni della larghezza del telaio, su cui vengono avvolti i fili che compongono l’ordito (vedi nota 3), vengono preparati in ditta e trasportati alla tessitura dove sul telaio si srotolano via via che la tela viene tessuta. 3 Complesso dei fili che si dispongono longitudinalmente sul telaio e che verranno attraversati dai fili che compongono la trama per formare il tessuto. 4 Apparecchio del telaio che serve per alzare ed abbassare i fili dell’ordito in modo alternato, per far passare la trama. 47 famiglie intere, non era insolito negli anni ’60 vedere ragazzini delle elementari che invece di fare i compiti stavano alla macchinetta per fare i cannelli5. E le donne di casa si alternavano agli uomini nella gestione dei telai per poter lavorare ininterrottamente dall’alba al tramonto. Cambiando gli stili di vita, e attribuendo sempre maggior valore al tempo libero, la gestione familiare di questa attività è diventata sempre più problematica e sempre meno redditizia, senza contare che l’innovazione tecnologica ha reso i macchinari sempre più costosi e sempre più rapidamente obsoleti. Non sono stati più sufficienti i piccoli capitali sostenuti da molto tempo e molte braccia delle famiglie: per essere concorrenziale avrebbe dovuto diventare una struttura industriale, per poter lavorare a ciclo continuo e permettere grossi investimenti di capitale, ma così non è stato. A Prato non si è avuto quel fenomeno di concentrazione della produzione che viene descritto nei manuali. Le spinte sono state troppo forti e in direzioni troppo contrastanti e quel sistema che per alcuni decenni ha dato prosperità ad una comunità intera si è disgregato, forse proprio perché non ha trovato il modo di cambiare la sua struttura. L’organizzazione del lavoro dei tempi d’oro non è troppo diversa da quella che hanno potuto offrire gli immigrati cinesi negli anni successivi. Alcuni autori6, come vedremo in seguito, attribuiscono al familismo proprio questo limite: la difficoltà di passare da una struttura imprenditoriale sul modello della Terza Italia ad una con maggiori concentrazioni di capitale. 2.2 – Cambiare per sopravvivere: fiducia e capitale sociale come strumenti di analisi Nella storia del tessile a Prato si intuisce la presenza di alcune caratteristiche che hanno costituito un punto di forza nelle fasi iniziali dello sviluppo ma il cui 5 I cannelli di filato che veniva inserito nelle spole che nel telaio in uso fino agli anni ’80 tessevano la trama. I successivi telai, definiti automatici, utilizzavano direttamente il filato fornito in “rocche” di dimensioni maggiori. 6 Ad esempio Fukuyama, cit. in Mutti (1998). 48 perdurare senza evolvere ha frenato quei cambiamenti che sarebbero stati necessari per adeguarsi alle diverse condizioni dei mercati al fine di evitare il collasso della struttura produttiva così configurata. Nei testi che vediamo di seguito si cerca di dare una definizione di concetti quali fiducia e capitale sociale e di comprendere come il loro ruolo sia contemporaneamente di mantenere l’ordine sociale e di permetterne il mutamento. La loro presenza è considerata unanimemente indispensabile per lo sviluppo. Implicita nel concetto di sviluppo è l’idea di modernità, cioè di un cambiamento in una direzione che migliora le condizioni della società e dei suoi cittadini. Di conseguenza tutto ciò che agisce per impedire il cambiamento viene inteso come un limite per la modernità. Si trova anche in questo caso un’ambivalenza: cambiamenti troppo repentini possono talvolta distruggere l’identità di un popolo, fino a farlo scomparire, per questo è necessario che siano accompagnati da una evoluzione del tessuto sociale e delle norme, che consenta di cambiare mantenendo intatta la propria identità e autonomia. Per questo è necessario che fiducia e capitale sociale siano in grado di mantenere in vita lo stesso ordine sociale nel momento esatto in cui gli consentono di modificarsi. Gli studiosi che seguono partono dall’obbiettivo di attenuare le varie dicotomie che hanno definito la ricerca sociologica precedente, per definire concetti capaci di abbracciare la complessità del reale. Da questi studi si apprende che la fiducia può diventare uno strumento valido di evoluzione della società in senso democratico e universalistico anche quando si forma a partire da legami clientelari. Che, come già visto con l’indagine sulle forme di legami clientelari di Eisenstadt e Roniger (1984), questi legami possono convivere con la modernità. Si parte da un accurato studio di Roniger (1992) sulla fiducia, per proseguire con l’analisi di Mutti (1998) su come lo stesso concetto entri a fra parte del capitale sociale assieme ad altre componenti come reti, particolarismo ed emozioni. Si prosegue poi con un testo a più mani (Bagnasco et al. 2010) che ribadisce i precedenti concetti, con l’aggiunta da parte di ciascun autore del proprio peculiare 49 punto di vista, per terminare con l’articolo di Coleman con cui introduce e spiega il concetto di capitale sociale. 2.2.1 – La fiducia nelle società moderne7 Questo lavoro di Louis Roniger è successivo al testo sui legami clientelari e ne completa idealmente il percorso: la costruzione della fiducia che sta alla base degli scambi passa in alcuni contesti attraverso legami di tipo clientelare. Il termine “fides” viene infatti coniato per indicare l’elemento morale che permea gli accordi sociali come il patrocinium, l’amicitia e la clientela. La fiducia ha delle caratteristiche costanti: è indispensabile ovunque vi sia uno scambio anche se va tenuto presente che non è in grado di cancellare totalmente l’incertezza. È un requisito precontrattuale alla base della capacità di cooperare degli individui, per cui la sua diffusione favorisce lo sviluppo. Il concetto di fiducia è cruciale proprio a causa dell’impossibilità per gli individui di esercitare un controllo sul comportamento reciproco, ed è problematica perché è proiettata nel futuro cioè si riferisce ad azioni che si svolgeranno in un momento successivo. Se l’obbiettivo di eliminare la sfiducia è irraggiungibile è però possibile contenerla: agendo come se ci si fidasse si fa in modo di sviluppare una credenza in tal senso e si incoraggia l’altro ad agire in modo da confermare le aspettative. Nella ricerca sociologica la fiducia è definita in contrapposizione alla sfiducia e considerata in termini di orientamento di base del comportamento legato alla struttura della personalità. Sia Luhmann che Parsons ne sottolineano l’importanza nella regolazione delle attività sociali. In entrambi gli autori si tratta di concettualizzazioni macrosociali, derivate dall’analisi della società occidentale, in cui si ritiene di avere una diffusione generalizzata della fiducia. Roniger ci tiene a sottolineare che sussistono pur nelle società universalistiche dei modelli di fiducia meno generalizzati, che definisce forme focalizzate di proiezione della fiducia. 7 Roniger (1992). 50 In questo testo vuole analizzare queste forme focalizzate di fiducia e farne un’analisi comparativa. A suo avviso è importante identificare le modalità di trasformazione della fiducia e quindi di estensione da focalizzata a generalizzata. La fiducia implica il riferimento all’integrità dell’altro, il suo riconoscimento e l’impegno di non procedere con l’inganno nella relazione. La prima forma di fiducia è quella incondizionata della madre per il figlio, e la mancanza di questa esperienza primaria può essere inserita tra le cause che determinano l’incapacità di estensione della fiducia. A livello individuale, l’esperienza di questa forma di fiducia sviluppa la capacità di estenderla ad altre figure, in parallelo con lo sviluppo personale e sociale, e in questo processo vengono incorporati sia rapporti di uguaglianza che gerarchici. Qualche forma di questa fiducia primordiale si ritrova successivamente all’interno di ambiti interattivi complessi e istituzionali o in quella che viene definita la fiducia basata sulle caratteristiche (appartenenza etnica, religiosa, ecc.) e nei rapporti di amicizia e di pseudo parentela. L’estensione della fiducia oltre ai rapporti familiari diventa indispensabile per la partecipazione alla vita sociale e istituzionale. Roniger individua due modi di estensione della fiducia: focalizzazione e generalizzazione. Estendere la fiducia in termini focalizzati significa concentrarla su particolari esperienze o attori sociali (Roniger, 1992, p. 25) e quindi limitarne lo spettro di possibilità. La generalizzazione invece, che si basa su immagini di credibilità più impersonali, si intende riferita ad una forma di fiducia concedibile a tutti, fino a divenire bene pubblico, fruibile da chiunque contemporaneamente, anzi, il cui uso ne accresce la diffusione. Entrambi i tipi di estensione della fiducia si applicano alle persone e alle istituzioni e possono coesistere, cioè si possono avere aree di fiducia focalizzata all’interno di formazioni sociali complesse che si basano sulla fiducia generalizzata. Nelle società moderne si sono sviluppati sistemi di formalizzazione della fiducia che vanno ad aggiungersi a quella incondizionata precedentemente definita. Un esempio è la competenza tecnica, intesa come base per la concessione della fiducia. Un altro esempio sono i sistemi di certificazione, che generano addirittura un 51 mercato della fiducia. Entrambi non sono comunque in grado di eliminare il problema della vulnerabilità e non eliminano comunque la necessità di esistenza della fiducia stessa. Questa formalizzazione può avvenire attraverso due modalità: il modello della “cornice organizzativa” come può essere l’appartenenza ad una struttura che condivide norme che garantiscono la fiducia; oppure attraverso la delega, e questo è il caso di istituzioni di livello più elevato che garantiscono per i loro subordinati. La fragilità di tutti questi sistemi di fiducia si manifesta attraverso le trasgressioni, che hanno come conseguenza una destabilizzazione istituzionale; queste trasgressioni sono gravi perché di riflesso danneggiano anche la fiducia interpersonale. La responsabilità è il mezzo che l’autore ritiene necessario per poter ripristinare la credibilità dell’istituzione, in modo da limitare la perdita di fiducia al solo soggetto responsabile senza colpire l’istituzione a cui appartiene. Roniger elabora quattro modelli di estensione e regolazione della fiducia nelle società moderne. Il primo modello è la focalizzazione totale della fiducia, tipico della Colombia, del Messico e del Libano moderni e, fino agli anni ’80 anche della Thailandia. È caratterizzato da un modo focalizzato di fidarsi sia delle istituzioni che delle persone. Si manifesta ad esempio nell’apprensione mostrata nei confronti degli stranieri e in un cospicuo radicamento di reti e fazioni clientelari. Rende difficile avere fiducia nei confronti degli estranei e quindi non svolge il suo ruolo di controllo dell’incertezza. In condizioni di recessione economica può facilmente trasformarsi in sfiducia generalizzata. In condizioni di crescita economica invece può modificarsi orientandosi verso la generalizzazione, sia selettiva che totale. Il secondo modello è la generalizzazione selettiva della fiducia interpersonale. Roniger la identifica tra le minoranze etniche, soprattutto quando non sono integrate nella cultura che le ospita. È assimilabile alla fiducia basata sulla caratteristica e tende a limitare la fiducia ai soli membri del gruppo. Il terzo modello è la generalizzazione selettiva della fiducia istituzionale. L’esempio che meglio la rappresenta è il Giappone fino al XIX secolo ed è 52 caratterizzata da una fiducia focalizzata sul piano interpersonale, con una generalizzazione della fiducia nelle istituzioni e basata su principi generalizzati di impegno sociale. In questo modello i legami clientelari, frutto della focalizzazione della fiducia interpersonale, hanno potuto essere utilizzati per una ricostruzione della fiducia dall’alto, cioè da parte delle istituzioni, verso cui esisteva una fiducia generalizzata, durante la trasformazione sociale legata alla modernizzazione e alla industrializzazione. Il quarto modello è la generalizzazione totale della fiducia ed è caratterizzato dalla presenza della fiducia intesa come un bene pubblico, sia nell’ambito istituzionale che in quello interpersonale. Sembra essersi cristallizzata nelle ricche società postmoderne degli Stati Uniti e dell’Europa Occidentale. Occorre tenere presente che la generalizzazione della fiducia non implica la scomparsa della sfiducia, ma solo il suo contenimento. Questo modello è problematico perché è facilmente vulnerabile. Il cattivo uso della fiducia istituzionale può essere tra le principali cause di rischio. I reati di corruzione possono ledere a tal punto la fiducia istituzionale da corrodere anche la fiducia interpersonale, con enormi costi sociali. La estensione della fiducia appare dunque come un processo dinamico, in continua evoluzione, soggetto ai mutamenti storici e determinato da questi nel suo sviluppo. Roniger ribadisce nelle osservazioni conclusive la dialettica che esiste tra la fiducia istituzionale e quella interpersonale, e come sia importante identificare le modalità con cui la fiducia, che nasce da caratteristiche psicologiche dell’attore, venga estesa ai rapporti sociali e ne costituisca il fondamento. A loro volta le vicende storiche retroagiscono sulle esperienze degli individui, andando a formare quelle memorie collettive che condizionano i processi e i modelli di costruzione della fiducia. Dalla lettura di questo testo si deduce quanto sia importante la fiducia nella costruzione della struttura sociale, anche nei casi in cui questa sia diffusa in forme focalizzate, perché permette comunque lo stabilirsi di collaborazione tra gli individui, anche se limitatamente a certi settori. Si deduce anche quanto siano 53 dannosi i tradimenti della fiducia, non solamente quelli a livello interpersonale, ma soprattutto quelli di tipo istituzionale, come possono essere i reati di corruzione, perché oltre a screditare l’istituzione a cui si riferiscono possono creare l’effetto non desiderato di generalizzazione della sfiducia, che rischia di estendersi sia in modo sincronico ai rapporti interpersonali, sia nel tempo, costruendo memorie storiche di non affidabilità di certe istituzioni, vanificandone il ruolo. 2.2.2 – Capitale sociale e sviluppo8 Il sottotitolo del libro di Antonio Mutti, la fiducia come risorsa, ci da la chiave intorno a cui ruota il tema di questo lavoro. La fiducia è una risorsa per lo sviluppo della modernità, di cui non si può fare a meno e che dimostra di avere effetti diversi a seconda del contesto. Anche il concetto di modernità ha bisogno di essere definito: non può essere un concetto univoco, descritto attraverso un unico parametro, perché si esplica in molteplici dimensioni che non necessariamente si sviluppano tutte assieme o alla stessa velocità. Per questo si rivela utile il concetto di capitale sociale, perché introduce le variabili relazionali nello studio del mutamento sociale. Il capitale sociale presuppone gli scambi e alla base di questi troviamo la fiducia a svolgere una funzione di garanzia. Poiché gli autori che studiano il capitale sociale partono dall’individualismo metodologico si è reso necessario uno strumento d’analisi che tenesse conto degli effetti dell’interazione tra individui sulla collettività, che ne descrivesse le qualità emergenti, non desumibili dal solo computo delle risorse a disposizione. Per questo, nella definizione di Coleman (1988, 1990), che vedremo in maggior dettaglio più avanti, il capitale sociale viene ad aggiungersi ai già definiti capitale fisico e umano, per descrivere quello spazio di relazioni che agisce da catalizzatore per le altre forme di capitale. Queste relazioni, in quanto produttive di valori materiali e simbolici, si 8 Mutti (1998). 54 configurano sia come risorsa che come vincolo per l’attore, in quanto definiscono la cornice entro cui è possibile l’interazione. Degli autori che sulla scia di Coleman utilizzano il concetto di capitale sociale, Mutti pone l’accento su due: Putnam (1993, 1995), che ne enfatizza le caratteristiche dell’organizzazione sociale che consentono di aumentare l’efficienza della società attraverso il coordinamento delle azioni individuali, e Fukuyama (cit. in Mutti, 1998) che, insistendo sugli stessi aspetti pone l’accento sul ruolo della fiducia, definita come aspettativa di un comportamento prevedibile basato su norme condivise. In particolare Fukuyama ipotizza un collegamento tra la struttura della società, definita secondo le modalità di estensione della fiducia, e il tipo di sviluppo imprenditoriale che può supportare. Secondo questa ipotesi le società di tipo familistico, dove cioè la fiducia è centrata all’interno dei legami familiari, non sono in grado di sviluppare la grande industria ma si orientano sulle piccole imprese, che a loro volta possono svilupparsi solo per certi settori produttivi, tra cui il tessile, l’abbigliamento, il settore calzaturiero, ma non settori che necessitano di ingenti capitali d’investimento come ad esempio l’industria automobilistica. In questi ambiti la flessibilità determinata dalle piccole dimensioni è un vantaggio competitivo. Dopo un’analisi puntuale tesa a classificare le varie società secondo le caratteristiche del loro capitale sociale si sofferma sul caso della Corea che è riuscita a darsi un assetto industriale concentrato, nonostante la sua struttura della fiducia sia di tipo cinese, cioè familistico, attraverso la creazione di reti di imprese familiari. Si tratta di imprese costituite da network organizzativi di grandi dimensioni, denominati chaebol, con una integrazione di tipo verticale. La funzione dello stato è stata importante nella costruzione di queste strutture organizzative, dimostrando che il sistema politico può contribuire allo sviluppo di capitale sociale. Confronta il fenomeno della Terza Italia all’esperienza della Corea e trova che nel caso italiano il familismo è aperto alla collaborazione con i non parenti su base professionale, fatto che ha permesso l’emergere di sistemi imprenditoriali di un certo rilievo, pur restando nell’ambito del settore produttivo dell’abbigliamento, e fa gli esempi di Versace o Benetton, di cui dobbiamo riconoscere ad oggi la longevità, 55 nonostante l’attuale situazione della economia italiana che ha ridimensionato la “salute” di alcuni distretti industriali basati sulla piccola impresa9. Le posizioni di Putnam e Fukuyama sono, a giudizio di Mutti, pessimistiche, perché attribuiscono alla storia un ruolo determinante, e ritengono che sia pressoché impossibile intervenire per sviluppare fiducia e cooperazione dove non ve ne sia la tradizione. Allo scopo di confutare queste ipotesi passa a studiare quali sono le modalità di costruzione e diffusione della fiducia e la sua analisi prende in considerazione i lavori di Roniger precedentemente visti. Un argomento nuovo, rispetto a quanto visto finora, è il tema delle emozioni e delle componenti fideistiche, che entrano in azione nei fenomeni di costruzione della fiducia. Questi aspetti vanno a colmare lo spazio di incertezza che è comunque ineliminabile: è solo una ipotesi astratta la condizione di totale prevedibilità nelle relazioni, per cui deve entrare in gioco un meccanismo che presuppone che le aspettative siano confortate da esiti coerenti, e questo non può essere altro che un atto di fede nel caso non sia abbiano troppi elementi razionali a disposizione, o un atto di fiducia nel caso si abbiano maggiori informazioni sugli eventi più probabili. Il richiamo ad Erikson10 ci riporta su un piano di risorse della personalità degli individui da mettere in gioco nelle relazioni: la fiducia in se stessi, e quindi una personalità pienamente sviluppata, diventa la componente necessaria per poter concedere fiducia. In questa ottica la socializzazione primaria ha un ruolo fondamentale nel determinare la struttura della società, anche se è controverso stabilire in quale direzione, soprattutto perché questo processo non si conclude all’interno della famiglia, ma prosegue il suo sviluppo per tutto l’arco della vita di ogni individuo, pur se con tempi e flessibilità diverse. Ritornando al tema iniziale della modernità, non è scontato che un sistema con elevata cooperazione e capitale sociale denso dia origine ad individui capaci di 9 Nel caso della industria pratese invece, come già indicato, non si è avuto questo coordinamento tra piccole imprese che avrebbe probabilmente potuto attenuare o almeno rallentare gli effetti dell’apertura dei mercati. 10 Mutti (1998) fa riferimento ai lavori di Erikson (1966, 1974). 56 innovazione; si possono avere anche effetti di conformismo e di chiusura, e Mutti attribuisce questi esiti al tipo di risorse che circolano all’interno della rete di fiducia. Il concetto di fiducia, pur tra infinite definizioni, parte da un’idea di prevedibilità e di conseguenza rimanda a concetti di stabilità, di ordine sociale, ma anche appunto di immobilità. “L’aspettativa fiduciaria interviene sull’incertezza sostituendo le informazioni mancanti o riducendo la complessità da eccesso di informazioni” (Mutti, 1998, p. 44). Questo è possibile attraverso un investimento cognitivo maggiore rispetto alla speranza. Maggiore è l’investimento, maggiore sarà il danno in caso di errore. Nella concessione della fiducia rientrano componenti cognitive ed affettive. Nelle condizioni di rapidi mutamenti sociali, che rendono problematico lo sviluppo di fiducia su basi cognitive, si può compensare l’incertezza con una maggiore componente emotiva, fino ad arrivare ad aspetti fideistici. Coerentemente con le analisi di Roniger (1992), la costruzione della fiducia si rende sempre più necessaria negli spazi di discontinuità, dove deve sopperire alla difficoltà di servirsi della cognizione per mancanza di informazioni. Un esempio particolare di estensione della fiducia è rappresentato dalla fiducia nel denaro, infatti la moneta costituisce un mezzo generalizzato e impersonale di relazione, in cui il valore ceduto e ricevuto sarà scambiato senza perdita. Questa fiducia si fonda sulla rete sociale in cui il valore della moneta è riconosciuto e garantito da tutti i membri che ne fanno parte. Anche le relazioni di tipo economico, quindi, pur essendo le più astratte, risultano fondate su relazioni e valenze simboliche, che devono essere interpretate dagli attori, e su rapporti che presuppongono potere, interessi ed emozioni. A maggior ragione in una situazione globalizzata in cui le informazioni hanno subito una crescita esponenziale legata all’informatizzazione e alla diffusione dei mercati, dove a questo punto l’incertezza è determinata dalla sovrabbondanza delle informazioni, è necessario ricorrere a sistemi di riduzione della complessità che possono prendere la forma di legami particolaristici o clientelari. La fiducia serve anche a favorire l’accettazione del rischio connesso ad una maggiore interdipendenza tra gli individui e Mutti prosegue la sua analisi con la 57 descrizione delle reti che si sono rivelate una metafora di successo, proprio perché rendono bene l’idea di complessità e sono capaci di descrivere insieme relazioni formali e informali e le loro interconnessioni. Gli studi sull’analisi di rete si dividono in due filoni: il primo si è sviluppato negli anni ’50 nella scuola antropologica di Manchester, il secondo ad Harvard negli anni ’70. Entrambe le scuole privilegiano la struttura come determinante nelle relazioni sociali, e per entrambe resta problematica la definizione dell’interazione tra livello micro e livello macro, limite tipico dell’individualismo metodologico. Entrambe si identificano in un determinismo strutturale che non riconosce adeguatamente gli spazi di libertà degli attori e l’influenza del ruolo della cultura, tanto da rendere necessario un ammorbidimento della teoria in modo da poter incorporare l’interazione tra reti e attori fino al punto di riconoscere la capacità di questi di trasformarne la struttura e sottolineare l’importanza dei significati e delle narrazioni. Da queste posizioni meno legate ai vincoli rigidi dell’analisi strutturale vengono i risultati più interessanti. Tra questi viene ricordato Granovetter (1973), che studiando le interazioni informali, gli attribuisce un ruolo nella formazione di rapporti fiduciari e una potenzialità informativa maggiore rispetto ai legami forti, proprio per la loro appartenenza a sistemi di relazione nuovi rispetto all’attore, quella che definisce “la forza dei legami deboli”. A questo proposito Burt (1995) sostiene che non è la natura forte o debole dei legami a fare la differenza ma i tipi di cerchie sociali che vengono messe in contatto attraverso tali legami e quindi la non ridondanza delle informazioni trasmesse. Mutti sottolinea il contributo positivo allo studio della modernità della analisi di rete perché questo approccio, oltre ad essere una prospettiva originale, attenua la dicotomia espressa dalle altre teorie in cui il particolarismo viene ritenuto appannaggio delle società arretrate. Mette inoltre in evidenza il ruolo svolto dalle relazioni interpersonali (focalizzate, ascrittive e particolaristiche) non solo nei contesti tradizionali, ma anche nei processi di transizione e nella più avanzata modernità. 