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Università di Pisa
Facoltà di Scienze Politiche
Corso di Laurea Specialistica in
Sociologia
Legami che rendono liberi: lavoro, famiglia e reti sociali
Candidata
Cinzia Ciardi
Relatore
Prof. Raffaello Ciucci
Anno Accademico 2010/2011
Ringraziamenti
Ai miei genitori, perché la loro soddisfazione completa
la mia.
Al professore Raffaello Ciucci che mi ha guidata nel
lavoro di questa tesi perché, pur lasciandomi la più ampia
libertà, mi ha consentito di trasformare un’idea modesta in un
valido percorso di approfondimento e di crescita personale.
Alla dottoressa Elisa Matutini per la sua pazienza e
disponibilità e i preziosi consigli che ha saputo darmi.
E infine, ma non meno importanti, ad Alessandro,
Chiara e Giulia, perché è sul mio legame con loro che
costruisco quotidianamente la mia libertà.
INDICE
3
Introduzione
Capitolo 1
Il ruolo della famiglia. Ovvero: la costruzione della fiducia come elemento
fondamentale delle interazioni
1.1 – Esempi che vengono dal passato: indizi per costruire legami
11
1.1.1 - Le basi morali di una società arretrata e la definizione di familismo
amorale
12
1.1.2 - Il Principe
18
1.1.3 - Robust Action and the Rise of the Medici, 1400-1434. - La famiglia al
potere
22
1.2 – Mafie, clientele e tradizione civica
24
1.2.1 - Mafie in movimento
25
1.2.2 - Patrons, Clients and Friends: Interpersonal Relations and the
30
Structure of Trust in Society
1.2.3 – La tradizione civica nelle regioni italiane
35
Capitolo 2
Nel mondo del lavoro: dalla fiducia al capitale sociale
2.1 – Cos’è successo alla terza Italia? Il tessile a Prato raccontato da un imprenditore
41
2.1.1 – Storia della mia gente
41
2.2 – Cambiare per sopravvivere: fiducia e capitale sociale come strumenti di analisi
48
2.2.1 – La fiducia nelle società moderne
50
2.2.2 – Capitale sociale e sviluppo
54
2.2.3 – Il capitale sociale – istruzioni per l’uso
60
2.2.4 – Social Capital in the Creation of Human Capital
65
2.3 – Quanto possiamo contare sul capitale sociale?
2.3.1 – Bowling Alone: America’s Declining Social Capital
1
71
71
Capitolo 3
Reti sociali. Nuovi strumenti per descrivere la struttura della società
3.1 – La nuova società tra piccoli mondi e little boxes
75
3.1.1 An experimental study of the small world problem
77
3.1.2 The small world problem
79
3.1.3 From Little Boxes to Loosely-Bounded Networks: The Privatisation
and Domestication of Community
81
3.2 – Legami deboli, ponti e vuoti strutturali per un’architettura della coesione
sociale
85
3.2.1 – La forza dei legami deboli
87
3.2.4 – Structural Holes: the Social Structure of Competition
91
3.3 – L’individuo nella rete: il ruolo dell’identità
97
3.3.1 – The F-Connection: Families, Friends, and Firms and the
98
Organisation of Exchange
Capitolo 4
Il ruolo dei legami per lo sviluppo di comunità
4.1 – Perché i legami contano
103
4.1.1 – Network theories for healthier communities
104
4.1.2 – Network perspectives for community building
106
4.2 – Capitale sociale e processi di impoverimento
109
4.3 – La diseguaglianza, un riesame critico
115
4.3.1 – La diseguaglianza nella rete, alcune considerazioni.
119
4.4 – Dal tempo della diseguaglianza alla vulnerabilità
121
4.4.1 – Rischio, vulnerabilità, sicurezza
123
Conclusioni
5.1 – Una sintesi del percorso
128
5.2 - Il presente proiettato nel futuro: i legami in prospettiva
132
Bibliografia
137
2
Legami che rendono liberi: lavoro, famiglia e reti sociali
Introduzione
L’ossimoro del titolo vuole condurre l’attenzione sulla ambivalenza del ruolo
dei legami nella costruzione della società.
Si vuole evidenziare come la presenza di legami sia fondamentale per la
nascita di forme di aggregazione che supportino gli individui e la società stessa al
fine di migliorare le condizioni di vita e le prospettive di sviluppo di entrambi.
Allo stesso tempo si vuole ribadire quanto sia necessario che tali legami
lascino spazio all’evolversi delle relazioni e della struttura per fare in modo che le
società a cui danno sostegno siano in grado di mutare e di adattarsi ai cambiamenti
che si susseguono nel tempo, sia a livello di struttura, sia a livello di valori che
guidano la società, sia a livello di relazioni economiche che ne condizionano la
disponibilità di risorse.
Il termine legami significa: ciò che serve a legare, nesso, rapporto, relazione
tra più persone o cose, e anche rapporto di obbligo, impegno, dovere. In questi
significati sono espressi giudizi di valore diverso, ma sempre distanti dall’idea di
libertà.
Fa parte della natura dei legami l’ambivalenza di significato. Parlare di
legami infatti evoca, a seconda del contesto, immagini di sofferenza e costrizione
oppure il senso di conforto che dà l’immagine di persone che si salutano con un
abbraccio.
Lo stesso termine viene usato con significati opposti perché nell’azione di
legare tra loro due persone o cose è implicita questa duplice valenza sia positiva che
negativa.
La capacità di costruire legami tra gli individui si forma fino dalle prime
esperienze e anche nello sviluppo psichico i legami svolgono questo duplice ruolo:
nell’infanzia sono indispensabili per favorire uno sviluppo equilibrato, ma col
progredire della crescita è necessario che questi legami si facciano sempre meno
costrittivi e sempre più blandi, per permettere scelte più autonome.
3
La persistenza nella parola “legami” di questo duplice significato è indice
della compresenza dei due ruoli.
La presenza nelle fasi iniziali di un ruolo forte e costrittivo è necessaria a
garantire la sopravvivenza di individui incapaci di provvedere autonomamente alle
proprie necessità. Mentre svolgono questo ruolo di supporto i legami contribuiscono
anche a costruire il linguaggio comune su cui si stabiliranno i futuri rapporti.
L’amore incondizionato, identificato con l’amore materno, è la prima forma
di relazione su cui si costruisce la futura vita affettiva; la qualità di questo rapporto è
capace di influenzare tutta la vita dell’individuo e, visto che le società sono in fin dei
conti costituite da individui, delle società che andrà ad abitare.
La libertà costruita dai legami si esplica nella possibilità di scegliere il
proprio percorso avendo a disposizione le risorse che si rendono necessarie per
compierlo.
Proseguendo con la metafora dello sviluppo individuale si scopre che ben
presto questi legami totalizzanti devono lasciare spazio ad altre relazioni o
esplorazioni, e devono diventare sempre più deboli e sempre meno vincolanti, per
permettere al bambino di scoprire autonomamente il mondo che lo circonda e
sviluppare modalità sue di relazione. Quando questo non avviene e viene mantenuta
una forte dipendenza lo sviluppo si arresta e si assiste all’insorgenza di patologie
relazionali che saranno più o meno invalidanti a seconda di quanta autonomia è
venuta a mancare.
La prima forma di ambivalenza è questa: dei legami non si può fare a meno,
altrimenti non è garantita nemmeno l’esistenza, ma la funzione di sostegno per lo
sviluppo può diventare una trappola, una cornice troppo vincolante che può inibire le
evoluzioni future.
I legami sociali possono avere lo stesso effetto: una comunità appena sorta ha
bisogno di costruire legami con una forte reciprocità, che si può tradurre in vincoli
molto forti che impediscono il cambiamento. Ma il persistere di questa condizione
conduce a situazioni di fissità che sono facilmente deleterie.
Possiamo fare riferimento anche ad una lettura sistemica: un sistema chiuso,
completamente autosufficiente può permettersi di rimanere inalterato nel tempo,
4
ammesso che non gli venga mai a mancare l’energia necessaria per la sua
sopravvivenza e riproduzione. Ma nella realtà non esistono società identificabili con
un sistema chiuso. L’evoluzione storica, con l’espansione dei sistemi di
comunicazione, ha eliminato la possibilità che esistano comunità veramente isolate.
Pertanto i legami sono diventati una variabile cruciale per lo sviluppo delle
società: devono esistere, devono essere solidi, ma devono anche lasciare spazio al
cambiamento che in certi casi coincide con l’allentamento o addirittura la rottura dei
legami preesistenti.
Un ruolo importante che hanno i legami per lo sviluppo di una comunità è
l’azione che svolgono nei confronti dell’identità.
Il tipo iniziale di legami costruisce l’identità degli individui: il luogo, la
storia, il posto in cui sono nato determina quello che io voglio essere, gli obiettivi che
voglio raggiungere, a chi voglio assomigliare.
Legami molto forti presuppongono un altrettanto forte riconoscimento tra gli
individui, che devono essere simili tra loro e condividere la maggior parte dei valori.
Questa identità comune ha senso in un mondo chiuso senza interazioni con
l’esterno. Nel momento in cui si entra in contatto con esperienze diverse il confronto
può stimolare il desiderio di cambiamento.
Anche l’identità dipende e deriva dai legami che l’hanno costruita e la sua
flessibilità è in funzione dell’apertura verso l’esterno che i legami fondanti gli hanno
trasmesso.
La resistenza al cambiamento è un fenomeno frequente perché questo implica
la perdita della prevedibilità.
Tollerare l’incertezza è possibile solo se si hanno ampi margini di sicurezza,
se non si mette in pericolo l’esistenza di una data identità, per cui il cambiamento è
accettato solo all’interno di uno spazio che garantisca comunque continuità con la
condizione precedente.
L’apertura verso il cambiamento si è rivelata un punto di forza che consente
alle società di continuare ad esistere anche in seguito all’incontro con realtà diverse,
mentre l’incapacità di cambiare, e quindi di assorbirne e controllarne gli effetti,
rischia spesso di danneggiare in modo drastico la realtà preesistente.
5
L’immobilità può divenire sinonimo di sofferenza, anche fino al punto di
determinare l’estinzione. I legami sono quindi un supporto per l’individuo e per la
società quando sono sufficientemente elastici. I legami troppo vincolanti ostacolano
il cambiamento e impediscono l’evoluzione indispensabile per la sopravvivenza.
Ma le nuove architetture della società globale, o liquida, come viene definita
da alcuni autori, hanno drasticamente ridotto le possibilità di avere certezze per la
maggior parte degli individui, tutti quelli che vivono immersi nel proprio contesto
locale ed hanno perduto le garanzie che derivavano dalla chiusura del sistema, cioè la
prevedibilità di un percorso di vita, la stabilità del proprio ruolo nella società
sviluppato attraverso l’inserimento nel processo lavorativo e la stabilità dei legami
affettivi.
Questa nuova condizione, mentre ne reclama a gran voce la necessità, chiede
ai legami la massima flessibilità, in una continua oscillazione tra l’incertezza
generata dall’assenza di una cornice sociale vincolante, e il bisogno di sicurezza che
si cerca di risolvere attraverso la chiusura verso l’esterno.
Sempre utilizzando la metafora sistemica, gli scambi con l’ambiente
circostante possono essere assimilati alla funzione che svolge il respiro per un
organismo: uno scambio continuo di energia tra individuo e ambiente. Se non c’è
questo scambio l’organismo cessa di funzionare. I legami sono il mezzo attraverso
cui avvengono gli scambi tra individui e società e tra gruppi sociali diversi. Gli
scambi sono la funzione vitale che deve essere costantemente svolta per garantire
una buona salute alle società e di conseguenza anche agli individui che le
compongono.
Questi
scambi
riguardano
ad
esempio:
fiducia,
risorse,
opinioni,
informazioni, emozioni, affettività, la consapevolezza di non essere soli, lo scambio
di energia emozionale necessaria come motivazione per l’azione.
A questo punto conviene definire che cosa si intende per elasticità dei legami.
Possiamo utilizzare un concetto affine: la resilienza, cioè la capacità di assorbire i
cambiamenti modificando solo parzialmente la propria forma e la capacità di
ritornare alla condizione di partenza una volta assorbito lo stimolo. Questa
definizione nasce dall’ingegneria per descrivere la proprietà di un materiale di
6
resistere alle sollecitazioni e viene utilizzata anche in psicologia per definire la
capacità di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici; in questo secondo
caso viene indicata come la capacità di individui (in genere bambini), che hanno
subito traumi potenzialmente invalidanti, di costruire comunque relazioni sane e
mantenere un equilibrio tale da consentire uno sviluppo normale dell’affettività e
delle relazioni.
La relazione che esiste tra i legami sociali e il cambiamento dovrebbe essere
improntata su questa forma di elasticità, per permettere alle società di apprendere,
dall’incontro con l’altro, nuove modalità di scambio che gli permettano di mantenersi
vitale pur modificandosi.
Identificare il capitale sociale con i legami conduce a pensare che quando
questi legami vengono meno si sta perdendo capitale sociale. Ma se i legami che
vanno a costituire il capitale sociale sono del tipo più vincolante, di quelli che
favoriscono la chiusura e impediscono gli scambi con le realtà circostanti forse la
loro funzione positiva non è così ovvia.
Se i legami che vengono perduti sono quelli che rendevano immobile la
struttura sociale e ne impedivano la trasformazione necessaria per la sopravvivenza,
è probabile che la loro dissoluzione sia dovuta alla spinta per il cambiamento. Il
capitale sociale si sta trasformando: non è più fondato solo su legami forti, ma su
connessioni lasse fortemente variabili che consentono una maggiore mobilità in una
società in continua evoluzione, in cui rimanere ancorati ai propri schemi è altamente
deleterio perché rischia di far perdere opportunità importanti o di far rimanere
ancorati a modalità disfunzionali.
I legami sociali che costruiscono capitale sociale sono spesso quelli che
forniscono supporto attraverso gli scambi, per cui si accusa il miglioramento delle
condizioni di vita, con l’aumento del benessere che favorisce una maggiore
autonomia degli individui e una minore dipendenza dagli aiuti degli altri, tra le cause
che erodono capitale sociale perché rende meno necessaria la presenza di questi
legami.
Questa posizione identifica il capitale sociale con una forma specifica di
legami, quelli più costrittivi, e sembra accusare la diffusione del benessere di essere
7
paradossalmente un fattore di rischio per la società. Forse questa valutazione deriva
dall’incapacità di leggere il cambiamento della struttura sociale con strumenti adatti a
identificarne meglio le caratteristiche.
I legami che hanno costituito capitale sociale nel passato non servono
altrettanto di fronte ad una maggiore diffusione di benessere. Servono altre forme di
capitale sociale, probabilmente meno vincolanti, più aperte alla mobilità sociale,
capaci di sostenere il cambiamento invece di ostacolarlo.
Un modo per distinguere le società più immobili da quelle che valorizzano il
cambiamento è attraverso il tipo di caratteristiche dell’individuo che prediligono.
Tipicamente le società tradizionali, con una forte aspirazione a mantenere
immutato l’ordine sociale, tendono a preferire le caratteristiche ascrittive, come la
classe sociale o il genere. Solitamente questi gruppi sono caratterizzati da legami
forti, l’identità degli individui è definita dall’appartenenza al gruppo, i valori sono
condivisi e i legami sono ridondanti.
Le società caratterizzate da una maggiore evoluzione tendono a valorizzare le
caratteristiche acquisitive, come le capacità, la competenza, l’autorealizzazione. I
legami che le sostengono sono spesso di tipo debole, ricchi di vuoti strutturali e
consentono e favoriscono una cospicua mobilità. In queste società l’identità degli
individui va ad occupare il ruolo precedentemente occupato dalla comunità e
l’individualismo assume un valore positivo.
La forma estrema di flessibilità delle comunità ha dato origine però ad una
diffusa sensazione di incertezza: la rottura dei legami comunitari e la perdita di
prevedibilità legata ai cambiamenti della struttura economica stanno generando una
apparente comunità globale in realtà divisa in una miriade di mondi separati e
desiderosi di erigere barriere nell’illusione di ritrovare la sicurezza perduta.
Il bisogno dei legami e della costruzione di comunità si fa sempre più
pressante per arginare il pericolo di un ritorno a condizioni di vulnerabilità e di
indigenza per buona parte della popolazione mondiale, anche e soprattutto nelle
società occidentali da cui ha preso origine il cambiamento in direzione della
globalizzazione.
8
Questo lavoro parte dalla descrizione delle fasi primordiali di formazione dei
legami, sia attraverso la lettura di testi e situazioni del passato, sia attraverso la
descrizione dei soggetti che ne diventano i primi protagonisti.
Il primo capitolo focalizza l’attenzione
su due aspetti: il tema
dell’arretratezza così come sviluppato da Banfield (1958) e attraverso la
testimonianza di Machiavelli (1513), e il tema della parzialità, descritto attraverso lo
studio dei sistemi mafiosi e dei sistemi clientelari, intesi entrambi come precursori di
un sistema fiduciario esteso a tutto il consesso sociale. In questo primo capitolo il
focus dell’attenzione è rivolto alla famiglia, intesa come nucleo da cui ha origine la
costruzione dei legami.
Nel secondo capitolo si approfondiscono le relazioni che sostengono il
mondo del lavoro attraverso gli strumenti che si fondano sui legami: fiducia, norme e
capitale sociale.
Si analizzano situazioni concrete in cui la presenza di forme più evolute di
legami ha costituito un punto di forza per la realizzazione di migliori condizioni,
anche se in certi casi non destinate a durare. Si confrontano ricerche che hanno
attribuito un ruolo positivo a questi strumenti, bilanciando sia valutazioni positive
che critiche. In chiusura il lavoro di Putnam (1995) definisce un fermo immagine su
una consolidata teoria del capitale sociale in un mondo in cui tale capitale si sta
estinguendo. Il punto di vista è centrato sul livello macro-sociale.
Nel terzo capitolo si prende atto dei mutamenti avvenuti nella struttura della
società rispetto al passato. L’attenzione si sposta verso il livello micro-sociale
dell’individuo.
La concezione globale della società pone nuovi interrogativi su quali siano gli
strumenti più adatti a descriverla, tenendo conto dei mutamenti indotti
dall’esplosione dei mezzi di comunicazione, che hanno relativizzato lo spazio e il
tempo, almeno per una parte della popolazione mondiale. Le ricerche indagate si
muovono tra la consapevolezza della permanenza di alcune cesure che continuano a
separare mondi in sottogruppi non necessariamente connessi e la fiducia nelle
tecnologie comunicative per supportare le nuove forme di comunità che svincolate
dallo spazio fisico e dalla assiduità offrono ulteriori opportunità.
9
Gli studi di analisi delle reti sociali dimostrano la loro appropriatezza per
descrivere le nuove forme di organizzazione sociale. Gli strumenti che vengono
portati in primo piano sono i legami deboli, i vuoti strutturali e il ruolo dell’identità
così come costruito dalle F-connections.
Nel quarto capitolo si evidenziano i motivi per cui i legami sociali, descritti
attraverso l’analisi delle reti, sono importanti per la costruzione della comunità, e
contemporaneamente si cerca di mettere in evidenza come l’appartenenza o meno
degli individui a strutture comunitarie influenzi il loro benessere attraverso una
azione redistributiva per quelle risorse che contribuiscono a dare qualità all’esistenza
umana.
A questo proposito si analizzano alcune teorie relative alla definizione di
povertà, e si approfondiscono i concetti di disuguaglianza e vulnerabilità, distinzione
particolarmente importante da tenere presente nella attuale configurazione globale
della società.
10
Capitolo 1
Il ruolo della famiglia. Ovvero: la costruzione della fiducia come elemento
fondamentale delle interazioni
1.1 – Esempi che vengono dal passato: indizi per costruire legami
La fiducia che le attese saranno rispettate nello scambio di risorse o relazioni
si impone come necessità fin dagli inizi della socialità, addirittura fino dai gruppi più
semplici o composti da pochi soggetti.
Alcuni autori identificano un parallelo tra lo sviluppo individuale e la capacità
di interagire in società.
La società stessa non si forma se non c’è da parte degli individui che la
compongono la capacità di mettersi in relazione tra loro in modo da poter beneficiare
delle differenze di abilità e risorse secondo quella che viene definita la divisione del
lavoro sociale.
Attraverso i lavori di alcuni autori cerchiamo di comprendere come vengono
descritte le modalità con cui si sviluppano questi rapporti e relazioni, cercando di
valutare il loro maggiore o minore apporto alla qualità della vita degli individui che
fanno parte di questi gruppi.
In questo capitolo sarà la famiglia a fare da cardine per l’analisi, attraverso le
relazioni che le sono più prossime, come ad esempio i rapporti clientelari, che
originano fino dalla Roma antica, oppure i rapporti che si sviluppano in un ambiente
che fonda la sua esistenza su di essa, cioè i gruppi di tipo mafioso.
Si parte da quelle che sembrano le condizioni meno efficaci per poi procedere
ad analizzare le situazioni che danno il maggiore apporto in termini di potenzialità
per lo sviluppo sia dell’individuo che delle società stesse.
Nella prima parte di questo capitolo si confrontano tre lavori molto distanti
tra loro per il periodo che trattano, le situazioni che analizzano e gli strumenti che
utilizzano, che però hanno in comune alcune caratteristiche: in tutti e tre i casi la
11
fiducia è una risorsa non scontata nel tessuto sociale, in tutti ci si chiede come possa
svilupparsi, o perché questo non sia possibile o quali siano le motivazioni che la
possono far emergere.
Il primo lavoro a cui faccio riferimento è una ricerca effettuata da un
sociologo americano, Edward C. Banfield (1958), in un paese dell’Italia meridionale
nell’immediato dopoguerra.
L’autore attribuisce l’assenza di fiducia e solidarietà tra gli abitanti del paese
all’ethos che pervade la comunità, individuandone l’origine nel passato, in
particolare nella struttura politica latifondista che interessava questa parte dell’Italia,
a differenza di altre, dove lo sviluppo dei Comuni ha permesso la nascita di modalità
diverse di relazione maggiormente orientate allo scambio e confidenti nelle
possibilità di miglioramento .
A questo scopo ci si confronta con il secondo testo: Il Principe di Niccolò
Machiavelli, dove l’autore, testimone in prima persona dell’età dei Comuni, espone
le sue teorie sulla nascita di uno stato in senso moderno.
Il terzo testo è una ricerca di J. F. Padgett e C. K. Ansell (1993) che,
utilizzando la Social Network Analysis, descrive come un secolo prima di
Machiavelli, la famiglia fiorentina dei Medici, nella persona di Cosimo, sia riuscita a
costruire intorno a sé una rete di relazioni, obbligazioni e di conseguenza fiducia, che
l’ha convogliata verso il governo della città.
1.1.1 - Le basi morali di una società arretrata e la definizione di familismo
amorale
Edward C. Banfield si reca a Chiaromonte in Basilicata nel 1954 assieme alla
moglie di origini italiane per condurre la sua ricerca. Vi resterà per alcuni mesi
durante i quali raccoglierà interviste tra gli abitanti del paese e osserverà i loro
comportamenti. Dal libro che ne scaturisce ottiene in America molta notorietà.
Successivamente si troverà a svolgere ruoli importanti a livello istituzionale, fino a
diventare consigliere di alcuni presidenti. Con questo lavoro, che si inserisce in un
12
percorso di ricerca precedente su questi temi, sta cercando di dimostrare la tesi che
alla base di un comportamento cooperativo, essenziale per lo sviluppo sociale ed
economico di una comunità, è necessaria la presenza di un ethos orientato in tale
direzione. La lente attraverso cui guarda alla realtà deprivata di quel paese isolato
non ci impedisce comunque di trovare ancora oggi una testimonianza da cui poter
estrapolare considerazioni valide.
Il paese, che Banfield ribattezza Montegrano, si trova in collina, ha un clima
temperato ma poche risorse agricole e una relativa scarsità d’acqua, le vie di
comunicazione sono poche e la proprietà della terra è talmente frammentata da
permettere a malapena la sopravvivenza di ciascuna famiglia. I contatti con il mondo
esterno, col resto dell’Italia che sta entrando in una fase di sviluppo economico, sono
rari e non producono altro che un acuirsi del senso di emarginazione e alimentano
ancora di più il fatalismo. Il recente passato, con una storia di elevata mortalità, grava
sulla popolazione, contribuendo a diffondere quel pervasivo senso di angoscia che
Banfield rileva attraverso il TAT.
Il Thematic Apperception Test (TAT), costruito dagli psicologi Morgan e
Murray nel 1935, è uno degli strumenti proiettivi preferiti dagli psicologi di tutto il
mondo, si basa “sul ruolo giocato, nella interpretazione di materiali ambigui, dalla
‘appercezione’, intesa come frutto delle passate esperienze percettive, piuttosto che
su quello dei semplici processi proiettivi” (Pedrabissi e Santinello, 1997, p. 262).
Consente di rappresentare gli stati d’animo sottostanti al comportamento. Ha una
duplice utilizzazione: in ambito clinico, in cui è ritenuta controversa la validità, e in
ambito psicosociale, in cui è riconosciuta la sua utilità per elaborazioni teoriche
(ibid., p. 266). Si presta bene ad individuare le modalità relazionali di chi è
sottoposto al test, e in questo caso, essendo stato somministrato ad un vasto
campione della popolazione i risultati sono attendibili: pur tenendo presenti i bias1
intrinseci al test (toni cupi delle immagini che orientano verso storie negative) la
prevalenza di storie luttuose è indizio del fatto che nella comunità di Chiaromonte
predomina una forte ansietà nei confronti del futuro e grava una memoria collettiva
di lutti e di insicurezza.