58 Non è banale definire i confini del particolarismo, per questo Mutti (1998, p. 92) si riconduce alle definizioni di Weber (in Economia e società) di chiusura della relazione sociale, da cui attinge per classificare le varie forme. Nei casi in cui questo sia legato a principi più impersonali e di prestazione, anziché ascrittivi, può acquistare un ruolo di stimolo alla collaborazione e a processi di cambiamento che possono condurre alla modernizzazione, soprattutto quando si trova all’interno di circuiti di potere e istituzionali appropriati. Anche il familismo, quando ha caratteristiche di apertura verso i membri di altri gruppi, può favorire processi di integrazione. Sulla base di queste premesse ritiene che le analisi riferite al mezzogiorno d’Italia siano state estremamente drastiche nel negare a tale contesto qualsiasi forma di potenzialità e ad individuare le possibilità di cambiamento solo attraverso una rottura nei confronti del passato e della situazione esistente, bollandola come totalmente priva di strumenti. Con lui altri autori italiani si soffermano invece sulla necessità di valorizzare le risorse esistenti, di tipo particolaristico, ma comunque fornitrici di legami che possono divenire la base per un allargamento delle relazioni e una forma di sostegno allo sviluppo, dove vi sia un adeguato supporto da parte delle istituzioni, a maggior ragione nelle zone in cui questa funzione di supporto non è ancora caduta in mano alla criminalità organizzata. L’ultimo capitolo di questo testo è dedicato alle emozioni. Attribuendo un ruolo alla fiducia e considerando gli aspetti di non razionalità di cui è composta si rende inevitabile una disamina degli autori che ne hanno parlato. Mutti individua due diversi approcci: quello che prende in considerazione il processo di decisione individuale e quello che si sofferma sul processo di interazione sociale. Al primo approccio appartengono Pareto ed Elster (cit. in Mutti, 1998). Pareto pone al centro della sua analisi il rapporto tra emozioni e razionalità e sulla base di questo distingue tra azioni logiche e non logiche, pur tenendo presente come le emozioni siano composte da vari aspetti: quello biologico, che si manifesta nelle reazioni istintuali, quello cognitivo e quello socialmente costruito. Questi ultimi sono legati all’azione di riconoscimento delle emozioni e dei loro significati ed è importante tenerne conto perché influenzano il modo in cui guardiamo alla realtà. 59 Per Elster le emozioni costituiscono la motivazione all’azione e la influenzano, facendo da sostegno alle norme sociali (per esempio attraverso il sentimento della vergogna), costituiscono un vincolo ma possono entrare in campo nei casi in cui l’azione razionale fallisce per l’assenza di soluzioni ottimali ovvero per la presenza di molteplici possibilità. Del secondo approccio fanno parte Collins e Pizzorno (cit. in Mutti, 1998). Collins si concentra sui rituali d’interazione, a cui attribuisce il ruolo di determinare il comportamento emozionale, solidaristico e simbolico. Da questi rituali scaturisce un’energia emozionale che è alla base delle attività solidaristiche, che viene incrementata dalla ripetizione dei rituali e si affievolisce in loro assenza. Alla forma di questi rituali attribuisce la responsabilità della chiusura o viceversa apertura dei gruppi sociali che li esperiscono: rituali chiusi ai soli membri del gruppo favoriscono comportamenti particolaristici, rituali aperti ed inclusivi favoriscono orientamenti universalistici e fiducia generalizzata. Pizzorno, sulla scia delle argomentazioni di Collins, si chiede su cosa sia basata l’interazione e utilizza i concetti di identità e riconoscimento. Nella sua analisi l’azione nasce dal bisogno degli individui di sentirsi riconosciuti nell’identità collettiva. La motivazione a partecipare, e quindi il deterrente contro azioni di free riding, sta proprio nei benefici derivanti dalla partecipazione stessa. In questo modo spiega il mutamento sociale attraverso la tensione a ricostruire reti di riconoscimento nei casi in cui il capitale sociale precedente sia andato perduto a seguito di cambiamenti strutturali. Il bisogno di riconoscimento reciproco diventa la motivazione per la partecipazione alle interazioni sociali. 2.2.3 – Il capitale sociale – Istruzioni per l’uso11 In questo testo quattro autori si confrontano con il concetto di capitale sociale in modo non dissimile dal precedente lavoro di Mutti (1998), ciascuno portando il proprio contributo originale al dibattito. 11 Bagnasco et al. (2010). 60 Si parte dalla definizione di capitale sociale precisando come il concetto sia al confine con l’economia. La prima definizione risale a Bordieu, negli anni ’80, che lo usa in senso strumentale intendendo quella forma di capitale posseduta dagli individui che non è riconducibile al possesso di oggetti o qualità, bensì di relazioni capaci di produrre un valore. La definizione che meglio si adatta allo studio sociologico è quella fornita un decennio dopo da Coleman nel suo Foundations of social theory (1990), ed è con questo significato che viene utilizzato da Putnam (1993) nella sua ricerca sulle regioni italiane vista precedentemente. Alessandro Pizzorno parte dalla definizione di Bourdieu che utilizza questo concetto allo scopo di correggere la distorsione individualistica operata dall’analisi economica. Così definito il capitale sociale rappresenta quell’insieme di risorse che l’individuo possiede e può utilizzare per perseguire i propri fini, risorse che contemporaneamente svolgono un importante ruolo a sostegno della democrazia, contribuendo a darle quella struttura senza la quale le sole istituzioni non sarebbero in grado di garantirne la durata. Non tutte le forme di relazione costituiscono capitale sociale, e ciò che le rende tali è l’azione di riconoscimento dell’identità dei partecipanti, azione che diventa il prerequisito necessario per la costruzione della fiducia, che, come abbiamo visto nel testo di Mutti (1998), è a sua volta la base necessaria perché si possano compiere scambi o stabilire relazioni soddisfacenti. Questa azione di riconoscimento va a costituire le identità degli attori e viene interiorizzata attraverso la socializzazione, e quindi ne determina l’appartenenza ad una cerchia di fiducia, e denota la presenza di una relazione sociale durevole. Pizzorno distingue tra due forme di capitale sociale: il capitale sociale di solidarietà, che si basa su legami forti e relazioni durature, e il capitale sociale di reciprocità, che si manifesta a vari livelli di intensità dei legami, che classifica secondo livelli decrescenti di interesse che si associano a livelli crescenti di universalità. Nel caso di quest’ultimo si tratta di azioni che presuppongono uno scambio, che implicano di più di una relazione di tipo economico e presuppongono rapporti precedenti senza costituire capitale sociale di solidarietà. Si passa ad 61 esempio da azioni indirizzate a fini comuni, per giungere ad azioni basate su principi universalistici come può essere quello che viene definito agire secondo coscienza. I concetti di identità e riconoscimento sono per l’autore cruciali per la costruzione di capitale sociale, tanto che il loro bisogno si manifesta soprattutto nelle situazioni di rapido mutamento sociale, in cui si rileva un intenso dinamismo e la creazione di nuove forme di capitale. Porta come esempi i trust che si formarono durante lo sviluppo del capitalismo americano, caratterizzato da grandi immigrazioni, e le nuove mafie russe sorte dalla disgregazione del sistema comunista. Fortunata Piselli sottolinea il ruolo del concetto di capitale sociale nell’aver portato l’attenzione sui legami informali e il loro ruolo nell’economia e nella politica. Attribuisce a Coleman il merito di aver superato l’individualismo metodologico dell’economia dando spazio all’organizzazione sociale e al suo ruolo nel condizionare le scelte per l’azione e produrre effetti sistemici. Il capitale sociale per l’individuo è in parte ereditato ed in parte costruito attraverso le sue azioni e relazioni, è intangibile ma produttivo perché consente di perseguire obiettivi altrimenti non raggiungibili allo stesso costo. Ha la natura di bene pubblico perché è indivisibile, fruibile anche da chi non ha contribuito alla sua creazione e non è proprietà privata di alcuno. È contestuale: può favorire alcune forme di azione e vincolarne altre. È un sottoprodotto di attività iniziate per altri scopi ed è in costante dinamismo: si crea, si distrugge, si modifica continuamente e per questo richiede continui investimenti.12 Mentre le reti di relazioni possono essere sia vincoli che risorse, il capitale sociale è per definizione sempre una risorsa che l’individuo ha a disposizione per l’azione. Questo argomento conduce l’autrice a descrivere le già menzionate ipotesi di Granovetter (1973) relativamente alla forza dei legami. La conclusione a cui giunge è che i legami deboli servono a collegare cerchie diverse e quindi sono utili per chi è alla ricerca di mobilità, mentre i legami forti forniscono supporto, per cui sono indispensabili nelle situazioni di indigenza e sono il tipo di legame che entra in azione nelle catene migratorie. Una funzione importante 12 Ricorda da vicino l’energia emozionale che scaturisce dai rituali d’interazione di Collins, come descritto nel testo di Mutti (1998) visto nel paragrafo precedente. 62 viene svolta dai broker, gli individui che connettono reti diverse, i possessori dei cosiddetti legami ponte o mediatori sociali. Una caratteristica di questi soggetti è quella di praticare e incoraggiare una forma di reciprocità che potremmo definire dilazionata: il loro scopo negli scambi che favoriscono è di fare in modo che il debito non venga saldato immediatamente, ma che resti a costituire un credito che è alla base della permanenza della relazione. L’autrice analizza poi le posizioni di Fukuyama e Putnam (cit. in Bagnasco et al. 2010). Nei riguardi di quest’ultimo precisa che la sua analisi della tradizione civica delle regioni italiane non rende giustizia della situazione del meridione d’Italia. In primo luogo perché non coglie gli aspetti di dinamismo insiti nel concetto di capitale sociale. In secondo luogo perché non identifica le forme di legami esistenti nella società meridionale che hanno sostenuto la mobilità lavorativa verso il nord Italia e hanno contribuito a migliorare le condizioni sociali in loco, di fatto costituendo una valida forma di capitale sociale. Queste forme di solidarietà, pur restando nell’ambito del familismo hanno dimostrato la possibilità di combinarsi con elementi universalistici, capaci di costituire una risorsa per la modernizzazione sociale e politica. Arnaldo Bagnasco analizza le differenze e le affinità tra political economy comparata e teoria del capitale sociale. Anche il suo capitolo prende in considerazione i lavori di Putnam e Fukuyama e si sofferma sulla classificazione delle differenti culture politiche operata da Almond e Verba (1963), che distinguono tra: participant, cioè razionale e informata, subject, che esprime fiducia nell’autorità e deferente, e parochial, tipico della realtà italiana e privo delle caratteristiche precedenti. Rileva l’attenzione che Putnam pone nei confronti dell’erosione di capitale sociale che a suo giudizio si sta verificando in America e la sua sottovalutazione del ruolo della azione politica, a cui si ricollega Fukuyama, che ritiene compito di quest’ultima influenzare il meno possibile la società civile poiché ritiene che le azioni di organizzazione finora svolte, come ad esempio le politiche di welfare hanno contribuito a distruggere la capacità di auto organizzazione della società. 63 Bagnasco quindi si riconduce alle posizioni di Coleman (1988), che vede la modernità come razionalizzazione, riportando nell’analisi il ruolo della interazione diretta, per vedere come opera la dinamica tra micro e macro: come i processi di formalizzazione possano erodere il capitale sociale, e viceversa come l’integrazione sociale venga prodotta nelle interazioni faccia a faccia. Conclude ribadendo la necessità di rivalutare le risorse di auto organizzazione della società civile, ma si chiede se effettivamente il welfare distrugga capitale sociale oppure lo sostenga e ne garantisca la sopravvivenza. Se la political economy è stata una teoria prevalentemente europea, il concetto di capitale sociale utilizzato per l’analisi comparata dei capitalismi può essere considerata l’ideologia americana in cui però non è stato adeguatamente preso in considerazione il ruolo che può svolgere la politica. Infine Carlo Trigilia parte dal riconoscere nei lavori di Weber i primi utilizzi del concetto di capitale sociale. Nel suo lavoro sulle sette protestanti (Weber, 192021) individua caratteristiche che si possono assimilare a questo concetto. In questi gruppi sociali si assiste ad un cospicuo controllo sugli individui e alla diffusione di qualità etiche che facilitano gli scambi economici. Weber vi identifica delle reti di relazioni che permettono la circolazione di risorse, sia cognitive, come le informazioni, sia normative come la fiducia, che svolgono l’importante funzione di limitare l’opportunismo, anche se il loro uso può condurre a fenomeni di collusione che si rivelano di ostacolo al cambiamento e quindi possono favorire l’immobilismo. La certezza e la prevedibilità del diritto sono necessarie per impedire una evoluzione della gestione pubblica in direzione di un capitalismo politico e di rapina che è agli antipodi del capitalismo moderno che invece si basa sul mercato. L’analisi di Trigilia prosegue con uno sguardo alle trasformazioni del capitalismo, che con lo sviluppo del fordismo e la sua struttura fortemente gerarchica hanno reso superfluo il capitale sociale per lo sviluppo industriale, ma la crisi di questo sistema di produzione lo riporta di nuovo in auge. L’avvento della globalizzazione però produce nuovi effetti e richiede nuove sfide alla struttura sociale. Infatti le iniziative esterne, come possono essere gli impianti produttivi dislocati nelle zone in cui la manodopera è a basso costo, hanno poche probabilità di 64 costruire capitale sociale, poiché si basano esclusivamente su vantaggi di prezzo che sono una risorsa di corto respiro, che non produce frutti durevoli. L’autore si sofferma sulla ambiguità degli effetti del capitale sociale (contrariamente al concetto di path dependency espresso dai lavori di Putnam e Fukuyama) e ribadisce l’importanza del contesto e della politica che lo sostiene, nel determinarne gli esiti. Ricorda infatti che certe politiche hanno sostenuto fortemente un capitale sociale di tipo mafioso, o ne hanno favorito lo sviluppo, invece di opporvisi, non ultimi i regimi autoritari, come quello fascista o il centralismo comunista della Russia. Tenendo presente il potenziale particolarismo delle reti diventa importante il ruolo svolto dalla azione politica per determinarne la direzione, ed è a questa tesi che si riferisce per ridefinire le responsabilità che hanno condotto il meridione d’Italia nella condizione di arretratezza e di ritardo nello sviluppo economico in cui si trova attualmente. Sostiene infatti che non è stata l’arretratezza della cultura civica a determinare l’inerzia della politica, ma viceversa è stata una politica scarsamente modernizzata che si è orientata ad un uso predatorio delle risorse invece di fornire quei beni collettivi necessari per lo sviluppo, quali possono essere le infrastrutture, i servizi, le garanzie giuridiche, ad impedire al mercato di svolgere la sua azione razionalizzatrice. Infatti il mercato, secondo Trigilia, tende a sanzionare i comportamenti non efficienti e può quindi stimolare quei cambiamenti necessari per lo sviluppo. 2.2.4 – Social Capital in the Creation of Human Capital13 In questo articolo del 1988 Coleman introduce il concetto di capitale sociale, che svilupperà poi in Foundations of social theory (1990), e lo utilizza in una ricerca sull’abbandono scolastico. Partendo dalla constatazione che nella teoria economica l’attore è guidato dall’utilità individuale e nella teoria sociologica è interamente socializzato e l’azione 13 Coleman (1988). 65 è guidata dalle norme condivise, cerca di definire uno strumento che consenta di operare una sinergia tra le due definizioni. Sia per i sociologi che per gli economisti l’azione è determinata totalmente dal contesto senza che vi sia un motore, un obiettivo che la dirige e la determina, per cui Coleman cerca in entrambi i campi contributi che abbiano cercato di dare una soluzione a questo problema. Tra gli economisti fa riferimento al lavoro di Yoram Ben-Porath (1980) che identifica le “F-connection”, cioè i legami di famiglia, amici (friends) e lavoro (firms), mostrando come questi legami influenzino gli scambi economici. In campo sociologico fa riferimento a Mark Granovetter (1985), il quale ritiene che l’analisi economica dell’azione utilizzi un “undersocialized concept of man”, ritenendo invece importante per le decisioni individuali l’influenza delle relazioni personali, quella che lui definisce “embeddedness”, sia nel generare fiducia, costruire aspettative che generare e rinforzare le norme condivise. Sulla base di queste riflessioni riconosce alla struttura sociale una evoluzione storica e una continuità capaci di agire sul funzionamento del sistema economico. Lo scopo di Coleman è importare i principi usati dagli economisti nella teoria dell’azione razionale per usarli nello studio del sistema sociale in modo adeguato, includendovi l’analisi del sistema economico ma senza limitarsi ad esso, e senza mettere da parte l’organizzazione sociale. Il concetto di capitale sociale è secondo lui lo strumento adatto a questo scopo. Se partiamo da una teoria dell’azione razionale, in cui ogni soggetto ha a disposizione alcune risorse, allora il capitale sociale è una di queste. Viene definito attraverso la sua funzione: serve a facilitare alcune azioni all’interno della struttura data. È produttivo: permette di raggiungere scopi altrimenti non raggiungibili. A differenza di altre forme di capitale si ritrova nella struttura delle relazioni tra gli attori, non negli attori o in altri oggetti fisici: è intangibile. Fa alcuni esempi di capitale sociale: il primo esempio è la comunità di mercanti di diamanti di New York. Questa comunità è composta esclusivamente da Ebrei, che condividono oltre all’attività commerciale legami di famiglia, amicizia, religione. Questa struttura fortemente 66 interconnessa garantisce contro i comportamenti disonesti: l’eventuale defezione comporterebbe per il soggetto la perdita di tutte le forme di appartenenza: lavoro, famiglia e fede religiosa. Nel secondo esempio descrive l’organizzazione di gruppi di studenti attivisti radicali in Sud Corea: in questo caso gruppi precedentemente esistenti hanno intrapreso attività politica utilizzando la struttura di gruppo già presente per altri scopi. Per evitare di venir scoperti ed arrestati i contatti tra i vari gruppi sono ridotti al minimo. Nel terzo esempio descrive una madre di sei figli che si è trasferita dalla periferia di Detroit a Gerusalemme: mentre nella metropoli americana non avrebbe mai lasciato i figli muoversi da soli nei percorsi da scuola a casa, a Gerusalemme lascia che i figli attraversino la città da soli perché può contare sull’azione di tutela che viene svolta spontaneamente da tutti gli adulti nei confronti dei ragazzi. L’ultimo esempio riguarda il mercato Kahn el Khalili del Cairo, dove i vari commercianti, pur svolgendo ciascuno la propria attività, sono in grado di condurre il cliente presso gli altri commercianti o occuparsi in prima persona di fornire il servizio richiesto, anche se diverso dal proprio, andando di persona a chiederlo al collega che lo svolge. Per ciascuna di queste attività esistono accordi sulle modalità di pagamento o di obbligazioni reciproche. Quest’ultimo esempio mostra l’esistenza di una forte interconnessione tra attori economici individuali, che costruisce una struttura composta da tutti i singoli commercianti e capace di fornire tutti i servizi al cliente senza che questo li debba cercare da solo. Questo risultato è ottenuto attraverso accordi informali e consuetudini che si sono sviluppate con il tempo e grazie al sostegno di norme ed abitudini condivise e rispettate da tutti. Così come il capitale fisico deriva dai cambiamenti nei materiali che consentono di migliorare la produzione, e il capitale umano dai cambiamenti nelle persone che sviluppano abilità che li rendono capaci di agire in modi nuovi, anche il capitale sociale agisce e si sviluppa attraverso i cambiamenti nelle relazioni tra le persone che producono nuove possibilità e facilitano l’azione. L’aspetto che Coleman vuole sottolineare è che il capitale sociale viene identificato attraverso la sua funzione di risorsa per gli individui per raggiungere i 67 loro scopi, e si definisce sociale quel capitale la cui risorsa è costituita esclusivamente dall’organizzazione sociale. Non costituiscono capitale sociale quei legami e quelle relazioni che sono solo un vincolo senza contribuire al miglioramento delle possibilità per il soggetto, Il capitale sociale si manifesta attraverso tre forme: obbligazioni e aspettative, canali di informazioni e norme condivise. Il sistema di obbligazioni e aspettative è costruito sulla fiducia che permette una dilazione delle risposte, in modo da creare un credito che potrà essere usato per rinsaldare i legami e costituire la base per scambi futuri. È evidente anche il suo ruolo nel costruire la rete di connessioni, in cui l’ampiezza e il numero di contatti amplificano il valore, in modo analogo a quanto avviene con i capitali fisici. Il ruolo dei canali informativi è altrettanto importante: forniscono la base per l’azione, in quanto le informazioni sono indispensabili per prendere decisioni, ma anche il canale in cui si sviluppa la fiducia rendendo visibili le azioni dei soggetti e le conseguenze delle loro scelte. Le norme rappresentano la terza forma di capitale sociale, sono molto potenti e altrettanto fragili, nell’ipotesi che non vengano rispettate. Agiscono spesso facilitando certe azioni e limitandone altre, e in questo modo influenzano la direzione dell’azione. Queste tre forme di capitale sociale non esistono separatamente, ma ne rappresentano tre aspetti fortemente correlati. Una caratteristica che favorisce la formazione di capitale sociale è la chiusura delle reti sociali: infatti le norme si sviluppano più facilmente ed è più efficace la sanzione nei confronti di comportamenti non aderenti alle norme condivise nei network chiusi. Coleman porta ad esempio le comunità di genitori di ragazzi che frequentano la stessa scuola: i figli di genitori che hanno legami tra di loro sono maggiormente tenuti ad osservare le norme del gruppo rispetto a quelli che hanno genitori che non si conoscono, perché la funzione di controllo e di sanzione viene svolta da tutti i membri adulti nei confronti di tutti i giovani anziché solo dai propri genitori. In questo caso il capitale sociale aumenta anche il controllo sociale. 68 Un’altra caratteristica che può sviluppare capitale sociale è l’appropriazione di una struttura sociale per scopi comuni diversi da quelli che l’hanno generata. L’esempio degli studenti sudcoreani è uno di questi casi. Coleman descrive anche un’associazione di residenti sorta per risolvere problemi urbanistici che diventa uno strumento per migliorare la qualità della vita dei residenti di certi quartieri. Questa caratteristica è importante per Coleman, al fine di introdurre la sua ricerca: il capitale sociale può diventare lo strumento attraverso cui creare capitale umano. Per capitale umano in questo caso intende le capacità che un individuo acquisisce attraverso l’istruzione, considerando quindi l’abbandono scolastico come una perdita in termini di capitale umano. La tesi di Coleman è che il capitale sociale presente nelle famiglie sia un elemento importante nel favorire il successo scolastico dei figli. Non identifica il capitale sociale della famiglia con la sola presenza dei genitori, ma con l’effettivo tempo speso nella relazione con i figli. Utilizza come indicatore il numero di figli per famiglia e la posizione tra fratelli, considerando che in una famiglia il tempo a disposizione da dedicare a ciascun figlio decresce con l’aumentare del numero di figli, ed ha influenza sui risultati raggiunti, coerentemente con quanto risulta dalle ricerche svolte per lo studio del quoziente di intelligenza. Utilizza come indicatore della chiusura del gruppo sociale le varie tipologie di scuola, ritenendo che le scuole confessionali siano frequentate da gruppi con maggior chiusura rispetto a quelle non confessionali. Per definire il capitale sociale al di fuori della famiglia fa riferimento al numero di volte che le famiglie si trasferiscono, considerando che ad ogni trasloco il capitale sociale precedentemente costruito vada perduto. I risultati di questa ricerca confermano le ipotesi: le classi in cui è minore l’abbandono scolastico sono quelle confessionali, in quanto il capitale sociale della famiglia viene supportato dalla chiusura e quindi dal capitale sociale della comunità. Allo stesso modo all’interno della famiglia i ragazzi con minor percentuale di abbandono hanno due genitori, pochi fratelli e preferibilmente la madre si aspetta che vadano al college. 69 Le conclusioni dell’articolo vertono sugli aspetti di bene pubblico del capitale sociale, in quanto una migliore istruzione dei giovani conduce ad impieghi migliori e di maggior prestigio, e anche un miglior utilizzo del capitale fisico attraverso una maggiore capacità di svilupparne e apprezzarne i benefici. Allo stesso tempo questa caratteristica lo rende estremamente vulnerabile, in quanto, per il fatto che chi investe in capitale sociale non ne riscuote necessariamente i frutti, lo svincola dalle scelte individuali. Spesso decisioni di mobilità, alla ricerca di condizioni lavorative migliori, o la scelta di intraprendere attività retribuite per chi dedicava parte del proprio tempo ad attività associative che costituivano capitale sociale per la comunità intera, possono erodere significativamente il capitale sociale costruito. Considerando che la struttura della società sta evolvendo verso una sempre maggiore mobilità e verso il declino di quelle forme di comunità chiuse fortemente interconnesse, Coleman ritiene che il capitale sociale vada progressivamente riducendosi ad ogni generazione. Sia questa visione di declino del capitale sociale, sia lo studio degli effetti sull’istruzione non sono scelte casuali. Il tema dell’istruzione dei giovani in America è stato alla base di un’etica nazionale fondata sul lavoro secondo cui la conoscenza aumenta il valore di quest’ultimo. Fino dall’amministrazione Kennedy la qualità dell’istruzione è stata importante per gli americani. Il fenomeno dell’evasione scolastica è un problema molto sentito e la qualità dell’istruzione è progressivamente erosa dalla riduzione degli investimenti e da una gestione che stabilisce altre priorità. Come testimonia l’attuale presidente Barack Obama (2007, pp. 166-167) in un suo libro: oggi l’America detiene uno dei tassi più elevati di abbandono dell’istruzione superiore tra i paesi industrializzati … La responsabilità di trasmettere ai giovani un’etica di duro lavoro e di profitto scolastico spetta innanzitutto ai genitori, i quali si aspettano a buon diritto che il governo, tramite le scuole pubbliche, faccia la sua parte – proprio come ha fatto per le precedenti generazioni di americani. 70 2.3 – Quanto possiamo contare sul capitale sociale? La visione di Coleman rispetto al mutamento sociale in atto ci introduce il tema del lavoro seguente: il concetto di capitale sociale è stato appena definito e se ne sono studiati gli effetti benefici, ma le premesse per la sua costituzione vengono a mancare proprio grazie alle modifiche che si sviluppano nella struttura sociale. Alcuni di questi cambiamenti derivano dal miglioramento di alcune condizioni di base che nessuno si sentirebbe di scoraggiare: il miglioramento del benessere economico che rende meno necessarie certe reti di sostegno reciproco. Altri cambiamenti danno adito a dibattiti piuttosto vivaci: si sostiene che un sistema di welfare molto efficace renda inutile una struttura della famiglia coesa e quindi diminuisca la possibilità di formazione di capitale sociale. A sottolineare questi dubbi troviamo Putnam (1995) con le sue riflessioni sul declino del capitale sociale nella società americana. 2.3.1 – Bowling Alone: America’s Declining Social Capital14 Nel 1995 Putnam sta raccogliendo i frutti del suo importante lavoro sulla tradizione civica nelle regioni italiane, e pone uno sguardo alla realtà americana. La riflessione scaturisce probabilmente da una constatazione personale: appassionato di bowling si rende conto che sono sempre meno quelli che giocano in gruppo anche se il numero complessivo dei giocatori è significativamente aumentato. La sua attenzione si sposta sulle altre forme associative: attività politica, associazioni di volontariato, associazioni di genitori, e così via. Dall’analisi dei dati emerge un quadro preoccupante ed in linea con le riflessioni di Coleman relative alla progressiva diminuzione di capitale sociale: nel corso degli ultimi decenni si è avuto un progressivo declino del numero di partecipanti a tutte le forme associative precedentemente diffuse, solo in parte compensato da nuovi tipi di associazioni che però oltre ad avere finalità diverse 14 Putnam (1995). 71 spesso non agiscono costruendo un legame tra le persone ma solo fornendo sostegno ad ideali comuni. Ribadita l’importanza del capitale sociale per lo sviluppo e il funzionamento delle istituzioni democratiche, questo cambiamento nelle abitudini dei cittadini manifesta i suoi effetti principalmente nella diminuzione della partecipazione attiva alla vita politica nazionale. Putnam cerca spiegazioni a questo cambiamento. Esclude che la responsabilità sia da attribuire ai disastrosi eventi legati alla vita politica, come gli scandali, gli assassinii, il Vietnam, il Watergate e così via, e cerca di individuare i cambiamenti nella struttura sociale che hanno determinato questa diminuzione della partecipazione. Per prima cosa descrive le nuove forme associative e come si caratterizzano. Tra le prime annovera le associazioni ambientaliste e quelle femministe, il cui limite per la formazione di capitale sociale consiste proprio nel non favorire la conoscenza diretta e la creazione di legami tra le persone, perché il loro compito è di sostenere gli ideali su cui si fondano, che sono condivisibili da una moltitudine di persone ma non necessitano di radicarsi in una comunità ristretta, anzi la loro forza è proprio la numerosità dei sostenitori, così che il farne parte si riduce spesso a pagare la quota associativa e leggere ogni tanto una newsletter. In modo non molto diverso definisce le associazioni non-profit, e anche di queste ritiene dubbia la potenzialità di costruire capitale sociale. Per quanto riguarda i gruppi di supporto, o mutuo aiuto, vista anche la loro ampia diffusione, Putnam ritiene che possano svolgere un ruolo importante per la formazione di capitale sociale, proprio perché si basano sui rapporti diretti fra i soggetti che si incontrano, anche se le finalità di questi gruppi rispondono prevalentemente a bisogni di tipo personale. Le loro caratteristiche sono molto simili a quelle dei gruppi di vicinato o parrocchiali, per il tipo di legame che possono creare e per il tipo di supporto che forniscono agli individui. Ribadendo l’importanza della partecipazione ad associazioni per la diffusione della fiducia, fondamentale per la vitalità dei sistemi democratici, Putnam costruisce un parallelo tra la diminuzione delle associazioni e la diminuzione della fiducia. 72 Notando che sia la fiducia che l’associazionismo sono positivamente correlati con il livello culturale, non si spiega come si sia potuta avere questa erosione visto che i livelli di istruzione in America negli ultimi decenni sono significativamente aumentati. Occorre a questo punto aprire una parentesi: nel testo di Obama (2007, pp. 167-169) precedentemente citato si parla di come il sistema scolastico statunitense abbia subito così tanti tagli da limitarne l’efficacia, e si rilevano le preoccupanti situazioni di scarso rendimento che sicuramente hanno ridotto la capacità del sistema scolastico di sviluppare quelle qualità legate all’istruzione che potevano fare da supporto alla partecipazione civica e alla costruzione della fiducia. Probabilmente il titolo di studio conseguito non è più un buon indicatore del livello di cultura e civiltà, o comunque non è confrontabile con risultati valutati a differenti livelli di qualità. Quali sono allora per Putnam le cause dell’erosione di capitale sociale in America? Considerando che la costruzione di capitale sociale richiede tempo, il massiccio ingresso delle donne nel mondo del lavoro ha senza dubbio diminuito il tempo a disposizione per le famiglie per costruire capitale sociale. Con una decina di anni di ritardo rispetto alle associazioni femminili si rileva la stessa diminuzione anche nelle associazioni a prevalente partecipazione maschile. Purtroppo le indagini sull’utilizzo del tempo libero hanno indicato una solo parziale riallocazione del tempo libero degli uomini nella gestione della vita domestica. La seconda ipotesi è legata all’aumento della mobilità lavorativa che distrugge i legami, e di cui implicitamente è testimone anche la ricerca di Coleman (1988) sull’abbandono scolastico. In questo caso, di fronte a delle comunità che non sono più radicate in un territorio ma che più facilmente si costruiscono all’interno della vita produttiva, sarà da studiare la potenzialità dei luoghi di lavoro di costruire legami che resistano nel tempo e che possano costituire capitale sociale. I cambiamenti di tipo demografico legati agli stili di vita, alla diminuzione dei matrimoni, al numero dei figli, offrono un campo interamente da studiare per comprenderne gli effetti. 73 Come ultima ipotesi Putnam guarda alle trasformazioni tecnologiche che hanno cambiato l’uso del tempo libero: la televisione e tutti gli altri strumenti di intrattenimento che sempre di più consentono di svolgere attività da soli e nelle proprie case, limitando ulteriormente la partecipazione ad attività in gruppo. Che cosa consiglia di fare l’autore? Innanzitutto cercare di ridefinire il concetto di capitale sociale, che non è unidimensionale, in modo da poter comprendere come le nuove forme di organizzazione possano contribuire a sviluppare capitale sociale. Poi studiare gli effetti dell’evoluzione tecnologica sulle nuove forme di socialità per cercare di comprendere se sono in grado di sostituirsi efficacemente agli incontri di persona o se nel passaggio si ha una perdita netta di capitale sociale. Un'altra direzione di ricerca è comprendere quanto del vecchio concetto di capitale sociale che è andato perduto, e cioè gli aspetti di particolarismo, talvolta sfocianti in discriminazione o clientelismo, siano da rimpiangere. In ultima analisi è necessario cercare nuove soluzioni per fare in modo che le politiche pubbliche diventino capaci di stimolare capitale sociale, cercando di non ripetere quel tipo di interventi che in passato hanno contribuito a distruggerlo. 74 Capitolo 3 Reti sociali. Nuovi strumenti per descrivere la struttura della società 3.1 – La nuova società tra piccoli mondi e little boxes Nel capitolo precedente abbiamo visto una rassegna della letteratura riguardante i principali strumenti usati per studiare la forma delle relazioni nelle società contemporanee: la fiducia e il capitale sociale, i loro usi, la loro formazione, le potenzialità che hanno per la funzione di conservazione dell’equilibrio sociale. L’ultimo articolo di Putnam (1995) apre una breccia nel senso di continuità e di progresso che tali concetti facevano coltivare. La società cambia in direzioni imprevedibili: quello che aumenta è l’incertezza1, l’individualismo, ambiguamente favoriti da quel benessere che ha allentato i legami rendendoli meno necessari per la sopravvivenza. La Social Network Analysis è già apparsa tra gli strumenti nuovi più adatti a descrivere questa realtà dai contorni sfumati, capace di cogliere le caratteristiche di continuità con la funzione di supporto all’individuo che per forza di cose, nelle mutate condizioni, si esplica con modalità diverse. L’evoluzione dei mezzi di comunicazione ha favorito un allargamento dei confini raggiungibili da ciascun individuo, fino a far credere a ciascuno di essere immerso in una rete globale di contatti. Gli esperimenti sul “problema del piccolo mondo” ne sono un esempio paradigmatico (Travers e Milgram, 1969), anche se alla resa dei conti sembra si sia trattato di una bellissima illusione più adatta ad una commedia hollywoodiana che una concreta possibilità a disposizione di persone che cercano di non smarrirsi nell’anonimato di orizzonti troppo allargati. 1 Esiste una letteratura che descrive la società moderna in continua evoluzione, ma soprattutto come continua fonte di incertezza (Bauman, 1999). 75 L’articolo di Kleinfeld (2002) è critico a questo proposito e ribadisce l’esistenza di forti cesure nella struttura della società, anche di quella opulenta occidentale che professa criteri universalistici. La visione di Wellmann (1999) è meno pessimista, forse grazie alla sua formazione, non ortodossa e da gioventù dorata, avendo mosso i primi passi nel Bronx, e conosciuto anche le capacità organizzative di situazioni non classiche come quella delle bande giovanili in cui ha militato da adolescente. Questa esperienza gli consente una prospettiva meno favorevole al perbenismo conformista delle “Little Boxes” del boom economico del secondo dopoguerra, e contemporaneamente gli lascia aperta la visione delle potenzialità che si sviluppano in una direzione diversa, legate allo sviluppo della realtà virtuale e della comunicazione mediata, insieme alla percezione che le modifiche strutturali della società hanno dato l’avvio a notevoli cambiamenti nei confronti dei rapporti di genere, di cui gli effetti sono ancora da comprendere. Wellmann individua uno spostamento della vita di comunità dalle piazze ai salotti di casa e ritiene che in questo cambiamento la gestione della relazionalità sia diventata appannaggio delle donne di casa. Ma se la famiglia è da sempre la sede dei legami forti, quelli che saldano le comunità coese, la cui gestione è basata su vincoli affettivi, di cui da sempre le donne sono le sacerdotesse, il lavoro di Granovetter (1973) ci riporta alla realtà, e riconducendo il valore delle relazioni al suo potenziale informativo, riporta alla ribalta i legami deboli, quelli che inevitabilmente si formano fuori casa, anzi principalmente nei luoghi di lavoro, ancora saldamente in mano maschile. La successiva analisi di Burt (1995) è un approfondimento significativo del tema precedente, perché individua la caratteristica che fa scaturire l’importanza dei legami deboli di cui Granovetter elogia la forza. In chiusura Ben-Porath (1980) introduce il tema e l’importanza dell’identità negli scambi che avvengono fuori dal sistema di mercato, tra quelle che lui definisce le Fconnection: famiglie, amici e lavoro, cioè il tipo di legami che vengono analizzati in questo lavoro. La sua tesi è che l’identità, fondata sull’appartenenza a questi gruppi, 76 costituisce la base per la costruzione della fiducia necessaria per gli scambi. In un mondo in cui le comunità di appartenenza hanno un ruolo sarà l’identità collettiva a fare da garanzia, identità che scivola sempre più verso l’individuo in un mondo in cui contano le competenze acquisite e perde importanza l’appartenenza al gruppo. 3.1.1 – An experimental study of the small world problem2 Lo psicologo sociale Stanley Milgram si è dedicato negli anni ’60 ad una serie di esperimenti che ruotano intorno a quello che viene definito “il problema del piccolo mondo”. Questa ipotesi ha avuto un enorme successo mediatico, grazie all’effetto che suscita l’idea di vivere immersi in un mondo in cui tutti possiamo essere connessi con chiunque, anche vivendo in luoghi distanti. In questo articolo, scritto assieme a Travers, descrive uno degli esperimenti svolti per dimostrare empiricamente la veridicità delle ipotesi sostenute, e cioè che servono pochi passaggi per costruire una catena di conoscenze che unisca due individui qualsiasi scelti a caso. Per dimostrare questo gli autori individuano 296 volontari abitanti nel Nebraska e a Boston, a cui consegnano un messaggio da inviare ad una persona target in Massachussets. Di questi iniziali partecipanti 217 trasmettono il plico ad un amico e 64 riusciranno a far pervenire il plico al destinatario. Milgram ritiene che la percentuale di successo, corrispondente al 29 per cento, sia più che soddisfacente. Dalle analisi statistiche emerge che la distribuzione delle frequenze del numero di passaggi occorsi è bimodale, a causa della diversa strategia dei soggetti di partenza, infatti i soggetti che hanno utilizzato contatti di lavoro per raggiungere il target si concentrano intorno alla media di 4,6 passaggi, mentre quelli che hanno privilegiato la 2 Travers e Milgram (1969). 77 vicinanza geografica hanno una media di 6,1 passaggi. Considerando quindi l’ipotesi con il maggior numero di passaggi nasce il famoso mito dei “Sei gradi di separazione” che negli anni successivi darà origine ad altre ricerche e attività culturali tra cui una commedia e un film. Tralasciando le considerazioni fatte dagli autori sulla validità statistica dell’esperimento, ci sono alcuni punti evidenziati che sono utili per questo lavoro. Una delle considerazioni di Travers e Milgram (1969) è che quando la catena di conoscenze necessaria per raggiungere il target è molto lunga aumentano i rischi di non riuscire a condurla a termine. Questo può essere dovuto ad una strategia inefficiente degli attori che non riescono ad avere informazioni sul percorso futuro della catena, oppure ad una effettiva separazione tra i gruppi sociali di partenza e di arrivo. Un fenomeno molto interessante invece è il fatto che alcuni intermediari appaiono molte volte nei passaggi per giungere all’obbiettivo. In questa ricerca 3 persone raccolgono il 48 per cento dei messaggi per poi trasferirli al target. Evidentemente il loro ruolo nella catena è fondamentale al punto che potremmo utilizzare una definizione presa a prestito dalla Social Network Analysis e definirli legami ponte3. In linea con le argomentazioni sostenute da Mark Granovetter (1973, 1983, 1985, 1998) negli articoli che vedremo successivamente, da questa ricerca emerge che l’85 per cento dei partecipanti ha utilizzato come intermediari dei conoscenti, mentre solo il 14 per cento ha fatto riferimento a parenti. Un’ultima considerazione riguarda il genere: le donne sono state più propense a trasmettere il plico ad un uomo mentre gli uomini hanno più raramente trasmesso il plico ad una donna. Le conclusioni degli autori vertono sulla possibilità di misurare la “connettività” delle società moderne e sul fatto che una catena di conoscenze può unire soggetti distanti sia geograficamente che socialmente. Le analisi matematiche che hanno simulato questa 3 “Legame che connette clusters (o sotto-gruppi) diversi di attori ed ha la caratteristica di essere un legame debole” (Cordaz, 2007, p. 35). 78 connettività tra individui indicano come risultato anche un numero più piccolo di passaggi, ma la realtà si scontra con gli ostacoli costituiti dalla non perfetta informazione su quali siano i percorsi più brevi e con le discontinuità costituite dalle differenze sociali. Per Milgram, famoso anche per altri esperimenti che hanno suscitato notevole scalpore nel mondo accademico e mediatico4, questo studio ha fatto parte di una attività che si è protratta nel tempo e di cui restano molti documenti negli archivi presso la Yale Library. A questi documenti fa riferimento Judith S. Kleinfeld in un articolo del 2002 nel quale esamina i risultati di questo lavoro. 3.1.2 – The small world problem5 L’autrice analizza i lavori di Milgram, compreso quello trattato nel paragrafo precedente, con particolare attenzione alla metodologia della ricerca, al fine di verificarne l’attendibilità. La posizione di Kleinfeld è critica nei confronti dei risultati che sono stati affermati a fronte di un’evidenza sperimentale piuttosto debole. Le varie versioni dell’esperimento sul problema del piccolo mondo hanno raramente dato risultati confortanti, tanto che le affermazioni in merito potrebbero essere riformulate così: “è possibile che tra due individui separati geograficamente e socialmente esista una connessione attraverso una catena molto breve di conoscenze”, e non quello che la disponibilità mediatica ha fatto intendere, e cioè che “tutti noi siamo connessi con pochi passaggi a chiunque vogliamo scegliere come target”. Kleinfeld mette in evidenza come la maggior parte degli studi sul piccolo mondo non abbiano condotto ad alcun risultato significativo, e quindi cerca di capire attraverso uno studio accurato delle carte in archivio quali siano state le caratteristiche che hanno 4 Ad esempio la serie di esperimenti sull’obbedienza, svolti dopo la fine della seconda guerra mondiale e indirizzati a studiare il comportamento umano al fine di cercare spiegazioni per quanto era accaduto sotto il regime nazista. 5 Kleinfeld (2002). 79 reso possibili i risultati ottenuti da Travers e Milgram (1969). Uno degli elementi che può aver prodotto tali differenze è l’oggetto che viene trasmesso, non si tratta infatti sempre della stessa cosa: in alcuni casi si trattava di una lettera, in altri di un vistoso passaporto. L’autorevolezza dell’oggetto da inviare può aver influenzato l’impegno del ricevente a trasmetterlo a sua volta. Un appunto non trascurabile viene fatto sulla scelta del campione: il campione che viene definito casuale è in realtà preso da una mailing list per usi commerciali acquistata dai ricercatori, un altro gruppo è costituito da persone che hanno risposto ad un annuncio su giornali, fatto in modo da attrarre persone particolarmente socievoli e quindi interessate ad avere molti contatti, in entrambi i casi si tratta di persone potenzialmente appartenenti ad un gruppo sociale benestante e orientate a collaborare alla ricerca. Negli archivi di Milgram l’autrice trova anche un articolo, probabilmente inviatogli per un referee report, mai pubblicato, che riporta i risultati di un’analoga ricerca, mirata a studiare i passaggi tra varie categorie sociali, in cui il quasi totale fallimento dei tentativi mette in evidenza il fatto che le persone sono separate in modo netto in categorie sociali. Tra le carte trova una singolare eccezione: una ricerca svolta nella città di Montreal che ottiene l’85 per cento di consegne completate. Il target è un personaggio in vista della comunità ebraica. In effetti questo esperimento prova che la comunità ebraica di Montreal è molto connessa, ma non che questo risultato si possa estendere ad altri contesti. Le conclusioni che trae Kleinfeld sono che noi viviamo in un mondo in cui il capitale sociale, cioè la capacità di mantenere contatti personali, non è universalmente diffuso ma è più probabile appannaggio delle persone di status elevato (Kleinfeld, 2002, p. 65). L’immagine che utilizza per descrivere le connessioni è quella di una tazza di cereali, con molti grumi di “piccoli mondi” debolmente connessi tra loro e alcuni grumi del tutto isolati. 