1
Distorsioni sistematiche dovute alle caratteristiche dello strumento utilizzato per la misurazione.
13
Quello che l’autore cerca per dimostrare le sue tesi sono gli indicatori di
azioni cooperative, così come si trovano nella società americana degli anni ’50:
associazionismo, giornali, partiti politici. Come viene evidenziato da A. Bagnasco,
che cura l’introduzione dell’edizione italiana, questi indicatori non sono prevalenti
nella storia e nella cultura dell’epoca nel nostro paese.
Resta comunque interessante leggere i dati che sono stati raccolti attraverso
una lente diversa.
Secondo l’autore, una base culturale è indispensabile per costruire relazioni
che diano un contributo allo sviluppo della comunità, e Banfield a questo proposito
rammenta che un modo che hanno talvolta gli individui per migliorare la loro
posizione sociale è proprio attraverso un titolo di studio, che consenta di passare per
esempio dalla condizione di contadino a quella di maestro, anche se ci tiene a
precisare che quelli che hanno avuto la possibilità di farlo utilizzano poi la loro
cultura a danno dei più deboli. Quello che costituisce un mezzo per la mobilità
sociale non provoca di per sé solidarietà.
Non è immediato il passaggio da un maggiore sviluppo culturale alla
diffusione della fiducia, come evidenziato da Putnam (1995, pp. 65-78) in un articolo
di cui si parlerà in seguito, in cui l’autore si sorprende di trovare una correlazione
negativa tra la diffusione della cultura e la partecipazione ad associazioni. Cultura e
fiducia sono due prerequisiti per lo sviluppo che probabilmente non sono l’uno la
causa dell’altro, anche se entrambi necessari.
La storia e l’esperienza di deprivazione presente nella popolazione influisce
sulla capacità di progettare e pensare il futuro: i Montegranesi sentono di non avere
alcun controllo sul proprio destino e pertanto si abbandonano al fatalismo e vivono in
condizioni di sopravvivenza. La mancanza di fiducia non si manifesta soltanto nei
confronti del futuro: la totale mancanza di fiducia nel prossimo è pervasiva nelle
descrizioni dell’autore, si manifesta in tutti gli aspetti delle relazioni sociali, sia nei
confronti delle autorità che nelle relazioni tra pari. La paura, anzi la certezza di
essere imbrogliato in qualunque situazione e la paura dell’invidia sono due aspetti
della medesima medaglia: l’altro è visto solo come un potenziale competitore per le
scarse risorse a disposizione.
14
Le modalità di collaborazione presenti sono le sole che hanno potuto
attecchire in situazioni così misere: i legami tra genitori e figli, che erano stati
costantemente minacciati dai numerosi lutti fino al recente avvento della penicillina.
Nel 1954 abbiamo di fronte la prima generazione di genitori che può avere una
ragionevole speranza di restare in vita fino a veder diventare adulti e a loro volta
genitori i propri figli.
Banfield fa inoltre notare che non esistono più gli obblighi feudali che
imponevano al signore di prendersi cura dei suoi contadini e agli ultimi non rimane
più alcuna risorsa in caso di bisogno, visto che anche la Chiesa agisce con le stesse
logiche non solidali di tutto il resto della popolazione: nelle fasi di cambiamento non
è infrequente che prima che si formino le nuove norme le vecchie vadano perdute
con grave danno per il funzionamento della comunità.
Vengono somministrate una serie di domande allo scopo di indagare quali
siano le qualità preferite in un uomo o in una donna. Sono sorprendenti a questo
proposito alcune delle risposte che vengono date: un uomo avaro ma amico fidato è
preferito ad uno generoso ma di dubbia lealtà, a significare che la fiducia può essere
un valore desiderabile; un uomo superbo ma non invidioso rispetto ad uno invidioso
ma non superbo, ad indicare l’esasperazione nei confronti del tema dell’invidia.
L’espressione di queste preferenze richiama l’attenzione su ciò che manca ma
nello stesso tempo è fortemente desiderato dalla popolazione: la richiesta di una
tregua nel quotidiano lottare, un amico di cui potersi fidare e vicini non invidiosi del
proprio benessere.
Anche i legami di parentela soffrono della medesima condizione di indigenza:
le nuove famiglie quando si formano rompono con le famiglie d’origine, in un modo
che sembra una forma “biologica” di protezione dal carico di obblighi che potrebbero
essere letali alla sopravvivenza del nuovo nucleo. I litigi servono ad interrompere le
catene di doveri che legano tra loro i familiari: l’educazione di un figlio avviene a
scapito degli altri; la dote di una sorella sottrae risorse al fratello.
Un marcato atteggiamento fatalistico traspare dai racconti relativi
all’educazione dei giovani.
15
E’ diffusa la convinzione che nessuno sia responsabile del proprio
comportamento ma che siano sempre le cattive compagnie a indirizzare sulla cattiva
strada. Banfield ritrova questa convinzione nella favola di Pinocchio, che lui stesso
definisce “nordica”, riconoscendo un simile modo di sentire anche in altre regioni
italiane; il burattino sostiene che avrebbe voluto comportarsi bene, ma non ha saputo
resistere alle lusinghe degli amici.
Questa concezione che nega la responsabilità di ciascuno rispetto al proprio
destino annulla ogni velleità di modificare la propria condizione, non ritenendola
sotto il proprio controllo.
Queste premesse contribuiscono a rendere difficile qualsiasi cambiamento. La
storia di Montegrano costituisce di per sé quasi un esperimento naturale: mostra cosa
può succedere se a una popolazione togliamo tutte le risorse.
Come nella teoria cibernetica, se non c’è scambio di energia con l’esterno non
c’è alcuna possibilità di modificare la situazione. In questo caso l’energia è da
intendere come un flusso di risorse, cibo, educazione, condizioni abitative migliori,
in grado di soddisfare almeno le esigenze basilari per poter uscire dalla condizione di
indigenza.
Il confronto con il resto del mondo ha prodotto un ulteriore senso di
inadeguatezza tra i contadini di Montegrano: il disprezzo del lavoro manuale come
retaggio del feudalesimo, la vergogna di chi sa di non poter migliorare la sua
condizione anche se studia. E nello stesso tempo ha stimolato in alcuni la voglia di
cambiare: una maggiore propensione al rischio, il desiderio di spese voluttuarie, la
voglia e il coraggio di emigrare. Anche se l’autore mette in evidenza il fatto che con
così pochi legami familiari non si formano quelle catene migratorie che
caratterizzano altre realtà e permettono alle persone di muoversi verso luoghi che
offrono maggiori opportunità.
L’unica forma di tenue legame al di fuori di quello tra genitori e figli che
sembra avere spazio è il rapporto di obbligazioni che si sviluppa tra vicini e tra
proprietari e contadini. Come retaggio del passato feudale il contadino è tenuto a
prestare il suo servizio o il suo asino senza ricevere niente in cambio al signore che
ne abbia necessità.
16
Alcune testimonianze fanno riferimento al periodo del fascismo in termini
positivi, in quanto la gestione autoritaria del mercato del lavoro garantiva contro i
comportamenti disonesti dei proprietari, che nel 1954 invece non sempre
corrispondevano il salario pattuito ai lavoratori. Come vedremo successivamente nel
testo di Varese (2011) questa è una modalità importante nella costruzione delle reti
della criminalità organizzata, in quanto la protezione offerta da qualunque istituzione
che riesca ad imporre comportamenti prevedibili ad entrambe le parti e costringa a
rispettare i patti costituisce un precursore di quella che sarà la fiducia su cui si
possono fondare gli scambi. L’analogia tra il regime fascista e la criminalità
organizzata in questo caso è riferita all’uso della coercizione da parte di entrambi i
sistemi.
La situazione descritta da Banfield rimanda a immagini di precarietà
dell’esistenza e di fiducia scarsa. Più che la solidarietà nel contesto descritto prevale
il rischio e l’incertezza. L’enorme povertà, che non consente per molti di loro
un’adeguata nutrizione, contribuisce a rendere difficile la costruzione dei legami al di
fuori del nucleo ristretto dei familiari. Se la costruzione di una rete di solidarietà è
funzionale agli scambi di risorse, dove non ci sono risorse non si vede come possa
svilupparsi tale rete.
Questo testo ci descrive la situazione che possiamo trovare al livello più
basso di risorse e possibilità: solo i montanari a cui Banfield accenna si trovano in
condizioni peggiori, nella hobbesiana condizione di “homo homini lupus”.
L’assenza di una rete di collaborazione impedisce qualsiasi miglioramento,
ma allo stesso tempo il desiderio di costruire fiducia e relazioni di sostegno trapela
da ogni testimonianza, per spegnersi subito nella disillusione.
A questo proposito può essere utile un richiamo alla gerarchia dei bisogni di
Maslow (1954)2: come si può pensare a migliorarsi quando è in ballo la semplice
sopravvivenza? Per questo motivo la definizione di “familismo amorale” che
Banfield conia ha suscitato vivace risentimento tra gli studiosi, soprattutto italiani,
2
Maslow definisce una gerarchia di bisogni che vengono gradualmente percepiti solo dopo che il
bisogno precedente è stato soddisfatto; così avremo che finché non sono soddisfatti i bisogni legati
alla sopravvivenza gli individui non riusciranno a percepire i bisogni legati al miglioramento delle
proprie condizioni sociali e della propria realizzazione.
17
perché sembra attribuire ai montegranesi una responsabilità diretta della loro
condizione.
Si tratta di una comunità di persone che hanno enormi difficoltà a costruire
legami di qualsiasi tipo perché le loro condizioni di sopravvivenza sono talmente
precarie da non permettere nessun abbassamento della guardia: come dice lo stesso
autore non si possono permettere nemici, ma neppure amici. Un mondo di rapporti a
somma zero dove ogni vantaggio dell’altro è una sottrazione alle proprie risorse.
Indubbiamente questa condizione è frutto di una socializzazione alla non
cooperazione, a cui però non è estraneo l’oggettivo stato di deprivazione.
I tre punti evidenziati dall’autore (l’alta mortalità, l’assetto fondiario e
l’assenza di legami familiari che vadano oltre le dimensioni della famiglia nucleare)
sono un dato di fatto, e costituiscono dei limiti oggettivi contro ogni forma di
miglioramento, soprattutto perché sono immersi nella convinzione che non si possa
agire per produrre qualche cambiamento.
Di diverso avviso è Niccolò Machiavelli, che, pur ritenendo la fortuna arbitra
della metà delle azioni dell’uomo, ne lascia la restante metà nelle sue mani.
Per questo ho trovato interessante rileggere le sue riflessioni nella ben nota
opera che descrive la realtà italiana agli inizi del 1500. Di fatto Il Principe è una
ricerca finalizzata a studiare le condizioni su cui si può costruire la stabilità di uno
stato, o in termini più moderni uno studio sulle ipotesi di sviluppo dell’ordine
sociale.
1.1.2 - Il Principe
L’autore scrive questo saggio (Machiavelli, 1513) per conquistarsi i favori di
Lorenzo dei Medici, da poco tornato alla guida di Firenze, da cui spera di ottenere un
incarico politico.
Nella lettera del 1513 “a Francesco Vettori in Roma” che accompagna l’opera
descrive la sua vita oziosa, in attesa di riprendere l’attività, e al racconto fanno da
sfondo boschi da tagliare, osterie frequentate e benessere a sufficienza da passare
18
parte della giornata a “uccellare a’ tordi”, un quadro sicuramente migliore di quanto
abbiamo trovato descritto da Banfield.
Oltre al desiderio di mostrare al Principe le sue competenze politiche, spinge
il Nostro a scrivere il desiderio di dare alla sua terra una stabilità che permetta una
migliore qualità della vita e serenità dei popoli, l’Italia infatti è stata terra di
conquista per Francesi, Spagnoli e avventurieri nei decenni che precedono questo
documento.
Machiavelli si mette ad analizzare con rigore quanto ha visto accadere e
quanto viene riportato nella storia di grandi condottieri del passato. La via che a lui
appare praticabile per dare stabilità ad un territorio è che un Principe ne regga le
sorti. La lettura del passato gli serve per estrapolare le norme e i comportamenti che
servono a far durare un regno. La prima qualità che auspica è che il regno sia
sufficientemente grande per non essere attaccato dai vicini. A questo proposito
suggerisce la necessità di unire territori che abbiano costumi e lingua simili, per
favorire la collaborazione.
Inoltre suggerisce di utilizzare coloni anziché eserciti, per tenere unito un
territorio, perché i primi provocano minore scontento tra la popolazione rispetto ai
secondi e possono essere più fedeli al signore che ha concesso loro le terre, e
soprattutto possono essere più facilmente governati, visto che il loro interesse
primario è coltivare la terra e non fare la guerra.
Machiavelli è attento ad evidenziare le situazioni in cui le obbligazioni
reciproche costituiscono il legame che costruisce la stabilità, piuttosto che la paura
suscitata dalle armi.
E’ attento a notare come l’invidia, in questo caso tra potenti, debba essere
controllata e utilizzata allo scopo di bilanciare gli equilibri: bisogna che il Principe
faccia crescere i piccoli principati, in modo che gli siano alleati, ma non abbastanza
da farli diventare più potenti di lui, a questo scopo porta ad esempio quello che
hanno fatto i Cesari per far crescere e tenere l’impero romano.
Tutto il libro è scritto con la convinzione che la realtà sia un campo in cui si
può agire, che si possa influenzare il corso degli eventi e quindi che esista un futuro
19
che possiamo sperare di trasformare secondo i nostri scopi, se siamo in grado di
conoscere le regole che guidano i comportamenti umani e agire di conseguenza.
Descrive la calata di Luigi XII in Italia indicando ad uno ad uno gli errori da
lui commessi: ribadisce come invece di preoccuparsi di tenere alleati i principati che
potevano avere bisogno di lui si è alleato con il Papato facendolo crescere a tal punto
da diventare un pericolo per gli altri alleati che gli si sono rivoltati contro.
Racconta diversi episodi in cui con l’inganno e la violenza alcuni signori sono
riusciti ad impossessarsi dei territori confinanti e può sembrare inquietante ai nostri
occhi il modo in cui Machiavelli accetta l’uso della violenza come fatto normale
delle vicende politiche della sua epoca.
Il Nostro è un uomo del suo tempo: non è un idealista che usa una moralità
che non gli appartiene. E’ un accorto stratega e acuto politico: pensa al fine che vuole
raggiungere, uno stato forte e stabile, e osserva quanto accade intorno per dare
indicazioni utili a procedere verso gli scopi prefissi.
Non ama la violenza: ne giustifica l’uso per mantenere l’ordine e
impressionare i popoli, tra virtù e scelleratezza preferisce la prima, antepone sempre
il bene comune alle nefandezze.
Poi precisa che “nel pigliare uno stato, debbe l’occupatore di esso discorrere
tutte quelle offese che gli è necessario fare, e tutte farle a uno tratto, per non le avere
a rinnovare ogni dì” (cap. VIII.8), per non tenere sempre il coltello in mano e la
popolazione nell’insicurezza: eradicare con tutti i mezzi (e il più semplice sembra
l’eliminazione fisica) tutti i potenziali nemici del potere, il più possibile rapidamente
e in un’unica soluzione, e poi passare a mezzi più civili per mantenere l’ordine3.
Il principe deve usare l’astuzia per tenere lo stato: i cittadini devono essere
messi nella condizione di avere bisogno di lui e dello stato. Precisa poi che gli
uomini si legano al principe facendo o ricevendo benefici.
3
Questo riferimento all’uso della violenza può essere spiegato con le parole di Émile Durkheim che
ne “Le regole del metodo sociologico”, nella discussione sulla distinzione tra normale e patologico
dice: “Affinché gli omicidi scompaiano, occorre che l’orrore per il sangue versato divenga maggiore
negli strati sociali in cui si reclutano gli assassini; ma a tale scopo è necessario anche che esso divenga
maggiore in tutta l’estensione della società” (Durkheim 1895).
20
È indispensabile tenere presente che il senso di cosa è bene e cosa è male
cambia con il tempo e, quello che a noi oggi appare, per fortuna, inaccettabile, era
purtroppo la norma di comportamento in Italia nel 1500.
Machiavelli prosegue con la sua descrizione delle qualità che deve avere il
Principe e, facendo presente che in ogni caso deve aver presenti e saper usare anche
qualità disumane4 per mantenere il potere, costruisce una felice allegoria dicendo che
deve prendere dalla “golpe” e dal “lione”, per difendersi dai lacci e dai lupi,
intendendo che deve saper fare uso dell’astuzia per difendersi dagli inganni e della
forza per poter rispondere con efficacia alle aggressioni, rappresentate in questo caso
dai lupi.
Si auspica poi che il regno si regga sia su buone armi che su buone leggi, ma
tiene presente che se una delle due deve mancare è bene che non siano le armi.
Quella che Machiavelli descrive è anche e soprattutto una visione del futuro,
ancora calata in una realtà piuttosto dura, dove le regole sono poche e facilmente
sovvertibili.
Non si fa problemi di andare contro le opinioni della sua epoca pur di tenere
fede ai suoi concetti. Di fronte ai suoi contemporanei che sostengono che bisogna
“tenere Pistoia con le parte e Pisa con le fortezze” (cap. XX.4) replica di non
approvare che per tenere una città si creino delle divisioni interne che poi potranno
essere letali al Principe. E ribadisce che la miglior fortezza che un Principe possa
avere è di non essere odiato dal popolo. Scopo a cui il sovrano deve dedicarsi
permettendo e favorendo lo sviluppo delle arti e dei commerci.
Fino ad adesso ho trascurato la parte forse più nota di questo saggio, e cioè i
riferimenti a Cesare Borgia e al Papato di Alessandro VI.
Machiavelli si sofferma a descrivere come il giovane Borgia si sia distinto per
l’abilità di acquisire un regno vasto e compatto nel centro Italia, grazie anche alla
rete di alleanze che gli derivava dal supporto del padre, e come la fortuna gli sia stata
avversa facendo morire così prematuramente sia il padre, sia lui stesso, e come il
regno si sia dissolto alla sua morte, per i troppi nemici accumulati.
4
Machiavelli, op. cit. cap. XVIII.3 “… Sendo adunque uno principe necessitato sapere bene usare la
bestia …”.
21
Bisogna riconoscere che però non erano state costruite buone basi per la
stabilità del regno costituito da Cesare Borgia, in quanto spesso i territori erano stati
annessi a seguito dell’uccisione dell’oligarchia del posto, e non esisteva una rete di
alleanze o obbligazioni che potesse garantire qualche forma di collaborazione.
Al contrario le famiglie dei potenti danneggiate dalle scorribande dei Borgia
avevano validi motivi per riappropriarsi dei territori sottratti non appena venisse
meno la minaccia delle armi.
Nel 1500 in Italia abbiamo comunque una quantità di risorse sufficienti a
permettere scambi e benessere abbastanza da dedicare tempo alle arti e al
commercio, e a svolgere attività intellettuali, come dimostra lo stesso lavoro di
Machiavelli.
La fiducia nella costruzione di legami è invece tutta da costruire: la paura e le
armi sono ancora i metodi principali per potersi fidare che i patti verranno rispettati.
A questo proposito è interessante, anche se ci riporta indietro di circa un
secolo, la lettura di una ricerca che riguarda l’ascesa al potere di Cosimo dei Medici
a Firenze nel 1434.
In questo articolo di Padgett e Ansell (1993) si indagano i meccanismi che
hanno consentito ad una famiglia fiorentina di emergere dall’oligarchia ed essere in
grado di tenere unita sotto il suo governo la cittadinanza.
1.1.3 - Robust Action and the Rise of the Medici, 1400-1434. - La famiglia al
potere
In questa ricerca viene messo in evidenza il fatto che sono soprattutto i legami
e le obbligazioni che Cosimo dei Medici riesce a costruire con buona parte della
popolazione a permettergli di avere l’assenso per la sua ascesa al potere.
Utilizzando la Social Network Analysis i ricercatori ricostruiscono la rete di
relazioni che si era strutturata, senza alcuna intenzione manifesta da parte degli
attori, ma come conseguenza dei fatti accaduti.
22
Bisogna riconoscere a Cosimo il merito di aver mostrato apertura per quelli
che vengono definiti gli uomini nuovi, cioè la borghesia.
I Medici facevano parte dell’oligarchia, ma in seguito alla loro presa di
posizione durante la rivolta dei Ciompi, vennero emarginati e nessun matrimonio
venne più celebrato tra loro e le altre famiglie nobili.
Le politiche matrimoniali rischiano però di essere un’arma a doppio taglio: i
legami di parentela possono essere un vincolo che inibisce l’autonomia e la capacità
di azione degli individui5.
Conviene stabilire rapporti commerciali con individui con cui non si hanno
rapporti che possano comportare impegno reciproco, in modo da poter pretendere il
rispetto degli accordi commerciali nel caso che una delle parti non li onori.
Nel caso invece di un legame di parentela è disdicevole rivolgersi alla
giustizia per chiedere l’osservanza dei patti e questo può danneggiare il soggetto più
debole nella transazione.
In seguito all’“embargo” matrimoniale da parte dell’oligarchia fiorentina nei
confronti dei Medici, questi iniziano a rivolgersi a famiglie dello stesso lignaggio ma
residenti fuori Firenze per le loro nozze, così che la distanza che si crea mette al
riparo da obbligazioni troppo pressanti e da situazioni che oggi potremmo definire
“conflitto di interessi”.
Le politiche matrimoniali si differenziano anche secondo il sesso degli sposi:
solitamente le spose che entrano nella famiglia Medici appartengono alla borghesia
commerciale e quindi si trovano in posizione subordinata.
Il fatto di acquisire status attraverso il matrimonio determina la dipendenza
delle loro famiglie nei confronti di Cosimo.
Per quanto riguarda le relazioni commerciali invece queste vengono tenute in
modo massiccio con i “vicini di casa” residenti nel quartiere di San Giovanni,
determinando così una comunanza di interessi dovuta alla necessità di difendere in
solido un patrimonio comune.
5
Come già visto nel testo di Banfield (1958), dove la formazione di un nuovo nucleo avveniva quasi
sempre in modo da rompere i rapporti con la famiglia d’origine e spesso causa di conflitti per motivi
economici.
23
Intanto le altre famiglie dell’oligarchia erano strettamente imparentate tra loro
e al tempo stesso coinvolte in attività commerciali, fatto che le indebolisce anche se
determina un gruppo molto coeso, composto però da tanti cluster incapaci al bisogno
di fare fronte comune.
Cosimo si trova invece ad essere il legame ponte tra l’oligarchia e la
borghesia.
Diversificando i destinatari delle sue relazioni continua ad essere il tramite
per qualunque relazione si voglia instaurare tra i vari membri della comunità
cittadina.
In questo modo la famiglia Medici diventa il fulcro delle attività politiche
cittadine e finisce per ricoprire un ruolo di mediazione tra le parti che renderà
inevitabile la sua ascesa al potere.
Gli autori ci tengono a sottolineare il fatto che Cosimo non agisce con
l’intenzione di diventare quello che poi diventerà, si trova però a fare le scelte giuste
di fronte ai fatti che, come direbbe Machiavelli, la fortuna gli mette davanti.
Realizza cioè una buona sinergia tra la sua capacità di gestire gli eventi e
quello che il caso gli offre come opportunità.
1.2 – Mafie, clientele e tradizione civica
In questa parte del capitolo si fa riferimento a tre diverse ricerche: la prima, di
Federico Varese (2011), è una analisi delle modalità di trasferimento di gruppi di tipo
mafioso lontano dalla terra d’origine. Lo scopo dell’autore, attraverso il confronto tra
tentativi riusciti e falliti, è di individuare i meccanismi che sono alla base dello
sviluppo mafioso per costruire strumenti adatti a contrastarlo.
Il secondo testo, di Eisenstadt e Roniger (1984), è una accurata descrizione
dei legami clientelari e di amicizia, riguardo al loro sviluppo storico e alla loro
diffusione attuale.
Chiude il capitolo la ricerca di Putnam (1993), completando un ideale
percorso iniziato con l’analisi di Banfield (1958), per mostrare come, nonostante la
24
presenza del “familismo amorale” si siano sviluppate in Italia realtà sociali che
producono soddisfazione e benessere tra i loro abitanti.
Non sempre i legami sociali servono al bene comune, se per questo
intendiamo quello della collettività intera: in certi casi possono servire gli interessi di
una ristretta parte della medesima e in alcuni casi proprio di quella parte che sta al di
fuori della legalità.
Ma anche il mondo della criminalità ha bisogno di regole per funzionare, e,
ancor più della società civile, ha bisogno di reti di relazioni in quanto non può
contare sulle leggi scritte nel codice civile per far rispettare i patti.
È interessante l’analisi del fenomeno della costruzione della fiducia
all’interno del mondo della criminalità organizzata che ci fornisce Federico Varese
nel libro recentemente pubblicato che tratta le condizioni di sviluppo di gruppi di tipo
mafioso in luoghi lontani dalla loro origine.
1.2.1 - Mafie in movimento
Gli studi svolti finora sull’argomento definiscono le mafie come
fondamentalmente stanziali.
In questo testo l’autore descrive e analizza alcuni casi in cui gruppi mafiosi si
sono mossi dalla loro terra d’origine per fondare nuovi gruppi in Italia, in America,
nell’Europa dell’Est e in Cina, in alcuni casi con successo fino a diventare
organizzazioni indipendenti, e in altri casi senza riuscire ad affermarsi.