80 Si chiede perché vogliamo credere nel piccolo mondo e per spiegarlo utilizza il concetto di “euristica della disponibilità” (Kahneman e Tversky, 1996) che fa riferimento al fenomeno per cui esperienze che colpiscono in modo vivido la nostra immaginazione ci appaiono più frequenti di quanto non siano in realtà. Tra i motivi che rendono il tema del piccolo mondo così vivido agli occhi della gente comune l’autrice ne descrive alcuni: il primo è che una tale credenza ci dà un senso di sicurezza, il secondo è che queste esperienze supportano il senso della fede religiosa, e per ultimo che le persone hanno una ingenua percezione rispetto alla probabilità statistica delle coincidenze. E per finire si chiede se sei gradi di separazione siano un numero piccolo oppure molto grande, forse avendo presenti i lavori di Granovetter (1973, 1983) sulla forza dei legami deboli, in cui si mette in evidenza che tali legami producono risultati solo quando in un passaggio o al massimo due conducono al risultato. 3.1.3 – From Little Boxes to Loosely-Bounded Networks: the Privatisation and Domestication of Community6 Barry Wellman nasce nel 1942 nel quartiere del Bronx a New York City. In questo articolo ricorda la sua adolescenza e la sua partecipazione a varie bande giovanili che non avevano un preciso confine ma erano costituite da un flusso continuo di giovani che si aggregavano intorno ad uno scopo o un obbiettivo. La sua definizione di comunità parte da questa esperienza. Insieme a lui vari altri autori contemporanei vedono scomparire la comunità così come definita dai padri fondatori della sociologia, con non poca preoccupazione. E politologi e sociologi si chiedono come poterne stimolare una rinascita. Secondo 6 Wellmann (1999). 81 Wellman invece la comunità non sta scomparendo, ma si sta trasformando a causa dei profondi mutamenti della struttura sociale. Non siamo più di fronte a gruppi compatti di persone che condividono un territorio ed hanno frequenti scambi di relazioni, beni e valori. La struttura delle relazioni sociali, del lavoro e delle famiglie è tale che le persone che vi appartengono vivono disperse su un territorio vasto. La struttura dei sistemi di comunicazione permette però di coltivare l’esistenza di queste comunità pur non condividendo più una base territoriale. Questo cambiamento impone una modifica del metodo di studio, perché insieme alla perdita di significato della condivisione di uno stesso spazio, o quartiere, si modificano anche le modalità degli scambi. Nel compito di definire le nuove caratteristiche della comunità ci viene in aiuto la Social Network Analysis, che supera la definizione formale di comunità per definirla attraverso i legami che la strutturano. Si parte dalla “struttura” invece che dalla “forma”; si porta in primo piano il contesto, perché ogni singola realtà viene analizzata nelle sue connessioni riconducendo la classificazione ad alcune caratteristiche di base: il numero di connessioni, la loro densità, il loro verso e se sono reciproche o meno. Questo approccio non ci impedisce di ritrovare in alcuni casi quelle comunità che Tönnies (1887) definisce gemeinschaft, ma ci permette di descrivere anche molte altre forme intermedie di organizzazione; non assume che il mondo sia sempre costituito da individui guidati da norme che vivono in gruppi coesi e stanziali. La Social Network Analysis ci permette di descrivere il mondo delle relazioni attraverso i soggetti che agiscono, siano essi individui o gruppi, e il tipo di interazioni che mettono in gioco. In questo modo si riesce a descrivere tutta la gamma che va dalle interazioni tra due individui alle interazioni all’interno di gruppi formati da svariati soggetti. In questo articolo Wellman descrive la natura delle comunità contemporanee e le implicazioni che ne derivano in seguito alla privatizzazione, specializzazione e allentamento dei legami che le costituiscono e la loro nuova organizzazione. Per fare 82 questo presenta le seguenti proposizioni relative alla natura di rete delle comunità contemporanee. I legami all’interno delle comunità personali sono specializzati, non ad ampio spettro, per cui forniscono vari tipi di supporto e ogni individuo ha bisogno di vari tipi di legami per poter coprire tutte le sue necessità relazionali. Le persone non vivono in comunità tradizionali, densamente interconnesse, ma sono immerse in reti di legami sparsi, senza confini netti e che si modificano frequentemente. Il supporto fornito da ciascun contatto è diverso dagli altri e gli individui hanno interesse a coltivare ogni singolo legame per la sua specificità anziché una ipotetica idea di comunità. Le comunità si sono sviluppate oltre l’orizzonte del vicinato e sono diventate network dispersi sul territorio, che possono essere ugualmente presenti e supportivi. Ricerche storiche citate da Wellman mostrano che tale tipo di legami dispersi rispetto al territorio erano presenti anche nelle comunità dei secoli passati. La socialità privata ha rimpiazzato la socialità pubblica. La socialità maschile del passato si sviluppava esclusivamente nei luoghi pubblici, dove non era incoraggiata la presenza femminile. Con l’ingresso nel mondo del lavoro delle donne, si è modificata la presenza in casa per entrambi: è diminuita per le donne e aumentata per gli uomini. A causa della distanza dei luoghi di lavoro dalla residenza è diminuito il desiderio di trascorrere il tempo libero fuori casa, per cui gli incontri avvengono tra persone che già si conoscono all’interno delle abitazioni. Tutto questo è facilitato dai nuovi media come il telefono e la posta elettronica, e sollecitato dalla aumentata percezione di non sicurezza dei luoghi pubblici, che sono rimasti come luogo di passaggio, o per fare acquisti, attività non necessariamente sociale. La vita di comunità è divenuta un fenomeno “domestico”. Con lo spostamento della vita sociale all’interno della vita familiare è aumentata la selettività nei confronti delle relazioni, che non possono più essere casuali, come gli incontri nelle piazze, ma devono essere filtrate dalle preferenze e dalle caratteristiche degli individui. In questo modo si formano comunità di persone con caratteristiche omogenee. Le relazioni hanno 83 perduto la caratteristica di strumento indispensabile per l’ottenimento di risorse e sono diventate più legate a bisogni di relazionalità piuttosto che di sicurezza o sopravvivenza. In questo cambiamento le donne, per tradizione le custodi dei legami familiari, e quindi più esperte nelle relazioni domestiche, hanno assunto un ruolo predominante nella gestione di questa socialità privata, che in questo contesto diventa prevalentemente appannaggio delle coppie rispetto ai singoli individui e si manifesta come un’estensione dei legami di parentela. La possibilità di costruire legami sulla base di incontri casuali è drasticamente diminuita. Le caratteristiche politiche, economiche e sociali influenzano la natura delle comunità. In questo senso nelle parti meno fortunate del mondo le comunità continuano ad essere lo strumento di supporto principale e non solo emozionale. Le comunità continuano ad essere non solo il luogo in cui le persone apprezzano il proprio tempo libero, ma soprattutto il meccanismo chiave attraverso cui gli individui accedono alle risorse. Le risorse possono essere ottenute attraverso varie modalità: con gli scambi di mercato, attraverso distribuzioni istituzionali, attraverso scambi comunitari, attraverso appropriazioni coercitive e con l’autoproduzione. Sebbene tutte queste modalità si possano trovare più o meno diffuse in tutte le società, gli scambi di mercato sono tipici delle società occidentali, la distribuzione istituzionale è tipica delle società pianificate e gli scambi comunitari sono tipici del terzo mondo, caratterizzato da apparati statali deboli e poche organizzazioni formali. Le comunità personali sono importanti nelle società occidentali per compensare l’insicurezza che deriva dallo stress emotivo e fisico, mentre per l’ottenimento di risorse si può far ricorso al mercato. Le minori preoccupazioni economiche e politiche le distinguono dalle società meno sicure. Il passaggio dalle comunità personali, connesse anche attraverso il web, e le comunità virtuali è breve. Il cyberspazio supporta le nuove forme di comunità “glocalizzate”. Wellman si chiede se queste comunità virtuali saranno in grado di supportare i legami, sia deboli che forti, in un mondo in cui i network di ogni individuo sono sempre più vasti, e se saranno capaci di formare nuovi legami attraverso le conoscenze che consentono e di rafforzare quelli già esistenti. 84 Indubbiamente siamo passati da un’organizzazione sociale basata sull’appartenenza ascrittiva a nuove organizzazioni sociali basate sull’appartenenza acquisitiva. Resta da dimostrare se saranno sufficienti i contatti virtuali o se sarà comunque indispensabile rinsaldare questi legami attraverso incontri di persona. Le riflessioni conclusive riguardano i possibili cambiamenti che il cyberspazio può produrre nella struttura delle società occidentali. Ci si allontana dalle “Little Boxes” della canzone di Malvina Reynolds7, che descrivono efficacemente il conformismo della middle class americana degli anni ’60, per andare verso un mondo destrutturato di cui Wellman analizza le potenzialità nei confronti della divisione del lavoro all’interno della famiglia. Il tema dell’entrata delle donne nel mondo del lavoro si presentava già nell’articolo di Putnam del 1995 sul decadimento del capitale sociale in America, e riflette un interesse legato alle tematiche di genere molto diffuso in campo accademico in quegli anni. Secondo Wellman gli effetti della nuova struttura sociale si possono sentire anche nella divisione del lavoro all’interno delle famiglie, con l’implicita considerazione che certe conquiste in tema di un’equa ripartizione dei ruoli nella società tra uomini e donne possa essere ricondotta alle mutate condizioni sociali che l’hanno resa possibile. 3.2 – Legami deboli, ponti e vuoti strutturali per un’architettura della coesione sociale I prossimi due articoli, anche se scritti a distanza di venti anni, sono strettamente collegati. 7 Nel 1962 la cantante Malvina Reynolds scrive la canzone Little Boxes ispirandosi all’immagine dei quartieri di villette simili a piccole scatole tutte uguali in cui vivono persone che fanno e ripetono le stesse cose e gli stessi percorsi di vita. 85 Granovetter (1973) è consapevole del paradosso che esprime con il titolo del suo articolo, ma questa felice intuizione letteraria è anche la base della sua ipotesi: al contrario di quanto sostenuto fino ad allora certi fenomeni di coesione sociale sono supportati dai legami definiti deboli, mentre i legami di tipo forte contribuiscono alla frammentazione del tessuto sociale. L’autore parte dalla definizione delle caratteristiche dei legami, dopo aver ribadito che a suo avviso i legami interpersonali sono il canale di collegamento tra il livello micro e quello macro dei fenomeni sociali. La conseguenza di ciò è che i legami forti definiscono gruppi di persone con una elevata coesione tra di loro e legami reciproci, ma che per l’intrinseca caratteristica dei legami forti di implicare scambi frequenti in termini di disponibilità, risorse e tempo, questi gruppi non possono essere costituiti da un numero elevato di persone. È necessario allora ricorrere ad un altro tipo di legami per riuscire a cogliere la complessità dell’intera struttura sociale e soprattutto per identificare i meccanismi che la rendono un tutto unico, anziché un agglomerato di piccoli mondi isolati. I legami deboli, che sono i ponti attraverso cui collegare questa miriade di piccoli mondi, diventano lo strumento chiave della rete che unisce la società nel suo complesso. Granovetter si ferma a questa constatazione, già di per sé rivoluzionaria rispetto alla concezione che la forza di coesione delle comunità si basi sui legami familiari, tipicamente molto vincolanti e di conseguenza forti. Burt (1995) ne precisa le caratteristiche, individuando che è la specifica collocazione di questi legami come ponte tra due mondi a costituire la loro forza, e non semplicemente la loro forma. Utilizza una vivace metafora economica e considera il capitale sociale prevalentemente costituito dalle relazioni capaci di produrre un profitto per gli individui. Descrive la competizione tra gli individui per accaparrarsi queste relazioni ponte, fatte di legami deboli, la cui forza sta nel fornire al soggetto una posizione di controllo rispetto al flusso di informazioni che ne possono determinare il successo imprenditoriale. 86 In questa metafora il soggetto, pur subordinando la sua riuscita alla posizione che occupa nella rete dei legami, resta un agente attivo per il proprio destino. 3.2.1 – La forza dei legami deboli Nel 1973, quando Granovetter scrive, uno dei temi chiave affrontati dalla sociologia è il collegamento tra il livello micro e il livello macro dell’analisi sociale. Per gli scienziati sociali è importante capire come i fenomeni si formano a livello individuale e trasformano la società nel suo insieme. Granovetter decide di analizzare una piccola parte delle dinamiche d’interazione: i legami personali, e per la precisione i legami informali che si sviluppano a livello di conoscenza. L’analisi delle reti ha già ampiamente diffuso il concetto che la struttura delle relazioni sia importante per gli individui, ma finora l’accento è stato posto sulle relazioni importanti: i legami forti, quelli che vincolano entrambi i soggetti in azioni reciproche, che possono fornire supporto, che veicolano i valori e la loro condivisione, che sanzionano i comportamenti aberranti e premiano quelli coerenti con il sistema di valori condiviso. Analizzando questo tipo di legami si giunge alla definizione della cosiddetta “triade impossibile”: se esiste un soggetto A che ha un legame forte con due soggetti, B e C, raramente si verificherà l’ipotesi che tra B e C non vi sia alcun legame. L’evidenza empirica conferma che nei piccoli gruppi la triade iniziale conduce all’esistenza di un legame anche tra B e C. La considerazione di Granovetter verte sulle possibilità di ciascun individuo di coltivare il maggior numero di legami. Definisce i legami forti come quelli che comportano un maggior tempo da trascorrere insieme e un cospicuo numero di interazioni, tale da non permettere un’espansione illimitata del numero di tali legami che ciascun individuo può coltivare. 87 Inoltre un legame forte si sviluppa di preferenza tra individui che hanno gusti e aspirazioni simili. I legami deboli al contrario possono essere mantenuti in vita con molto meno sforzo, e quindi non subiscono il limite della disponibilità di tempo. Tra i legami deboli annovera tutti i rapporti di conoscenza, di amicizia ma senza un’assidua frequentazione, tali da permettere l’esistenza di contatti tra persone che hanno gusti ed esperienze diversi e che possono coltivarli separatamente. Per supportare la sua ipotesi si richiama ad alcune ricerche che studiano i processi di diffusione. I legami forti, proprio a causa della loro struttura, consentono una rapida diffusione a tutta la rete di qualunque informazione entri nel sistema. Il punto da chiarire è come una informazione nuova possa entrare in un sistema chiuso. Alcuni legami di tipo debole hanno la caratteristica peculiare di unire gruppi distinti di individui o semplicemente di collegare un individuo ad un altro appartenente ad un gruppo distante dal primo: questi legami vengono definiti “legami ponte”. Per questo Granovetter affianca alle qualità dei legami forti, attraverso i quali far procedere velocemente un’informazione all’interno di un gruppo, la forza dei legami deboli: far giungere all’interno di un gruppo un’informazione nuova. Non tutti i legami deboli sono ponti tra gruppi separati, ma, secondo l’autore, tutti i ponti sono legami deboli. L’eliminazione di un legame forte può lasciare pressoché inalterata la condizione di un individuo all’interno di una rete, ma l’eliminazione di un legame debole, nel caso che questo costituisca un ponte, arreca un notevole danno nei termini di tutte le informazioni che possono giungere attraverso tale collegamento e vengono perdute. Prosegue con una rassegna di studi antropologici e sociologici sui processi di diffusione: dalle ricerche di Rogers (1962) sugli “early innovators”, dove si afferma che coloro che adottano precocemente un’innovazione sono individui marginali nel gruppo di riferimento, ma con legami esterni, da cui apprendono le novità, e meno preoccupati delle conseguenze di un comportamento deviante dalla norma; solo in un secondo 88 momento le innovazioni vengono accolte anche dagli individui più centrali del gruppo, che di solito sono preoccupati degli effetti sulla loro reputazione di ciò che fanno. Fa riferimento poi ad un esempio relativo ad un altro tipo di studi sui processi di diffusione: quelli di Travers e Milgram (1969) trattati precedentemente. Nell’esperimento del problema del piccolo mondo Milgram, oltre a quanto già visto, aveva trovato che, nel passaggio da un soggetto bianco ad uno di colore, quando il contatto di etnia diversa veniva definito come “conoscente” la catena aveva circa il doppio di probabilità di essere completata rispetto a quando veniva definito come “amico”. Con questo si mette in evidenza il fatto che se un individuo viene definito come amico appartiene al gruppo coeso di conoscenze e quindi ha meno probabilità di avere contatti fuori dal gruppo che permettano alla catena di proseguire. La parte saliente del lavoro di Granovetter è una indagine svolta personalmente attraverso una serie di interviste ad un campione casuale di persone residenti in un sobborgo di Boston che avevano recentemente cambiato lavoro. La ricerca mirava ad identificare il tipo di legame tra l’intervistato e la persona che gli aveva passato l’informazione del nuovo lavoro. Nell’ipotesi di partenza riteneva i legami forti come i più adatti a fornire indicazioni utili, ma i risultati conducono ad una netta prevalenza dei legami deboli suggerendo la prevalenza della struttura sulla motivazione (Granovetter, 1973). Inoltre l’autore scopre che sono necessari pochi passaggi per ottenere l’informazione significativa: questo perché spesso la persona che ha fornito l’informazione ha pure svolto un’importante azione di presentazione del soggetto, attività per la quale è necessaria una conoscenza diretta. Questa caratteristica distingue anche i vari soggetti: gli individui più anziani avevano costruito la rete di conoscenze nel mondo del lavoro, e quindi avevano una conoscenza personale dell’interlocutore, chi ha invece utilizzato svariati intermediari era più frequentemente un individuo fuori dal mercato del lavoro o a rischio di venirne escluso, e i numerosi passaggi sono assimilabili a informazioni ottenute attraverso canali formali. I legami deboli per Granovetter costituiscono un importante risorsa per la mobilità volontaria ma anche per la coesione sociale. 89 La forte coesione tende ad ottenere l’effetto paradossale di isolare i vari gruppi, qui definiti cliques8, ed è solo grazie agli eventuali ponti tra le varie cliques che si può evitare la frantumazione del tessuto sociale. Tutti questi esempi sono a sostegno dell’ipotesi che i legami forti tendono a chiudersi intorno alle solite poche persone, mentre quelli deboli uniscono, anche se in modo più blando, gruppi più vasti. A questa caratteristica Granovetter attribuisce il potere di costituire coesione sociale, attraverso la connessione dei vari gruppi, che sono coesi a livello micro, ma che altrimenti resterebbero isolati determinando la frammentazione a livello macro. A sostegno di questa ipotesi fa riferimento al lavoro di Gans (1962) che descrive la comunità italiana del West End di Boston. Questa comunità, pur essendo ben coesa, non fu in grado di mettere in piedi un’azione comune per fronteggiare il progetto di “rinnovamento urbano” che di fatto determinò la disintegrazione di quella comunità. Gans spiega questo insuccesso attraverso le caratteristiche degli appartenenti: si trattava per lo più di operai, di cui quasi nessuno lavorava all’interno del quartiere, mentre il luogo privilegiato per la formazione dei legami deboli è l’ambiente di lavoro, che in questo caso non si poteva ricondurre al quartiere. In realtà Gans attribuisce importanza anche ad aspetti più strettamente culturali, in quanto ritiene che solo la classe media sia capace di sviluppare una sufficiente fiducia nei leaders in modo da poter sviluppare un’azione comune. A riprova dell’importanza della struttura sociale nella possibilità di coordinare un’azione comune, Granovetter porta l’esempio della comunità operaia di Charleston, che, al contrario di quella del West End di Boston, riuscì ad organizzarsi e fronteggiare un progetto di rinnovamento urbano analogo. In questo caso però era presente una ricca vita organizzativa e la maggior parte dei maschi residenti lavoravano in zona. 8 “massimo sottografo completo costituito da tre o più nodi. Consiste pertanto in un sottoinsieme massimale di nodi in cui ogni nodo è in relazione diretta e reciproca con tutti gli altri … Il concetto di clique rappresenta un tentativo di formalizzazione della nozione di “gruppo sociale” e un importante punto di partenza per l’analisi delle proprietà formali dei gruppi coesi” (Cordaz, 2007, p. 33). 90 La relazione tra la forza dei legami e la struttura dei reticoli viene così descritta dalle seguenti proposizioni. - I legami deboli collegano membri appartenenti a differenti piccoli gruppi. - I legami forti collegano tra loro i membri appartenenti ai piccoli gruppi, sono transitivi e reciproci. - La transitività è una caratteristica dei legami che viene acquisita attraverso la conoscenza reciproca e il suo sviluppo è simile a quello delle tappe dello sviluppo del bambino, in cui si riscontra un aumento dei legami transitivi con la maturazione. - La reciprocità è tipica dei legami forti tra individui che hanno status simile; invece le scelte asimmetriche, che caratterizzano l’assenza di reciprocità, rispecchiano le differenze di status e descrivono la struttura gerarchica del gruppo. La transitività si qualifica quindi come una funzione della forza dei legami piuttosto che una proprietà generale della struttura, ed è tipica dei gruppi di piccole dimensioni perché è possibile solo grazie ad una diffusa conoscenza reciproca tra gli attori. La maggior parte delle scelte reciproche indicano la presenza di legami forti. La conclusione di Granovetter è che l’esperienza personale degli individui, definibile come il livello micro, risulta essere strettamente connessa alla dimensione macro della struttura sociale. 3.2.2 – Structural Holes: the Social Structure of Competition9 Due decenni dopo l’articolo di Granovetter, Burt pubblica le sue riflessioni sui vuoti strutturali. Si tratta di una rilettura del tema dei legami deboli, che ne specifica in modo più approfondito le modalità di funzionamento. 9 Burt (1995). 