Uno dei principali aspetti che l’autore analizza è il legame con la madrepatria
e se e in che modo tale legame persiste, che funzioni ha e per quali motivi viene
interrotto.
Di solito il legame con la madrepatria è necessario nelle prime fasi
dell’insediamento, perché fornisce risorse altrimenti non disponibili e contribuisce a
mantenere un’identità al gruppo che di solito si trova immerso in una cultura
differente.
25
In alcuni casi il legame con la terra d’origine viene utilizzato per i riti di
iniziazione, e in questo caso è indice di una non completa autonomia.
In altri casi i nuovi membri vengono reclutati tra i nuovi arrivati ma sempre di
provenienza dalla madrepatria.
Quando il gruppo neoformato inizia a reclutare nuovi adepti sul posto il
processo di autonomia è già in una fase avanzata. Appena riesce a sviluppare risorse
in loco inizia il processo di distacco, che può essere più o meno turbolento e
contrastato.
Nel momento in cui la capacità di accumulare capitali nella nuova sede è
maggiore di quella del gruppo di origine, i due gruppi diventano, per ovvie ragioni,
indipendenti.
Varese ci tiene a sottolineare, contrariamente a quanto sostenuto da Putnam
(1993) e Coleman (1988, 1990), come il capitale sociale non sia una protezione
sufficiente contro lo sviluppo di associazioni criminali, e non abbia un ruolo attivo
nella prevenzione di tali infiltrazioni.
Confrontando le due realtà di Bardonecchia negli anni ’50 e Verona negli
anni ‘80, scopre che è stato il fattore fiducia (Varese 2011, p. 46)6 a fare la differenza
e a permettere agli attori del mercato della droga a Verona di vanificare il tentativo di
controllo di tale mercato da parte della mafia e quindi ad impedirne il radicamento.
Gli spacciatori e i consumatori, proprio grazie ai loro legami di conoscenza
reciproca e al codice di comportamento che regolava i loro scambi, sono riusciti ad
eludere il tentativo dei gruppi mafiosi di gestire il mercato locale della droga e il
traffico proveniente dal Medio Oriente ed hanno contribuito a facilitare l’azione
repressiva delle forze dell’ordine.
Si trattava di un mercato illegale, ma aveva delle regole condivise dagli attori
e non aveva bisogno di un intervento che attraverso l’intimidazione garantisse il
rispetto degli scambi.
Perché è in questo modo che agiscono e si fanno spazio le mafie: si
introducono in un vuoto normativo e ne prendono possesso.
6
Fiducia: “probabilità soggettiva grazie alla quale un attore sociale valuta che un altro attore agirà
come promesso”.
26
Dove il monopolio della violenza non appartiene allo stato soltanto (secondo
la nota definizione di Weber) questa può essere utilizzata a vantaggio di pochi.
A Bardonecchia invece negli anni ’50 la presenza di mafiosi in soggiorno
obbligato in un momento di notevole sviluppo del mercato edilizio ha creato le
condizioni per costituire un monopolio della manodopera e del movimento terra
controllato
dalla
‘Ndrangheta,
che
è
diventata
il
canale
privilegiato
dell’immigrazione di operai non specializzati che arrivavano per sopperire alla
carenza di manodopera locale.
A niente è servito lo sviluppato senso civico locale, gli interessi commerciali
hanno avuto la meglio e la mafia è giunta fino a controllare la politica locale, senza
suscitare opposizioni tra la popolazione.
L’organizzazione criminale si è sostituita alla concorrenza, costringendo i
lavoratori in condizioni disumane e eliminando eventuali rivendicazioni sindacali
con la violenza.
In un comune di piccole dimensioni come quello di Bardonecchia il numero
di voti controllati dalla ‘Ndrangheta è stato sufficiente per vincere le elezioni e gli
oppositori sono stati ridotti al silenzio con l’intimidazione.
La tendenza a regolare i mercati tramite accordi privati per limitare i costi
della concorrenza è un fenomeno diffuso, ma l’intervento della criminalità aggiunge
al danno economico la totale arbitrarietà della tutela e soprattutto l’uso della
violenza.
Come sostiene Varese: “la differenza fondamentale tra una democrazia
fondata sullo stato di diritto e un governo mafioso risiede nella certezza del diritto e
nella possibilità per i cittadini di influenzare le decisioni dei governi nella prima e
non nel secondo” (2011, p. 19).
Gli altri esempi che Varese ci fornisce dimostrano come nelle situazioni di
transizione dei mercati, dove si ha un rapido sviluppo o, come in altri casi che
esamina, nel passaggio da economie comuniste ad economie di mercato, dove non
esistono regole certe né attori accreditati, la criminalità organizzata può inserirsi a
fare da intermediario, sostituendosi nella funzione regolativa che dovrebbe avere lo
27
stato, fornendo servizi che sono largamente apprezzati da qualcuno e fortemente
iniqui per altri.
Gli esempi a questo proposito riguardano uno stesso gruppo criminale di
origine russa, la Solncevo, che negli anni ’90, tenta di radicarsi a Roma, senza
successo, e a Budapest dove invece, grazie alla particolare situazione economica,
riesce ad acquisire ampio spazio.
La repentina trasformazione da un’economia regolata al libero mercato con la
conseguente espansione e l’incapacità dello stato di costituire un baluardo ha favorito
la domanda di protezione extralegale per le attività economiche che si sono
facilmente collocate al di fuori della legalità.
Il ruolo della criminalità organizzata come sostituto dello stato è
particolarmente evidente nel caso della Cina, dove l’alta conflittualità tra lavoratori e
datori di lavoro, in assenza di una efficiente presenza della magistratura, viene risolta
con l’utilizzo della criminalità. Inoltre, sempre per la difficoltà di ottenere
risarcimenti tramite la legge, sono sorte molte agenzie di recupero crediti, spesso
gestite da pregiudicati che utilizzano ampiamente l’intimidazione e la violenza. Per
arginare il fenomeno l’amministrazione statale ha deciso di dichiarare illecita
l’attività di recupero crediti determinando in toto una loro collocazione al di fuori
della legge.
L’importanza di una rete di conoscenze si rende evidente anche in un aspetto
alquanto peculiare dell’attività criminale: i crimini hanno bisogno di un pubblico e le
minacce, per essere efficaci, devono essere credibili e i minacciati devono avere
prova che quanto temuto può essere messo in atto, altrimenti possono rispondere
all’intimidazione in modo difensivo oppure ignorarla. E’ necessario che la fama di
terrore accompagni queste organizzazioni in modo tangibile perché possano essere
efficaci. Spesso è necessaria una conoscenza diretta dei fatti o di testimoni di essi.
Nei primi anni del ‘900 era diffusa a New York un’organizzazione che si
firmava “La mano nera” perché siglava le sue lettere minatorie con il disegno di una
piccola mano nera. Le lettere servivano ad estorcere soldi in cambio di protezione,
minacciando tremende ritorsioni se il destinatario non avesse pagato. Ben presto si
diffusero molti imitatori che non avevano nessuna capacità di mettere in atto le
28
minacce, e questo produsse l’effetto che in poco tempo i destinatari smisero di
pagare e il fenomeno scomparve da solo.
Un altro aspetto importante relativo alla fiducia riguarda il rapporto con gli
emissari in territori lontani dalla casa madre: trattandosi di rapporti personali e non
potendosi rivolgere alle autorità per recuperare eventuali furti, può capitare che un
emissario si arricchisca ai danni del suo boss, salvo poi venire ucciso in modi
spettacolari come azione dissuasiva nei confronti di simili comportamenti.
Una situazione particolare si è creata a New York in seguito alle riforme del
sistema di polizia nei primi del novecento. All’epoca la polizia newyorkese era
corrotta e connivente con alcuni settori del commercio illegale: la prostituzione e il
gioco d’azzardo. I poliziotti si facevano pagare per permettere ai gestori di lavorare
indisturbati. Le riforme furono così efficaci da eliminare la funzione di protezione
che veniva svolta da parte della polizia, lasciando così un vuoto che venne colmato
dalla mafia siciliana.
Una successiva espansione delle gang di mafiosi si ebbe con l’introduzione
del proibizionismo, favorendo la nascita di un nuovo mercato illecito che aveva
bisogno di funzioni di protezione e di regolazione degli scambi che non potevano
certo essere chiesti alle autorità locali.
La domanda che si pone Varese è se la democrazia favorisce le mafie, in
quanto dalla sua analisi appare che alcuni paesi nella fase di transizione da mercati
regolati a sistemi di democrazia hanno visto un forte incremento della criminalità di
stampo mafioso.
Questa domanda suscita ovviamente perplessità, ma la risposta va cercata
nell’assenza di regole certe che lascia spazio ad abusi, quello che precedentemente
ho definito vuoto normativo. Soprattutto la tutela del diritto di proprietà si rivela
importante nelle fasi di transizione, assieme all’esistenza o meno di mercati illegali.
Nel caso del proibizionismo in America è stato dato un forte impulso ad un
mercato illegale che prima non esisteva e che ha beneficiato delle funzioni regolative
che la criminalità già esistente sul territorio poteva offrire.
In altri casi è stata la richiesta di frenare le rivendicazioni sindacali dei
lavoratori da parte delle imprese a servire da stimolo alla criminalità organizzata, ma
29
dove questa funzione repressiva veniva svolta dallo stato non è stato necessario
l’intervento illecito, come a Rosario in Argentina nei primi anni del ‘900. Anche in
questo caso si trattava di un mercato edilizio, ma le dimensioni di tale mercato non
permisero che una piccola organizzazione riuscisse ad avere il sopravvento. Per
quanto riguarda le rivendicazioni operaie queste erano represse direttamente dalla
polizia di stato, per cui non vi era spazio per lo sviluppo di questa forma di controllo
da parte di associazioni illegali.
Dove invece lo stato è riuscito a limitare l’ingerenza della polizia durante gli
scioperi la criminalità è stata chiamata in campo dai proprietari, come nel caso di
New York dopo le riforme che avevano sradicato la corruzione dei poliziotti.
Certe organizzazioni criminali quando riescono a svilupparsi è perché
svolgono un ruolo nelle nostre società; agiscono da regolatori o intermediari in certe
sacche di mercato che non hanno a disposizione un sistema di norme funzionanti o
non possono averlo perché esistono al di fuori della legalità.
Questa funzione di regolazione può essere svolta dallo stato o da altri enti,
può essere lecita oppure illecita. A metà di questi due estremi si collocano i legami
personali e clientelari, che appartengono alla legalità, ma non sono gestiti dallo stato,
possono essere formalizzati ma anche informali. Importante è sempre e comunque la
loro funzione di costruzione della fiducia.
1.2.2 - Patrons, Clients and Friends: Interpersonal Relations and the Structure
of Trust in Society
Una ricerca molto importante sui modi in cui si costruisce e si diffonde la
fiducia nelle società moderne è il lavoro di Eisenstadt e Roniger (1984). Si tratta di
una analisi accurata di come si sviluppano i legami clientelari dall’epoca dell’impero
romano ad oggi, tenendo presenti le diverse realtà dell’occidente e dell’oriente. Gli
autori esaminano anche come si costruiscono altri tipi di legame e la loro esistenza
nel dominio pubblico o nel dominio privato e la relazione tra questi due.
30
Benché la loro origine si perda nel passato, i legami clientelari non sono
l’espressione di una fase primitiva di sviluppo della società, bensì sono legati
all’orientamento culturale e alle modalità di costruzione della fiducia. Sono
caratterizzati sempre dallo scambio contestuale di risorse di vario tipo, spesso mutue
obbligazioni di tipo economico, e l’enfasi è posta sia sulla loro utilità che sulla loro
reciprocità.
A questi legami vengono attribuiti frequentemente valori morali e vengono
strutturati attraverso riti che ne confermano la validità e la condivisione di significati.
Le modalità in cui evolvono tali legami in certi casi possono condurre alla
coercizione e all’abuso, questo dipende principalmente dalla asimmetria degli attori.
I legami clientelari infatti hanno origine quasi sempre da situazioni precedenti in cui
gli attori erano fortemente vincolati in un regime di totale dipendenza di uno
dall’altro. Esempi di ciò sono i rapporti tra padroni e schiavi liberati nell’impero
romano o tra i colonizzatori europei e le popolazioni autoctone in America Latina. I
legami clientelari nascono storicamente quando individui che fanno parte della stessa
società si trovano in situazioni diverse di potere e di accesso alle risorse.
Il richiamo, contenuto anche nel nome, ai “clientes” latini è esemplare:
diventavano clientes gli schiavi liberati e le colonie o i territori confinanti con
l’impero, e il rapporto di clientela stabilisce alcune regole di comportamento che
sono vantaggiose per entrambi. Da una parte gli schiavi liberati restano in condizioni
di semi dipendenza dai loro precedenti padroni, dall’altra parte i “patrones”
continuano ad usufruire di qualche servizio da parte degli ex schiavi senza però
dover provvedere al loro mantenimento.
Il rapporto si trasforma per le nuove esigenze che si manifestano con il
cambiamento della struttura sociale o delle condizioni economiche. Tornando
all’esempio degli schiavi liberati nell’antica Roma, questo poteva avvenire in seguito
ad una acquisizione di risorse autonome da parte dello schiavo, ma anche per la
necessità del padrone di avere un carico minore nella gestione della servitù. Lo
schiavo liberato infatti, pur mantenendo certi obblighi di servitù, doveva provvedere
autonomamente per alcuni aspetti alla sua sopravvivenza, invece di riceverli in toto
dal padrone.
31
Questo fenomeno ricorda quanto avviene attualmente nelle imprese che
decidono di delegare ad imprese satelliti certe attività svolte al loro interno su cui
non riescono ad avere un buon controllo dei costi ma che gravano sul bilancio, quello
che viene chiamato “outsourcing”. In questo modo le spese di certe attività, che
generalmente non appartengono al core business dell’azienda, vengono demandate
ad altri e il prodotto è acquistato ad un prezzo fisso.
Qualcosa di simile a quanto è successo in alcune zone d’Italia in cui è stata
diffusa un certo tipo di piccola impresa, come la realtà tessile pratese7, in cui
l’azienda “madre” distribuiva il lavoro e i rischi tra tanti piccoli artigiani, o in grandi
aziende, come ad esempio la FIAT di Torino, che ha fatto ampio ricorso
all’Outsourcing, oppure, più di recente, l’uso di esternalizzare alcuni servizi un
tempo strettamente municipalizzati come la fornitura di gas, acqua, trasporti pubblici,
per ovviare alle riduzioni dei finanziamenti da parte dello stato.
Il tratto comune a tutte queste realtà è che un allentamento dei rapporti e una
maggiore autonomia del soggetto più debole corrisponde ad una diffusione dei costi
e dei rischi su entrambi i membri che, per essere vantaggiosa per tutti, deve essere
bilanciata da una diffusione anche delle risorse.
Questo conduce ad un’altra analogia: quella tra madre e bambino. Questo
richiamo è importante perché spesso viene attribuita la capacità degli individui di
costruire relazioni alla loro singolare esperienza di fiducia incondizionata esperita nel
rapporto primordiale con l’adulto; nei casi in cui tale fiducia è venuta a mancare si
riscontrano spesso patologie comportamentali. L’aumento di autonomia del bambino
viene sottolineato dalla sua capacità di farsi carico delle proprie necessità invece di
ricorrere passivamente all’accudimento.
In tutti questi casi il legame resta come traccia di una maggiore dipendenza
esperita nel passato.
Ci rimanda inoltre al concetto di divisione del lavoro, così come descritta da
Adam Smith e come concettualizzata dai Padri Fondatori8 della Sociologia:
Durkheim, Weber e in parte anche Marx, con la loro consapevolezza che tale
7
Una gradevole descrizione in merito si trova in Storia della mia gente (Nesi, 2010), che vediamo nel
prossimo capitolo.
8
Eisenstadt e Roniger (1984), cap. 2, p. 20.
32
divisione, assieme ai meccanismi regolativi del mercato, non è sufficiente a spiegare
il funzionamento dell’ordine sociale. Per questo vengono chiamate in causa la
costruzione della fiducia e della solidarietà.
Le inevitabili tensioni e i conflitti che sorgono a causa della divisione del
lavoro devono essere risolti attraverso meccanismi di dialogo e scambio tra le parti
che mitighino la tensione. Le teorie funzionaliste di Talcott Parsons e altri sociologi
contemporanei sottolineano l’importanza della funzione di integrazione nel
mantenimento dell’ordine sociale.
Gli autori identificano le seguenti caratteristiche comuni a tutti i tipi di
rapporti clientelari:
a) Le relazioni tra patrono e cliente sono particolaristiche e diffuse.
b) L’interazione è caratterizzata dallo scambio simultaneo di differenti tipologie
di risorse.
c) Lo scambio avviene in “pacchetti” standardizzati.
d) In queste relazioni si costruisce una sorta di scambio senza condizioni e di
credito a lungo termine.
e) Lo scambio è caratterizzato da un forte elemento di obbligazione reciproca.
f) La relazione non è completamente legale o contrattuale, è basata su accordi
informali.
g) La relazione patrono-cliente è generalmente volontaria.
h) È una relazione verticale.
i) È basata su una forte diseguaglianza tra le parti.
Queste caratteristiche vengono individuate nelle varie tipologie di situazioni
analizzate nel testo.
Altro aspetto analizzato dagli autori è il dinamismo tra pubblico e privato: le
società tribali, in cui i legami di parentela hanno uno spazio predominante, negano
l’esistenza di uno spazio privato per gli individui. Questo può esser dovuto alle
ridotte dimensioni di tali società che permettono un controllo sociale capillare.
Rispecchia comunque l’idea di fondo di una società in cui non si distinguono spazi
separati, bensì un insieme molto coeso.
33
Allo stesso modo nelle società totalitarie non viene concessa legittimità alle
relazioni non pubbliche. Dove il privato acquista spazio è nelle società che gli autori
definiscono Pluralistiche aperte e Consociazionali, a dimostrazione del fatto che in
tali società diminuisce l’orientamento al controllo.
È interessante notare che i rapporti clientelari tendono a svilupparsi nei punti
di discontinuità del sistema sociale, dove la fiducia viene a mancare a causa delle
differenze strutturali dei settori tra di loro, come ad esempio nel sistema indiano tra
le diverse caste, oppure tra settori della stessa società che si rifanno a principi
differenti.
Nel caso di alcune società basate su principi universalistici di accesso alle
risorse e alla gestione del potere, come ad esempio gli Stati Uniti d’America, si sono
sviluppati sistemi clientelari legati al mondo della politica, in seguito all’enorme
sviluppo dell’urbanizzazione. Questo è dovuto probabilmente alla necessità di gestire
le relazioni in modo da ridurre la complessità del sistema per poterlo governare.
Il paradosso più evidente sta nel fatto che dall’analisi degli autori risulta che
le società in cui sono predominanti i rapporti clientelari sono caratterizzate da bassi
livelli di fiducia. Al contrario dove la fiducia è diffusa non si sviluppano modelli
clientelari a testimonianza quindi del suo ruolo di collante del sistema sociale.
La peculiarità del rapporto clientelare, rispetto ad altre forme di relazione sta
nel fatto di costituire un vincolo, un restringimento delle possibilità di diffusione
delle risorse. E’ un rapporto finalizzato ad uno scambio che limita il numero di
opzioni possibili.
L’aspetto fondamentale di questi legami è che costruiscono fiducia, nel senso
di prevedibilità agli eventi e agli effetti delle proprie azioni; costruiscono relazioni,
che vincolano i soggetti che partecipano agli scambi, ma la loro peculiarità è proprio
dovuta al fatto che la fiducia che veicolano è limitata agli individui che fanno parte
del gruppo clientelare, anziché a tutta la società.
Le conseguenze di questo tipo di relazioni hanno effetti che durano a lungo e,
secondo alcuni autori, è molto difficile cambiare la struttura della società dopo che si
sono stabiliti. Questa è anche la tesi di Robert Putnam (1993), che, come vediamo di
seguito, attribuisce alla storia di rapporti clientelari, contrapposta all’esercizio della
34
democrazia, la responsabilità di determinare il diverso rendimento delle istituzioni
nelle diverse regioni italiane.
1.2.3 – La tradizione civica nelle regioni italiane
Dopo un lungo dibattito istituzionale, nel 1970 in Italia sono stati istituiti i
Consigli Regionali, come era stato previsto nella Costituzione del 1948. I venti anni
trascorsi tra la previsione e la loro effettiva costituzione erano stati segnati da un
singolare sviluppo economico, che aveva dato al paese la necessaria stabilità per
permettere di accogliere le istanze dei fautori del decentramento. Nel corso del primo
decennio del loro funzionamento vengono trasferite funzioni e poteri dagli organi
centrali alle Regioni, che si trovano a poter decidere su questioni economiche fino a
quel momento gestite direttamente da Roma. La vicinanza dei decisori alle realtà
locali era stata vista come l’occasione per sviluppare un sistema più democratico e
più efficiente.
Per Putnam e i suoi collaboratori questa situazione è un’opportunità
irripetibile, in quanto una nuova istituzione viene creata dal nulla e se ne possono
studiare gli effetti sul sistema sociale. È particolarmente significativo il fatto che la
medesima forma istituzionale venga introdotta in zone che hanno situazioni storiche
ed economiche profondamente diverse, così da poter studiare l’influenza del contesto
sulle forme di governo. La ricerca che ha inizio nel 1970 si protrarrà per venti anni.
Nella prefazione al libro che ne scaturisce Putnam descrive la mole di cambiamenti
che hanno attraversato l’Italia e il suo mondo politico in questo periodo, e come i
Consigli Regionali siano passati dall’essere una istituzione presente solo sulla carta a
diventare organi effettivi del governo territoriale.
La prima domanda che Putnam si pone è fino a quanto le istituzioni incidano
sulla pratica politica e in che modo invece il contesto ne influenzi i risultati. Le
differenze economiche e sociali di partenza tra le varie regioni italiane sono tali che
determinano fin dall’inizio evidenti discontinuità nell’applicazione del mandato.
35
Attraverso la somministrazione di questionari, tesi a identificare il livello di
soddisfazione dei principali attori di questa innovazione, cioè i consiglieri regionali e
i cittadini, e attraverso il confronto di numerosi indicatori, i ricercatori riescono a
confrontare il rendimento istituzionale e il grado di soddisfazione nelle varie regioni.
Il più importante risultato che Putnam rileva, pur nelle regioni meno
soddisfatte, è la considerazione unanime che in ogni caso il governo regionale
costituisca un miglioramento rispetto al governo centrale, sia per la maggiore
raggiungibilità, sia per la migliore conoscenza del contesto in cui si trova ad operare.
Un altro risultato di rilievo è che a livello regionale la conflittualità tra
schieramenti politici tende ad attenuarsi col tempo, e i consiglieri tendono ad
orientarsi sempre di più alla risoluzione dei problemi piuttosto che alle
contrapposizioni ideologiche. Putnam ritiene che la causa principale di questo effetto
sia stata quella che lui definisce la “socializzazione istituzionale” cioè la
partecipazione diretta ai problemi della Regione che ha convinto i protagonisti a
passare dal dogmatismo ideologico a un pragmatismo più consensuale (ibid., cap. II,
p. 44). L’esercizio del governo ha prodotto cambiamenti negli atteggiamenti dei
consiglieri eletti, tali da orientarli verso le concrete realtà in cui sono immersi,
piuttosto che limitarsi a bilanciare posizioni di potere. Queste differenze di
orientamento vengono riscontrate in tutte le Regioni, dalle più alle meno civiche,
indicando quindi un effetto di questa nuova istituzione sul senso civico.
Oltre a questi risultati positivi vengono rilevate notevoli differenze di
rendimento. Putnam individua tre livelli per distinguere le regioni con il massimo di
senso civico da quelle in cui la nuova istituzione ha prodotto pochi miglioramenti. La
classificazione si basa sulla identificazione dei seguenti dodici indicatori del
rendimento delle istituzioni:
1 – la stabilità della giunta,
2 – la puntualità nella presentazione del bilancio,
3 – la presenza e l’utilizzo di servizi di informazione e statistica,
4 – le riforme legislative, di cui viene valutata l’estensione, la coerenza e
l’inventiva,
5 – gli aspetti innovativi della legislazione regionale,
36
6 – la costituzione di asili nido,
7 – la costituzione di consultori familiari,
8 – gli strumenti di politica industriale,
9 – la capacità di spesa nel settore agricolo,
10 – le spese delle Unità Socio-Sanitarie Locali,
11 – l’edilizia e lo sviluppo urbanistico,
12 – la disponibilità dell’apparato burocratico nei confronti dei cittadini.
La varietà di questi indicatori e la loro accuratezza ci da una visione
d’insieme dell’estensione della ricerca e degli ambiti verso cui è orientata.
Confrontando i risultati per ciascuno di questi indicatori è stato costruito un indice
sintetico che ha permesso di ordinare le varie regioni secondo il loro rendimento. È
stata rilevata una forte concordanza tra gli indicatori, a sostegno dell’attendibilità
della ricerca.
Accertata l’oggettiva differenza di rendimento, Putnam si chiede che cosa
rende così diverso l’esito nelle varie Regioni. Le principali ipotesi ci riconducono
alle differenze nella modernità socioeconomica e nella comunità civica, intesa come
impegno politico e solidarietà. L’autore sostiene che una situazione di povertà può
danneggiare lo sviluppo sociale, ma la ricchezza da sola non è in grado di stimolare
lo sviluppo della civicness. Invece una buona diffusione della cultura civica ha senza
dubbio effetti positivi sull’economia.