91 Burt immagina come terreno in cui si esplica l’azione sociale una “arena” di giocatori che cercano di massimizzare il loro profitto in termini di relazioni. La competizione per l’accesso alle risorse è il tema dell’articolo e le risorse sono i benefici che l’informazione produce in qualsiasi mercato in termini di opportunità. La struttura del network dei giocatori e la collocazione dei loro contatti nella struttura sociale creano un vantaggio competitivo per conseguire rendimenti più alti sugli investimenti. Questo lavoro è la descrizione del modo in cui la struttura sociale rende la competizione imperfetta creando opportunità imprenditoriali per certi giocatori e non per altri. Il termine “capitale” convoglia l’attenzione in ambito economico e l’autore confronta tre forme di capitale: finanziario, umano e sociale, identificando l’ultimo con le relazioni. Il capitale finanziario e il capitale umano si distinguono in due modi dal capitale sociale: primo, sono proprietà degli individui, secondo, riguardano gli investimenti. Il capitale finanziario è necessario per acquisire le materie prime e per i sistemi di produzione; il capitale umano è necessario per trasformare le materie prime in prodotti. Il capitale sociale differisce in entrambi gli aspetti; primo: è una qualità posseduta da entrambe le parti in gioco, secondo: il capitale sociale riguarda il lato dei rendimenti nella produzione di mercato. Per mezzo delle relazioni sviluppa le opportunità per trasformare i capitali finanziari e umani in profitto. È l’arbitro finale del successo competitivo. Il capitale sociale è importante perché la concorrenza è sempre imperfetta. In una situazione di perfetta concorrenza il capitale sociale diverrebbe una costante nell’equazione della produzione. Nella realtà diventa un criterio aggiuntivo per selezionare chi riuscirà ad utilizzare al meglio le opportunità. Ogni giocatore ha una rete di contatti. La struttura della rete e la posizione dei suoi contatti sono alla base delle differenze di rendimento degli investimenti. Questo fenomeno può essere descritto in due modi: o attraverso la descrizione dei possibili 92 contatti e le loro risorse a cui il soggetto ha accesso, oppure descrivendo la forma dei contatti come capitale sociale vero e proprio. La metafora di Granovetter (1973) sulla forza dei legami deboli si riferisce a questa seconda lettura. Il giocatore, che svolge un ruolo attivo nella formazione della sua rete di contatti, sceglierà di includervi quei soggetti che sono portatori del maggior numero di opportunità. I giocatori che hanno i gruppi meglio strutturati ottengono un maggior rendimento dai loro investimenti. Due tipi di risorse costituiscono i profitti: le informazioni e il controllo. Le caratteristiche importanti dell’informazione secondo Burt sono: accesso, tempo e referenze. L’accesso si riferisce alla possibilità di ricevere informazioni valide e utili. Siccome ci sono limiti alla quantità di informazioni che un individuo può gestire, la rete di contatti diventa un efficace mezzo per sfoltire le informazioni e ricevere solo quelle significative. Per quanto attiene al tempo si intende la possibilità di essere informati in anticipo sulle opportunità che si presenteranno. Le referenze sono i contatti personali che possono far avere nostre notizie dove serve anche se non possiamo esserci. Lo scopo dell’attore è costruirsi una rete in grado di fornirgli cospicui rendimenti; nella scelta dei contatti svolge un ruolo importante anche la fiducia. Tenendo presente che la concorrenza è imperfetta è necessario fare riferimento a partner affidabili che onoreranno i propri debiti, per questo relazioni forti tendono a svilupparsi tra persone simili perché si pensa che chi è simile a noi non ci tradirà. Verificata l’importanza di avere molti contatti e tenendo presente gli oggettivi limiti della possibilità di coltivarne un numero elevato, è importante avere contatti non ridondanti. I contatti sono ridondanti quando ci portano allo stesso gruppo di persone e ci forniscono gli stessi vantaggi di informazione. Le reti diffuse invece ci possono fornire contatti non ridondanti e quindi maggiori informazioni. 93 Il termine “vuoti strutturali” serve a definire quali sono i contatti non ridondanti. I contatti non ridondanti sono connessi da un vuoto strutturale. Un vuoto strutturale è una relazione di non ridondanza tra due contatti. Come effetto del vuoto tra loro, i due contatti ricevono vantaggi dalla rete che sono aggiuntivi, piuttosto che sovrapponibili. Le prove empiriche che indicano un vuoto strutturale sono la coesione10 e l’equivalenza strutturale11. Entrambe definiscono il vuoto strutturale con la loro assenza; al contrario una relazione forte, quindi coesa, implica l’assenza di un vuoto strutturale; allo stesso modo si ha equivalenza strutturale quando due persone hanno gli stessi contatti, che conducono alle stesse fonti di informazione, sono ridondanti e non sono quindi connessi da un vuoto strutturale. Un individuo ricco di contatti contenenti vuoti strutturali è a sua volta un partner appetibile. Questo tipo di relazioni non si trovano però nei rapporti di amicizia, perché i gruppi del tempo libero e familiari, sono in genere ricchi di rapporti ridondanti. Il tema della forza dei legami deboli dell’articolo di Granovetter (1973) è semplice ed elegante. Le persone vivono in cluster12 composti da individui con cui hanno relazioni forti. Le informazioni circolano velocemente all’interno di questi cluster. La diffusione delle informazioni su nuove idee e opportunità può arrivare attraverso i legami deboli che uniscono individui appartenenti ad altri cluster. I legami deboli sono essenziali per favorire il flusso di informazioni tra i cluster sociali altrimenti disconnessi della società nel suo complesso. A questo punto legami deboli e vuoti strutturali sembrano descrivere lo stesso fenomeno. Secondo Burt la caratteristica di debolezza dei legami è correlata all’essere vuoti strutturali, ma non è la caratteristica responsabile della diffusione delle informazioni. Mantenendo l’attenzione sulla qualità dei legami si perde di vista la 10 “Sta ad indicare il grado di compattezza della rete” (Cordaz, 2007, p. 45). “… quella proprietà matematica che permette di identificare classi equivalenti ossia sottoinsiemi di attori che hanno gli stessi legami con gli stessi attori.” (Cordaz, 2007, p. 48). 12 “area ad alta densità di un grafo, variamente descritta anche come clique, componente, nucleo o cerchia; è costituita da sotto-gruppi o “grappoli” di attori caratterizzati da numerose e intense relazioni che li uniscono.” (Cordaz, 2007, p. 34). 11 94 funzione di controllo sull’informazione che viene svolta dai ponti e che viene evidenziata attraverso la definizione di vuoto strutturale. Un ponte è insieme due cose: è una distanza e il mezzo usato per misurarla. Il tema dei legami deboli riguarda la forza della relazione che copre la distanza tra i due cluster. Il tema dei vuoti strutturali riguarda la distanza coperta. È quest’ultima che genera i vantaggi di informazione. Come dice Granovetter: un legame forte può essere un ponte solo se non ha alcun legame forte con altri soggetti del gruppo, cosa che è alquanto improbabile. I legami deboli non soffrono di questa restrizione, anche se non sono automaticamente ponti. Quello che è importante è che tutti i ponti sono legami deboli. Le informazioni attraversano qualsiasi ponte, sia costituito da un legame forte che debole. I benefici variano tra legami ridondanti e non ridondanti. Il concetto di vuoto strutturale cattura la condizione direttamente responsabile di questi vantaggi informativi. I vuoti strutturali generano benefici di controllo, dando ad alcuni giocatori un vantaggio nel negoziare le loro relazioni. Burt introduce il concetto del terzo vincente, che definisce come l’individuo che si avvantaggia della disunione di altri. Per descrivere questo effetto cita un lavoro di Barkey che fa una descrizione comparativa della funzione di controllo svolta dallo stato in Francia e in Turchia nel XVII secolo. Questo autore, dopo aver stabilito che i due stati si trovavano in condizioni simili, si chiede come mai in Francia si sia sviluppata una alleanza tra la nobiltà e il popolo contro il re che è sfociata nella rivoluzione mentre in Turchia questo non è accaduto. Sostiene che i due stati differivano nelle strategie di controllo. In Francia il re creava un’intrusione negli affari locali con la nomina degli attendenti che limitavano l’autonomia della nobiltà terriera prendendo ordini direttamente dal re. In Turchia invece il sovrano capitalizzava le rivalità tra i leader delle provincie legittimando il loro potere. I due stati differiscono nell’uso dei vuoti strutturali: il re di Francia li ha ignorati, 95 ritenendo di avere autorità assoluta; in Turchia il sultano li ha strategicamente sviluppati, promuovendo la competizione tra leader rivali. I vuoti strutturali sono l’ambiente adatto per le strategie del terzo vincente, da gestire attraverso il controllo dell’informazione e richiedono un attore non passivo. Chi coglie l’opportunità di essere terzo, è un imprenditore nel senso letterale del termine: una persona che genera profitto dall’essere intermediario tra altri. Secondo Burt il concetto di vuoti strutturali si definisce attraverso le seguenti qualità: - La concorrenza è una questione di relazioni, non un attributo dei giocatori: l’argomento dei vuoti strutturali sfugge alla consueta pratica delle scienze sociali di usare le caratteristiche dei giocatori per spiegare i fatti. La concorrenza non riguarda il fatto di essere un giocatore con certe caratteristiche fisiche, ma riguarda l’assicurarsi relazioni produttive. - La concorrenza è una relazione emergente, non osservata: i vuoti possono avere differenti effetti per persone con diverse caratteristiche o per organizzazioni di tipo diverso, ma questo è perché gli attributi e le forme organizzative sono correlate con le diverse posizioni nella struttura sociale. - La concorrenza è un processo, non un risultato: la maggior parte delle ricerche sono su cosa resta dopo che la competizione si è svolta. Il tema dei vuoti strutturali non riguarda il flusso di risorse. Non viene suggerito alcun prezzo che sgombra il mercato. - La concorrenza imperfetta è una questione di libertà, non solo di potere: il tema dei vuoti strutturali non è una teoria sulle relazioni competitive. È una teoria sulla competizione che descrive i benefici che derivano dalle relazioni. È una teoria della concorrenza resa imperfetta dalla libertà degli individui di essere imprenditoriali. I giocatori sono liberi di ritirarsi dalle relazioni esistenti per costruirne di nuove con chiunque serva meglio i loro interessi. Le obbligazioni terminano con la fine della transazione. Altre teorie misurano la concorrenza imperfetta, di solito definita da quanto la scelta è concentrata nelle mani del giocatore più forte. All’estremo della concorrenza perfetta ogni giocatore ha infinite scelte tra relazioni alternative. All’altro estremo, cioè 96 nel monopolio, la scelta è concentrata nelle mani del giocatore più forte. Nella realtà la competizione è sempre presente e sempre imperfetta. Questo è il focus del tema dei vuoti strutturali, una teoria della libertà invece che del potere, del controllo negoziato invece che assoluto. È una descrizione del tentativo per cui la struttura sociale di una arena concorrenziale contiene opportunità imprenditoriali per giocatori individuali capaci di influenzare i termini delle loro relazioni. 3.3 – L’individuo nella rete: il ruolo dell’identità Se Burt riporta in primo piano il ruolo dell’attore all’interno della struttura in cui agisce, l’autore che segue va avanti in questa rivalutazione indagando il ruolo dell’identità nelle transazioni. L’economista israeliano Yoram Ben Porath viene chiamato in causa da Coleman (1988) mentre introduce il concetto di capitale sociale e affronta la difficoltà di conciliare la definizione dell’agire sociale fatta dai sociologi che individuano un soggetto totalmente guidato dall’ambiente e privo di uno scopo o di un motore interno, con quella degli economisti che descrivono un attore razionale sempre vincolato dal contesto in cui opera. L’interesse di Coleman per questo autore riguarda lo studio del funzionamento di quelle che Ben-Porath chiama le “F-connection” nei sistemi di scambio, dove analizza le transazioni che si svolgono a metà strada tra l’individuo e la società, cioè nei contesti personali, utilizzando strumenti che sono propri dell’antropologia e della sociologia oltre che dell’economia, cercando di produrre una sinergia tra queste discipline. In particolare cerca di mettere in luce le modalità con cui queste forme di organizzazione sociale influenzano gli scambi economici. Con la lettura di questo lavoro si riporta l’attenzione sugli aspetti prettamente legati all’individuo, che, pur se vincolato alla sua posizione all’interno della rete sociale, 97 porta con sé caratteristiche uniche di identità. Come sostiene Burt (1995), può essere un soggetto passivo per quanto riguarda l’informazione che riceve, ma le sue opportunità di riuscire negli obbiettivi che si pone dipendono dalla sua capacità di interagire con la rete in cui è immerso e di trasformarla e svilupparla nei modi che possono essere per lui più vantaggiosi. 3.3.1 – The F-Connection: Families, Friends, and Firms and the Organisation of Exchange13 Yoram Ben-Porath è un economista e cerca di descrivere con gli strumenti di sua competenza le transazioni che si svolgono fuori dal campo di studio dell’economia. Dopo aver evidenziato il fatto che la maggior parte di questi scambi si svolge all’interno della famiglia, passa a descriverne le caratteristiche salienti cercando di mettere in luce come queste modalità di relazione influenzino le transazioni di tipo economico e interagiscano con la struttura stessa della società. L’identità degli individui impegnati in una transazione svolge un ruolo determinante nel definire le forme dello scambio. Certi scambi possono avere luogo esclusivamente tra parti che si riconoscono anche se solo unilateralmente. Questa è quella che Ben-Porath chiama “specializzazione tramite identità”. Anche questo autore è interessato a descrivere come avviene il passaggio dal livello micro dell’individuo al livello macro dei sistemi sociali. In senso lato una transazione consiste nell’attività di trasferimento dei diritti di proprietà di un oggetto tra almeno due individui o gruppi. Se si esula dalle transazioni economiche il resto degli scambi avviene in buona parte tra gruppi di parentela o di amicizia, entrambi contesti in cui l’identità dei partecipanti è ben conosciuta. 13 Ben-Porath (1980). 98 Gli scambi che si svolgono all’interno di istituzioni come la famiglia, o gruppi di amici oppure in certi contesti di lavoro condividono alcune caratteristiche, tra cui il fatto di protrarsi per periodi di tempo indefiniti, senza precise definizioni degli scopi né degli oggetti di scambio, senza un preciso bilanciamento delle quantità scambiate e spesso con lo scopo di tenere aperto il credito reciproco. Molto spesso l’appartenenza a questi gruppi influenza le relazioni di scambio anche con l’esterno poiché diventa parte integrante dell’identità del soggetto14. In questo modo l’identità costruita attraverso l’appartenenza ad un gruppo riduce i costi in termini di informazione. Una particolare estensione di questo fenomeno è quella che l’autore chiama la “moralità contestuale”, riferendosi ad esempio al comportamento di organizzazioni criminali che hanno codici di comportamento improntati al rispetto di norme all’interno del gruppo e non all’esterno15. L’identità, attraverso la sua funzione di rendere riconoscibili e quindi sanzionabili in caso di defezione gli individui e i gruppi, è lo strumento su cui viene costruita la fiducia necessaria per gli scambi. L’identità fornisce prevedibilità all’azione di scambio. L’uso dell’identità varia a seconda del contesto e dell’oggetto scambiato. Un esempio è quello del cosiddetto “mercato dei limoni” cioè il mercato delle auto usate, dove è preferibile rivolgersi ad una persona conosciuta, che quindi investe la sua identità e non ha interesse ad imbrogliare. Nel caso invece di prodotti di elevata tecnologia, che richiedono garanzie di comprovata qualità del prodotto, non è l’identità del venditore ad essere importante, ma quella del produttore, la “Firm” del titolo, appunto, perché capace di garantire rispetto alle caratteristiche legate alla competenza e ad aspetti di standardizzazione del prodotto. 14 Il mercato dei diamanti a New York si basa su questa caratteristica, in quanto l’appartenenza dei mercanti alla comunità Ebraica svolge una funzione di garanzia. 15 L’analisi fatta da Varese (2011) di cui si parla nel primo capitolo fornisce ampi esempi di come ad un comportamento illegale si associa spesso un forte codice di lealtà interno al gruppo, proprio per sopperire all’impossibilità di rivolgersi alle leggi formali e soprattutto perché qualsiasi gruppo ha bisogno di un codice di fiducia per poter esistere come tale. 99 Quanto più le transazioni sono standardizzate, più ci si avvicina alla ideale transazione di mercato e l’identità perde importanza. A questo scopo la moneta, come istituzione sociale, ne riduce il ruolo, perché il suo valore è indipendente dall’identità del venditore. Il passaggio dalla identità collettiva a quella individuale è mediato dalle norme interne al gruppo: l’appartenenza ad un gruppo determina per il soggetto l’acquisizione delle caratteristiche e l’adesione alle norme che costituiscono il biglietto da visita di tutti coloro che ne fanno parte. Ben-Porath ribadisce l’importanza del ruolo della famiglia nelle transazioni con l’esterno soprattutto nelle fasi di sviluppo dell’economia, dove il mercato non è ancora in grado di ridurre l’incertezza o non esiste una fiducia generalizzata. Lo sviluppo di una florida economia, con l’aumento della diffusione delle merci e della standardizzazione, assieme all’aumento delle transazioni di tipo economico, riduce sensibilmente il ruolo dell’identità, utilizzando prevalentemente gli aspetti fiduciari insiti nella moneta, anziché quelli legati all’identità degli individui. Quando si parla di servizi o nel caso di transazioni assicurative è però più difficile ridurre il ruolo dell’identità personale rispetto ad uno scambio di merci anche nelle società più evolute. Inoltre le economie moderne hanno sviluppato una consistente accumulazione di competenze che si traducono in capitale umano16, ed anche in questo caso l’identità permette di sfruttare le economie di scala prodotte dall’informazione, svolgendo di fatto una funzione di euristica. D’altro canto la modernità, attraverso la meccanizzazione e l’automazione, ha ridotto l’importanza dell’identità in quei settori in cui ha reso i lavoratori intercambiabili perché svolgono attività che richiedono scarse competenze, come Charlie Chaplin nel film “Tempi moderni”. 16 Ad esempio aver studiato in una università prestigiosa va a costituire l’identità del soggetto in termini di competenza, e rappresenta una qualità spendibile indipendentemente dalle capacità effettivamente sviluppate dalla persona. Rappresenta una euristica utile per ridurre i costi di una ricerca accurata per determinare le effettive qualità di un individuo attraverso prove o altro. Costituisce una garanzia e come tale viene utilizzata. 100 Nella costruzione dell’identità la famiglia svolge un ruolo centrale, sia per la funzione di socializzazione primaria, sia perché le forme della famiglia sono interdipendenti con la struttura della società e con la divisione del lavoro sociale. Dove la famiglia svolge un ruolo di assicurazione per i suoi membri, senza il supporto dello stato o del mercato, i figli ne diventano lo strumento principale, e in queste forme di organizzazione si preferisce che l’educazione dei giovani venga svolta all’interno della famiglia per evitare che si allontanino. Dove invece sono presenti sia stato che mercato e entrambi i genitori lavorano fuori dalla famiglia, l’educazione pubblica costituisce un investimento che produce ampi rendimenti perché consente di sviluppare le competenze dei figli dove altrimenti non se ne avrebbe il tempo o si dovrebbe ricorrere ad insegnanti a pagamento. Le famiglie, i gruppi di conoscenti, le imprese sono tutte istituzioni sociali che contribuiscono a costruire l’identità dei soggetti che ne fanno parte. Questa identità è fondamentale nelle transazioni e negli scambi anche se non di tipo commerciale, perché sono alla base della costruzione della fiducia, che a sua volta è requisito indispensabile perché possano aver luogo degli scambi. L’autore ha cercato di costruire un modello in cui l’organizzazione della attività sociale e la divisione del lavoro sono influenzate dall’opportunità di ridurre i costi di transazione tramite investimenti specifici negli scambi fra soggetti dotati di identità. L’opportunità di ridurre i costi di transazione facendo investimenti tra partner definiti attraverso l’identità influenza l’organizzazione sociale. In questo articolo l’autore ha illustrato come i vari aspetti dello sviluppo economico e sociale sono collegati a mutamenti del ruolo dell’identità. Un’attenzione particolare va dedicata al ruolo dell’identità nelle transazioni che hanno funzione di assicurazione. In particolare quando questa funzione viene svolta dalla famiglia è evidente il ruolo privilegiato dell’identità. Nella famiglia tipicamente questa funzione viene svolta attraverso mutui scambi, spesso dilazionati. Ben-Porath afferma che le famiglie possono diventare efficaci nello svolgere questa funzione di assicurazione, sia quando lo fanno attraverso l’aumento del numero 101 dei figli, sia attraverso legami con membri di gruppi limitrofi. Nota però che se i legami all’interno della famiglia o tra famiglie sono molto stretti, eventuali condizioni negative possono danneggiare tutto il gruppo, e non svolgere adeguatamente questa funzione di assicurazione. Lo specifico investimento nelle relazioni con gli altri è soggetto ai rischi tipici della scelta tra concentrare un grosso investimento su pochi soggetti o molti piccoli investimenti diffusi. In sintesi la prospettiva da cui guarda Ben-Porath è quella dei legami che si fondano su una identità riconosciuta tra le parti in gioco: le relazioni informali della famiglia, degli amici e del lavoro, di cui identifica l’importanza anche nei confronti dell’influenza che hanno sulla realtà economica. L’aspetto che ci introduce al capitolo successivo è quello relativo alla funzione di assicurazione che questi legami svolgono, e quindi al loro ruolo per la protezione sociale. 102 Capitolo 4 Il ruolo dei legami per lo sviluppo di comunità 4.1 – Perché i legami contano L’analisi dei precedenti capitoli ci ha permesso di delineare un’immagine della realtà in cui siamo immersi attraverso la lettura dello scheletro di relazioni che la definiscono e la sostengono. Oltre a svolgere un importante ruolo euristico nel facilitare lo studio dei meccanismi che sono alla base del suo funzionamento, le teorie precedentemente analizzate mettono in luce l’importanza delle forme di relazione nello strutturare gli esiti delle azioni e le condizioni di soddisfazione degli individui che ne fanno parte. Dopo aver compreso che i legami del tipo più vincolante, i cosiddetti legami forti, hanno perduto il loro primato nel fornire strumenti di realizzazione individuale, occorre ricontestualizzare il loro ruolo nelle nuove forme sociali che richiedono e presuppongono la possibilità di allontanarsi dalle proprie radici per poter continuare ad occupare una posizione solida all’interno del proprio gruppo di appartenenza. Considerato che non tutti gli individui si trovano a vivere nelle condizioni di elevata cultura e disponibilità economica che consentono di ricavare i migliori supporti dalla forza dei legami deboli, deve essere tenuto presente che per tutti gli altri individui, che non sono pochi, i legami che vanno a strutturare forme di comunità più vincolanti sono importanti per il benessere e per la sopravvivenza delle stesse comunità di cui fanno parte. Sono in questa situazione tutti gli individui che si trovano al di fuori della elite e che devono fronteggiare situazioni di bisogno, anche se in molti casi solo temporaneo, ma presente in alcune fasi della vita particolarmente sensibili alla presenza o meno di supporto comunitario. Queste situazioni si riscontrano ad esempio nella terza età, a causa dell’uscita dal mondo del lavoro e dell’insorgenza di patologie o semplicemente della riduzione della capacità di autonomia, oppure nella 103 fase di formazione di nuovi nuclei familiari, per la contestuale presenza solitamente di redditi non elevati insieme a forti richieste di impegno per lo sviluppo della carriera e della famiglia stessa. In certi casi quello che si viene a determinare è una vera e propria condizione di povertà, in altri il disagio, pur non concretizzandosi in condizioni di indigenza, conduce a risultati non ottimali, specialmente quando ha conseguenze sullo stato di salute degli individui, al punto che la non presa d’atto dell’importanza di questi fattori produce esiti che hanno un costo che ricade sull’intera comunità. Per questo, utilizzare gli strumenti offerti dalle reti sociali in termini di protezione dai rischi può essere un investimento che ha ricadute positive sugli individui e sulle comunità a cui appartengono. A questa ipotesi si ispirano i due articoli di Andrea Salvini e Irene Psaroudakis che vediamo di seguito. 4.1.1 – Network theories for healthier communities1 Per Andrea Salvini i meccanismi che definiscono i fattori determinanti della salute sono gli stessi che sono alla base del diffuso benessere sociale di una data comunità. L’importanza della prospettiva di rete si manifesta sia come strumento d’analisi che come strategia di intervento. In molti studi empirici si dimostra che le condizioni di salute degli individui sono fortemente correlate con la loro rete di relazioni, e con le caratteristiche dei soggetti con cui entrano in relazione, in quanto entrambi influenzano le loro scelte. Le scelte sono a loro volta influenzate dalla posizione degli individui nella rete e dalle caratteristiche della rete stessa. Negli ultimi anni la Social Network Analysis ha conquistato una posizione solida nel mondo delle scienze sociali grazie alla capacità di leggere la struttura sociale in modo coerente e metodologicamente ben fondato, che la rendono uno 1 Salvini (2011). 104 strumento adeguato da utilizzare per l’analisi del territorio e per le conseguenti politiche di intervento. Possiamo distinguere tra due dimensioni dell’analisi di rete: la prima che si occupa di descrivere i network attraverso la definizione delle loro caratteristiche, la seconda che utilizza le teorie dei network per descrivere diversi fenomeni sociali. Nel primo caso le proprietà delle reti sono usate come variabili dipendenti, nel secondo come variabili indipendenti che stanno alla base dei fenomeni osservati. L’obiettivo delle teorie delle reti è quello di descrivere e se possibile spiegare le connessioni tra la sottostante struttura sociale di relazioni e i risultati osservati e rendere conto di come le differenze nelle proprietà strutturali producano effetti sul tessuto sociale che variano per natura ed intensità. Esistono due modelli di analisi: il primo modello studia il flusso di risorse e considera la rete come una struttura di connessioni che possono facilitarne od ostacolarne il percorso; il secondo modello analizza la forma dei legami e la loro capacità o meno di sviluppare azioni coordinate tra gli individui e la formazione di gruppi che agiscono come singoli attori. È stato dimostrato che individui socialmente isolati presentano una minore capacità di resistenza e di far fronte agli eventi cruciali e sono quindi maggiormente esposti ai rischi legati allo stato di salute. I legami sociali al contrario influenzano la salute attraverso diversi meccanismi: il supporto sociale, l’influenza reciproca, l’accesso alle risorse, il coinvolgimento e il contagio. Solitamente i legami sociali si formano tra persone che hanno caratteristiche omogenee e che tendono a costruire sottogruppi coesi. In questi sottogruppi sono frequenti gli scambi di assistenza che vanno a costituire la principale forma di supporto. Anche le relazioni tra due individui, per effetto della transitività, hanno la tendenza ad andare a formare piccoli gruppi molto omogenei. In questi gruppi gli scambi sono frequenti e vi è un forte impegno in termini di tempo, tanto da non permettere l’estensione ad un numero elevato di membri. I legami che costituiscono questi gruppi sono allo stesso tempo forti e vincolanti, ma non consentono molti scambi con l’esterno, sono ridondanti e le 105 risorse scambiate tendono ad essere circoscritte. Sono i legami con l’esterno quelli che possono consentire cambiamenti nel flusso di risorse e che non sono sottoposti alle sanzioni del gruppo. È stato dimostrato che la presenza di legami forti nelle comunità che si trovano in situazioni di deprivazione possono influenzare negativamente lo stato di salute e di benessere dei suoi membri, impedendo l’allontanamento da abitudini e frequentazioni che reiterano la situazione di disagio, mentre legami deboli che siano in grado di collegare queste comunità con altri contesti, possono consentire l’accesso a risorse (di informazione, di opportunità, ecc.) che non vi sono presenti. Studi sulla relazione tra capitale sociale e salute contribuiscono a dimostrare come le differenze nelle condizioni di benessere dipendono non solo da fattori individuali ma anche dalla posizione all’interno della struttura relazionale, per cui le azioni di intervento che vogliano incrementare la loro efficacia devono essere mirate anche a rinforzare la struttura relazionale della comunità in cui i soggetti si trovano. L’articolo successivo si occupa appunto di come la prospettiva dei network ci può guidare nello strutturare azioni che siano orientate a sviluppare e mantenere comunità che possano fare da supporto a politiche di intervento. 4.1.2 – Network perspectives for community building2 Il lavoro di Irene Psaroudakis pone l’accento sul ruolo dell’attivazione di network di relazioni per la costruzione di comunità. Secondo vari autori la struttura delle relazioni sociali costituisce un valido strumento per spiegare il funzionamento delle società, molto più di quanto possano le caratteristiche degli individui che le compongono. È opinione condivisa che il “capitale sociale” sia un risorsa condivisa che appartiene alle comunità e che può essere intesa sia come il sistema di funzionamento del network, sia come l’insieme delle risorse che vengono diffuse 2 Psaroudakis (2011). 106 attraverso questo network. Il capitale sociale riguarda le relazioni sociali, pur non coincidendo con esse. La conoscenza e l’utilizzo della Social Network Analysis si rende utile per i decisori perché permette di comprendere i meccanismi di funzionamento delle comunità e di progettare interventi che siano in grado di influenzarli. La consapevolezza dell’importanza della struttura sociale può inoltre influenzare positivamente l’impegno civico e le attività prosociali. A dare valore a questa lettura interviene la prospettiva dell’Interazionismo Simbolico elaborata da Herbert Blumer (1969), che sostiene che ogni sistema sociale è fondamentalmente azione congiunta, determinata dalle azioni dei singoli attori, che nasce e si trasforma attraverso un processo di interpretazione svolto costantemente dagli attori coinvolti, attraverso l’interazione. Attualmente le dimensioni di una comunità non sono limitate da un’appartenenza territoriale, ma sono prevalentemente definite dalle relazioni tra gli attori, in questo modo un social network è uno strumento importante per il soggetto che è in grado di modificarne le caratteristiche a suo vantaggio perché rappresenta il luogo privilegiato in cui sviluppare connessioni. Un incremento delle connessioni consente un aumento delle opportunità: i benefici che ne derivano riguardano varie dimensioni di capitale sociale: strutturale, relazionale e di accesso alle risorse. In particolare allo sviluppo del network di relazioni in possesso di un individuo può essere associato un incremento nell’accesso alle informazioni, una maggiore resilienza, un incremento di status, l’accesso a pratiche innovative, anche attraverso attività collaborative, e un incremento delle performance individuali grazie appunto all’interazione con gli altri membri del gruppo. Lo sviluppo di un network migliora le performance del sistema. Inoltre l’empowerment di una comunità passa attraverso lo sviluppo di fiducia reciproca ed è sostenuto dalla possibilità di redistribuire le risorse, diminuendo l’accentramento e favorendo una maggiore diffusione del potere. La funzione di fluidità favorita dalle connessioni, che consente alle risorse di circolare all’interno del network, è fondamentale per il suo sviluppo e deve essere sostenuta da una cultura condivisa. 107 I cambiamenti sono una costante nei sistemi di rete e ciascun cambiamento genera conseguenze che devono essere incorporate adattando le dinamiche alla nuova situazione. Un network è un sistema complesso, ma non è caotico, ciò significa che è capace di attivare processi creativi e riflessivi, capaci di assicurare un potenziale livello di efficienza del sistema. La struttura determina la forma del sistema, attraverso l’assegnazione di ruoli e responsabilità e dalle sue caratteristiche di flessibilità derivano la forza e la debolezza dei suoi legami. Un punto di forza è la flessibilità di fronte ai cambiamenti, ottenuta garantendo comunque continuità e coerenza interna, la sua cultura è espressa attraverso i principi di reciprocità, di fiducia e collaborazione e la sua durata è sostenuta attraverso la capacità di mantenere un equilibrio tra risultati e innovazione. Per la creazione di una comunità sono necessarie due fasi: conoscere il network e tesserne la trama. Il punto di partenza è la riflessione sulle relazioni e sull’ambiente in cui si sviluppano, successivamente è necessario identificare l’obiettivo che coinvolge gli attori. L’equilibrio e un’adeguata flessibilità sono raggiunti solo facilitando le relazioni all’interno di una larga struttura di comunità, ciò può essere fatto attraverso l’attribuzione dei ruoli chiave come può essere la governance o la costruzione delle infrastrutture, ma tutte queste azioni devono essere orientate a favorire gli scambi e la fluidità, in modo da permettere il consolidamento della fiducia reciproca, del potenziale collaborativo e soprattutto del capitale sociale pubblico. Il passo successivo è la formazione di un sistema di network in connessione tra di loro per poter produrre un incremento delle risorse circolanti, questa azione si esplica attraverso la costruzione di nuove connessioni che traggono risorse dal capitale sociale degli altri network; gli incontri e le discussioni che servono per fare ciò contribuiscono ad accrescere il senso di partecipazione e di identificazione tra i partecipanti. 108 Inoltre una comunità si può considerare come un sistema di valori, di norme e di codici morali che facilitano la percezione di un senso comune e definiscono la sua stessa identità, per questo è necessario integrare la visione strutturale della comunità con una prospettiva interpretativa quale può essere l’Interazionismo Simbolico, per il quale l’organizzazione sociale è la cornice dentro cui si svolge l’azione degli attori. Le pratiche, il sistema e le sue trasformazioni sono in ultima analisi il risultato delle attività sociali, ma l’importanza dell’organizzazione sociale risiede nella condivisione dei significati dell’azione e nella produzione dei simboli utilizzati dagli attori per interpretare le circostanze date. Di conseguenza per attivare la costruzione di comunità è necessario investire nei legami tra gli individui che, attraverso l’interazione, diventano attivi partecipanti del network. 4.2 – Capitale sociale e processi di impoverimento3 Nei lavori di Elisa Matutini si ribadisce l’importanza rappresentata dal concetto di capitale sociale e in particolar modo dal sistema di relazioni di cui dispone l’individuo per gli aspetti relativi al proprio benessere. Il ruolo di tali sistemi è prevalentemente di difesa dai rischi anche se in talune circostanze le relazioni presenti possono costituire vincoli che limitano la capacità di azione. Per questo anche il concetto di capitale sociale è entrato a far parte degli strumenti di studio dei processi di impoverimento, in quanto fornisce una visione multidimensionale di un problema che non può essere circoscritto alla sola dimensione economica. La povertà è stata definita e studiata fin dagli esordi come un problema di scarsità di risorse, intese in termini di reddito o comunque di beni, il capitale sociale invece si caratterizza per essere una risorsa per l’azione, svincolata dal soggetto e incardinata nel sistema di relazioni del medesimo e da lui utilizzabile per il raggiungimento dei propri obiettivi. 3 Il presente paragrafo è costruito attraverso l’analisi dei lavori di Matutini (2010, 2011a, 2011b, 2011c). 109 Secondo questa lettura le caratteristiche del soggetto vengono prese in considerazione solo in un secondo momento, portando in primo piano i meccanismi di impoverimento che sono da attribuire al sistema e ridefinendo contestualmente sia le responsabilità che gli indirizzi per la soluzione. Grazie al concetto di capitale sociale vengono messe in evidenza quelle situazioni in cui la scarsità di beni è compensata dalla disponibilità di risorse accessibili attraverso le relazioni e in cui possono presentarsi dei rischi quando le variazioni del sistema relazionale arrivano a pregiudicare l’accesso o la disponibilità delle suddette risorse. Questo approccio consente di delineare più accuratamente il quadro complesso che caratterizza molte situazioni che vengono definite di povertà oscillante, e nello stesso tempo offre la possibilità di individuare le eventuali risorse da valorizzare per produrre miglioramenti. Gli eventi critici a cui ci si riferisce riguardano sia un peggioramento delle condizioni dei soggetti che forniscono le risorse agli altri membri della rete sia quei casi in cui tali legami vengono perduti ad esempio a causa di separazioni o lutti. Per descrivere in che modo si mette in luce il valore delle relazioni riguardo alla funzione di protezione si può far riferimento a tre concetti: la chiusura delle relazioni, i legami deboli e i vuoti strutturali. Come abbiamo già visto, il concetto di chiusura viene proposto da Coleman (1988), che spiega come le norme condivise si formano e vengono mantenute proprio grazie alla “chiusura” delle relazioni, cioè alla ridondanza dei legami che vincolano tra loro gli individui e che consentono un rapido passaggio delle risorse e delle informazioni, pur costituendo il principale vincolo contro le innovazioni. Questa definizione consente a Coleman di mantenere la sua teoria all’interno della Rational Choice Theory ed in conformità all’individualismo metodologico. Il secondo autore a cui fare riferimento è Granovetter (1973), che descrive l’importanza dei legami deboli per favorire l’accesso a risorse nuove rispetto a quelle presenti all’interno del gruppo di relazione, di cui sottolinea il valore per le opportunità di cambiamento e di mobilità sociale. L’autore compie un attento lavoro 110 per definire le caratteristiche dei legami e identifica la loro forza nella quantità di tempo, di intimità reciproca e di scambi che li caratterizza. Il terzo autore è Burt (1995), che attraverso la definizione di vuoto strutturale specifica il ruolo svolto dai legami deboli e i motivi della loro importanza chiarendo perché questi legami consentono a chi li possiede di svolgere un ruolo di mediazione tra le risorse possedute e quelle da acquisire, attribuendogli il ruolo di broker, cioè di nodo cruciale per l’accesso alle risorse. Per Coleman è ben connesso un network chiuso, mentre per Burt è tale un network ricco di vuoti strutturali. È evidente la necessità di operare una sintesi tra le due dimensioni per poter definire un network che abbia contemporaneamente caratteristiche di solidità e compattezza capaci di fornire scambi e sostegno ai suoi membri, e che possieda sufficienti connessioni con l’esterno in modo da poter attingere a risorse di tipo nuovo per fronteggiare le situazioni che non sono gestibili con le risorse interne. Per quanto riguarda il confronto tra legami forti e legami deboli emerge come il loro ruolo sia diverso a seconda del contesto che viene analizzato. Granovetter (1973), che compie un’indagine sui legami che hanno consentito di trovare un impiego a soggetti appartenenti ad una classe di cultura medio alta, e Grieco (1987), che svolge la stessa indagine tra operai del settore industriale in Inghilterra, giungono a conclusioni opposte: per il primo sono stati i legami deboli, mentre per la seconda sono stati i legami familiari a consentire l’accesso al lavoro. Un tentativo di formalizzazione del concetto di capitale sociale viene operato da Snijders (1999). L’autore costruisce uno strumento di indagine che chiama Position generator, con il quale, tramite questionari, si chiede ai soggetti di una rete di indicare la professione dei loro contatti, partendo dalla considerazione che il livello di capitale posseduto sarà determinato dal livello di prestigio sociale dei componenti di quella rete. Un secondo strumento, sempre ideato da Snijders (1999), è il Resource generator che ha come scopo di quantificare la effettiva possibilità di usufruire delle risorse appartenenti alla rete di conoscenze. Entrambi sono importanti strumenti 111 conoscitivi utilizzabili anche per il miglioramento dell’efficacia degli interventi di contrasto alle dinamiche di impoverimento. La natura multidimensionale della povertà è un elemento conoscitivo dato per scontato, sono quindi necessari strumenti di analisi capaci di coglierne la complessità attraverso la lettura della pluralità di fattori di natura economica e sociale che agiscono e interagiscono nella sua determinazione. Una conferma a queste ipotesi, e cioè che la deprivazione non sia da intendere solo come carenza di risorse materiali, ma come il frutto di una pluralità di dinamiche biografiche e di contesto, si trova anche in una ricerca descritta dall’autrice (Matutini, 2011a), svolta nel comune di Capannori su un campione di 100 soggetti a cui sono stati somministrati questionari tesi a determinare il loro capitale sociale attraverso l’uso degli strumenti appena descritti. Tra i risultati si è evidenziato che il numero di relazioni significative varia nel corso della vita, con un incremento legato al periodo dell’attività lavorativa e una successiva diminuzione con l’uscita dalla vita attiva. Anche il livello di istruzione influenza il numero di contatti, con una correlazione positiva tra titolo di studio dei soggetti e quantità e prestigio dei contatti medesimi. La parte più cospicua dei legami è costituita dai legami familiari, quasi sempre molto stabili e intensi per tutto il percorso di vita. Dove questi vengono a mancare si riscontrano le situazioni di maggiore criticità, e cioè tra gli anziani e le famiglie monogenitoriali. I soggetti che all’interno del campione risultano poveri in termini monetari sono anche quelli tra cui si riscontra una misura minore di capitale sociale, denunciando la presenza di dinamiche ricorsive e della difficoltà di uscire da tali meccanismi senza l’apporto di interventi capaci di migliorare la qualità e la quantità delle relazioni. La povertà si manifesta dunque come un fenomeno dai contorni sfumati, per la cui definizione è necessario un apparato complesso di indicatori anziché limitarci ad utilizzare esclusivamente la disponibilità di reddito o di risorse per misurarla. 112 Resta comunque innegabile la sua caratteristica di deprivazione, ma per poterne fare una lettura in chiave etica è necessario stabilire quali siano le dimensioni focali di cui si debba garantire la presenza. L’approccio sviluppato da Amartya Sen e descritto da Matutini (2011c) è quello che attualmente sembra in grado di fornire una prospettiva multidimensionale, poiché pone al centro delle sue analisi l’uomo, inserito nel suo contesto storico e culturale, con i suoi bisogni ma anche con le sue aspirazioni e la sua peculiare visione di benessere. Non viene negata l’oggettività e la misurabilità della condizione di povertà, anzi viene ampliata ed arricchita attraverso la considerazione delle caratteristiche individuali che fanno in modo che ad individui diversi occorrano diverse quantità e modalità degli stessi beni o opportunità perché entrambi possano giungere a trasformarli in capacità e azioni. Diventa saliente l’aspetto di disuguaglianza che si manifesta nella povertà. Quello che Sen definisce Capability Approach è un paradigma teorico e metodologico in grado di rappresentare una nuova prospettiva di analisi nell’ambito degli studi sulla povertà, che viene vista come un fenomeno culturalmente relativo e soggettivamente definito. Il tema della deprivazione è inserito a pieno titolo tra le dinamiche che sono alla base della formazione delle disuguaglianze che precedono l’insorgenza della povertà. Questo richiede però che vengano chiaramente individuate le dimensioni di cui è essenziale promuovere l’uguaglianza. Per questo aspetto il dibattito si svolge su due fronti: Sen che è a favore di una definizione autonoma di queste dimensioni di base e dall’altra parte teorici come Martha Nussbaum che, rifacendosi alla filosofia aristotelica, riconoscono l’universalità di alcune dimensioni da garantire in qualsiasi contesto. Sen difende la sua posizione argomentando un possibile effetto autoritario di una lista di dimensioni precostituita. Ritornando alla definizione di povertà a questa appartiene comunque una dimensione assoluta, secondo Sen, oltre la quale non sono garantite condizioni essenziali di vita. I comuni approcci allo studio della povertà che partono 113 dall’assunto utilitaristico però non consentono di leggere le variazioni all’interno della soglia di povertà, sia che si tratti di miglioramenti che di peggioramenti. Inoltre il possesso o l’accesso alle risorse non deve essere per Sen l’unico obiettivo di politiche miranti a migliorare le condizioni di vita degli individui: i beni sono il mezzo attraverso cui poter conseguire adeguati funzionamenti, la loro presenza non garantisce la qualità della vita dei loro possessori. Quello che è importante per gli individui sono i risultati conseguiti attraverso l’azione e in particolare i risultati da loro considerati importanti, anche se bisogna tenere presente che spesso gli individui che vivono in condizioni di forti deprivazioni hanno sviluppato la tendenza a non desiderare situazioni per loro inaccessibili e finiscono per non avere cognizione dell’importanza di certe acquisizioni fondamentali come può essere la libertà o l’accesso all’istruzione. Una prima definizione che introduce alla struttura concettuale delle capabilities viene espressa da Sen attraverso l’Assioma debole di equità, che dice testualmente: “se a parità di reddito una persona A ottiene meno benefici, perché possiede minori capacità di godimento di questo, rispetto ad un’altra persona B, allora la distribuzione ottimale del reddito deve prevedere che l’individuo A riceva più risorse dell’individuo B, al fine di eguagliare il benessere”4, assioma che viene corroborato sottolineando che non è la scarsità delle risorse a disposizione degli individui il nodo cruciale, ma la adeguatezza rispetto alle loro capacità di fruizione. Nello stesso tempo le risorse accessibili (commodities) non sono il fine, ma il mezzo che consente di ottenere i funzionamenti (functionings) che rappresentano l’opzione effettivamente realizzata tra le varie opportunità che sono potenzialmente realizzabili per l’individuo (capabilities). Quindi per Sen è povero non solo colui che non possiede mezzi adeguati per soddisfare i propri bisogni, ma anche e soprattutto quell’individuo che non ha accesso ai funzionamenti relativi alle capacità che devono essere ritenute fondamentali. Solo mediante la promozione delle capacità individuali si riuscirà a rompere la relazione di dipendenza, subalternità e passività che caratterizza la condizione di 4 Cit. in Matutini 2011c, p.60. 