A questo punto, stilata la graduatoria delle Regioni secondo il loro
rendimento e andando ad analizzarne la storia, si trova che le Regioni con il miglior
rendimento corrispondono a quelle che durante il Medioevo hanno visto fiorire i
Comuni, mentre le altre appartengono al Meridione d’Italia e hanno sperimentato
vari governi autocratici, dal Regno dei Normanni in poi.
Queste condizioni di partenza hanno prodotto un circolo virtuoso nelle
regioni del centro-nord, e un circolo vizioso al sud, dove il potere centrale ha
impedito lo sviluppo di forme di cooperazione e di autonomie locali.
Le condizioni economiche nel Medioevo non erano totalmente a favore delle
regioni settentrionali: il forte potere centralizzato al sud aveva permesso la creazione
del latifondo, con forti accumulazioni di ricchezze, e lo sviluppo delle arti e di città
37
tra le più popolose d’Europa, come ad esempio Napoli, mentre le continue dispute tra
i Comuni determinavano una instabilità dannosa per i commerci.
Ma mentre la situazione dei Comuni ha costituito una palestra per la
costruzione del senso civico e ha stimolato i banchieri ad inventare strumenti che
potessero ovviare alla mancanza di ingenti accumulazioni di denaro, come è stato il
credito, la struttura fortemente verticale del Meridione ha stimolato solo lo sviluppo
di rapporti clientelari tra la nobiltà terriera e il resto della popolazione.
Sostanzialmente la profonda differenza tra le due realtà può ricondursi alla
prevalenza di rapporti asimmetrici, di tipo verticale, nel sud, e la presenza di rapporti
di tipo orizzontale nelle altre regioni. Queste tipologie di legami si sono rivelate
particolarmente stabili e ostili al cambiamento: nonostante i secoli seguenti siano
stati attraversati da varie calamità, invasioni straniere, pestilenze che hanno decimato
la popolazione, soprattutto al centro e al nord, li ritroviamo pressoché inalterati nel
ventesimo secolo.
Nel 1860, al momento dell’unificazione d’Italia, quando il governo centrale,
sotto la spinta ideologica del liberalismo, si è impegnato ad eliminare qualsiasi forma
di associazionismo, così come è avvenuto in altri paesi europei, come la Francia, le
varie zone dell’Italia hanno reagito in modo diverso a questo cambiamento.
In quel periodo si è avuta una fioritura di nuove forme associative, dovute
soprattutto alla necessità di fornire nuovi strumenti di solidarietà sociale ed
economica alle classi lavoratrici. Il fenomeno ovviamente ha riguardato solo le zone
che avevano avuto uno sviluppo imprenditoriale, per cui il meridione d’Italia,
rimasto fermo al latifondo, non ne è stato interessato. Tra il 1860 e il 1890 sono nate
diverse società di mutuo soccorso, e contemporaneamente ha preso un forte impulso
la creazione di cooperative. Queste, pur essendo apolitiche, erano sostenute da ideali
di largo respiro e svolgevano un’importante funzione politica latente, contribuendo
alla diffusione di idee e corroborando la capacità di svolgere azioni collettive e di
solidarietà tra i cittadini.
Nel meridione invece nello stesso periodo la popolazione era divisa tra i
pochi nobili proprietari delle terre e la massa dei contadini e braccianti che vivevano
in condizioni di povertà. La pervasiva sfiducia, assieme alla mancanza di risorse,
38
impediva ai contadini di unirsi come al nord per formare consorzi e cooperative, e la
nobiltà ricorreva alla violenza per mantenere il controllo delle campagne. Da questo
particolare contesto ha avuto origine la Mafia.
Putnam a questo proposito cita il lavoro di Banfield su Montegrano, e chiama
in causa il concetto di “familismo amorale”, per spiegare l’incapacità degli abitanti
delle regioni del sud Italia di collaborare e di sviluppare quel senso civico che
avrebbe potuto agire da stimolo per lo sviluppo economico.
La realtà italiana non è però esaurita da queste due tipologie: a metà strada tra
gli estremi del nord industrializzato e del sud impantanato in forme di agricoltura
arretrate esiste quella che è stata definita da Bagnasco et al. (2010) la “Terza Italia”
cioè quella che si basa su un’economia diffusa, su piccola scala, ma altamente
produttiva, quella dei “distretti industriali”. In queste zone le dimensioni delle
imprese sono piccole, spesso a conduzione familiare, il tessuto produttivo è
fortemente interconnesso e le fasi di lavorazione sono capillarmente distribuite.
Quando questo tipo di struttura economica funziona e diventa redditizia, aumenta
anche la mobilità sociale. Secondo Putnam questi distretti sono terreno fertile per lo
sviluppo di forme di collaborazione e di solidarietà professionale.
Le considerazioni conclusive dell’autore vertono su vari aspetti che
riguardano il tema della collaborazione tra individui.
Le teorie che si rifanno alla necessità di una guida autoritaria, il “Leviatano”
che imponga con la forza l’ordine sociale, non tengono conto degli effetti sul lungo
periodo: l’assuefazione all’obbedienza stimolerà lo sviluppo di astuzie e scorciatoie
che alla fine si concretizzano nei rapporti clientelari o nelle Mafie, mentre solo
l’esercizio dell’autonomia, con i suoi alti e bassi, può permettere l’apprendimento e
la diffusione di quelle forme di collaborazione che sono indispensabili per lo
sviluppo dell’economia.
Questa capacità di collaborare diventa un capitale che, a differenza del
capitale convenzionale, non si consuma con l’utilizzo, anzi ne è incrementato,
proprio perché si diffonde e si riproduce. Ad una azione collaborativa possono
seguire molteplici azioni di risposta, e la fiducia che è necessaria per questo tipo di
39
relazioni viene incrementata dallo scambio, mentre il non uso tende a farla affievolire
fino a scomparire.
La formazione della fiducia e il suo mantenimento hanno però bisogno di un
ambiente di forte riconoscibilità: le sanzioni per le defezioni non hanno effetto tra
sconosciuti. Questo rende possibile nelle società complesse l’opportunismo, proprio
perché non è facile essere scoperti, ma rende nello stesso tempo più importante
costruire relazioni basate sulla fiducia, perché una società complessa è sottoposta a
molteplici forze disgreganti che possono essere contenute solo dalla rete di legami
che si sviluppano al suo interno.
Da questa ricerca Putnam cerca di trarre alcune indicazioni: la prima è che la
storia di un paese non va trascurata, perché incide sui comportamenti, ma questo non
va inteso come impossibilità di cambiare, bensì come punto di partenza di cui tenere
conto perché le azioni intraprese abbiano successo.
L’altro punto importante è che le istituzioni, interagendo con il contesto,
producono cambiamenti, e si può sperare di interrompere il circolo vizioso attraverso
di esse, purché si abbia l’accortezza di avere come scopo il favorire l’apprendimento
sociale, cioè far partecipare gli attori al governo della cosa pubblica in modo da
permettere loro l’apprendimento mediante l’azione.
40
Capitolo 2
Nel mondo del lavoro: dalla fiducia al capitale sociale
2.1 – Cos’è successo alla terza Italia? Il tessile a Prato raccontato da un
imprenditore
Anche questo capitolo inizia con la descrizione di una realtà circoscritta, di
una città della toscana che ha vissuto una esperienza particolare. In questo caso
l’autore non è uno scienziato sociale, ma un protagonista in prima persona dei fatti
che narra. Lo scopo di questa testimonianza è allo stesso tempo privato e pubblico.
L’autore narra a se stesso prima che agli altri le vicende della sua città. È un percorso
alla ricerca di un senso e di una spiegazione. Nasce dal bisogno di comprendere se
quanto è accaduto poteva svolgersi in altro modo, se quel patrimonio di alacrità e
ricchezza diffusa in cui lui si è trovato a nascere aveva qualche speranza di venir
tramandato alle generazioni future o se gli eventi erano ineluttabili e non c’era altro
da fare che accettare la sorte cercando di uscirne nel modo migliore possibile.
2.1.1 – Storia della mia gente1
Una decina di anni dopo che Banfield ha iniziato la sua ricerca a
Chiaromonte, nasce Edoardo Nesi in una famiglia di imprenditori tessili a Prato, una
città nei pressi di Firenze che nel secondo dopoguerra ha avuto uno sviluppo
incredibile. Negli anni ’50 la pianura ai piedi delle colline era una campagna
costellata di campi, alla fine degli anni ’70 era diventata una distesa di capannoni
industriali e adesso ospita la più grande colonia italiana di immigrati cinesi.
1
Nesi (2010).
41
La fioritura dell’industria tessile a Prato è durata una o due generazioni; negli
anni ’60, come del resto buona parte dell’Italia del centro nord, era in piena
espansione e i contadini lasciavano i campi per dedicarsi alla tessitura.
A 40 anni, nel 2004, l’autore vende l’azienda di famiglia perché tutto il
settore è in crisi e non ci sono più margini per poter proseguire l’attività
proficuamente. Quello che per lui sembrava un destino obbligato, cioè continuare a
gestire l’azienda di famiglia, sfuma da solo, per colpa dell’apertura dei mercati.
Anche se Nesi si sofferma più a lungo sulle emozioni che lo hanno
accompagnato, il quadro che delinea descrive bene la realtà pratese: bastava aver
voglia di lavorare e i soldi arrivavano, tutto quello che veniva prodotto veniva
venduto immediatamente. La struttura che si era sviluppata era costituita da tante
piccole aziende a conduzione familiare o poco più, che coprivano tutte le fasi di
lavorazione dei tessuti: dalla scelta degli stracci che arrivavano dall’America alla
stoffa finita che veniva venduta alle confezioni. Intorno fiorivano tutta una serie di
servizi accessori tali da non lasciare disoccupato nemmeno il più analfabeta degli
operai. Era un mercato che “tirava” e grazie a questo non era necessaria alcuna
abilità particolare per riuscire a guadagnare.
L’effetto di questa situazione era la sensazione di non avere limiti, soprattutto
per un imprenditore, e di essere l’unico responsabile dei propri fallimenti.
Nesi però non si identifica con la ditta di famiglia: ha altre aspirazioni, va
spesso in America per imparare la lingua, si sforza di far funzionare l’azienda con
metodi più rigorosi, legge i romanzi di Fitzgerald e se ne appassiona, scrive romanzi,
tra cui uno, che intitola “L’età dell’oro”, in cui prevede la decadenza del sistema di
produzione tessile a Prato, con alcuni anni di anticipo rispetto a quando succede
realmente.
In “Storia della mia gente” ripercorre le tappe della sua formazione in
parallelo con la storia della ditta e della realtà che lo circondava.
Le parti finali raccontano la crisi, l’arrivo dei cinesi e lo sgomento delle
persone che restano incredule ad osservare tutte le promesse di prosperità che si sono
sciolte come neve al sole.
42
A vederla dall’interno, la realtà pratese negli anni ’60 e ’70 sembrava
veramente difficile pensare che potesse cambiare. In realtà si reggeva su un
equilibrio molto fragile. L’aspetto più solido di questa struttura era la divisione dei
rischi, cioè il fatto che i costi di eventuali perdite si ripartivano tra una miriade di
imprese, in modo da non costituire il fallimento di nessuna, ma solo un minor
guadagno. Dal punto di vista degli imprenditori la storia di Prato è stata un continuo
progresso fino al punto in cui non è iniziato il declino, ma dal punto di vista dei
tessitori, cioè quelle piccole imprese che gravitavano intorno al lanificio e che si
occupavano solo di una parte della lavorazione, le crisi erano ricorrenti. Il problema
principale era che ad ogni flessione delle vendite, prevalentemente verso mercati
esteri, e quindi soggette a tutti i cambiamenti legati all’andamento dei cambi, il
proprietario della ditta cercava di abbassare i costi di produzione, generalmente
pagando meno i tessitori. Esistevano accordi per stabilire i compensi pagati agli
artigiani, ma spesso c’era chi era disposto a lavorare “sotto tariffa” lasciando senza
lavoro chi non si adeguava e vanificando quindi gli accordi.
Fino al momento dell’introduzione del documento di trasporto merci, la
cosiddetta “Bolla di accompagnamento”, il lavoro al nero era ampiamente diffuso e
veniva percepito come la fonte di guadagno migliore, perché non tassata.
Anche il reddito di chi lavorava all’interno delle fabbriche poteva giovarsi di
una parte di lavoro al nero: spesso le ore di straordinario erano pagate “fuori busta”,
con la miopia dei lavoratori che in questo modo hanno visto decurtati i loro
contributi.
Fondamentalmente la prosperità di Prato si basava su questi ingredienti: una
capillare distribuzione dei rischi, un mercato in espansione che accoglieva tutta la
produzione senza troppe richieste di qualità e quindi senza bisogno di manodopera
qualificata, una cospicua evasione che consentiva di reinvestire anche le quote che
avrebbero dovuto confluire nelle imposte e servire eventualmente a politiche di
welfare e redistributive.
Al momento dell’apertura dei mercati alla produzione tessile proveniente da
tutto il mondo la produzione pratese non è stata più concorrenziale, molte imprese
hanno chiuso e parte della loro attività è stata rilevata dalla comunità di immigrati
43
cinesi che sono arrivati in gran numero, che spesso utilizzano manodopera, sempre
cinese, sottopagata e senza garanzie di nessun tipo, spesso tenuta in condizioni di
lavoro e di vita per noi inaccettabili.
Per adesso la maggioranza di ex lavoratori del tessile sono protetti dalle reti
sociali sviluppate in precedenza. Il periodo di prosperità ha permesso a quasi tutti di
diventare proprietari almeno della propria abitazione. Molti sono già in pensione e a
questa forma di reddito possono fare riferimento i loro figli che non siano riusciti a
ricollocarsi in una nuova attività. Il sistema sanitario pubblico garantisce le spese
mediche della popolazione anziana in modo che la pensione possa costituire un
supporto per tutta la famiglia senza essere intaccata dalle necessità sanitarie. Chi era
riuscito ad accumulare qualcosa in più e aveva iniziato una impresa in proprio può
affittare i laboratori ai nuovi imprenditori, molto spesso cinesi, in modo da ricavarne
una rendita.
Ma tutto questo potrà trasmettersi alla generazione successiva? Probabilmente
no, visto che si tratta di una forma di capitale che si sta semplicemente consumando.
E tutto quanto è successo, questa fine dell’età dell’oro, poteva essere evitata?
Nesi accusa di miopia i nostri governanti nei confronti degli effetti dell’apertura dei
mercati ed in particolare gli economisti, per aver visto solo un bene in questo
cambiamento, senza prevedere le conseguenze nefaste sul sistema pratese.
Indubbiamente la transizione da un mercato protetto allo scambio globale
poteva essere gestita con delle cautele e forme di avvicinamento graduale che non
sono state implementate, ma questo non è il nostro oggetto d’indagine.
Come negli esempi di Federico Varese (2011) che confronta le differenze tra
Bardonecchia e Verona, e senza voler alludere all’aspetto di illegalità dei mercati, ma
solo al fatto che ci troviamo di fronte a delle realtà che hanno subito un cambiamento
determinato dall’arrivo di agenti esterni e sono riuscite o meno a mantenere la loro
struttura e identità, vorrei provare ad individuare eventuali punti di forza che non
sono entrati in gioco nella realtà pratese, tenendo conto anche di quelli che sono stati
i più evidenti punti di debolezza.
Per quanto riguarda i concetti che abbiamo finora esaminato possiamo cercare
di leggere questi eventi cercando di individuare fino a che punto erano diffuse la
44
fiducia e le norme condivise, e quale fosse la forma di capitale sociale che si è
sviluppato a Prato nel ventesimo secolo.
La fiducia è stata un elemento presente, altrimenti non avrebbe potuto
svilupparsi questa capillare suddivisione del lavoro. Dimostra però di essere
facilmente vulnerabile, per esempio nel momento in cui non vengono rispettati gli
accordi per le tariffe. L’aver permesso questo è stato una grande debolezza, perché
ha fatto sì che aziende non efficienti potessero proseguire la loro attività, quando
invece sarebbe stato opportuno cercare di fare economie eliminando gli sprechi o
iniziando a fare ricerca per migliorare la produzione, invece che far ricadere i costi
solo sull’ultimo anello del sistema. Lo stesso Nesi racconta che, appena entrato in
azienda e ancora inesperto, si era messo a fare controlli sulle fatture e aveva trovato
irregolarità nella gestione che producevano diseconomie a svantaggio della ditta.
Il rispetto delle norme è più difficile da analizzare, ma l’atteggiamento (non
descritto da Nesi ma ben noto) nei confronti delle regole fiscali non fa ben sperare. E
lo stesso fenomeno del sottotariffa ne è un esempio. Anche in questo caso i guadagni
effettuati tramite l’evasione fiscale hanno avuto un ulteriore effetto di ammortizzare
le inefficienze invece di stimolarne la correzione.
Qual è stata quindi la forma di capitale sociale che si è sviluppata a Prato?
Dalla testimonianza di Nesi traspare una grande laboriosità, il senso della famiglia,
come nel nome della ditta: “T.O. Nesi & Figli S.p.A” dove la prospettiva futura si
concretizza in questi Figli verso cui è protesa: opportunità e condanna, come
dimostra il padre dell’autore, quando è ben contento che questo abbandoni gli studi
universitari e entri finalmente a lavorare in azienda. Lo studio e la cultura in generale
sembravano vezzi inutili, che potevano solo distogliere dall’unica attività produttiva,
cioè lavorare.
Un aspetto peculiare dei rapporti tra imprenditori e tessitori è la relativa
orizzontalità di tali legami. Nonostante sia innegabile che la posizione del
proprietario della ditta sia un gradino sopra quella degli artigiani a cui distribuisce il
lavoro, gli scambi avvengono a un livello paritario: non c’è l’idea di una nobiltà per
diritto di nascita, ma solo la consapevolezza di migliori condizioni derivate
45
dall’impegno e dalla fortuna di essere partiti con maggiori capitali a disposizione. Il
livello culturale e i valori sono gli stessi in entrambi i gruppi.
Da alcune testimonianze da me raccolte tra ex tessitori ormai in pensione è
emerso che poteva capitare frequentemente che un imprenditore prestasse denaro per
aiutare un artigiano a comprare nuovi telai o semplicemente per risolvere qualche
problema di liquidità, e questo avveniva di solito tramite accordi informali. Questo
atteggiamento testimonia una notevole fiducia tra gli attori e la consapevolezza di far
parte di una comunità in cui il benessere di ciascuno poteva contribuire al miglior
funzionamento di tutto il sistema.
Il capitale sociale che è sopravvissuto e di cui si nutre Prato adesso non è
frutto solo della storia locale: è il capitale sviluppato in tutta Italia, quello delle
strutture di welfare che adesso consentono una dignitosa sopravvivenza degli ex
tessitori e delle loro famiglie, quel capitale che è stato solo parzialmente nutrito dai
redditi prodotti a Prato.
Un altro limite di questa realtà è stato di vivere nel presente senza pensare al
futuro: come un Pinocchio sulle giostre che non pensa a cosa lo può aspettare
domani. Ma di questo non se ne può far colpa agli individui. Nello stesso modo in
cui è necessario diventare coscienti dei compiti oltre che dei privilegi che comporta
la democrazia, anche il benessere e la ricchezza necessitano di tempo perché si riesca
a prendere confidenza e apprenderne l’uso: le particolari condizioni di partenza erano
un caso che non poteva durare in eterno e bisognava costruire strumenti che
modificassero il sistema per resistere a tempi meno fortunati. Cosa che non è stata
fatta. Solo i più lungimiranti, e Nesi va annoverato tra questi, si sono fatti domande,
hanno guardato oltre il loro orizzonte, hanno cercato di immaginare come poteva
cambiare il mondo. E hanno cercato di apprendere le nuove forme della realtà per
venirci a patti.
L’enorme flusso di ricchezza che si è capillarmente riversato su quella
cittadina è stato per i più un’abbuffata, un godere del quotidiano senza pensare al
futuro, un’ubriacatura di consumi che quando è finita ha riportato le persone alle
sobrie abitudini di prima senza scomporsi più di tanto: erano gente semplice prima,
tornano ad esserlo dopo.
46
Per questo l’autore rammenta Fitzgerald e ne è affascinato: la stessa età
dell’oro degli anni ’20 in America, lo stesso carnevale, la stessa malinconia nei
confronti di una ricchezza che non arricchisce le persone.
Forse il senso che questa ricchezza fosse un regalo non meritato si è mostrata
nella docile arrendevolezza e disponibilità ad abbassare i prezzi invece di puntare in
direzione opposta a migliorare la qualità. Ma in una guerra al ribasso si trova sempre
qualcuno più povero, disposto a farsi pagare meno. I lavoratori non qualificati sono
storicamente sostituibili: chiunque può fare un lavoro che non richiede grandi abilità.
I lavoratori molto specializzati invece diventano insostituibili e hanno maggior
potere di mantenere inalterato il loro reddito e di continuare a svolgere il loro lavoro.
Questa realtà aveva già sperimentato nel corso degli anni forme di
cambiamento legate all’evoluzione della tecnologia: alcune fasi della lavorazione che
negli anni ’70 venivano svolte a mano sono state sostituite da macchinari. Anche il
trasporto dei semilavorati tra le varie sedi di lavorazione all’inizio veniva gestito da
persone che di mestiere facevano i “barrocciai”; poi, con l’aumento della prosperità,
ogni singolo tessitore o cardatore, ecc. si era dotato di un camioncino, più o meno
grosso a seconda della mole di lavoro da trasportare, e i subbi2 e le tele venivano
presi e consegnati in proprio. Alcune attrezzature, più costose e di uso limitato,
hanno continuato ad essere gestite con un addetto dedicato: l’annodatura dei fili
dell’ordito3 tra le licciate4 della tela finita e quella nuova da tessere veniva nei primi
tempi fatta a mano, e questo lavoro poteva richiedere anche una intera giornata, con
la macchina invece si concludeva in una mezz’ora, per cui sono esistiti fino agli
ultimi anni degli artigiani che giravano di tessitura in tessitura con la macchina per
annodare caricata sul camioncino e vivevano del reddito ricavato da questo servizio.
L’organizzazione del lavoro a Prato si adattava male ad una struttura
industriale con operai e orari fissi di lavoro; in genere a questa attività si dedicavano
2
Tubi metallici delle dimensioni della larghezza del telaio, su cui vengono avvolti i fili che
compongono l’ordito (vedi nota 3), vengono preparati in ditta e trasportati alla tessitura dove sul telaio
si srotolano via via che la tela viene tessuta.
3
Complesso dei fili che si dispongono longitudinalmente sul telaio e che verranno attraversati dai fili
che compongono la trama per formare il tessuto.
4
Apparecchio del telaio che serve per alzare ed abbassare i fili dell’ordito in modo alternato, per far
passare la trama.
47
famiglie intere, non era insolito negli anni ’60 vedere ragazzini delle elementari che
invece di fare i compiti stavano alla macchinetta per fare i cannelli5. E le donne di
casa si alternavano agli uomini nella gestione dei telai per poter lavorare
ininterrottamente dall’alba al tramonto. Cambiando gli stili di vita, e attribuendo
sempre maggior valore al tempo libero, la gestione familiare di questa attività è
diventata sempre più problematica e sempre meno redditizia, senza contare che
l’innovazione tecnologica ha reso i macchinari sempre più costosi e sempre più
rapidamente obsoleti. Non sono stati più sufficienti i piccoli capitali sostenuti da
molto tempo e molte braccia delle famiglie: per essere concorrenziale avrebbe
dovuto diventare una struttura industriale, per poter lavorare a ciclo continuo e
permettere grossi investimenti di capitale, ma così non è stato.
A Prato non si è avuto quel fenomeno di concentrazione della produzione che
viene descritto nei manuali. Le spinte sono state troppo forti e in direzioni troppo
contrastanti e quel sistema che per alcuni decenni ha dato prosperità ad una comunità
intera si è disgregato, forse proprio perché non ha trovato il modo di cambiare la sua
struttura.
L’organizzazione del lavoro dei tempi d’oro non è troppo diversa da quella
che hanno potuto offrire gli immigrati cinesi negli anni successivi.
Alcuni autori6, come vedremo in seguito, attribuiscono al familismo proprio
questo limite: la difficoltà di passare da una struttura imprenditoriale sul modello
della Terza Italia ad una con maggiori concentrazioni di capitale.
2.2 – Cambiare per sopravvivere: fiducia e capitale sociale come strumenti di
analisi
Nella storia del tessile a Prato si intuisce la presenza di alcune caratteristiche
che hanno costituito un punto di forza nelle fasi iniziali dello sviluppo ma il cui
5
I cannelli di filato che veniva inserito nelle spole che nel telaio in uso fino agli anni ’80 tessevano la
trama. I successivi telai, definiti automatici, utilizzavano direttamente il filato fornito in “rocche” di
dimensioni maggiori.
6
Ad esempio Fukuyama, cit. in Mutti (1998).
48
perdurare senza evolvere ha frenato quei cambiamenti che sarebbero stati necessari
per adeguarsi alle diverse condizioni dei mercati al fine di evitare il collasso della
struttura produttiva così configurata.
Nei testi che vediamo di seguito si cerca di dare una definizione di concetti
quali fiducia e capitale sociale e di comprendere come il loro ruolo sia
contemporaneamente di mantenere l’ordine sociale e di permetterne il mutamento.
La loro presenza è considerata unanimemente indispensabile per lo sviluppo.