114 povero (Matutini, 2011c, p. 159), e in questa azione hanno un ruolo centrale le politiche pubbliche. I processi di impoverimento e la formazione delle disuguaglianze maturano all’interno dello spazio delle possibilità; quest’ultimo, a sua volta, trova la sua ragione di essere nell’ambito delle libertà, intese come la capacità di conseguire i funzionamenti desiderati. La lotta alla povertà deve quindi, inevitabilmente, passare per la via della promozione delle capacità e delle libertà a disposizione dell’individuo per realizzare lo stile di vita al quale egli attribuisce valore (Matutini, 2011c, p. 164). 4.3 – La diseguaglianza – Un riesame critico5 Per Amartya K. Sen l’origine di molte problematiche sociali va studiata attraverso l’uso del concetto di disuguaglianza. Come evidenziato nei lavori di Matutini è un passo indispensabile per questo approfondimento la definizione di quali siano gli ambiti in cui valutare la disuguaglianza. Sen ribadisce che gli indicatori economici svolgono un ruolo non trascurabile nella definizione degli stati di deprivazione ma ne evidenzia i limiti. Nella sua analisi il contesto in cui gli individui sono inseriti svolge un ruolo fondamentale, sia per la definizione delle qualità focali di cui valutare la presenza e l’equa diffusione, sia per i significati che gli individui vi attribuiscono, sia per le norme condivise che in molti casi influenzano la reale possibilità di trasformare le risorse in funzionamenti. Le relazioni svolgono un ruolo non indifferente nel determinare il livello di star bene (well-being) di ciascuno. Utilizzando il concetto di capacità (capabilities) possiamo effettuare una valutazione che si svincola dai limiti degli indicatori economici ed è in grado di leggere l’interazione dei beni disponibili con le caratteristiche specifiche dell’individuo per mettere in luce il modo in cui viene influenzata la concreta possibilità di trasformarli in risultati. 5 Sen (2000). 115 Anche il concetto di libertà in questa lettura assume nuove valenze: viene primariamente indicata come libertà di scelta, valore indiscutibile che diventa elemento discriminante nei casi in cui si giunga a funzionamenti uguali ma con motivazioni opposte. L’esempio che porta a questo proposito è di due persone che digiunano: una per scelta, l’altra perché non ha cibo; mentre nel primo caso l’individuo ha la libertà di scegliere il digiuno ma anche il suo opposto, nel secondo caso non ha questa opzione ed è obbligato a digiunare. Nello stesso modo un individuo affetto da un problema metabolico, pur avendo i mezzi per nutrirsi, potrebbe essere costretto a digiunare. Un altro metodo usato per confrontare lo stato degli individui è il criterio dell’utilità, che può essere misurato solo tramite indicatori in genere di tipo psicologico, che sono difficilmente quantificabili e soggetti alle variazioni dovute a fattori ambientali quali le norme condivise o la storia pregressa. Un esempio di questi indicatori è rappresentato dai desideri; anche in questo caso, un individuo che non ha mai conosciuto una condizione di libertà intesa come autodeterminazione o che ritiene che le sue caratteristiche non la rendano possibile, anche per il ragionevole scopo di non esporsi a desideri irrealizzabili che gli causerebbero solo sofferenza, non identificherà tale bisogno tra i suoi desideri. Anche se lo scopo degli individui è lo star bene (well-being), conseguito attraverso le loro capacità di agire (agency), i due concetti devono essere tenuti distinti: non sempre la volontà di agire conduce l’individuo a star bene, ad esempio in quei casi in cui la sua azione, mirata a conseguire risultati comunitari, produca nell’immediato un peggioramento della sua qualità della vita. In questo caso il riferimento può essere agli attivisti politici che lottano per l’acquisizione di diritti della loro categoria e per questa loro attività rischiano di perdere la libertà o la salute se vengono arrestati o feriti. Altra distinzione interessante è quella tra libertà e controllo: la delega di certe attività ad altri enti, pur riducendo il controllo dell’individuo su tali attività, non riduce il benessere degli individui, e in alcuni casi lo può addirittura aumentare, se gli consente di dedicarsi ad altri compiti nel tempo che avrebbero dedicato al controllo e gli esiti prodotti da chi controlla sono esattamente quelli che il soggetto 116 avrebbe preferito. L’esempio è riferito al controllo delle epidemie, svolto dalla comunità anziché dagli individui, ed è evidente il vantaggio che si ricava dal non esercitare singolarmente tale controllo. Sen fa riferimento alla teoria della giustizia di Rawls e in particolare al concetto di eguaglianza di opportunità e alla definizione di beni primari, di cui non contesta la validità ma di cui ribadisce i limiti, sostenendo che, data la premessa che tutti gli individui sono diversi nella loro capacità di trasformare beni e opportunità, ne discende che tale uguaglianza non ci garantisce uniformità di possibilità, e per questo suggerisce che i confronti devono essere svolti nello spazio dei funzionamenti (functionings), per poter avere un quadro più complesso della realtà analizzata. Molte analisi della disuguaglianza utilizzano il concetto di “linea di povertà” allo scopo di determinare l’effettiva situazione di deprivazione di una società. In realtà secondo Sen questo strumento serve solo a contare i poveri, ma non ne definisce le caratteristiche. Questo indicatore non è in grado di determinare se chi sta sotto la soglia di povertà si trova immediatamente sotto, e quindi ad un passo dal tornare sopra, o ben lontano dal limite, trovandosi così in una condizione di indigenza inaccettabile. Non consente inoltre di leggere tutte le variazioni che avvengono al di sotto della soglia di povertà. Per una lettura più accurata del fenomeno suggerisce l’utilizzo di più indici, combinati tra loro, tra cui il coefficiente di Gini, da considerare sempre nell’ambito della povertà intesa come basso reddito, in modo da tenere conto sia della quota di individui che si trova sotto la soglia, della loro distanza dalla soglia e della distribuzione del reddito tra i poveri. La difficoltà di descrivere e misurare la povertà risiede nel fatto che la sua concreta declinazione dipende in molte società anche da aspetti valutativi. È inoltre subordinata allo scopo che ci si prefigge: se soltanto descrittivo o anche di politiche pubbliche di intervento. Per questi motivi il reddito come misura di povertà risulta inadeguato: non è la misura assoluta di reddito a determinare lo stato di indigenza ma la sua adeguatezza al contesto, ai bisogni e alle reali capacità di convertire il reddito in funzionamenti da parte del soggetto. 117 Sen compie una interessante analisi della povertà nei paesi ricchi, dove si confrontano misure assolute di reddito con i funzionamenti e si rilevano fenomeni interessanti che conducono ad ammettere che il benessere non è identificabile con le misure di reddito. Indicatori come l’aspettativa di vita non sempre covariano con il reddito, anzi si hanno situazioni paradossali in cui società definite povere in termini assoluti hanno una soddisfacente situazione dal punto di vista degli indicatori non economici, e al contrario società affluenti manifestano situazioni in cui, pur in presenza di livelli accettabili di reddito le condizioni di vita sono nettamente inadeguate ad essere definite di benessere. Gli esempi in questo caso sono della regione indiana del Kerala, in cui una tradizione di alfabetizzazione estesa anche alle donne che risale al diciannovesimo secolo, assieme a politiche pubbliche e sanitarie, ha prodotto l’esito di una dignitosa aspettativa di vita e di salute, migliore di quanto si riscontra tra gli individui di colore in alcune città americane, dove il reddito è nettamente superiore, ma le condizioni di criminalità, l’analfabetismo e l’assenza di un valido sistema sanitario, riducono enormemente l’aspettativa di vita. Questo tema è particolarmente caro a Sen, proprio per le sue origini dall’India, paese in cui le differenze di casta producono effetti non trascurabili sui comportamenti e il benessere degli individui. In particolare ha avuto risonanza mondiale la sua analisi della condizione delle donne, con cui ha evidenziato che in molti paesi sottosviluppati il rapporto numerico tra maschi e femmine scende di alcuni punti sotto il valore determinato dalle differenze biologiche e di sopravvivenza alla nascita. In questo testo Sen si limita ad attribuire la responsabilità di questo fenomeno al diverso accesso alle risorse e alla nutrizione, spesso legato all’accettazione da parte delle vittime di tali discriminazioni delle loro condizioni, non solo le donne ma anche gli individui appartenenti alle caste basse, che ritengono di non aver diritto di opporsi al proprio destino. Per questo Sen ribadisce l’importanza del sistema di relazioni nel determinare le aspirazioni degli individui e le loro realizzazioni, in sintesi del loro capitale sociale. 118 Da tutta l’analisi di Sen sulla diseguaglianza emerge il ruolo importante svolto dal contesto sociale e dalle relazioni, non solo nel breve accenno al capitale sociale, ma lungo tutta la sua riflessione torna costantemente l’attenzione alle caratteristiche dei soggetti, che si esplicano anche attraverso le loro relazioni, e che determinano la possibilità di trasformare le capacità in funzionamenti. 4.3.1 – La diseguaglianza nella rete, alcune considerazioni Possiamo tentare una lettura in parallelo tra la definizione di libertà come controllo di Sen e la descrizione di Burt (1995) relativa ai vuoti strutturali. Se intendiamo la libertà come la capacità di controllare gli eventi (e quindi le relazioni) in cui siamo immersi è immediato il richiamo al concetto di ridondanza. Se per Burt è essenziale che i legami siano numerosi ma non ridondanti per consentire ai soggetti la maggior gamma di opportunità possibile con i vincoli di tempo dati, nello stesso modo l’analisi di Sen suggerisce che sia da considerare e scegliere il tipo di attività su cui è più utile e necessario poter esercitare personalmente il controllo, e lasciar perdere quella vasta gamma di attività in cui tale compito sottrarrebbe risorse che, delegandolo, possono essere utilizzate in modo più produttivo per il soggetto. L’analisi di Burt propone la possibilità per l’individuo di allargare il suo controllo sull’ambiente attraverso il maggior numero di legami non ridondanti anziché ridurlo. In entrambi i casi quello che viene ritenuto di primaria importanza è l’estensione del “controllo” effettuabile, piuttosto che la sua “potenza” riferita ad una limitata attività6. Sen ritiene che sia una premessa fondamentale il fatto che i soggetti a cui viene delegato il controllo e il soggetto dell’azione abbiano la medesima finalità. In effetti la libertà intesa come controllo si può attuare attraverso la condivisione delle 6 Sen, come già detto, fa l’esempio del controllo della diffusione delle epidemie: poter delegare ad un organismo pubblico questo ruolo, oltre a permetterne una maggiore efficacia, libera l’individuo da un carico di compiti che paralizzerebbe la sua restante attività. Nello stesso modo i legami ridondanti, così come definiti da Burt, non lascerebbero spazio per i legami che attraversano vuoti strutturali e forniscono risorse aggiuntive. 119 norme. Le stesse norme che interagiscono con la possibilità di trasformare le risorse possedute dagli individui in funzionamenti. Un’altra interessante analogia con la teoria dei funzionamenti di Sen possiamo ricavarla utilizzando i risultati che Granovetter (1973) e Grieco (1987) hanno ottenuto nelle loro ricerche sulle tipologie di legami utilizzati per trovare lavoro in due diversi contesti sociali. Come già evidenziato Granovetter trova che il vantaggio informativo fornito dai legami deboli è la caratteristica che determina il successo nella ricerca di lavoro per i professionisti che operano in settori ad elevato contenuto culturale e specialistico. Per questi soggetti i legami deboli, ricchi di vuoti strutturali, consentono di trasformare le potenzialità (culturali, professionali, specializzate) nel funzionamento richiesto, cioè diventare titolare di un contratto di lavoro. La particolarità da tenere presente è che i legami deboli sono i legami tipici di contesti lavorativi di elevata specializzazione. Grieco invece trova che tra gli operai non specializzati (o nelle catene migratorie) sono i legami familiari, cioè quelli forti, a svolgere la loro funzione di supporto e sono questi i legami che facilitano l’inserimento nel mondo del lavoro. Entrambi i tipi di legame consentono la concretizzazione di capacità in funzionamenti, ma sono specifici sia per i soggetti che li utilizzano, sia per il tipo di funzionamenti a cui danno accesso. Entrambi i soggetti possiedono entrambe le tipologie di legame, ma in differente proporzione, quello che cambia è la loro possibilità di utilizzarli, e che Sen attribuisce alle diverse caratteristiche del soggetto. Infatti i legami deboli sono scarsi e inefficaci per i gruppi sociali meno abbienti, per i quali sono i legami forti quelli che possono produrre informazioni utili. Al contrario, nei gruppi sociali benestanti i legami forti, che appartengono ugualmente alla cerchia familiare, non forniscono informazioni nuove rispetto a quelle già possedute, mentre quelli deboli, che sono maggiormente presenti rispetto alle classi più deboli, consentono un allargamento dell’ambito in cui vengono raccolte le informazioni. È evidente anche una gerarchia nella qualità del potere informativo dei legami, che aumenta nel passaggio da forti a deboli, ma la capacità di sfruttarne le 120 potenzialità è presente per i soggetti che hanno caratteristiche individuali che consentono loro di utilizzarli, mentre questa capacità è assente per i soggetti più deboli, che anche se messi al corrente delle informazioni necessarie, spesso non hanno le caratteristiche per poterle utilizzare7. Questa constatazione ci riporta alla domanda iniziale di Sen: se esistono caratteristiche che modificano in modo così sensibile la possibilità di conversione di risorse in funzionamenti da parte degli individui è innegabile che ci si debba chiedere di che cosa si debba garantire l’uguaglianza, per poter garantire a chiunque un livello minimo di acquisizioni. L’interesse di Sen è rivolto anche a svincolare la valutazione della diseguaglianza da considerazioni esclusivamente di tipo economico, proprio perché non è insolito trovare contesti in cui la struttura sociale determina i funzionamenti in modo indipendente dalle risorse materiali possedute. Questa è una implicita affermazione che le risorse relazionali e di contesto svolgono un ruolo più importante e determinante di quelle economiche, o che è almeno indispensabile una sinergia tra le due tipologie di risorse. Il tipo di sinergia sarà determinante per il risultato, perché se non è orientata al sostegno sociale produce l’esito paradossale della povertà in condizioni di affluenza. È implicito il ruolo delle politiche sociali e delle norme sottostanti, che devono guidare il processo in direzione di valorizzare il benessere degli individui, che si trovano sempre inseriti nel loro contesto ed in interazione con esso. 4.4 – Dal tempo della diseguaglianza alla vulnerabilità La sempre più veloce evoluzione dei sistemi sociali verso una costante frammentazione assieme ad una tendenza a ridurre gli spazi e le distanze attraverso 7 Possiamo fare un esempio: un giovane in cerca di lavoro, con il livello minimo di istruzione, può apprendere facilmente il lavoro di muratore attraverso l’apprendistato, e può venire introdotto a svolgere questa attività da un parente che già fa questo mestiere, ma se viene informato della ricerca di tecnici informatici in una azienda del suo quartiere da parte di amici o conoscenti, non può sfruttare questa informazione perché non ha la preparazione adeguata per essere assunto. 121 quel fenomeno che viene definito globalizzazione ridefinisce gli scenari del disagio a cui fare riferimento quando si vogliano attuare politiche di intervento. Si passa in questo modo dal tema della diseguaglianza, caro a Sen, alla necessità di definire le problematiche sociali attraverso un nuovo concetto capace di metterne in luce gli aspetti salienti. La diseguaglianza è il tema su cui si scontrano e su cui lavorano gli individui immersi in una società che mantiene la sua forma in un ordine temporale comunque lungo e che consegna immagini di staticità e continuità. La diseguaglianza è un tema da risolvere in un contesto in cui il divario tra chi sta bene e chi no resta immutato o ha caratteristiche di solidità, in cui i parametri da confrontare sono costanti nel tempo e permettono di misurare gli spostamenti prodotti. In contesti come questo il disagio si esprime attraverso la scarsità: di risorse, di libertà, di opportunità, da cui la necessità di aumentarne la disponibilità per chi ne è privo. Questo quadro si adatta ad una società salariale, in cui il raggiungimento di un equilibrio di base per le fasce più deboli della popolazione incoraggia la richiesta di miglioramento da raggiungere attraverso un aumento quantitativo delle risorse cruciali. Ma la società salariale, con le sue iniquità e con il suo carattere di forte prevedibilità, non è più la realtà dominante. La crisi delle economie fordiste ha prodotto un nuovo scenario sociale che si definisce attraverso la flessibilità, intesa come continuo mutamento e assenza di radici. L’elevata competizione globale spinge i sistemi produttivi a confrontarsi su orizzonti illimitati e questo determina la richiesta della massima adattabilità agli individui che vi operano. La ricchezza delle nazioni non ha più la solidità descritta da Adam Smith ma è sottoposta alle fluttuazioni del mercato globale. La mobilità delle persone si esprime attraverso migrazioni sempre più diffuse. Le comunità si disgregano in questo moto continuo che tende all’entropia. Per gli individui questo stato di cose è fonte di profonda insicurezza e si manifesta attraverso la richiesta di sempre maggiore controllo, identificando la 122 richiesta di sicurezza con l’ordine sociale. La mancanza di prevedibilità genera infinite paure, alcune delle quali estremamente concrete. Il lavoro, strumento di emancipazione per eccellenza, non ha più le caratteristiche di durata e di affidabilità che possedeva nella struttura precedente della società, la sua precarizzazione rende gli individui privi di quella rete su cui costruire il proprio progetto di vita e disgrega le comunità impoverendole, non solo attraverso una diminuzione dei mezzi a disposizione, ma soprattutto attraverso la frantumazione di quei legami su cui si fondavano. In questo quadro diventa saliente il concetto di vulnerabilità per la definizione di politiche di intervento. 4.4.1 – Rischio, vulnerabilità, sicurezza8 L’insicurezza generata dalla fragilità dei sistemi economici e dalla mancanza di prevedibilità nei progetti di vita degli individui produce come effetto una grande richiesta di sicurezza, intesa come ordine sociale, come difesa del patrimonio, che come contraltare costruisce capri espiatori nelle figure degli estranei. Le politiche volte a fornire sicurezza attraverso misure di polizia non riescono però a restituire la pace perduta, che andrebbe invece ricercata attraverso la costruzione di consenso attivo e partecipazione. La modernità avanzata, il tempo in cui viviamo, viene definito attraverso i concetti di rischio, vulnerabilità e insicurezza. Queste dimensioni in realtà sono condizioni universali nell’esperienza umana che adesso hanno ottenuto un posto di primo piano. L’espansione delle possibilità e il processo di individualizzazione hanno caricato gli individui di infinite possibilità a cui corrispondono altrettante responsabilità. Soprattutto in caso di insuccesso non è più possibile fare appello alle categorie di sfortuna o destino, ma solo di responsabilità. Questo determina un carico eccessivo di scelte e di decisioni per l’individuo, da cui deriva la definizione di 8 Ciucci (2004). 123 “Società del rischio”. Questo aumento degli spazi di libertà ha privato gli individui non solo dei vincoli a cui volentieri hanno rinunciato, ma anche dei meccanismi sociali che ne garantivano la sicurezza. La prospettiva pubblica si sposta dall’idea del futuro intesa come progresso ad una ricerca di garanzie contro il rischio di un futuro reso incerto dalla precarizzazione del lavoro e dalla perdita delle reti di sostegno relazionale, tra le quali occupa un posto di primo piano la famiglia. Nasce così la definizione di “vulnerabilità sociale” intesa come precarietà di accesso alle risorse assieme alla perdita del supporto delle reti sociali. La vulnerabilità è caratterizzata principalmente dalla fragilità dell’inserimento nei sistemi di integrazione sociale e di distribuzione delle risorse, quali sono il lavoro e i sistemi di welfare oltre alle reti relazionali. Soprattutto le donne e i giovani vengono limitati nelle loro opportunità di progettarsi o di attribuire senso ai propri percorsi di vita. In particolare il sistema di welfare è stato costruito sui rapporti di lavoro a lungo termine e sulle figure tipiche della società salariale, tanto che nella società attuale gruppi sempre più ampi di individui ne restano esclusi. Questo fenomeno non esclude la disuguaglianza, anzi la amplifica assieme al costante aumento della vulnerabilità. La famiglia svolge un ruolo centrale in Italia nel proteggere dalla vulnerabilità i suoi appartenenti. Il reddito principale del capofamiglia garantisce per tutto il nucleo valorizzando i redditi accessori anche se precari e costituisce il principale vettore per il mantenimento delle disuguaglianze attraverso la riproduzione delle situazioni di partenza. La sua criticità si manifesta attraverso l’assenza: quando viene a mancare il suo supporto diventa più gravida di conseguenze la precarietà lavorativa. Il rischio di scendere sotto la linea di povertà diventa concreto per sempre più ampi settori sociali. Il tipo di risposta delle politiche sociali per contrastare i fenomeni di povertà consiste di due modalità: trasferimenti monetari o erogazioni di servizi. I primi fondano la loro efficacia sul modello tradizionale di famiglia con la differenziazione dei ruoli di cura e di produzione del reddito secondo il genere. I secondi sono più efficaci nel rispondere ai bisogni anche di nuovi modelli di 124 famiglia. L’efficacia degli interventi è però legata alla possibilità di integrare entrambe le modalità insieme alla capacità di promuovere una attiva responsabilizzazione dei soggetti (Ciucci, 2004, p. 27). Fino agli anni ’80 in Italia il modello di sicurezza si è fondato su un modello di famiglia che prevedeva una netta separazione dei ruoli di cura e di sostegno economico, svolgendo anche la funzione di redistribuzione delle risorse al suo interno. La vulnerabilità è risultata strettamente legata alla composizione familiare ed in particolare alle necessità di cura e al loro bilanciamento con le possibilità di produzione di reddito, essendo il lavoro di cura alternativo al lavoro remunerato. In particolare sono risultati soggetti deboli le donne, i giovani e gli anziani. Le donne perché concentrate sul lavoro di cura non retribuito e quindi a rischio di povertà in caso di perdita del legame coniugale. I giovani perché la possibilità di restare a lungo in famiglia costituisce lo strumento principale di emancipazione attraverso una formazione capace di condurre a situazioni lavorative maggiormente remunerative. Gli anziani perché la possibilità di contare sulla rete familiare costituisce, oltre che una fonte di gratificazione non sostituibile, la migliore protezione dagli eventi avversi e dalla perdita di autonomia legata al processo di invecchiamento. In particolare anche a seguito della modifica nella struttura demografica della nostra società si è andati incontro ad una crisi fiscale, legata alla difficile sostenibilità economica del sistema pensionistico. In ogni caso a parità di reddito si riscontra nel nostro paese che la rete di relazioni familiari costituisce la discriminante per la qualità della vita degli anziani. Il tema della vulnerabilità sopravanza il tema della disuguaglianza con la crisi della società salariale. Le disuguaglianze presenti in una economia basata sul lavoro salariato, soprattutto nella fase di espansione attraversata tra gli anni ’50 e ’80 del secolo scorso, lasciavano spazio ad aspettative egalitarie e di mobilità ascendente. Il dilagante processo di “decomposizione della società salariale” ha spostato il fuoco dell’attenzione dalla stabilizzazione sociale attraverso la riduzione delle disuguaglianze alla politica riparatoria dei processi di degradazione del lavoro 125 salariato. … La lotta alla povertà e all’esclusione sostituisce le rivendicazioni di riduzione delle disuguaglianze (Ciucci, 2004, p. 30). Il declino dell’interesse delle scienze sociali e delle politiche di intervento nei confronti della disuguaglianza si manifesta in un momento storico che ha visto un acuirsi delle disuguaglianze senza precedenti. Questo processo si è accompagnato ad un aumento delle rivendicazioni delle differenze al fine di ottenere interventi riparatori, rivendicazioni che però sanciscono la rinuncia a politiche universalistiche di riduzione delle disuguaglianze. In questo dibattito si inserisce a pieno titolo la teoria dei funzionamenti elaborata da Sen (2000) con la quale si tengono assieme la finalità di ridurre le disuguaglianze con la necessità di mantenere viva l’attenzione sulle caratteristiche individuali che agiscono come amplificatori di disuguaglianza. L’interazione tra disuguaglianze e differenze produce una cumulazione degli effetti e un costante aumento del divario tra svantaggi e privilegi. Si assiste ad una istituzionalizzazione della precarietà lavorativa, all’erosione dell’universalismo delle garanzie e all’indebolimento delle reti sociali. Il sentimento collettivo di insicurezza che ne scaturisce può essere ammortizzato soltanto attraverso il suo riconoscimento ed una corretta attribuzione delle cause determinanti. L’insicurezza è il prodotto di processi sociali fondamentali che conducono ad una perdita di valore della fedeltà e dell’impegno reciproco, degli impegni a lungo termine e della territorialità. Per reazione questo capitalismo globale e flessibile ha prodotto in modo imprevisto un rafforzamento del valore dei luoghi e del desiderio di appartenenza ad una comunità, ha prodotto cioè un bisogno di comunità. Le relazioni hanno assunto nuove forme estremamente fragili e questo le rende incapaci di generare una fiducia in grado di compensare il senso crescente di insicurezza, che può essere contenuto attraverso l’esperienza del “noi” e l’accettazione della dipendenza reciproca, unica forma di legame in grado di ricostituire vincoli sociali solidi e positivi. In questo processo deve essere accolta e superata la vergogna che deriva dalla dipendenza e deve essere accettato il conflitto, ineliminabile componente delle dinamiche sociali, frutto del confronto tra le 126 differenze. Paradossalmente trova la sicurezza una società in cui le comunità e i gruppi sono disponibili ad avventurarsi nell’insicurezza dei tanti “noi” parziali, coinvolti in un confronto esteso e mai concluso (Ciucci, 2004, p. 37). I temi della vulnerabilità e della sicurezza devono essere affrontati a livello globale, perché è lì che affondano le loro radici e perché il potere capace di governare questi processi è extraterritoriale e la politica locale si rivela inefficace: bisogna richiamare dall’esilio l’universalismo. 127 Conclusioni 5.1 – Una sintesi del percorso In questo viaggio alla scoperta dei legami ho attraversato epoche storiche e teorie diverse, paesi lontani e mondi vicini, sono stata incuriosita dalla laboriosità dei pratesi e dalla coesione delle famiglie mafiose. Il collage di documenti così disparati che ne è venuto fuori rischia di far perdere di vista il filo logico suscitato dalla domanda che mi ero posta, per questo ritengo necessario farne una sintesi che ne riepiloghi le connessioni. L’analisi è iniziata con la descrizione della ricerca di Banfield (1958) su Montegrano perché mi sembrava opportuno partire da quelle condizioni di arretratezza in cui i legami non riuscivano ad affermarsi come strumento di coesione sociale, ma sia le conclusioni dell’autore che il quadro descritto conducevano ad una assenza di prospettive che non mi sono sentita di condividere. Per questo ho cercato conforto nel lavoro di uno studioso autorevole che descrivesse una situazione di altrettanto innegabile arretratezza, in questo caso per motivi storici: l’analisi sociologica ante litteram che svolge Machiavelli (1513) sulla realtà italiana del suo tempo induce infatti a pensare in termini più ottimistici riguardo alla possibilità degli uomini di intervenire sul proprio destino attraverso un’organizzazione sociale che consenta lo sviluppo delle arti e dei commerci. L’importanza della rete di relazioni all’epoca dei Comuni è poi messa in evidenza dalla ricerca di Padgett e Ansell (1993) sull’ascesa al potere di Cosimo dei Medici. Dopo aver evidenziato il legame tra l’arretratezza e l’inefficienza del tessuto sociale, l’altro tema su cui si è diretta la mia attenzione per comprendere le condizioni in cui i legami non svolgono appieno la loro funzione è stato quello della parzialità: quando i legami non interessano tutto il tessuto sociale e quindi sono in grado di apportare benefici solo ad alcuni gruppi di individui. Il testo di Varese (2011) fornisce uno spaccato delle modalità di sviluppo e movimento dei gruppi mafiosi, in cui i legami sono elemento fondamentale di esistenza e di sopravvivenza, e il corposo studio di Eisenstadt e Roniger (1984) 128 mostra le modalità di costruzione e estensione della fiducia attraverso i legami clientelari in varie parti del mondo, offrendo un quadro esaustivo della diffusione di questo tipo di legami e del loro ruolo a supporto dello sviluppo economico e sociale. La ricerca di Putnam (1993) sulle Regioni italiane, pur restando ancorata all’ipotesi che la storia passata sia determinante per lo sviluppo futuro, fornisce una ampia visione delle diverse realtà sociali che si ritrovano a varie latitudini nella nostra penisola e nello stesso tempo mostra gli effetti delle diverse condizioni di coesione sociale. In tutto il primo capitolo il filo conduttore delle varie ricerche è il ruolo che la famiglia, intesa come gruppo di appartenenza e discendenza, svolge nella struttura sociale, divenendo spesso il fulcro attorno a cui ruota quasi sempre la suddivisione in ruoli e gerarchie. Il passaggio successivo ci conduce ai comportamenti virtuosi che producono effetti nel tessuto economico delle società. Un esempio di questi è il fenomeno che è stato definito della “Terza Italia”, cioè di quella realtà di piccole imprese che attraverso la coesione sociale e una fitta struttura di interazioni e di norme che guidano la collaborazione riesce a produrre benessere diffuso in varie parti d’Italia. Le considerazioni su questa realtà prendono lo spunto dal lavoro di Nesi (2010), testimonianza autobiografica che affronta il tema da un punto di vista molto personale e soprattutto molto attento all’esperienza individuale che accompagna certe trasformazioni sociali. Le conclusioni dell’autore sono disincantate e poco propense all’ottimismo, ma ci introducono i temi successivi: l’importanza di sviluppare coesione sociale attraverso strumenti flessibili, in grado di accogliere i cambiamenti pur favorendo la continuità con il passato. Diventa importante sottolineare il ruolo della fiducia nella costruzione delle società moderne, che viene vista attraverso la sintesi di Roniger (1992). Fiducia che diventa il precursore di quello che da vari autori, dopo Coleman (1988, 1990) viene definito capitale sociale. Il ruolo del capitale sociale, che include di diritto i legami tra gli elementi che lo compongono, è innegabile. Le sue definizioni possono variare per alcuni aspetti e per la descrizione degli effetti che gli possono essere attribuiti, oltre alla possibilità di 129 distinguere che cosa è capitale sociale e che cosa non lo è, ma resta fondamentale la sua funzione di concetto capace di descrivere una serie di comportamenti virtuosi che producono effetti benefici sullo sviluppo economico e sociale. Queste conclusioni derivano dalla lettura di vari autori, oltre il già citato Coleman, tra cui gli italiani Bagnasco (1999, 2010) e Mutti (1998). Il concetto di capitale sociale ha appena acquisito uno status autorevole che Putnam (1995) ne annuncia la decadenza: i giocatori di Bowling non fanno più squadra e questo fatto viene interpretato come il sintomo di una progressiva disgregazione sociale. Questo in sintesi il filo logico del secondo capitolo, che ruota attorno ai legami che supportano i settori dello sviluppo economico e politico delle società. Riprendendo il tema del cambiamento emergono due tematiche contrapposte: quella della globalità, favorita dalle comunicazioni, e quella della disgregazione in tanti piccoli mondi. Lo strumento di analisi per eccellenza è lo studio delle reti sociali, perché ci permette di descrivere sia la visione macrosociale che quella microsociale. Il lavoro di Travers e Milgram (1969) sul problema del piccolo mondo dà l’avvio al dibattito sul livello di connessione tra individui, ma le loro entusiastiche conclusioni non sono pienamente supportate dalle evidenze, come precisa Kleinfeld (2002), mentre Wellman (1999) è più attento a valutare gli aspetti di cambiamento della struttura sociale che accompagnano certi fenomeni, nell’ottica di coglierne le potenzialità e le prospettive future più che emettere un verdetto di qualità. La struttura sociale sta cambiando velocemente, grazie alla tecnologia e allo sviluppo delle comunicazioni. La condivisione di uno spazio circoscritto non è più la sede dello sviluppo di legami comunitari. Devono essere studiati nuovi strumenti capaci di leggere la realtà sociale, capaci di identificare il valore delle nuove forme di legami e il loro ruolo nella produzione di coesione: Granovetter (1973) e Burt (1995) sono gli autori analizzati a questo punto, di cui si descrivono i contributi riguardanti le specifiche caratteristiche dei legami che li rendono efficaci nell’azione di promozione delle potenzialità degli individui e cioè la loro forza (in questo caso la loro debolezza) e la presenza di vuoti strutturali. 130 L’ultimo autore analizzato nel capitolo, Ben-Porath (1980), mi ha colpito perché produce una sintesi dei temi che ho analizzato in precedenza, portando in primo piano la funzione di costruzione dell’identità che si esplica attraverso la famiglia e le relazioni di amicizia e di lavoro. Questo autore attribuisce all’identità così costruita un ruolo importante negli scambi, perché la ritiene elemento costitutivo della fiducia necessaria a garantirli. In questo caso è importante sottolineare il fatto che l’identità degli individui deriva dall’appartenenza dei medesimi ad una comunità di cui ne rafforza e ne condivide le caratteristiche. Dopo questa lunga carrellata sulla forma e il ruolo dei legami è necessario spiegare perché i legami sono importanti e a quale scopo possono servire. A mio avviso i legami possono rappresentare la doppia elica del tessuto sociale: il codice da leggere per comprendere gli esiti delle azioni ed eventualmente influenzarne il corso. Ci supportano in questa visione Salvini (2011) e Psaroudakis (2011) che ripercorrono gli aspetti salienti della Social Network Analysis e dell’Interazionismo Simbolico e l’importanza dello studio e dello sviluppo delle reti sociali per l’attuazione di politiche di intervento orientate al miglioramento delle condizioni degli individui. La loro riflessione parte dall’idea che la comunità, o comunque la rete di relazioni di cui ciascun individuo fa parte, costituisce il terreno su cui viene costruita la qualità della vita, e ci introduce al tema del disagio sociale e soprattutto dei processi di impoverimento, studiati attraverso la prospettiva del capitale sociale, che si rivela essere uno strumento privilegiato anch’esso per definire in modo più accurato le caratteristiche del fenomeno povertà. Attraverso le sintesi di Matutini (2010, 2011a, 2011b, 2011c) possiamo vedere come la povertà sia un fenomeno multidimensionale, di non facile definizione, nei confronti della quale il compito di misurarne l’effettiva presenza si scontra con la difficoltà di descriverne le molteplici sfaccettature e con la ricerca di indicatori capaci di superare i limiti di quelli economici, ormai da tempo riconosciuti inadeguati a descrivere il problema in tutta la sua complessità. Matutini ci introduce i lavori di Sen (2000), studioso a cui nel 1998 è stato conferito il premio Nobel per l’economia proprio per i suoi studi sulla povertà anche 131 nelle società affluenti. Il testo preso in considerazione tratta specificamente il tema della diseguaglianza, per procedere con la definizione degli aspetti di equità che devono essere garantiti per migliorare le condizioni degli individui nella società. L’analisi di Sen sottolinea la multidimensionalità del fenomeno e ribadisce il ruolo delle caratteristiche individuali, nel determinare gli esiti, che descrive attraverso la sua teoria dei funzionamenti. Anche se non si riferisce alle reti in modo esplicito è evidente come per Sen le relazioni facciano parte di quelle caratteristiche individuali che possono produrre differenze. Sen quindi sposta il focus della diseguaglianza dalle risorse possedute alle caratteristiche su più livelli dell’individuo. Ciucci (2004), attraverso l’analisi della letteratura sulla modernità, approfondisce questa lettura indicando come la definizione di diseguaglianza sia più adatta ad un particolare contesto storico individuato attraverso il concetto di società salariale, mentre per le nuove forme sociali, costruite sulla flessibilità e sulla dilagante diffusione dell’incertezza, il concetto guida per le politiche di intervento che è in grado di fornire una descrizione più accurata della realtà è quello della vulnerabilità. Il fenomeno della globalizzazione assieme alla trasformazione dei legami ha determinato una crisi di sicurezza: resta da capire se nelle nuove forme di aggregazione persiste la percezione del senso di comunità, in modo tale da fornire agli individui quel supporto primordiale necessario a proseguire il cammino o se questo supporto vada cercato in nuove modalità. Per cercare di dare risposte a queste domande, nel paragrafo che segue, faccio riferimento ai lavori di Bauman (2001), Boltanski (2005) e Ciucci (2005). 5.2 - Il presente proiettato nel futuro: i legami in prospettiva Qual è lo strumento che può supportare le attuali comunità rese fragili e inconsistenti dalla globalizzazione? Quali risorse hanno a disposizione gli individui per non perdersi nel mare burrascoso della flessibilità? Dove troveranno supporto per 132 medicare le ferite inferte dalla mole opprimente di responsabilità che sono venute a gravare sulle loro spalle dopo la disgregazione di tutti quei vincoli comunitari che si facevano carico di destini ingrati e di insuccessi collettivi? Ancora nelle relazioni, anche se non più tra gruppi di individui, ma tra singole persone: per questo i legami acquisiscono una posizione di primo piano rispetto al passato, perché non sono più solo uno strumento a disposizione delle comunità per gestire gli scambi tra gruppi, ma sono il linguaggio comune, il requisito minimo, che consente agli individui di continuare ad esistere in una comunità, anziché diventare isola in un arcipelago di solitudine. Cosa potranno costruire queste persone, private della corazza comunitaria, per garantirsi una esistenza ancora gratificante e sicura? Le società e le comunità come ci sono state descritte dai padri della sociologia sono costruite su un insieme di regole che ne determinano le caratteristiche e le modalità di funzionamento. In tutte le analisi l’elemento sfuggente è sempre il collante misterioso che spinge gli individui a restare assieme. Una volta analizzati gli interessi e i bisogni che supportano la coesione, resta da descrivere quella parte in positivo, svincolata dal concetto di necessità, che riguarda la scelta spontanea dei soggetti di restare uniti, anche senza evidente utilità o vantaggio. Abbiamo definito tra i compiti dei legami quello di favorire gli scambi tra individui e gruppi. In queste forme regolamentate di comunità gli scambi sono definiti attraverso l’equivalenza: la moneta ne rappresenta l’emblema più purificato dagli aspetti emotivi. Attraverso la moneta si garantisce l’equivalenza di quanto viene scambiato e si riconferma la fiducia nel sistema di norme condivise che regolano il gruppo. L’equivalenza ci conduce in uno stato di giustizia, in cui la disputa è regolata, ma non soppressa. L’unica possibilità che abbiamo di far scomparire la disputa dall’orizzonte relazionale è agire in stato di agape: in agape sono escluse le equivalenze, non si parla di scambi ma di dono. Il dono in agape vive nel presente e non ha memoria, non prevede il contro dono, non prevede equivalenza. Anche se questa analisi sembra irrealistica, in realtà ha molti più spazi di realizzazione di quanto possa apparire. 133 Le società immerse nella modernità liquida (Bauman, 2001) hanno sgretolato il passato per consentire agli individui (o per condannarli) ad una totale flessibilità: assenza di radici, assenza di passato, flebile permanenza delle relazioni, quasi inesistente prevedibilità, percorsi di vita costretti ad inventarsi in ogni momento. In questo quadro di individui atomizzati e dispersi in uno stato liquido, metafora presa dalla chimica che descrive i liquidi formati da molecole tenute insieme da legami di vicinanza sempre pronti a scivolare gli uni sugli altri, cosa resta alle persone per poter nutrire la propria relazionalità? Non viene offerta alcuna garanzia per gli scambi in equivalenza: domani tutto potrebbe essere diverso e le norme di oggi potrebbero venire contraddette. È difficile ipotizzare che il benessere degli individui si fondi esclusivamente sulle merci che consumano: la comunità ha fornito agli individui oltre al supporto materiale tutta quella parte di beni inconsistenti ma profondamente necessari alla buona qualità della vita che sono riconducibili all’identità, al riconoscimento reciproco, alle relazioni affettive. La modernità liquida mette a nudo il ruolo dei legami, li rende fragili e vulnerabili, finché si voglia definirli attraverso gli scambi in equivalenza. Nel momento in cui se ne accetta la loro fondamentale funzione di nutrimento per l’anima oltre che di supporto materiale, se ne riscopre il valore anche in queste condizioni. Ad una prima lettura si può pensare che i concetti di disputa e pace e di scambi in equivalenza o meno siano da riferire ai grandi temi della relazionalità umana: le interazioni tra stati o tra gruppi sociali. Poi si scopre che in una lunga nota Boltanski (2005, p. 145) porta l’esempio di Mary che vorrebbe, attraverso l’astuzia, ottenere che Pierre la aiuti ad aggiustare l’asciugacapelli, e che questo può rappresentare un esempio di scambio, in questo caso in equivalenza perché l’agape esclude l’astuzia e il calcolo. Il tema degli scambi, in equivalenza oppure in agape, ci riguarda da vicino perché interessa tutte le forme di relazione, anche le più private. 134 Lo scopo di queste mie riflessioni è introdurre una lettura che restituisca al futuro delle relazioni una possibilità di esistenza, che lasci spazio anche a visioni ottimistiche. Le riflessioni di Boltanski (2005) richiamano alcune modalità di relazione, che anche se non costituiscono la regola, si possono riscontrare con una certa frequenza e di solito contribuiscono a confortare le persone che vi partecipano o che vi assistono. Uno di questi esempi è il caso di chi compie un gesto di aiuto senza avere alcuna prospettiva di ricevere alcuna forma di restituzione dal beneficiario. Alla base della gratificazione di questa modalità di relazione è la condivisione del gesto: io lo compio nei confronti di chi mi sta di fronte, chiunque altro lo farà e quindi potrò riceverlo da chi mi avrà di fronte se ne avrò bisogno. Lo scambio in agape, escludendo l’equivalenza, induce stupore e rassicura: produce uno stato di pace. È una consuetudine diffusa in contesti tendenzialmente chiusi, che potrebbero essere assimilati a certe piccole comunità dei paesini di campagna, che le incomprensioni o i dissapori tra famiglie o clan inducano una forma di non riconoscimento: gli appartenenti ai gruppi in conflitto si tolgono il saluto, smettono di parlarsi, interrompendo così, oltre agli scambi, ogni forma di relazione. Questa contrapposizione in blocchi è possibile solo in presenza di gruppi che si definiscono e si riconoscono come entità “solide”, lasciando a volte poco spazio agli individui di proseguire la relazionalità secondo le loro autonome percezioni. La disgregazione di queste piccole comunità coatte lascia spazio agli individui di non caricarsi delle “colpe” di alcuni membri1. 1 Senza giungere alla storia di Giulietta e Romeo si può facilmente immaginare come nel passato fatti come ad esempio un fidanzamento interrotto potevano condurre famiglie intere a congelare le loro relazioni. Mi è capitato di assistere in uno di questi contesti ad un incontro tra persone che potremmo definire rappresentativo dello stato di pace descritto da Boltanski. In una situazione conviviale si sono trovate insieme persone di due famiglie a cui appartenevano due ex fidanzati, in quel momento felicemente sposati altrove. Gli eventi risalivano a circa vent’anni prima, le persone presenti non si incontravano da parecchi anni. Come di fronte a un “mezzogiorno di fuoco” ho pensato con imbarazzo a cosa avrei potuto assistere, soprattutto temendo il non riconoscimento reciproco. Invece gli attori hanno ignorato qualsiasi forma di equivalenza: si sono riconosciuti e salutati calorosamente, ricordando solo la reciproca familiarità. Gli attori hanno agito in agape e ricordo ancora quell’episodio con piacere. 135 La disgregazione della comunità, con le sue qualità di permanenza e di chiusura, non elimina il bisogno di comunità dall’orizzonte umano: lo rende più sentito, come per tutte quelle caratteristiche che diamo quotidianamente per scontate di cui si percepisce il valore soprattutto al momento della loro assenza. Ecco perché la comunità, intesa come dimensione “festiva” (Ciucci, 2005) assume, usando una formulazione di Kant, ancora di più il ruolo di “idea regolativa”, di immagine guida a cui ispirare il quotidiano della sua non diffusa presenza. La sua esistenza si rende fondamentale, così come la sua scarsità. La presenza costante di una comunità in agape renderebbe attuata un’utopia e se ne comprende l’impraticabilità. La sua totale assenza renderebbe privo di speranza il mondo delle relazioni. La sua attuabilità, solo come eccezione, come festività appunto, la fa divenire principio guida a cui tendere. La sua non prevedibilità ne aumenta il valore, ne rende eccelsa la presenza, quando si ha il dono di trovarla. 136 BIBLIOGRAFIA Almond G. e Verba S., The civic culture: Political attitudes and democracy in five nations, Princeton University Press, Princeton (NJ), 1963. Bagnasco A., Tracce di comunità, Il Mulino, Bologna, 1999. Bagnasco A., Piselli F., Pizzorno A. e Trigilia C., Il capitale sociale – Istruzioni per l’uso, Il Mulino, Bologna, 2010. Banfield E.C., The moral basis of a backward society, The Free Press, Glencoe (Ill.), 1958 (trad. it. Le basi morali di una società arretrata, Il Mulino, Bologna, 2010). Bauman Z., La società dell’incertezza, Il Mulino, Bologna, 1999. Bauman Z., Voglia di comunità, Laterza, Roma-Bari, 2001. Ben-Porath Y., “The F-connection: Families, friends and firms and the organisation of exchange”, Population and Development Review, vol. 6, pp. 1-30, 1980. Blumer H., Symbolic interactionism. 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