Implicita nel concetto di sviluppo è l’idea di modernità, cioè di un cambiamento in
una direzione che migliora le condizioni della società e dei suoi cittadini. Di
conseguenza tutto ciò che agisce per impedire il cambiamento viene inteso come un
limite per la modernità. Si trova anche in questo caso un’ambivalenza: cambiamenti
troppo repentini possono talvolta distruggere l’identità di un popolo, fino a farlo
scomparire, per questo è necessario che siano accompagnati da una evoluzione del
tessuto sociale e delle norme, che consenta di cambiare mantenendo intatta la propria
identità e autonomia. Per questo è necessario che fiducia e capitale sociale siano in
grado di mantenere in vita lo stesso ordine sociale nel momento esatto in cui gli
consentono di modificarsi.
Gli studiosi che seguono partono dall’obbiettivo di attenuare le varie
dicotomie che hanno definito la ricerca sociologica precedente, per definire concetti
capaci di abbracciare la complessità del reale.
Da questi studi si apprende che la fiducia può diventare uno strumento valido
di evoluzione della società in senso democratico e universalistico anche quando si
forma a partire da legami clientelari. Che, come già visto con l’indagine sulle forme
di legami clientelari di Eisenstadt e Roniger (1984), questi legami possono convivere
con la modernità.
Si parte da un accurato studio di Roniger (1992) sulla fiducia, per proseguire
con l’analisi di Mutti (1998) su come lo stesso concetto entri a fra parte del capitale
sociale assieme ad altre componenti come reti, particolarismo ed emozioni. Si
prosegue poi con un testo a più mani (Bagnasco et al. 2010) che ribadisce i
precedenti concetti, con l’aggiunta da parte di ciascun autore del proprio peculiare
49
punto di vista, per terminare con l’articolo di Coleman con cui introduce e spiega il
concetto di capitale sociale.
2.2.1 – La fiducia nelle società moderne7
Questo lavoro di Louis Roniger è successivo al testo sui legami clientelari e
ne completa idealmente il percorso: la costruzione della fiducia che sta alla base
degli scambi passa in alcuni contesti attraverso legami di tipo clientelare.
Il termine
“fides” viene infatti coniato per indicare l’elemento morale che permea gli accordi
sociali come il patrocinium, l’amicitia e la clientela.
La fiducia ha delle caratteristiche costanti: è indispensabile ovunque vi sia
uno scambio anche se va tenuto presente che non è in grado di cancellare totalmente
l’incertezza. È un requisito precontrattuale alla base della capacità di cooperare degli
individui, per cui la sua diffusione favorisce lo sviluppo.
Il concetto di fiducia è cruciale proprio a causa dell’impossibilità per gli
individui di esercitare un controllo sul comportamento reciproco, ed è problematica
perché è proiettata nel futuro cioè si riferisce ad azioni che si svolgeranno in un
momento successivo.
Se l’obbiettivo di eliminare la sfiducia è irraggiungibile è però possibile
contenerla: agendo come se ci si fidasse si fa in modo di sviluppare una credenza in
tal senso e si incoraggia l’altro ad agire in modo da confermare le aspettative.
Nella ricerca sociologica la fiducia è definita in contrapposizione alla sfiducia
e considerata in termini di orientamento di base del comportamento legato alla
struttura della personalità. Sia Luhmann che Parsons ne sottolineano l’importanza
nella regolazione delle attività sociali. In entrambi gli autori si tratta di
concettualizzazioni macrosociali, derivate dall’analisi della società occidentale, in
cui si ritiene di avere una diffusione generalizzata della fiducia.
Roniger ci tiene a sottolineare che sussistono pur nelle società
universalistiche dei modelli di fiducia meno generalizzati, che definisce forme
focalizzate di proiezione della fiducia.
7
Roniger (1992).
50
In questo testo vuole analizzare queste forme focalizzate di fiducia e farne
un’analisi comparativa. A suo avviso è importante identificare le modalità di
trasformazione della fiducia e quindi di estensione da focalizzata a generalizzata.
La fiducia implica il riferimento all’integrità dell’altro, il suo riconoscimento
e l’impegno di non procedere con l’inganno nella relazione.
La prima forma di fiducia è quella incondizionata della madre per il figlio, e
la mancanza di questa esperienza primaria può essere inserita tra le cause che
determinano l’incapacità di estensione della fiducia.
A livello individuale, l’esperienza di questa forma di fiducia sviluppa la
capacità di estenderla ad altre figure, in parallelo con lo sviluppo personale e sociale,
e in questo processo vengono incorporati sia rapporti di uguaglianza che gerarchici.
Qualche forma di questa fiducia primordiale si ritrova successivamente all’interno di
ambiti interattivi complessi e istituzionali o in quella che viene definita la fiducia
basata sulle caratteristiche (appartenenza etnica, religiosa, ecc.) e nei rapporti di
amicizia e di pseudo parentela.
L’estensione della fiducia oltre ai rapporti familiari diventa indispensabile per
la partecipazione alla vita sociale e istituzionale. Roniger individua due modi di
estensione della fiducia: focalizzazione e generalizzazione.
Estendere la fiducia in termini focalizzati significa concentrarla su
particolari esperienze o attori sociali (Roniger, 1992, p. 25) e quindi limitarne lo
spettro di possibilità. La generalizzazione invece, che si basa su immagini di
credibilità più impersonali, si intende riferita ad una forma di fiducia concedibile a
tutti, fino a divenire bene pubblico, fruibile da chiunque contemporaneamente, anzi,
il cui uso ne accresce la diffusione.
Entrambi i tipi di estensione della fiducia si applicano alle persone e alle
istituzioni e possono coesistere, cioè si possono avere aree di fiducia focalizzata
all’interno di formazioni sociali complesse che si basano sulla fiducia generalizzata.
Nelle società moderne si sono sviluppati sistemi di formalizzazione della
fiducia che vanno ad aggiungersi a quella incondizionata precedentemente definita.
Un esempio è la competenza tecnica, intesa come base per la concessione della
fiducia. Un altro esempio sono i sistemi di certificazione, che generano addirittura un
51
mercato della fiducia. Entrambi non sono comunque in grado di eliminare il
problema della vulnerabilità e non eliminano comunque la necessità di esistenza
della fiducia stessa.
Questa formalizzazione può avvenire attraverso due modalità: il modello
della “cornice organizzativa” come può essere l’appartenenza ad una struttura che
condivide norme che garantiscono la fiducia; oppure attraverso la delega, e questo è
il caso di istituzioni di livello più elevato che garantiscono per i loro subordinati.
La fragilità di tutti questi sistemi di fiducia si manifesta attraverso le
trasgressioni, che hanno come conseguenza una destabilizzazione istituzionale;
queste trasgressioni sono gravi perché di riflesso danneggiano anche la fiducia
interpersonale.
La responsabilità è il mezzo che l’autore ritiene necessario per poter
ripristinare la credibilità dell’istituzione, in modo da limitare la perdita di fiducia al
solo soggetto responsabile senza colpire l’istituzione a cui appartiene.
Roniger elabora quattro modelli di estensione e regolazione della fiducia nelle
società moderne.
Il primo modello è la focalizzazione totale della fiducia, tipico della
Colombia, del Messico e del Libano moderni e, fino agli anni ’80 anche della
Thailandia. È caratterizzato da un modo focalizzato di fidarsi sia delle istituzioni che
delle persone. Si manifesta ad esempio nell’apprensione mostrata nei confronti degli
stranieri e in un cospicuo radicamento di reti e fazioni clientelari. Rende difficile
avere fiducia nei confronti degli estranei e quindi non svolge il suo ruolo di controllo
dell’incertezza. In condizioni di recessione economica può facilmente trasformarsi in
sfiducia generalizzata. In condizioni di crescita economica invece può modificarsi
orientandosi verso la generalizzazione, sia selettiva che totale.
Il secondo modello è la generalizzazione selettiva della fiducia interpersonale.
Roniger la identifica tra le minoranze etniche, soprattutto quando non sono integrate
nella cultura che le ospita. È assimilabile alla fiducia basata sulla caratteristica e
tende a limitare la fiducia ai soli membri del gruppo.
Il terzo modello è la generalizzazione selettiva della fiducia istituzionale.
L’esempio che meglio la rappresenta è il Giappone fino al XIX secolo ed è
52
caratterizzata da una fiducia focalizzata sul piano interpersonale, con una
generalizzazione della fiducia nelle istituzioni e basata su principi generalizzati di
impegno sociale. In questo modello i legami clientelari, frutto della focalizzazione
della fiducia interpersonale, hanno potuto essere utilizzati per una ricostruzione della
fiducia dall’alto, cioè da parte delle istituzioni, verso cui esisteva una fiducia
generalizzata, durante la trasformazione sociale legata alla modernizzazione e alla
industrializzazione.
Il quarto modello è la generalizzazione totale della fiducia ed è caratterizzato
dalla presenza della fiducia intesa come un bene pubblico, sia nell’ambito
istituzionale che in quello interpersonale. Sembra essersi cristallizzata nelle ricche
società postmoderne degli Stati Uniti e dell’Europa Occidentale. Occorre tenere
presente che la generalizzazione della fiducia non implica la scomparsa della
sfiducia, ma solo il suo contenimento.
Questo modello è problematico perché è facilmente vulnerabile. Il cattivo uso
della fiducia istituzionale può essere tra le principali cause di rischio. I reati di
corruzione possono ledere a tal punto la fiducia istituzionale da corrodere anche la
fiducia interpersonale, con enormi costi sociali.
La estensione della fiducia appare dunque come un processo dinamico, in
continua evoluzione, soggetto ai mutamenti storici e determinato da questi nel suo
sviluppo.
Roniger ribadisce nelle osservazioni conclusive la dialettica che esiste tra la
fiducia istituzionale e quella interpersonale, e come sia importante identificare le
modalità con cui la fiducia, che nasce da caratteristiche psicologiche dell’attore,
venga estesa ai rapporti sociali e ne costituisca il fondamento. A loro volta le vicende
storiche retroagiscono sulle esperienze degli individui, andando a formare quelle
memorie collettive che condizionano i processi e i modelli di costruzione della
fiducia.
Dalla lettura di questo testo si deduce quanto sia importante la fiducia nella
costruzione della struttura sociale, anche nei casi in cui questa sia diffusa in forme
focalizzate, perché permette comunque lo stabilirsi di collaborazione tra gli
individui, anche se limitatamente a certi settori. Si deduce anche quanto siano
53
dannosi i tradimenti della fiducia, non solamente quelli a livello interpersonale, ma
soprattutto quelli di tipo istituzionale, come possono essere i reati di corruzione,
perché oltre a screditare l’istituzione a cui si riferiscono possono creare l’effetto non
desiderato di generalizzazione della sfiducia, che rischia di estendersi sia in modo
sincronico ai rapporti interpersonali, sia nel tempo, costruendo memorie storiche di
non affidabilità di certe istituzioni, vanificandone il ruolo.
2.2.2 – Capitale sociale e sviluppo8
Il sottotitolo del libro di Antonio Mutti, la fiducia come risorsa, ci da la
chiave intorno a cui ruota il tema di questo lavoro. La fiducia è una risorsa per lo
sviluppo della modernità, di cui non si può fare a meno e che dimostra di avere effetti
diversi a seconda del contesto.
Anche il concetto di modernità ha bisogno di essere definito: non può essere
un concetto univoco, descritto attraverso un unico parametro, perché si esplica in
molteplici dimensioni che non necessariamente si sviluppano tutte assieme o alla
stessa velocità.
Per questo si rivela utile il concetto di capitale sociale, perché introduce le
variabili relazionali nello studio del mutamento sociale.
Il capitale sociale presuppone gli scambi e alla base di questi troviamo la
fiducia a svolgere una funzione di garanzia.
Poiché gli autori che studiano il capitale sociale partono dall’individualismo
metodologico si è reso necessario uno strumento d’analisi che tenesse conto degli
effetti dell’interazione tra individui sulla collettività, che ne descrivesse le qualità
emergenti, non desumibili dal solo computo delle risorse a disposizione. Per questo,
nella definizione di Coleman (1988, 1990), che vedremo in maggior dettaglio più
avanti, il capitale sociale viene ad aggiungersi ai già definiti capitale fisico e umano,
per descrivere quello spazio di relazioni che agisce da catalizzatore per le altre forme
di capitale. Queste relazioni, in quanto produttive di valori materiali e simbolici, si
8
Mutti (1998).
54
configurano sia come risorsa che come vincolo per l’attore, in quanto definiscono la
cornice entro cui è possibile l’interazione.
Degli autori che sulla scia di Coleman utilizzano il concetto di capitale
sociale, Mutti pone l’accento su due: Putnam (1993, 1995), che ne enfatizza le
caratteristiche dell’organizzazione sociale che consentono di aumentare l’efficienza
della società attraverso il coordinamento delle azioni individuali, e Fukuyama (cit. in
Mutti, 1998) che, insistendo sugli stessi aspetti pone l’accento sul ruolo della fiducia,
definita come aspettativa di un comportamento prevedibile basato su norme
condivise.
In particolare Fukuyama ipotizza un collegamento tra la struttura della
società, definita secondo le modalità di estensione della fiducia, e il tipo di sviluppo
imprenditoriale che può supportare. Secondo questa ipotesi le società di tipo
familistico, dove cioè la fiducia è centrata all’interno dei legami familiari, non sono
in grado di sviluppare la grande industria ma si orientano sulle piccole imprese, che a
loro volta possono svilupparsi solo per certi settori produttivi, tra cui il tessile,
l’abbigliamento, il settore calzaturiero, ma non settori che necessitano di ingenti
capitali d’investimento come ad esempio l’industria automobilistica. In questi ambiti
la flessibilità determinata dalle piccole dimensioni è un vantaggio competitivo.
Dopo un’analisi puntuale tesa a classificare le varie società secondo le
caratteristiche del loro capitale sociale si sofferma sul caso della Corea che è riuscita
a darsi un assetto industriale concentrato, nonostante la sua struttura della fiducia sia
di tipo cinese, cioè familistico, attraverso la creazione di reti di imprese familiari. Si
tratta di imprese costituite da network organizzativi di grandi dimensioni, denominati
chaebol, con una integrazione di tipo verticale. La funzione dello stato è stata
importante nella costruzione di queste strutture organizzative, dimostrando che il
sistema politico può contribuire allo sviluppo di capitale sociale.
Confronta il fenomeno della Terza Italia all’esperienza della Corea e trova
che nel caso italiano il familismo è aperto alla collaborazione con i non parenti su
base professionale, fatto che ha permesso l’emergere di sistemi imprenditoriali di un
certo rilievo, pur restando nell’ambito del settore produttivo dell’abbigliamento, e fa
gli esempi di Versace o Benetton, di cui dobbiamo riconoscere ad oggi la longevità,
55
nonostante l’attuale situazione della economia italiana che ha ridimensionato la
“salute” di alcuni distretti industriali basati sulla piccola impresa9.
Le posizioni di Putnam e Fukuyama sono, a giudizio di Mutti, pessimistiche,
perché attribuiscono alla storia un ruolo determinante, e ritengono che sia pressoché
impossibile intervenire per sviluppare fiducia e cooperazione dove non ve ne sia la
tradizione.
Allo scopo di confutare queste ipotesi passa a studiare quali sono le modalità
di costruzione e diffusione della fiducia e la sua analisi prende in considerazione i
lavori di Roniger precedentemente visti.
Un argomento nuovo, rispetto a quanto visto finora, è il tema delle emozioni
e delle componenti fideistiche, che entrano in azione nei fenomeni di costruzione
della fiducia.
Questi aspetti vanno a colmare lo spazio di incertezza che è comunque
ineliminabile: è solo una ipotesi astratta la condizione di totale prevedibilità nelle
relazioni, per cui deve entrare in gioco un meccanismo che presuppone che le
aspettative siano confortate da esiti coerenti, e questo non può essere altro che un atto
di fede nel caso non sia abbiano troppi elementi razionali a disposizione, o un atto di
fiducia nel caso si abbiano maggiori informazioni sugli eventi più probabili.
Il richiamo ad Erikson10 ci riporta su un piano di risorse della personalità
degli individui da mettere in gioco nelle relazioni: la fiducia in se stessi, e quindi una
personalità pienamente sviluppata, diventa la componente necessaria per poter
concedere fiducia. In questa ottica la socializzazione primaria ha un ruolo
fondamentale nel determinare la struttura della società, anche se è controverso
stabilire in quale direzione, soprattutto perché questo processo non si conclude
all’interno della famiglia, ma prosegue il suo sviluppo per tutto l’arco della vita di
ogni individuo, pur se con tempi e flessibilità diverse.
Ritornando al tema iniziale della modernità, non è scontato che un sistema
con elevata cooperazione e capitale sociale denso dia origine ad individui capaci di
9
Nel caso della industria pratese invece, come già indicato, non si è avuto questo coordinamento tra
piccole imprese che avrebbe probabilmente potuto attenuare o almeno rallentare gli effetti
dell’apertura dei mercati.
10
Mutti (1998) fa riferimento ai lavori di Erikson (1966, 1974).
56
innovazione; si possono avere anche effetti di conformismo e di chiusura, e Mutti
attribuisce questi esiti al tipo di risorse che circolano all’interno della rete di fiducia.
Il concetto di fiducia, pur tra infinite definizioni, parte da un’idea di
prevedibilità e di conseguenza rimanda a concetti di stabilità, di ordine sociale, ma
anche appunto di immobilità.
“L’aspettativa
fiduciaria
interviene
sull’incertezza
sostituendo
le
informazioni mancanti o riducendo la complessità da eccesso di informazioni”
(Mutti, 1998, p. 44). Questo è possibile attraverso un investimento cognitivo
maggiore rispetto alla speranza. Maggiore è l’investimento, maggiore sarà il danno in
caso di errore. Nella concessione della fiducia rientrano componenti cognitive ed
affettive. Nelle condizioni di rapidi mutamenti sociali, che rendono problematico lo
sviluppo di fiducia su basi cognitive, si può compensare l’incertezza con una
maggiore componente emotiva, fino ad arrivare ad aspetti fideistici.
Coerentemente con le analisi di Roniger (1992), la costruzione della fiducia si
rende sempre più necessaria negli spazi di discontinuità, dove deve sopperire alla
difficoltà di servirsi della cognizione per mancanza di informazioni.
Un esempio particolare di estensione della fiducia è rappresentato dalla
fiducia nel denaro, infatti la moneta costituisce un mezzo generalizzato e
impersonale di relazione, in cui il valore ceduto e ricevuto sarà scambiato senza
perdita. Questa fiducia si fonda sulla rete sociale in cui il valore della moneta è
riconosciuto e garantito da tutti i membri che ne fanno parte. Anche le relazioni di
tipo economico, quindi, pur essendo le più astratte, risultano fondate su relazioni e
valenze simboliche, che devono essere interpretate dagli attori, e su rapporti che
presuppongono potere, interessi ed emozioni. A maggior ragione in una situazione
globalizzata in cui le informazioni hanno subito una crescita esponenziale legata
all’informatizzazione e alla diffusione dei mercati, dove a questo punto l’incertezza è
determinata dalla sovrabbondanza delle informazioni, è necessario ricorrere a sistemi
di riduzione della complessità che possono prendere la forma di legami
particolaristici o clientelari.
La fiducia serve anche a favorire l’accettazione del rischio connesso ad una
maggiore interdipendenza tra gli individui e Mutti prosegue la sua analisi con la
57
descrizione delle reti che si sono rivelate una metafora di successo, proprio perché
rendono bene l’idea di complessità e sono capaci di descrivere insieme relazioni
formali e informali e le loro interconnessioni.
Gli studi sull’analisi di rete si dividono in due filoni: il primo si è sviluppato
negli anni ’50 nella scuola antropologica di Manchester, il secondo ad Harvard negli
anni ’70.
Entrambe le scuole privilegiano la struttura come determinante nelle relazioni
sociali, e per entrambe resta problematica la definizione dell’interazione tra livello
micro e livello macro, limite tipico dell’individualismo metodologico.
Entrambe si identificano in un determinismo strutturale che non riconosce
adeguatamente gli spazi di libertà degli attori e l’influenza del ruolo della cultura,
tanto da rendere necessario un ammorbidimento della teoria in modo da poter
incorporare l’interazione tra reti e attori fino al punto di riconoscere la capacità di
questi di trasformarne la struttura e sottolineare l’importanza dei significati e delle
narrazioni. Da queste posizioni meno legate ai vincoli rigidi dell’analisi strutturale
vengono i risultati più interessanti. Tra questi viene ricordato Granovetter (1973), che
studiando le interazioni informali, gli attribuisce un ruolo nella formazione di
rapporti fiduciari e una potenzialità informativa maggiore rispetto ai legami forti,
proprio per la loro appartenenza a sistemi di relazione nuovi rispetto all’attore, quella
che definisce “la forza dei legami deboli”. A questo proposito Burt (1995) sostiene
che non è la natura forte o debole dei legami a fare la differenza ma i tipi di cerchie
sociali che vengono messe in contatto attraverso tali legami e quindi la non
ridondanza delle informazioni trasmesse.
Mutti sottolinea il contributo positivo allo studio della modernità della analisi
di rete perché questo approccio, oltre ad essere una prospettiva originale, attenua la
dicotomia espressa dalle altre teorie in cui il particolarismo viene ritenuto
appannaggio delle società arretrate. Mette inoltre in evidenza il ruolo svolto dalle
relazioni interpersonali (focalizzate, ascrittive e particolaristiche) non solo nei
contesti tradizionali, ma anche nei processi di transizione e nella più avanzata
modernità.
58
Non è banale definire i confini del particolarismo, per questo Mutti (1998, p.
92) si riconduce alle definizioni di Weber (in Economia e società) di chiusura della
relazione sociale, da cui attinge per classificare le varie forme. Nei casi in cui questo
sia legato a principi più impersonali e di prestazione, anziché ascrittivi, può
acquistare un ruolo di stimolo alla collaborazione e a processi di cambiamento che
possono condurre alla modernizzazione, soprattutto quando si trova all’interno di
circuiti di potere e istituzionali appropriati. Anche il familismo, quando ha
caratteristiche di apertura verso i membri di altri gruppi, può favorire processi di
integrazione. Sulla base di queste premesse ritiene che le analisi riferite al
mezzogiorno d’Italia siano state estremamente drastiche nel negare a tale contesto
qualsiasi forma di potenzialità e ad individuare le possibilità di cambiamento solo
attraverso una rottura nei confronti del passato e della situazione esistente, bollandola
come totalmente priva di strumenti. Con lui altri autori italiani si soffermano invece
sulla necessità di valorizzare le risorse esistenti, di tipo particolaristico, ma
comunque fornitrici di legami che possono divenire la base per un allargamento delle
relazioni e una forma di sostegno allo sviluppo, dove vi sia un adeguato supporto da
parte delle istituzioni, a maggior ragione nelle zone in cui questa funzione di
supporto non è ancora caduta in mano alla criminalità organizzata.
L’ultimo capitolo di questo testo è dedicato alle emozioni. Attribuendo un
ruolo alla fiducia e considerando gli aspetti di non razionalità di cui è composta si
rende inevitabile una disamina degli autori che ne hanno parlato.
Mutti individua due diversi approcci: quello che prende in considerazione il
processo di decisione individuale e quello che si sofferma sul processo di interazione
sociale.
Al primo approccio appartengono Pareto ed Elster (cit. in Mutti, 1998).
Pareto pone al centro della sua analisi il rapporto tra emozioni e razionalità e
sulla base di questo distingue tra azioni logiche e non logiche, pur tenendo presente
come le emozioni siano composte da vari aspetti: quello biologico, che si manifesta
nelle reazioni istintuali, quello cognitivo e quello socialmente costruito. Questi ultimi
sono legati all’azione di riconoscimento delle emozioni e dei loro significati ed è
importante tenerne conto perché influenzano il modo in cui guardiamo alla realtà.
59
Per Elster le emozioni costituiscono la motivazione all’azione e la
influenzano, facendo da sostegno alle norme sociali (per esempio attraverso il
sentimento della vergogna), costituiscono un vincolo ma possono entrare in campo
nei casi in cui l’azione razionale fallisce per l’assenza di soluzioni ottimali ovvero
per la presenza di molteplici possibilità.
Del secondo approccio fanno parte Collins e Pizzorno (cit. in Mutti, 1998).
Collins si concentra sui rituali d’interazione, a cui attribuisce il ruolo di
determinare il comportamento emozionale, solidaristico e simbolico. Da questi rituali
scaturisce un’energia emozionale che è alla base delle attività solidaristiche, che
viene incrementata dalla ripetizione dei rituali e si affievolisce in loro assenza. Alla
forma di questi rituali attribuisce la responsabilità della chiusura o viceversa apertura
dei gruppi sociali che li esperiscono: rituali chiusi ai soli membri del gruppo
favoriscono comportamenti particolaristici, rituali aperti ed inclusivi favoriscono
orientamenti universalistici e fiducia generalizzata.
Pizzorno, sulla scia delle argomentazioni di Collins, si chiede su cosa sia
basata l’interazione e utilizza i concetti di identità e riconoscimento. Nella sua analisi
l’azione nasce dal bisogno degli individui di sentirsi riconosciuti nell’identità
collettiva. La motivazione a partecipare, e quindi il deterrente contro azioni di free
riding, sta proprio nei benefici derivanti dalla partecipazione stessa. In questo modo
spiega il mutamento sociale attraverso la tensione a ricostruire reti di riconoscimento
nei casi in cui il capitale sociale precedente sia andato perduto a seguito di
cambiamenti strutturali. Il bisogno di riconoscimento reciproco diventa la
motivazione per la partecipazione alle interazioni sociali.
2.2.3 – Il capitale sociale – Istruzioni per l’uso11
In questo testo quattro autori si confrontano con il concetto di capitale sociale
in modo non dissimile dal precedente lavoro di Mutti (1998), ciascuno portando il
proprio contributo originale al dibattito.
11
Bagnasco et al. (2010).
60
Si parte dalla definizione di capitale sociale precisando come il concetto sia al
confine con l’economia. La prima definizione risale a Bordieu, negli anni ’80, che lo
usa in senso strumentale intendendo quella forma di capitale posseduta dagli
individui che non è riconducibile al possesso di oggetti o qualità, bensì di relazioni
capaci di produrre un valore.
La definizione che meglio si adatta allo studio sociologico è quella fornita un
decennio dopo da Coleman nel suo Foundations of social theory (1990), ed è con
questo significato che viene utilizzato da Putnam (1993) nella sua ricerca sulle
regioni italiane vista precedentemente.
Alessandro Pizzorno parte dalla definizione di Bourdieu che utilizza questo
concetto allo scopo di correggere la distorsione individualistica operata dall’analisi
economica. Così definito il capitale sociale rappresenta quell’insieme di risorse che
l’individuo possiede e può utilizzare per perseguire i propri fini, risorse che
contemporaneamente svolgono un importante ruolo a sostegno della democrazia,
contribuendo a darle quella struttura senza la quale le sole istituzioni non sarebbero
in grado di garantirne la durata.
Non tutte le forme di relazione costituiscono capitale sociale, e ciò che le
rende tali è l’azione di riconoscimento dell’identità dei partecipanti, azione che
diventa il prerequisito necessario per la costruzione della fiducia, che, come abbiamo
visto nel testo di Mutti (1998), è a sua volta la base necessaria perché si possano
compiere scambi o stabilire relazioni soddisfacenti.
Questa azione di riconoscimento va a costituire le identità degli attori e viene
interiorizzata attraverso la socializzazione, e quindi ne determina l’appartenenza ad
una cerchia di fiducia, e denota la presenza di una relazione sociale durevole.
Pizzorno distingue tra due forme di capitale sociale: il capitale sociale di
solidarietà, che si basa su legami forti e relazioni durature, e il capitale sociale di
reciprocità, che si manifesta a vari livelli di intensità dei legami, che classifica
secondo livelli decrescenti di interesse che si associano a livelli crescenti di
universalità. Nel caso di quest’ultimo si tratta di azioni che presuppongono uno
scambio, che implicano di più di una relazione di tipo economico e presuppongono
rapporti precedenti senza costituire capitale sociale di solidarietà. Si passa ad
61
esempio da azioni indirizzate a fini comuni, per giungere ad azioni basate su principi
universalistici come può essere quello che viene definito agire secondo coscienza.
I concetti di identità e riconoscimento sono per l’autore cruciali per la
costruzione di capitale sociale, tanto che il loro bisogno si manifesta soprattutto nelle
situazioni di rapido mutamento sociale, in cui si rileva un intenso dinamismo e la
creazione di nuove forme di capitale. Porta come esempi i trust che si formarono
durante lo sviluppo del capitalismo americano, caratterizzato da grandi immigrazioni,
e le nuove mafie russe sorte dalla disgregazione del sistema comunista.
Fortunata Piselli sottolinea il ruolo del concetto di capitale sociale nell’aver
portato l’attenzione sui legami informali e il loro ruolo nell’economia e nella politica.
Attribuisce a Coleman il merito di aver superato l’individualismo
metodologico dell’economia dando spazio all’organizzazione sociale e al suo ruolo
nel condizionare le scelte per l’azione e produrre effetti sistemici.
Il capitale sociale per l’individuo è in parte ereditato ed in parte costruito
attraverso le sue azioni e relazioni, è intangibile ma produttivo perché consente di
perseguire obiettivi altrimenti non raggiungibili allo stesso costo. Ha la natura di
bene pubblico perché è indivisibile, fruibile anche da chi non ha contribuito alla sua
creazione e non è proprietà privata di alcuno. È contestuale: può favorire alcune
forme di azione e vincolarne altre. È un sottoprodotto di attività iniziate per altri
scopi ed è in costante dinamismo: si crea, si distrugge, si modifica continuamente e
per questo richiede continui investimenti.12
Mentre le reti di relazioni possono essere sia vincoli che risorse, il capitale
sociale è per definizione sempre una risorsa che l’individuo ha a disposizione per
l’azione. Questo argomento conduce l’autrice a descrivere le già menzionate ipotesi
di Granovetter (1973) relativamente alla forza dei legami.
La conclusione a cui giunge è che i legami deboli servono a collegare cerchie
diverse e quindi sono utili per chi è alla ricerca di mobilità, mentre i legami forti
forniscono supporto, per cui sono indispensabili nelle situazioni di indigenza e sono
il tipo di legame che entra in azione nelle catene migratorie. Una funzione importante
12
Ricorda da vicino l’energia emozionale che scaturisce dai rituali d’interazione di Collins, come
descritto nel testo di Mutti (1998) visto nel paragrafo precedente.
62
viene svolta dai broker, gli individui che connettono reti diverse, i possessori dei
cosiddetti legami ponte o mediatori sociali. Una caratteristica di questi soggetti è
quella di praticare e incoraggiare una forma di reciprocità che potremmo definire
dilazionata: il loro scopo negli scambi che favoriscono è di fare in modo che il debito
non venga saldato immediatamente, ma che resti a costituire un credito che è alla
base della permanenza della relazione.
L’autrice analizza poi le posizioni di Fukuyama e Putnam (cit. in Bagnasco et
al. 2010). Nei riguardi di quest’ultimo precisa che la sua analisi della tradizione
civica delle regioni italiane non rende giustizia della situazione del meridione
d’Italia. In primo luogo perché non coglie gli aspetti di dinamismo insiti nel concetto
di capitale sociale. In secondo luogo perché non identifica le forme di legami
esistenti nella società meridionale che hanno sostenuto la mobilità lavorativa verso il
nord Italia e hanno contribuito a migliorare le condizioni sociali in loco, di fatto
costituendo una valida forma di capitale sociale. Queste forme di solidarietà, pur
restando nell’ambito del familismo hanno dimostrato la possibilità di combinarsi con
elementi universalistici, capaci di costituire una risorsa per la modernizzazione
sociale e politica.
Arnaldo Bagnasco analizza le differenze e le affinità tra political economy
comparata e teoria del capitale sociale.
Anche il suo capitolo prende in considerazione i lavori di Putnam e
Fukuyama e si sofferma sulla classificazione delle differenti culture politiche operata
da Almond e Verba (1963), che distinguono tra: participant, cioè razionale e
informata, subject, che esprime fiducia nell’autorità e deferente, e parochial, tipico
della realtà italiana e privo delle caratteristiche precedenti.
Rileva l’attenzione che Putnam pone nei confronti dell’erosione di capitale
sociale che a suo giudizio si sta verificando in America e la sua sottovalutazione del
ruolo della azione politica, a cui si ricollega Fukuyama, che ritiene compito di
quest’ultima influenzare il meno possibile la società civile poiché ritiene che le
azioni di organizzazione finora svolte, come ad esempio le politiche di welfare hanno
contribuito a distruggere la capacità di auto organizzazione della società.
63
Bagnasco quindi si riconduce alle posizioni di Coleman (1988), che vede la
modernità come razionalizzazione, riportando nell’analisi il ruolo della interazione
diretta, per vedere come opera la dinamica tra micro e macro: come i processi di
formalizzazione possano erodere il capitale sociale, e viceversa come l’integrazione
sociale venga prodotta nelle interazioni faccia a faccia.
Conclude ribadendo la necessità di rivalutare le risorse di auto organizzazione
della società civile, ma si chiede se effettivamente il welfare distrugga capitale
sociale oppure lo sostenga e ne garantisca la sopravvivenza.
Se la political economy è stata una teoria prevalentemente europea, il
concetto di capitale sociale utilizzato per l’analisi comparata dei capitalismi può
essere considerata l’ideologia americana in cui però non è stato adeguatamente preso
in considerazione il ruolo che può svolgere la politica.
Infine Carlo Trigilia parte dal riconoscere nei lavori di Weber i primi utilizzi
del concetto di capitale sociale. Nel suo lavoro sulle sette protestanti (Weber, 192021) individua caratteristiche che si possono assimilare a questo concetto. In questi
gruppi sociali si assiste ad un cospicuo controllo sugli individui e alla diffusione di
qualità etiche che facilitano gli scambi economici. Weber vi identifica delle reti di
relazioni che permettono la circolazione di risorse, sia cognitive, come le
informazioni, sia normative come la fiducia, che svolgono l’importante funzione di
limitare l’opportunismo, anche se il loro uso può condurre a fenomeni di collusione
che si rivelano di ostacolo al cambiamento e quindi possono favorire l’immobilismo.
La certezza e la prevedibilità del diritto sono necessarie per impedire una evoluzione
della gestione pubblica in direzione di un capitalismo politico e di rapina che è agli
antipodi del capitalismo moderno che invece si basa sul mercato.
L’analisi di Trigilia prosegue con uno sguardo alle trasformazioni del
capitalismo, che con lo sviluppo del fordismo e la sua struttura fortemente gerarchica
hanno reso superfluo il capitale sociale per lo sviluppo industriale, ma la crisi di
questo sistema di produzione lo riporta di nuovo in auge. L’avvento della
globalizzazione però produce nuovi effetti e richiede nuove sfide alla struttura
sociale. Infatti le iniziative esterne, come possono essere gli impianti produttivi
dislocati nelle zone in cui la manodopera è a basso costo, hanno poche probabilità di
64
costruire capitale sociale, poiché si basano esclusivamente su vantaggi di prezzo che
sono una risorsa di corto respiro, che non produce frutti durevoli.
L’autore si sofferma sulla ambiguità degli effetti del capitale sociale
(contrariamente al concetto di path dependency espresso dai lavori di Putnam e
Fukuyama) e ribadisce l’importanza del contesto e della politica che lo sostiene, nel
determinarne gli esiti. Ricorda infatti che certe politiche hanno sostenuto fortemente
un capitale sociale di tipo mafioso, o ne hanno favorito lo sviluppo, invece di
opporvisi, non ultimi i regimi autoritari, come quello fascista o il centralismo
comunista della Russia.
Tenendo presente il potenziale particolarismo delle reti diventa importante il
ruolo svolto dalla azione politica per determinarne la direzione, ed è a questa tesi che
si riferisce per ridefinire le responsabilità che hanno condotto il meridione d’Italia
nella condizione di arretratezza e di ritardo nello sviluppo economico in cui si trova
attualmente. Sostiene infatti che non è stata l’arretratezza della cultura civica a
determinare l’inerzia della politica, ma viceversa è stata una politica scarsamente
modernizzata che si è orientata ad un uso predatorio delle risorse invece di fornire
quei beni collettivi necessari per lo sviluppo, quali possono essere le infrastrutture, i
servizi, le garanzie giuridiche, ad impedire al mercato di svolgere la sua azione
razionalizzatrice. Infatti il mercato, secondo Trigilia, tende a sanzionare i
comportamenti non efficienti e può quindi stimolare quei cambiamenti necessari per
lo sviluppo.
2.2.4 – Social Capital in the Creation of Human Capital13
In questo articolo del 1988 Coleman introduce il concetto di capitale sociale,
che svilupperà poi in Foundations of social theory (1990), e lo utilizza in una ricerca
sull’abbandono scolastico.
Partendo dalla constatazione che nella teoria economica l’attore è guidato
dall’utilità individuale e nella teoria sociologica è interamente socializzato e l’azione
13
Coleman (1988).
65
è guidata dalle norme condivise, cerca di definire uno strumento che consenta di
operare una sinergia tra le due definizioni.
Sia per i sociologi che per gli economisti l’azione è determinata totalmente
dal contesto senza che vi sia un motore, un obiettivo che la dirige e la determina, per
cui Coleman cerca in entrambi i campi contributi che abbiano cercato di dare una
soluzione a questo problema. Tra gli economisti fa riferimento al lavoro di Yoram
Ben-Porath (1980) che identifica le “F-connection”, cioè i legami di famiglia, amici
(friends) e lavoro (firms), mostrando come questi legami influenzino gli scambi
economici. In campo sociologico fa riferimento a Mark Granovetter (1985), il quale
ritiene che l’analisi economica dell’azione utilizzi un “undersocialized concept of
man”, ritenendo invece importante per le decisioni individuali l’influenza delle
relazioni personali, quella che lui definisce “embeddedness”, sia nel generare fiducia,
costruire aspettative che generare e rinforzare le norme condivise.
Sulla base di queste riflessioni riconosce alla struttura sociale una evoluzione
storica e una continuità capaci di agire sul funzionamento del sistema economico.
Lo scopo di Coleman è importare i principi usati dagli economisti nella teoria
dell’azione razionale per usarli nello studio del sistema sociale in modo adeguato,
includendovi l’analisi del sistema economico ma senza limitarsi ad esso, e senza
mettere da parte l’organizzazione sociale. Il concetto di capitale sociale è secondo lui
lo strumento adatto a questo scopo.
Se partiamo da una teoria dell’azione razionale, in cui ogni soggetto ha a
disposizione alcune risorse, allora il capitale sociale è una di queste. Viene definito
attraverso la sua funzione: serve a facilitare alcune azioni all’interno della struttura
data. È produttivo: permette di raggiungere scopi altrimenti non raggiungibili. A
differenza di altre forme di capitale si ritrova nella struttura delle relazioni tra gli
attori, non negli attori o in altri oggetti fisici: è intangibile.
Fa alcuni esempi di capitale sociale: il primo esempio è la comunità di
mercanti di diamanti di New York. Questa comunità è composta esclusivamente da
Ebrei, che condividono oltre all’attività commerciale legami di famiglia, amicizia,
religione.
Questa
struttura
fortemente
66
interconnessa
garantisce
contro
i
comportamenti disonesti: l’eventuale defezione comporterebbe per il soggetto la
perdita di tutte le forme di appartenenza: lavoro, famiglia e fede religiosa.
Nel secondo esempio descrive l’organizzazione di gruppi di studenti attivisti
radicali in Sud Corea: in questo caso gruppi precedentemente esistenti hanno
intrapreso attività politica utilizzando la struttura di gruppo già presente per altri
scopi. Per evitare di venir scoperti ed arrestati i contatti tra i vari gruppi sono ridotti
al minimo.
Nel terzo esempio descrive una madre di sei figli che si è trasferita dalla
periferia di Detroit a Gerusalemme: mentre nella metropoli americana non avrebbe
mai lasciato i figli muoversi da soli nei percorsi da scuola a casa, a Gerusalemme
lascia che i figli attraversino la città da soli perché può contare sull’azione di tutela
che viene svolta spontaneamente da tutti gli adulti nei confronti dei ragazzi.
L’ultimo esempio riguarda il mercato Kahn el Khalili del Cairo, dove i vari
commercianti, pur svolgendo ciascuno la propria attività, sono in grado di condurre il
cliente presso gli altri commercianti o occuparsi in prima persona di fornire il
servizio richiesto, anche se diverso dal proprio, andando di persona a chiederlo al
collega che lo svolge. Per ciascuna di queste attività esistono accordi sulle modalità
di pagamento o di obbligazioni reciproche. Quest’ultimo esempio mostra l’esistenza
di una forte interconnessione tra attori economici individuali, che costruisce una
struttura composta da tutti i singoli commercianti e capace di fornire tutti i servizi al
cliente senza che questo li debba cercare da solo. Questo risultato è ottenuto
attraverso accordi informali e consuetudini che si sono sviluppate con il tempo e
grazie al sostegno di norme ed abitudini condivise e rispettate da tutti.
Così come il capitale fisico deriva dai cambiamenti nei materiali che
consentono di migliorare la produzione, e il capitale umano dai cambiamenti nelle
persone che sviluppano abilità che li rendono capaci di agire in modi nuovi, anche il
capitale sociale agisce e si sviluppa attraverso i cambiamenti nelle relazioni tra le
persone che producono nuove possibilità e facilitano l’azione.
L’aspetto che Coleman vuole sottolineare è che il capitale sociale viene
identificato attraverso la sua funzione di risorsa per gli individui per raggiungere i
67
loro scopi, e si definisce sociale quel capitale la cui risorsa è costituita
esclusivamente dall’organizzazione sociale.
Non costituiscono capitale sociale quei legami e quelle relazioni che sono
solo un vincolo senza contribuire al miglioramento delle possibilità per il soggetto,
Il capitale sociale si manifesta attraverso tre forme: obbligazioni e aspettative,
canali di informazioni e norme condivise.
Il sistema di obbligazioni e aspettative è costruito sulla fiducia che permette
una dilazione delle risposte, in modo da creare un credito che potrà essere usato per
rinsaldare i legami e costituire la base per scambi futuri. È evidente anche il suo
ruolo nel costruire la rete di connessioni, in cui l’ampiezza e il numero di contatti
amplificano il valore, in modo analogo a quanto avviene con i capitali fisici.
Il ruolo dei canali informativi è altrettanto importante: forniscono la base per
l’azione, in quanto le informazioni sono indispensabili per prendere decisioni, ma
anche il canale in cui si sviluppa la fiducia rendendo visibili le azioni dei soggetti e le
conseguenze delle loro scelte.
Le norme rappresentano la terza forma di capitale sociale, sono molto potenti
e altrettanto fragili, nell’ipotesi che non vengano rispettate. Agiscono spesso
facilitando certe azioni e limitandone altre, e in questo modo influenzano la direzione
dell’azione.
Queste tre forme di capitale sociale non esistono separatamente, ma ne
rappresentano tre aspetti fortemente correlati.
Una caratteristica che favorisce la formazione di capitale sociale è la chiusura
delle reti sociali: infatti le norme si sviluppano più facilmente ed è più efficace la
sanzione nei confronti di comportamenti non aderenti alle norme condivise nei
network chiusi. Coleman porta ad esempio le comunità di genitori di ragazzi che
frequentano la stessa scuola: i figli di genitori che hanno legami tra di loro sono
maggiormente tenuti ad osservare le norme del gruppo rispetto a quelli che hanno
genitori che non si conoscono, perché la funzione di controllo e di sanzione viene
svolta da tutti i membri adulti nei confronti di tutti i giovani anziché solo dai propri
genitori. In questo caso il capitale sociale aumenta anche il controllo sociale.
68
Un’altra caratteristica che può sviluppare capitale sociale è l’appropriazione
di una struttura sociale per scopi comuni diversi da quelli che l’hanno generata.
L’esempio degli studenti sudcoreani è uno di questi casi. Coleman descrive anche
un’associazione di residenti sorta per risolvere problemi urbanistici che diventa uno
strumento per migliorare la qualità della vita dei residenti di certi quartieri. Questa
caratteristica è importante per Coleman, al fine di introdurre la sua ricerca: il capitale
sociale può diventare lo strumento attraverso cui creare capitale umano.
Per capitale umano in questo caso intende le capacità che un individuo
acquisisce attraverso l’istruzione, considerando quindi l’abbandono scolastico come
una perdita in termini di capitale umano.
La tesi di Coleman è che il capitale sociale presente nelle famiglie sia un
elemento importante nel favorire il successo scolastico dei figli.
Non identifica il capitale sociale della famiglia con la sola presenza dei
genitori, ma con l’effettivo tempo speso nella relazione con i figli. Utilizza come
indicatore il numero di figli per famiglia e la posizione tra fratelli, considerando che
in una famiglia il tempo a disposizione da dedicare a ciascun figlio decresce con
l’aumentare del numero di figli, ed ha influenza sui risultati raggiunti, coerentemente
con quanto risulta dalle ricerche svolte per lo studio del quoziente di intelligenza.
Utilizza come indicatore della chiusura del gruppo sociale le varie tipologie di
scuola, ritenendo che le scuole confessionali siano frequentate da gruppi con maggior
chiusura rispetto a quelle non confessionali.
Per definire il capitale sociale al di fuori della famiglia fa riferimento al
numero di volte che le famiglie si trasferiscono, considerando che ad ogni trasloco il
capitale sociale precedentemente costruito vada perduto.
I risultati di questa ricerca confermano le ipotesi: le classi in cui è minore
l’abbandono scolastico sono quelle confessionali, in quanto il capitale sociale della
famiglia viene supportato dalla chiusura e quindi dal capitale sociale della comunità.
Allo stesso modo all’interno della famiglia i ragazzi con minor percentuale di
abbandono hanno due genitori, pochi fratelli e preferibilmente la madre si aspetta che
vadano al college.
69
Le conclusioni dell’articolo vertono sugli aspetti di bene pubblico del capitale
sociale, in quanto una migliore istruzione dei giovani conduce ad impieghi migliori e
di maggior prestigio, e anche un miglior utilizzo del capitale fisico attraverso una
maggiore capacità di svilupparne e apprezzarne i benefici. Allo stesso tempo questa
caratteristica lo rende estremamente vulnerabile, in quanto, per il fatto che chi
investe in capitale sociale non ne riscuote necessariamente i frutti, lo svincola dalle
scelte individuali. Spesso decisioni di mobilità, alla ricerca di condizioni lavorative
migliori, o la scelta di intraprendere attività retribuite per chi dedicava parte del
proprio tempo ad attività associative che costituivano capitale sociale per la comunità
intera, possono erodere significativamente il capitale sociale costruito.
Considerando che la struttura della società sta evolvendo verso una sempre
maggiore mobilità e verso il declino di quelle forme di comunità chiuse fortemente
interconnesse, Coleman ritiene che il capitale sociale vada progressivamente
riducendosi ad ogni generazione.
Sia questa visione di declino del capitale sociale, sia lo studio degli effetti
sull’istruzione non sono scelte casuali.
Il tema dell’istruzione dei giovani in America è stato alla base di un’etica
nazionale fondata sul lavoro secondo cui la conoscenza aumenta il valore di
quest’ultimo. Fino dall’amministrazione Kennedy la qualità dell’istruzione è stata
importante per gli americani.
Il fenomeno dell’evasione scolastica è un problema molto sentito e la qualità
dell’istruzione è progressivamente erosa dalla riduzione degli investimenti e da una
gestione che stabilisce altre priorità. Come testimonia l’attuale presidente Barack
Obama (2007, pp. 166-167) in un suo libro: oggi l’America detiene uno dei tassi più
elevati di abbandono dell’istruzione superiore tra i paesi industrializzati … La
responsabilità di trasmettere ai giovani un’etica di duro lavoro e di profitto
scolastico spetta innanzitutto ai genitori, i quali si aspettano a buon diritto che il
governo, tramite le scuole pubbliche, faccia la sua parte – proprio come ha fatto per
le precedenti generazioni di americani.
70
2.3 – Quanto possiamo contare sul capitale sociale?
La visione di Coleman rispetto al mutamento sociale in atto ci introduce il
tema del lavoro seguente: il concetto di capitale sociale è stato appena definito e se
ne sono studiati gli effetti benefici, ma le premesse per la sua costituzione vengono a
mancare proprio grazie alle modifiche che si sviluppano nella struttura sociale.
Alcuni di questi cambiamenti derivano dal miglioramento di alcune condizioni di
base che nessuno si sentirebbe di scoraggiare: il miglioramento del benessere
economico che rende meno necessarie certe reti di sostegno reciproco. Altri
cambiamenti danno adito a dibattiti piuttosto vivaci: si sostiene che un sistema di
welfare molto efficace renda inutile una struttura della famiglia coesa e quindi
diminuisca la possibilità di formazione di capitale sociale.
A sottolineare questi dubbi troviamo Putnam (1995) con le sue riflessioni sul
declino del capitale sociale nella società americana.
2.3.1 – Bowling Alone: America’s Declining Social Capital14
Nel 1995 Putnam sta raccogliendo i frutti del suo importante lavoro sulla
tradizione civica nelle regioni italiane, e pone uno sguardo alla realtà americana.
La riflessione scaturisce probabilmente da una constatazione personale:
appassionato di bowling si rende conto che sono sempre meno quelli che giocano in
gruppo anche se il numero complessivo dei giocatori è significativamente aumentato.
La sua attenzione si sposta sulle altre forme associative: attività politica,
associazioni di volontariato, associazioni di genitori, e così via.
Dall’analisi dei dati emerge un quadro preoccupante ed in linea con le
riflessioni di Coleman relative alla progressiva diminuzione di capitale sociale: nel
corso degli ultimi decenni si è avuto un progressivo declino del numero di
partecipanti a tutte le forme associative precedentemente diffuse, solo in parte
compensato da nuovi tipi di associazioni che però oltre ad avere finalità diverse
14
Putnam (1995).
71
spesso non agiscono costruendo un legame tra le persone ma solo fornendo sostegno
ad ideali comuni.
Ribadita l’importanza del capitale sociale per lo sviluppo e il funzionamento
delle istituzioni democratiche, questo cambiamento nelle abitudini dei cittadini
manifesta i suoi effetti principalmente nella diminuzione della partecipazione attiva
alla vita politica nazionale.
Putnam cerca spiegazioni a questo cambiamento. Esclude che la
responsabilità sia da attribuire ai disastrosi eventi legati alla vita politica, come gli
scandali, gli assassinii, il Vietnam, il Watergate e così via, e cerca di individuare i
cambiamenti nella struttura sociale che hanno determinato questa diminuzione della
partecipazione.
Per prima cosa descrive le nuove forme associative e come si caratterizzano.
Tra le prime annovera le associazioni ambientaliste e quelle femministe, il cui limite
per la formazione di capitale sociale consiste proprio nel non favorire la conoscenza
diretta e la creazione di legami tra le persone, perché il loro compito è di sostenere
gli ideali su cui si fondano, che sono condivisibili da una moltitudine di persone ma
non necessitano di radicarsi in una comunità ristretta, anzi la loro forza è proprio la
numerosità dei sostenitori, così che il farne parte si riduce spesso a pagare la quota
associativa e leggere ogni tanto una newsletter.
In modo non molto diverso definisce le associazioni non-profit, e anche di
queste ritiene dubbia la potenzialità di costruire capitale sociale.
Per quanto riguarda i gruppi di supporto, o mutuo aiuto, vista anche la loro
ampia diffusione, Putnam ritiene che possano svolgere un ruolo importante per la
formazione di capitale sociale, proprio perché si basano sui rapporti diretti fra i
soggetti che si incontrano, anche se le finalità di questi gruppi rispondono
prevalentemente a bisogni di tipo personale. Le loro caratteristiche sono molto simili
a quelle dei gruppi di vicinato o parrocchiali, per il tipo di legame che possono creare
e per il tipo di supporto che forniscono agli individui.
Ribadendo l’importanza della partecipazione ad associazioni per la diffusione
della fiducia, fondamentale per la vitalità dei sistemi democratici, Putnam costruisce
un parallelo tra la diminuzione delle associazioni e la diminuzione della fiducia.
72
Notando che sia la fiducia che l’associazionismo sono positivamente correlati con il
livello culturale, non si spiega come si sia potuta avere questa erosione visto che i
livelli di istruzione in America negli ultimi decenni sono significativamente
aumentati.
Occorre a questo punto aprire una parentesi: nel testo di Obama (2007, pp.
167-169) precedentemente citato si parla di come il sistema scolastico statunitense
abbia subito così tanti tagli da limitarne l’efficacia, e si rilevano le preoccupanti
situazioni di scarso rendimento che sicuramente hanno ridotto la capacità del sistema
scolastico di sviluppare quelle qualità legate all’istruzione che potevano fare da
supporto alla partecipazione civica e alla costruzione della fiducia.
Probabilmente il titolo di studio conseguito non è più un buon indicatore del
livello di cultura e civiltà, o comunque non è confrontabile con risultati valutati a
differenti livelli di qualità.
Quali sono allora per Putnam le cause dell’erosione di capitale sociale in
America?
Considerando che la costruzione di capitale sociale richiede tempo, il
massiccio ingresso delle donne nel mondo del lavoro ha senza dubbio diminuito il
tempo a disposizione per le famiglie per costruire capitale sociale. Con una decina di
anni di ritardo rispetto alle associazioni femminili si rileva la stessa diminuzione
anche nelle associazioni a prevalente partecipazione maschile. Purtroppo le indagini
sull’utilizzo del tempo libero hanno indicato una solo parziale riallocazione del
tempo libero degli uomini nella gestione della vita domestica.
La seconda ipotesi è legata all’aumento della mobilità lavorativa che
distrugge i legami, e di cui implicitamente è testimone anche la ricerca di Coleman
(1988) sull’abbandono scolastico. In questo caso, di fronte a delle comunità che non
sono più radicate in un territorio ma che più facilmente si costruiscono all’interno
della vita produttiva, sarà da studiare la potenzialità dei luoghi di lavoro di costruire
legami che resistano nel tempo e che possano costituire capitale sociale.
I cambiamenti di tipo demografico legati agli stili di vita, alla diminuzione
dei matrimoni, al numero dei figli, offrono un campo interamente da studiare per
comprenderne gli effetti.
73
Come ultima ipotesi Putnam guarda alle trasformazioni tecnologiche che
hanno cambiato l’uso del tempo libero: la televisione e tutti gli altri strumenti di
intrattenimento che sempre di più consentono di svolgere attività da soli e nelle
proprie case, limitando ulteriormente la partecipazione ad attività in gruppo.
Che cosa consiglia di fare l’autore? Innanzitutto cercare di ridefinire il
concetto di capitale sociale, che non è unidimensionale, in modo da poter
comprendere come le nuove forme di organizzazione possano contribuire a
sviluppare capitale sociale.
Poi studiare gli effetti dell’evoluzione tecnologica sulle nuove forme di
socialità per cercare di comprendere se sono in grado di sostituirsi efficacemente agli
incontri di persona o se nel passaggio si ha una perdita netta di capitale sociale.
Un'altra direzione di ricerca è comprendere quanto del vecchio concetto di
capitale sociale che è andato perduto, e cioè gli aspetti di particolarismo, talvolta
sfocianti in discriminazione o clientelismo, siano da rimpiangere.
In ultima analisi è necessario cercare nuove soluzioni per fare in modo che le
politiche pubbliche diventino capaci di stimolare capitale sociale, cercando di non
ripetere quel tipo di interventi che in passato hanno contribuito a distruggerlo.
74
Capitolo 3
Reti sociali. Nuovi strumenti per descrivere la struttura della società
3.1 – La nuova società tra piccoli mondi e little boxes
Nel capitolo precedente abbiamo visto una rassegna della letteratura riguardante i
principali strumenti usati per studiare la forma delle relazioni nelle società
contemporanee: la fiducia e il capitale sociale, i loro usi, la loro formazione, le
potenzialità che hanno per la funzione di conservazione dell’equilibrio sociale.
L’ultimo articolo di Putnam (1995) apre una breccia nel senso di continuità e di
progresso che tali concetti facevano coltivare.
La società cambia in direzioni imprevedibili: quello che aumenta è l’incertezza1,
l’individualismo, ambiguamente favoriti da quel benessere che ha allentato i legami
rendendoli meno necessari per la sopravvivenza.
La Social Network Analysis è già apparsa tra gli strumenti nuovi più adatti a
descrivere questa realtà dai contorni sfumati, capace di cogliere le caratteristiche di
continuità con la funzione di supporto all’individuo che per forza di cose, nelle mutate
condizioni, si esplica con modalità diverse.
L’evoluzione dei mezzi di comunicazione ha favorito un allargamento dei confini
raggiungibili da ciascun individuo, fino a far credere a ciascuno di essere immerso in
una rete globale di contatti. Gli esperimenti sul “problema del piccolo mondo” ne sono
un esempio paradigmatico (Travers e Milgram, 1969), anche se alla resa dei conti
sembra si sia trattato di una bellissima illusione più adatta ad una commedia
hollywoodiana che una concreta possibilità a disposizione di persone che cercano di non
smarrirsi nell’anonimato di orizzonti troppo allargati.
1
Esiste una letteratura che descrive la società moderna in continua evoluzione, ma soprattutto come
continua fonte di incertezza (Bauman, 1999).
75
L’articolo di Kleinfeld (2002) è critico a questo proposito e ribadisce l’esistenza
di forti cesure nella struttura della società, anche di quella opulenta occidentale che
professa criteri universalistici.
La visione di Wellmann (1999) è meno pessimista, forse grazie alla sua
formazione, non ortodossa e da gioventù dorata, avendo mosso i primi passi nel Bronx, e
conosciuto anche le capacità organizzative di situazioni non classiche come quella delle
bande giovanili in cui ha militato da adolescente. Questa esperienza gli consente una
prospettiva meno favorevole al perbenismo conformista delle “Little Boxes” del boom
economico del secondo dopoguerra, e contemporaneamente gli lascia aperta la visione
delle potenzialità che si sviluppano in una direzione diversa, legate allo sviluppo della
realtà virtuale e della comunicazione mediata, insieme alla percezione che le modifiche
strutturali della società hanno dato l’avvio a notevoli cambiamenti nei confronti dei
rapporti di genere, di cui gli effetti sono ancora da comprendere.
Wellmann individua uno spostamento della vita di comunità dalle piazze ai
salotti di casa e ritiene che in questo cambiamento la gestione della relazionalità sia
diventata appannaggio delle donne di casa.
Ma se la famiglia è da sempre la sede dei legami forti, quelli che saldano le
comunità coese, la cui gestione è basata su vincoli affettivi, di cui da sempre le donne
sono le sacerdotesse, il lavoro di Granovetter (1973) ci riporta alla realtà, e riconducendo
il valore delle relazioni al suo potenziale informativo, riporta alla ribalta i legami deboli,
quelli che inevitabilmente si formano fuori casa, anzi principalmente nei luoghi di
lavoro, ancora saldamente in mano maschile.
La successiva analisi di Burt (1995) è un approfondimento significativo del tema
precedente, perché individua la caratteristica che fa scaturire l’importanza dei legami
deboli di cui Granovetter elogia la forza.
In chiusura Ben-Porath (1980) introduce il tema e l’importanza dell’identità negli
scambi che avvengono fuori dal sistema di mercato, tra quelle che lui definisce le Fconnection: famiglie, amici e lavoro, cioè il tipo di legami che vengono analizzati in
questo lavoro. La sua tesi è che l’identità, fondata sull’appartenenza a questi gruppi,
76
costituisce la base per la costruzione della fiducia necessaria per gli scambi. In un
mondo in cui le comunità di appartenenza hanno un ruolo sarà l’identità collettiva a fare
da garanzia, identità che scivola sempre più verso l’individuo in un mondo in cui
contano le competenze acquisite e perde importanza l’appartenenza al gruppo.
3.1.1 – An experimental study of the small world problem2
Lo psicologo sociale Stanley Milgram si è dedicato negli anni ’60 ad una serie di
esperimenti che ruotano intorno a quello che viene definito “il problema del piccolo
mondo”.
Questa ipotesi ha avuto un enorme successo mediatico, grazie all’effetto che
suscita l’idea di vivere immersi in un mondo in cui tutti possiamo essere connessi con
chiunque, anche vivendo in luoghi distanti.
In questo articolo, scritto assieme a Travers, descrive uno degli esperimenti svolti
per dimostrare empiricamente la veridicità delle ipotesi sostenute, e cioè che servono
pochi passaggi per costruire una catena di conoscenze che unisca due individui qualsiasi
scelti a caso.
Per dimostrare questo gli autori individuano 296 volontari abitanti nel Nebraska e
a Boston, a cui consegnano un messaggio da inviare ad una persona target in
Massachussets. Di questi iniziali partecipanti 217 trasmettono il plico ad un amico e 64
riusciranno a far pervenire il plico al destinatario. Milgram ritiene che la percentuale di
successo, corrispondente al 29 per cento, sia più che soddisfacente.
Dalle analisi statistiche emerge che la distribuzione delle frequenze del numero
di passaggi occorsi è bimodale, a causa della diversa strategia dei soggetti di partenza,
infatti i soggetti che hanno utilizzato contatti di lavoro per raggiungere il target si
concentrano intorno alla media di 4,6 passaggi, mentre quelli che hanno privilegiato la
2
Travers e Milgram (1969).
77
vicinanza geografica hanno una media di 6,1 passaggi. Considerando quindi l’ipotesi
con il maggior numero di passaggi nasce il famoso mito dei “Sei gradi di separazione”
che negli anni successivi darà origine ad altre ricerche e attività culturali tra cui una
commedia e un film.
Tralasciando le considerazioni fatte dagli autori sulla validità statistica
dell’esperimento, ci sono alcuni punti evidenziati che sono utili per questo lavoro.
Una delle considerazioni di Travers e Milgram (1969) è che quando la catena di
conoscenze necessaria per raggiungere il target è molto lunga aumentano i rischi di non
riuscire a condurla a termine. Questo può essere dovuto ad una strategia inefficiente
degli attori che non riescono ad avere informazioni sul percorso futuro della catena,
oppure ad una effettiva separazione tra i gruppi sociali di partenza e di arrivo.
Un fenomeno molto interessante invece è il fatto che alcuni intermediari
appaiono molte volte nei passaggi per giungere all’obbiettivo. In questa ricerca 3
persone raccolgono il 48 per cento dei messaggi per poi trasferirli al target.
Evidentemente il loro ruolo nella catena è fondamentale al punto che potremmo
utilizzare una definizione presa a prestito dalla Social Network Analysis e definirli
legami ponte3.
In linea con le argomentazioni sostenute da Mark Granovetter (1973, 1983, 1985,
1998) negli articoli che vedremo successivamente, da questa ricerca emerge che l’85 per
cento dei partecipanti ha utilizzato come intermediari dei conoscenti, mentre solo il 14
per cento ha fatto riferimento a parenti.
Un’ultima considerazione riguarda il genere: le donne sono state più propense a
trasmettere il plico ad un uomo mentre gli uomini hanno più raramente trasmesso il plico
ad una donna.
Le conclusioni degli autori vertono sulla possibilità di misurare la “connettività”
delle società moderne e sul fatto che una catena di conoscenze può unire soggetti distanti
sia geograficamente che socialmente. Le analisi matematiche che hanno simulato questa
3
“Legame che connette clusters (o sotto-gruppi) diversi di attori ed ha la caratteristica di essere un legame
debole” (Cordaz, 2007, p. 35).
78
connettività tra individui indicano come risultato anche un numero più piccolo di
passaggi, ma la realtà si scontra con gli ostacoli costituiti dalla non perfetta informazione
su quali siano i percorsi più brevi e con le discontinuità costituite dalle differenze sociali.
Per Milgram, famoso anche per altri esperimenti che hanno suscitato notevole
scalpore nel mondo accademico e mediatico4, questo studio ha fatto parte di una attività
che si è protratta nel tempo e di cui restano molti documenti negli archivi presso la Yale
Library. A questi documenti fa riferimento Judith S. Kleinfeld in un articolo del 2002
nel quale esamina i risultati di questo lavoro.
3.1.2 – The small world problem5
L’autrice analizza i lavori di Milgram, compreso quello trattato nel paragrafo
precedente, con particolare attenzione alla metodologia della ricerca, al fine di
verificarne l’attendibilità.
La posizione di Kleinfeld è critica nei confronti dei risultati che sono stati
affermati a fronte di un’evidenza sperimentale piuttosto debole. Le varie versioni
dell’esperimento sul problema del piccolo mondo hanno raramente dato risultati
confortanti, tanto che le affermazioni in merito potrebbero essere riformulate così: “è
possibile che tra due individui separati geograficamente e socialmente esista una
connessione attraverso una catena molto breve di conoscenze”, e non quello che la
disponibilità mediatica ha fatto intendere, e cioè che “tutti noi siamo connessi con pochi
passaggi a chiunque vogliamo scegliere come target”.
Kleinfeld mette in evidenza come la maggior parte degli studi sul piccolo mondo
non abbiano condotto ad alcun risultato significativo, e quindi cerca di capire attraverso
uno studio accurato delle carte in archivio quali siano state le caratteristiche che hanno
4
Ad esempio la serie di esperimenti sull’obbedienza, svolti dopo la fine della seconda guerra mondiale e
indirizzati a studiare il comportamento umano al fine di cercare spiegazioni per quanto era accaduto sotto
il regime nazista.
5
Kleinfeld (2002).
79
reso possibili i risultati ottenuti da Travers e Milgram (1969). Uno degli elementi che
può aver prodotto tali differenze è l’oggetto che viene trasmesso, non si tratta infatti
sempre della stessa cosa: in alcuni casi si trattava di una lettera, in altri di un vistoso
passaporto. L’autorevolezza dell’oggetto da inviare può aver influenzato l’impegno del
ricevente a trasmetterlo a sua volta.
Un appunto non trascurabile viene fatto sulla scelta del campione: il campione
che viene definito casuale è in realtà preso da una mailing list per usi commerciali
acquistata dai ricercatori, un altro gruppo è costituito da persone che hanno risposto ad
un annuncio su giornali, fatto in modo da attrarre persone particolarmente socievoli e
quindi interessate ad avere molti contatti, in entrambi i casi si tratta di persone
potenzialmente appartenenti ad un gruppo sociale benestante e orientate a collaborare
alla ricerca.
Negli archivi di Milgram l’autrice trova anche un articolo, probabilmente
inviatogli per un referee report, mai pubblicato, che riporta i risultati di un’analoga
ricerca, mirata a studiare i passaggi tra varie categorie sociali, in cui il quasi totale
fallimento dei tentativi mette in evidenza il fatto che le persone sono separate in modo
netto in categorie sociali.
Tra le carte trova una singolare eccezione: una ricerca svolta nella città di
Montreal che ottiene l’85 per cento di consegne completate. Il target è un personaggio in
vista della comunità ebraica. In effetti questo esperimento prova che la comunità ebraica
di Montreal è molto connessa, ma non che questo risultato si possa estendere ad altri
contesti.
Le conclusioni che trae Kleinfeld sono che noi viviamo in un mondo in cui il
capitale sociale, cioè la capacità di mantenere contatti personali, non è universalmente
diffuso ma è più probabile appannaggio delle persone di status elevato (Kleinfeld, 2002,
p. 65).
L’immagine che utilizza per descrivere le connessioni è quella di una tazza di
cereali, con molti grumi di “piccoli mondi” debolmente connessi tra loro e alcuni grumi
del tutto isolati.
80
Si chiede perché vogliamo credere nel piccolo mondo e per spiegarlo utilizza il
concetto di “euristica della disponibilità” (Kahneman e Tversky, 1996) che fa
riferimento al fenomeno per cui esperienze che colpiscono in modo vivido la nostra
immaginazione ci appaiono più frequenti di quanto non siano in realtà. Tra i motivi che
rendono il tema del piccolo mondo così vivido agli occhi della gente comune l’autrice ne
descrive alcuni: il primo è che una tale credenza ci dà un senso di sicurezza, il secondo è
che queste esperienze supportano il senso della fede religiosa, e per ultimo che le
persone hanno una ingenua percezione rispetto alla probabilità statistica delle
coincidenze.
E per finire si chiede se sei gradi di separazione siano un numero piccolo oppure
molto grande, forse avendo presenti i lavori di Granovetter (1973, 1983) sulla forza dei
legami deboli, in cui si mette in evidenza che tali legami producono risultati solo quando
in un passaggio o al massimo due conducono al risultato.
3.1.3 – From Little Boxes to Loosely-Bounded Networks: the Privatisation and
Domestication of Community6
Barry Wellman nasce nel 1942 nel quartiere del Bronx a New York City. In
questo articolo ricorda la sua adolescenza e la sua partecipazione a varie bande giovanili
che non avevano un preciso confine ma erano costituite da un flusso continuo di giovani
che si aggregavano intorno ad uno scopo o un obbiettivo. La sua definizione di comunità
parte da questa esperienza.
Insieme a lui vari altri autori contemporanei vedono scomparire la comunità così
come definita dai padri fondatori della sociologia, con non poca preoccupazione. E
politologi e sociologi si chiedono come poterne stimolare una rinascita. Secondo
6
Wellmann (1999).
81
Wellman invece la comunità non sta scomparendo, ma si sta trasformando a causa dei
profondi mutamenti della struttura sociale.
Non siamo più di fronte a gruppi compatti di persone che condividono un
territorio ed hanno frequenti scambi di relazioni, beni e valori. La struttura delle
relazioni sociali, del lavoro e delle famiglie è tale che le persone che vi appartengono
vivono disperse su un territorio vasto. La struttura dei sistemi di comunicazione permette
però di coltivare l’esistenza di queste comunità pur non condividendo più una base
territoriale.
Questo cambiamento impone una modifica del metodo di studio, perché insieme
alla perdita di significato della condivisione di uno stesso spazio, o quartiere, si
modificano anche le modalità degli scambi.
Nel compito di definire le nuove caratteristiche della comunità ci viene in aiuto la
Social Network Analysis, che supera la definizione formale di comunità per definirla
attraverso i legami che la strutturano. Si parte dalla “struttura” invece che dalla “forma”;
si porta in primo piano il contesto, perché ogni singola realtà viene analizzata nelle sue
connessioni riconducendo la classificazione ad alcune caratteristiche di base: il numero
di connessioni, la loro densità, il loro verso e se sono reciproche o meno.
Questo approccio non ci impedisce di ritrovare in alcuni casi quelle comunità che
Tönnies (1887) definisce gemeinschaft, ma ci permette di descrivere anche molte altre
forme intermedie di organizzazione; non assume che il mondo sia sempre costituito da
individui guidati da norme che vivono in gruppi coesi e stanziali. La Social Network
Analysis ci permette di descrivere il mondo delle relazioni attraverso i soggetti che
agiscono, siano essi individui o gruppi, e il tipo di interazioni che mettono in gioco. In
questo modo si riesce a descrivere tutta la gamma che va dalle interazioni tra due
individui alle interazioni all’interno di gruppi formati da svariati soggetti.
In questo articolo Wellman descrive la natura delle comunità contemporanee e le
implicazioni che ne derivano in seguito alla privatizzazione, specializzazione e
allentamento dei legami che le costituiscono e la loro nuova organizzazione. Per fare
82
questo presenta le seguenti proposizioni relative alla natura di rete delle comunità
contemporanee.
I legami all’interno delle comunità personali sono specializzati, non ad ampio
spettro, per cui forniscono vari tipi di supporto e ogni individuo ha bisogno di vari tipi di
legami per poter coprire tutte le sue necessità relazionali.
Le persone non vivono in comunità tradizionali, densamente interconnesse, ma
sono immerse in reti di legami sparsi, senza confini netti e che si modificano
frequentemente. Il supporto fornito da ciascun contatto è diverso dagli altri e gli
individui hanno interesse a coltivare ogni singolo legame per la sua specificità anziché
una ipotetica idea di comunità.
Le comunità si sono sviluppate oltre l’orizzonte del vicinato e sono diventate
network dispersi sul territorio, che possono essere ugualmente presenti e supportivi.
Ricerche storiche citate da Wellman mostrano che tale tipo di legami dispersi rispetto al
territorio erano presenti anche nelle comunità dei secoli passati.
La socialità privata ha rimpiazzato la socialità pubblica. La socialità maschile del
passato si sviluppava esclusivamente nei luoghi pubblici, dove non era incoraggiata la
presenza femminile. Con l’ingresso nel mondo del lavoro delle donne, si è modificata la
presenza in casa per entrambi: è diminuita per le donne e aumentata per gli uomini. A
causa della distanza dei luoghi di lavoro dalla residenza è diminuito il desiderio di
trascorrere il tempo libero fuori casa, per cui gli incontri avvengono tra persone che già
si conoscono all’interno delle abitazioni. Tutto questo è facilitato dai nuovi media come
il telefono e la posta elettronica, e sollecitato dalla aumentata percezione di non
sicurezza dei luoghi pubblici, che sono rimasti come luogo di passaggio, o per fare
acquisti, attività non necessariamente sociale.
La vita di comunità è divenuta un fenomeno “domestico”. Con lo spostamento
della vita sociale all’interno della vita familiare è aumentata la selettività nei confronti
delle relazioni, che non possono più essere casuali, come gli incontri nelle piazze, ma
devono essere filtrate dalle preferenze e dalle caratteristiche degli individui. In questo
modo si formano comunità di persone con caratteristiche omogenee. Le relazioni hanno
83
perduto la caratteristica di strumento indispensabile per l’ottenimento di risorse e sono
diventate più legate a bisogni di relazionalità piuttosto che di sicurezza o sopravvivenza.
In questo cambiamento le donne, per tradizione le custodi dei legami familiari, e quindi
più esperte nelle relazioni domestiche, hanno assunto un ruolo predominante nella
gestione di questa socialità privata, che in questo contesto diventa prevalentemente
appannaggio delle coppie rispetto ai singoli individui e si manifesta come un’estensione
dei legami di parentela. La possibilità di costruire legami sulla base di incontri casuali è
drasticamente diminuita.
Le caratteristiche politiche, economiche e sociali influenzano la natura delle
comunità. In questo senso nelle parti meno fortunate del mondo le comunità continuano
ad essere lo strumento di supporto principale e non solo emozionale. Le comunità
continuano ad essere non solo il luogo in cui le persone apprezzano il proprio tempo
libero, ma soprattutto il meccanismo chiave attraverso cui gli individui accedono alle
risorse. Le risorse possono essere ottenute attraverso varie modalità: con gli scambi di
mercato, attraverso distribuzioni istituzionali, attraverso scambi comunitari, attraverso
appropriazioni coercitive e con l’autoproduzione. Sebbene tutte queste modalità si
possano trovare più o meno diffuse in tutte le società, gli scambi di mercato sono tipici
delle società occidentali, la distribuzione istituzionale è tipica delle società pianificate e
gli scambi comunitari sono tipici del terzo mondo, caratterizzato da apparati statali
deboli e poche organizzazioni formali. Le comunità personali sono importanti nelle
società occidentali per compensare l’insicurezza che deriva dallo stress emotivo e fisico,
mentre per l’ottenimento di risorse si può far ricorso al mercato. Le minori
preoccupazioni economiche e politiche le distinguono dalle società meno sicure.
Il passaggio dalle comunità personali, connesse anche attraverso il web, e le
comunità virtuali è breve. Il cyberspazio supporta le nuove forme di comunità
“glocalizzate”. Wellman si chiede se queste comunità virtuali saranno in grado di
supportare i legami, sia deboli che forti, in un mondo in cui i network di ogni individuo
sono sempre più vasti, e se saranno capaci di formare nuovi legami attraverso le
conoscenze che consentono e di rafforzare quelli già esistenti.
84
Indubbiamente
siamo
passati
da
un’organizzazione
sociale
basata
sull’appartenenza ascrittiva a nuove organizzazioni sociali basate sull’appartenenza
acquisitiva. Resta da dimostrare se saranno sufficienti i contatti virtuali o se sarà
comunque indispensabile rinsaldare questi legami attraverso incontri di persona.
Le riflessioni conclusive riguardano i possibili cambiamenti che il cyberspazio
può produrre nella struttura delle società occidentali. Ci si allontana dalle “Little Boxes”
della canzone di Malvina Reynolds7, che descrivono efficacemente il conformismo della
middle class americana degli anni ’60, per andare verso un mondo destrutturato di cui
Wellman analizza le potenzialità nei confronti della divisione del lavoro all’interno della
famiglia.
Il tema dell’entrata delle donne nel mondo del lavoro si presentava già
nell’articolo di Putnam del 1995 sul decadimento del capitale sociale in America, e
riflette un interesse legato alle tematiche di genere molto diffuso in campo accademico
in quegli anni. Secondo Wellman gli effetti della nuova struttura sociale si possono
sentire anche nella divisione del lavoro all’interno delle famiglie, con l’implicita
considerazione che certe conquiste in tema di un’equa ripartizione dei ruoli nella società
tra uomini e donne possa essere ricondotta alle mutate condizioni sociali che l’hanno
resa possibile.
3.2 – Legami deboli, ponti e vuoti strutturali per un’architettura della coesione
sociale
I prossimi due articoli, anche se scritti a distanza di venti anni, sono strettamente
collegati.
7
Nel 1962 la cantante Malvina Reynolds scrive la canzone Little Boxes ispirandosi all’immagine dei
quartieri di villette simili a piccole scatole tutte uguali in cui vivono persone che fanno e ripetono le stesse
cose e gli stessi percorsi di vita.
85
Granovetter (1973) è consapevole del paradosso che esprime con il titolo del suo
articolo, ma questa felice intuizione letteraria è anche la base della sua ipotesi: al
contrario di quanto sostenuto fino ad allora certi fenomeni di coesione sociale sono
supportati dai legami definiti deboli, mentre i legami di tipo forte contribuiscono alla
frammentazione del tessuto sociale.
L’autore parte dalla definizione delle caratteristiche dei legami, dopo aver
ribadito che a suo avviso i legami interpersonali sono il canale di collegamento tra il
livello micro e quello macro dei fenomeni sociali.
La conseguenza di ciò è che i legami forti definiscono gruppi di persone con una
elevata coesione tra di loro e legami reciproci, ma che per l’intrinseca caratteristica dei
legami forti di implicare scambi frequenti in termini di disponibilità, risorse e tempo,
questi gruppi non possono essere costituiti da un numero elevato di persone.
È necessario allora ricorrere ad un altro tipo di legami per riuscire a cogliere la
complessità dell’intera struttura sociale e soprattutto per identificare i meccanismi che la
rendono un tutto unico, anziché un agglomerato di piccoli mondi isolati.
I legami deboli, che sono i ponti attraverso cui collegare questa miriade di piccoli
mondi, diventano lo strumento chiave della rete che unisce la società nel suo complesso.
Granovetter si ferma a questa constatazione, già di per sé rivoluzionaria rispetto
alla concezione che la forza di coesione delle comunità si basi sui legami familiari,
tipicamente molto vincolanti e di conseguenza forti.
Burt (1995) ne precisa le caratteristiche, individuando che è la specifica
collocazione di questi legami come ponte tra due mondi a costituire la loro forza, e non
semplicemente la loro forma.
Utilizza una vivace metafora economica e considera il capitale sociale
prevalentemente costituito dalle relazioni capaci di produrre un profitto per gli individui.
Descrive la competizione tra gli individui per accaparrarsi queste relazioni ponte,
fatte di legami deboli, la cui forza sta nel fornire al soggetto una posizione di controllo
rispetto al flusso di informazioni che ne possono determinare il successo
imprenditoriale.
86
In questa metafora il soggetto, pur subordinando la sua riuscita alla posizione che
occupa nella rete dei legami, resta un agente attivo per il proprio destino.
3.2.1 – La forza dei legami deboli
Nel 1973, quando Granovetter scrive, uno dei temi chiave affrontati dalla
sociologia è il collegamento tra il livello micro e il livello macro dell’analisi sociale.
Per gli scienziati sociali è importante capire come i fenomeni si formano a livello
individuale e trasformano la società nel suo insieme.
Granovetter decide di analizzare una piccola parte delle dinamiche d’interazione:
i legami personali, e per la precisione i legami informali che si sviluppano a livello di
conoscenza.
L’analisi delle reti ha già ampiamente diffuso il concetto che la struttura delle
relazioni sia importante per gli individui, ma finora l’accento è stato posto sulle relazioni
importanti: i legami forti, quelli che vincolano entrambi i soggetti in azioni reciproche,
che possono fornire supporto, che veicolano i valori e la loro condivisione, che
sanzionano i comportamenti aberranti e premiano quelli coerenti con il sistema di valori
condiviso.
Analizzando questo tipo di legami si giunge alla definizione della cosiddetta
“triade impossibile”: se esiste un soggetto A che ha un legame forte con due soggetti, B
e C, raramente si verificherà l’ipotesi che tra B e C non vi sia alcun legame. L’evidenza
empirica conferma che nei piccoli gruppi la triade iniziale conduce all’esistenza di un
legame anche tra B e C.
La considerazione di Granovetter verte sulle possibilità di ciascun individuo di
coltivare il maggior numero di legami. Definisce i legami forti come quelli che
comportano un maggior tempo da trascorrere insieme e un cospicuo numero di
interazioni, tale da non permettere un’espansione illimitata del numero di tali legami che
ciascun individuo può coltivare.
87
Inoltre un legame forte si sviluppa di preferenza tra individui che hanno gusti e
aspirazioni simili.
I legami deboli al contrario possono essere mantenuti in vita con molto meno
sforzo, e quindi non subiscono il limite della disponibilità di tempo.
Tra i legami deboli annovera tutti i rapporti di conoscenza, di amicizia ma senza
un’assidua frequentazione, tali da permettere l’esistenza di contatti tra persone che
hanno gusti ed esperienze diversi e che possono coltivarli separatamente.
Per supportare la sua ipotesi si richiama ad alcune ricerche che studiano i
processi di diffusione. I legami forti, proprio a causa della loro struttura, consentono una
rapida diffusione a tutta la rete di qualunque informazione entri nel sistema. Il punto da
chiarire è come una informazione nuova possa entrare in un sistema chiuso.
Alcuni legami di tipo debole hanno la caratteristica peculiare di unire gruppi
distinti di individui o semplicemente di collegare un individuo ad un altro appartenente
ad un gruppo distante dal primo: questi legami vengono definiti “legami ponte”.
Per questo Granovetter affianca alle qualità dei legami forti, attraverso i quali far
procedere velocemente un’informazione all’interno di un gruppo, la forza dei legami
deboli: far giungere all’interno di un gruppo un’informazione nuova. Non tutti i legami
deboli sono ponti tra gruppi separati, ma, secondo l’autore, tutti i ponti sono legami
deboli.
L’eliminazione di un legame forte può lasciare pressoché inalterata la condizione
di un individuo all’interno di una rete, ma l’eliminazione di un legame debole, nel caso
che questo costituisca un ponte, arreca un notevole danno nei termini di tutte le
informazioni che possono giungere attraverso tale collegamento e vengono perdute.
Prosegue con una rassegna di studi antropologici e sociologici sui processi di
diffusione: dalle ricerche di Rogers (1962) sugli “early innovators”, dove si afferma che
coloro che adottano precocemente un’innovazione sono individui marginali nel gruppo
di riferimento, ma con legami esterni, da cui apprendono le novità, e meno preoccupati
delle conseguenze di un comportamento deviante dalla norma; solo in un secondo
88
momento le innovazioni vengono accolte anche dagli individui più centrali del gruppo,
che di solito sono preoccupati degli effetti sulla loro reputazione di ciò che fanno.
Fa riferimento poi ad un esempio relativo ad un altro tipo di studi sui processi di
diffusione: quelli di Travers e Milgram (1969) trattati precedentemente.
Nell’esperimento del problema del piccolo mondo Milgram, oltre a quanto già
visto, aveva trovato che, nel passaggio da un soggetto bianco ad uno di colore, quando il
contatto di etnia diversa veniva definito come “conoscente” la catena aveva circa il
doppio di probabilità di essere completata rispetto a quando veniva definito come
“amico”. Con questo si mette in evidenza il fatto che se un individuo viene definito
come amico appartiene al gruppo coeso di conoscenze e quindi ha meno probabilità di
avere contatti fuori dal gruppo che permettano alla catena di proseguire.
La parte saliente del lavoro di Granovetter è una indagine svolta personalmente
attraverso una serie di interviste ad un campione casuale di persone residenti in un
sobborgo di Boston che avevano recentemente cambiato lavoro. La ricerca mirava ad
identificare il tipo di legame tra l’intervistato e la persona che gli aveva passato
l’informazione del nuovo lavoro. Nell’ipotesi di partenza riteneva i legami forti come i
più adatti a fornire indicazioni utili, ma i risultati conducono ad una netta prevalenza dei
legami deboli suggerendo la prevalenza della struttura sulla motivazione (Granovetter,
1973). Inoltre l’autore scopre che sono necessari pochi passaggi per ottenere
l’informazione significativa: questo perché spesso la persona che ha fornito
l’informazione ha pure svolto un’importante azione di presentazione del soggetto,
attività per la quale è necessaria una conoscenza diretta. Questa caratteristica distingue
anche i vari soggetti: gli individui più anziani avevano costruito la rete di conoscenze nel
mondo del lavoro, e quindi avevano una conoscenza personale dell’interlocutore, chi ha
invece utilizzato svariati intermediari era più frequentemente un individuo fuori dal
mercato del lavoro o a rischio di venirne escluso, e i numerosi passaggi sono assimilabili
a informazioni ottenute attraverso canali formali.
I legami deboli per Granovetter costituiscono un importante risorsa per la
mobilità volontaria ma anche per la coesione sociale.
89
La forte coesione tende ad ottenere l’effetto paradossale di isolare i vari gruppi,
qui definiti cliques8, ed è solo grazie agli eventuali ponti tra le varie cliques che si può
evitare la frantumazione del tessuto sociale.
Tutti questi esempi sono a sostegno dell’ipotesi che i legami forti tendono a
chiudersi intorno alle solite poche persone, mentre quelli deboli uniscono, anche se in
modo più blando, gruppi più vasti. A questa caratteristica Granovetter attribuisce il
potere di costituire coesione sociale, attraverso la connessione dei vari gruppi, che sono
coesi a livello micro, ma che altrimenti resterebbero isolati determinando la
frammentazione a livello macro.
A sostegno di questa ipotesi fa riferimento al lavoro di Gans (1962) che descrive
la comunità italiana del West End di Boston. Questa comunità, pur essendo ben coesa,
non fu in grado di mettere in piedi un’azione comune per fronteggiare il progetto di
“rinnovamento urbano” che di fatto determinò la disintegrazione di quella comunità.
Gans spiega questo insuccesso attraverso le caratteristiche degli appartenenti: si trattava
per lo più di operai, di cui quasi nessuno lavorava all’interno del quartiere, mentre il
luogo privilegiato per la formazione dei legami deboli è l’ambiente di lavoro, che in
questo caso non si poteva ricondurre al quartiere. In realtà Gans attribuisce importanza
anche ad aspetti più strettamente culturali, in quanto ritiene che solo la classe media sia
capace di sviluppare una sufficiente fiducia nei leaders in modo da poter sviluppare
un’azione comune.
A riprova dell’importanza della struttura sociale nella possibilità di coordinare
un’azione comune, Granovetter porta l’esempio della comunità operaia di Charleston,
che, al contrario di quella del West End di Boston, riuscì ad organizzarsi e fronteggiare
un progetto di rinnovamento urbano analogo. In questo caso però era presente una ricca
vita organizzativa e la maggior parte dei maschi residenti lavoravano in zona.
8
“massimo sottografo completo costituito da tre o più nodi. Consiste pertanto in un sottoinsieme
massimale di nodi in cui ogni nodo è in relazione diretta e reciproca con tutti gli altri … Il concetto di
clique rappresenta un tentativo di formalizzazione della nozione di “gruppo sociale” e un importante punto
di partenza per l’analisi delle proprietà formali dei gruppi coesi” (Cordaz, 2007, p. 33).
90
La relazione tra la forza dei legami e la struttura dei reticoli viene così descritta
dalle seguenti proposizioni.
- I legami deboli collegano membri appartenenti a differenti piccoli gruppi.
- I legami forti collegano tra loro i membri appartenenti ai piccoli gruppi, sono
transitivi e reciproci.
- La transitività è una caratteristica dei legami che viene acquisita attraverso la
conoscenza reciproca e il suo sviluppo è simile a quello delle tappe dello sviluppo del
bambino, in cui si riscontra un aumento dei legami transitivi con la maturazione.
- La reciprocità è tipica dei legami forti tra individui che hanno status simile;
invece le scelte asimmetriche, che caratterizzano l’assenza di reciprocità, rispecchiano le
differenze di status e descrivono la struttura gerarchica del gruppo.
La transitività si qualifica quindi come una funzione della forza dei legami
piuttosto che una proprietà generale della struttura, ed è tipica dei gruppi di piccole
dimensioni perché è possibile solo grazie ad una diffusa conoscenza reciproca tra gli
attori.
La maggior parte delle scelte reciproche indicano la presenza di legami forti.
La conclusione di Granovetter è che l’esperienza personale degli individui,
definibile come il livello micro, risulta essere strettamente connessa alla dimensione
macro della struttura sociale.
3.2.2 – Structural Holes: the Social Structure of Competition9
Due decenni dopo l’articolo di Granovetter, Burt pubblica le sue riflessioni sui
vuoti strutturali.
Si tratta di una rilettura del tema dei legami deboli, che ne specifica in modo più
approfondito le modalità di funzionamento.
9
Burt (1995).
91
Burt immagina come terreno in cui si esplica l’azione sociale una “arena” di
giocatori che cercano di massimizzare il loro profitto in termini di relazioni.
La competizione per l’accesso alle risorse è il tema dell’articolo e le risorse sono
i benefici che l’informazione produce in qualsiasi mercato in termini di opportunità.
La struttura del network dei giocatori e la collocazione dei loro contatti nella
struttura sociale creano un vantaggio competitivo per conseguire rendimenti più alti
sugli investimenti.
Questo lavoro è la descrizione del modo in cui la struttura sociale rende la
competizione imperfetta creando opportunità imprenditoriali per certi giocatori e non per
altri.
Il termine “capitale” convoglia l’attenzione in ambito economico e l’autore
confronta tre forme di capitale: finanziario, umano e sociale, identificando l’ultimo con
le relazioni.
Il capitale finanziario e il capitale umano si distinguono in due modi dal capitale
sociale: primo, sono proprietà degli individui, secondo, riguardano gli investimenti. Il
capitale finanziario è necessario per acquisire le materie prime e per i sistemi di
produzione; il capitale umano è necessario per trasformare le materie prime in prodotti.
Il capitale sociale differisce in entrambi gli aspetti; primo: è una qualità
posseduta da entrambe le parti in gioco, secondo: il capitale sociale riguarda il lato dei
rendimenti nella produzione di mercato. Per mezzo delle relazioni sviluppa le
opportunità per trasformare i capitali finanziari e umani in profitto. È l’arbitro finale del
successo competitivo.
Il capitale sociale è importante perché la concorrenza è sempre imperfetta. In una
situazione di perfetta concorrenza il capitale sociale diverrebbe una costante
nell’equazione della produzione. Nella realtà diventa un criterio aggiuntivo per
selezionare chi riuscirà ad utilizzare al meglio le opportunità.
Ogni giocatore ha una rete di contatti. La struttura della rete e la posizione dei
suoi contatti sono alla base delle differenze di rendimento degli investimenti. Questo
fenomeno può essere descritto in due modi: o attraverso la descrizione dei possibili
92
contatti e le loro risorse a cui il soggetto ha accesso, oppure descrivendo la forma dei
contatti come capitale sociale vero e proprio. La metafora di Granovetter (1973) sulla
forza dei legami deboli si riferisce a questa seconda lettura.
Il giocatore, che svolge un ruolo attivo nella formazione della sua rete di contatti,
sceglierà di includervi quei soggetti che sono portatori del maggior numero di
opportunità. I giocatori che hanno i gruppi meglio strutturati ottengono un maggior
rendimento dai loro investimenti.
Due tipi di risorse costituiscono i profitti: le informazioni e il controllo. Le
caratteristiche importanti dell’informazione secondo Burt sono: accesso, tempo e
referenze.
L’accesso si riferisce alla possibilità di ricevere informazioni valide e utili.
Siccome ci sono limiti alla quantità di informazioni che un individuo può gestire, la rete
di contatti diventa un efficace mezzo per sfoltire le informazioni e ricevere solo quelle
significative.
Per quanto attiene al tempo si intende la possibilità di essere informati in anticipo
sulle opportunità che si presenteranno.
Le referenze sono i contatti personali che possono far avere nostre notizie dove
serve anche se non possiamo esserci.
Lo scopo dell’attore è costruirsi una rete in grado di fornirgli cospicui
rendimenti; nella scelta dei contatti svolge un ruolo importante anche la fiducia.
Tenendo presente che la concorrenza è imperfetta è necessario fare riferimento a partner
affidabili che onoreranno i propri debiti, per questo relazioni forti tendono a svilupparsi
tra persone simili perché si pensa che chi è simile a noi non ci tradirà.
Verificata l’importanza di avere molti contatti e tenendo presente gli oggettivi
limiti della possibilità di coltivarne un numero elevato, è importante avere contatti non
ridondanti. I contatti sono ridondanti quando ci portano allo stesso gruppo di persone e
ci forniscono gli stessi vantaggi di informazione. Le reti diffuse invece ci possono
fornire contatti non ridondanti e quindi maggiori informazioni.
93
Il termine “vuoti strutturali” serve a definire quali sono i contatti non ridondanti.
I contatti non ridondanti sono connessi da un vuoto strutturale. Un vuoto strutturale è
una relazione di non ridondanza tra due contatti. Come effetto del vuoto tra loro, i due
contatti ricevono vantaggi dalla rete che sono aggiuntivi, piuttosto che sovrapponibili.
Le prove empiriche che indicano un vuoto strutturale sono la coesione10 e
l’equivalenza strutturale11. Entrambe definiscono il vuoto strutturale con la loro assenza;
al contrario una relazione forte, quindi coesa, implica l’assenza di un vuoto strutturale;
allo stesso modo si ha equivalenza strutturale quando due persone hanno gli stessi
contatti, che conducono alle stesse fonti di informazione, sono ridondanti e non sono
quindi connessi da un vuoto strutturale.
Un individuo ricco di contatti contenenti vuoti strutturali è a sua volta un partner
appetibile. Questo tipo di relazioni non si trovano però nei rapporti di amicizia, perché i
gruppi del tempo libero e familiari, sono in genere ricchi di rapporti ridondanti.
Il tema della forza dei legami deboli dell’articolo di Granovetter (1973) è
semplice ed elegante. Le persone vivono in cluster12 composti da individui con cui
hanno relazioni forti. Le informazioni circolano velocemente all’interno di questi
cluster. La diffusione delle informazioni su nuove idee e opportunità può arrivare
attraverso i legami deboli che uniscono individui appartenenti ad altri cluster. I legami
deboli sono essenziali per favorire il flusso di informazioni tra i cluster sociali altrimenti
disconnessi della società nel suo complesso.
A questo punto legami deboli e vuoti strutturali sembrano descrivere lo stesso
fenomeno. Secondo Burt la caratteristica di debolezza dei legami è correlata all’essere
vuoti strutturali, ma non è la caratteristica responsabile della diffusione delle
informazioni. Mantenendo l’attenzione sulla qualità dei legami si perde di vista la
10
“Sta ad indicare il grado di compattezza della rete” (Cordaz, 2007, p. 45).
“… quella proprietà matematica che permette di identificare classi equivalenti ossia sottoinsiemi di
attori che hanno gli stessi legami con gli stessi attori.” (Cordaz, 2007, p. 48).
12
“area ad alta densità di un grafo, variamente descritta anche come clique, componente, nucleo o cerchia;
è costituita da sotto-gruppi o “grappoli” di attori caratterizzati da numerose e intense relazioni che li
uniscono.” (Cordaz, 2007, p. 34).
11
94
funzione di controllo sull’informazione che viene svolta dai ponti e che viene
evidenziata attraverso la definizione di vuoto strutturale.
Un ponte è insieme due cose: è una distanza e il mezzo usato per misurarla.
Il tema dei legami deboli riguarda la forza della relazione che copre la distanza
tra i due cluster. Il tema dei vuoti strutturali riguarda la distanza coperta. È quest’ultima
che genera i vantaggi di informazione.
Come dice Granovetter: un legame forte può essere un ponte solo se non ha alcun
legame forte con altri soggetti del gruppo, cosa che è alquanto improbabile. I legami
deboli non soffrono di questa restrizione, anche se non sono automaticamente ponti.
Quello che è importante è che tutti i ponti sono legami deboli.
Le informazioni attraversano qualsiasi ponte, sia costituito da un legame forte
che debole. I benefici variano tra legami ridondanti e non ridondanti. Il concetto di vuoto
strutturale cattura la condizione direttamente responsabile di questi vantaggi informativi.
I vuoti strutturali generano benefici di controllo, dando ad alcuni giocatori un
vantaggio nel negoziare le loro relazioni.
Burt introduce il concetto del terzo vincente, che definisce come l’individuo che
si avvantaggia della disunione di altri. Per descrivere questo effetto cita un lavoro di
Barkey che fa una descrizione comparativa della funzione di controllo svolta dallo stato
in Francia e in Turchia nel XVII secolo.
Questo autore, dopo aver stabilito che i due stati si trovavano in condizioni
simili, si chiede come mai in Francia si sia sviluppata una alleanza tra la nobiltà e il
popolo contro il re che è sfociata nella rivoluzione mentre in Turchia questo non è
accaduto.
Sostiene che i due stati differivano nelle strategie di controllo. In Francia il re
creava un’intrusione negli affari locali con la nomina degli attendenti che limitavano
l’autonomia della nobiltà terriera prendendo ordini direttamente dal re. In Turchia invece
il sovrano capitalizzava le rivalità tra i leader delle provincie legittimando il loro potere.
I due stati differiscono nell’uso dei vuoti strutturali: il re di Francia li ha ignorati,
95
ritenendo di avere autorità assoluta; in Turchia il sultano li ha strategicamente sviluppati,
promuovendo la competizione tra leader rivali.
I vuoti strutturali sono l’ambiente adatto per le strategie del terzo vincente, da
gestire attraverso il controllo dell’informazione e richiedono un attore non passivo.
Chi coglie l’opportunità di essere terzo, è un imprenditore nel senso letterale del
termine: una persona che genera profitto dall’essere intermediario tra altri.
Secondo Burt il concetto di vuoti strutturali si definisce attraverso le seguenti
qualità:
- La concorrenza è una questione di relazioni, non un attributo dei giocatori:
l’argomento dei vuoti strutturali sfugge alla consueta pratica delle scienze sociali di
usare le caratteristiche dei giocatori per spiegare i fatti. La concorrenza non riguarda il
fatto di essere un giocatore con certe caratteristiche fisiche, ma riguarda l’assicurarsi
relazioni produttive.
- La concorrenza è una relazione emergente, non osservata: i vuoti possono avere
differenti effetti per persone con diverse caratteristiche o per organizzazioni di tipo
diverso, ma questo è perché gli attributi e le forme organizzative sono correlate con le
diverse posizioni nella struttura sociale.
- La concorrenza è un processo, non un risultato: la maggior parte delle ricerche
sono su cosa resta dopo che la competizione si è svolta. Il tema dei vuoti strutturali non
riguarda il flusso di risorse. Non viene suggerito alcun prezzo che sgombra il mercato.
- La concorrenza imperfetta è una questione di libertà, non solo di potere: il tema
dei vuoti strutturali non è una teoria sulle relazioni competitive. È una teoria sulla
competizione che descrive i benefici che derivano dalle relazioni. È una teoria della
concorrenza resa imperfetta dalla libertà degli individui di essere imprenditoriali. I
giocatori sono liberi di ritirarsi dalle relazioni esistenti per costruirne di nuove con
chiunque serva meglio i loro interessi. Le obbligazioni terminano con la fine della
transazione. Altre teorie misurano la concorrenza imperfetta, di solito definita da quanto
la scelta è concentrata nelle mani del giocatore più forte. All’estremo della concorrenza
perfetta ogni giocatore ha infinite scelte tra relazioni alternative. All’altro estremo, cioè
96
nel monopolio, la scelta è concentrata nelle mani del giocatore più forte. Nella realtà la
competizione è sempre presente e sempre imperfetta.
Questo è il focus del tema dei vuoti strutturali, una teoria della libertà invece che
del potere, del controllo negoziato invece che assoluto. È una descrizione del tentativo
per cui la struttura sociale di una arena concorrenziale contiene opportunità
imprenditoriali per giocatori individuali capaci di influenzare i termini delle loro
relazioni.
3.3 – L’individuo nella rete: il ruolo dell’identità
Se Burt riporta in primo piano il ruolo dell’attore all’interno della struttura in cui
agisce, l’autore che segue va avanti in questa rivalutazione indagando il ruolo
dell’identità nelle transazioni.
L’economista israeliano Yoram Ben Porath viene chiamato in causa da Coleman
(1988) mentre introduce il concetto di capitale sociale e affronta la difficoltà di
conciliare la definizione dell’agire sociale fatta dai sociologi che individuano un
soggetto totalmente guidato dall’ambiente e privo di uno scopo o di un motore interno,
con quella degli economisti che descrivono un attore razionale sempre vincolato dal
contesto in cui opera.
L’interesse di Coleman per questo autore riguarda lo studio del funzionamento di
quelle che Ben-Porath chiama le “F-connection” nei sistemi di scambio, dove analizza le
transazioni che si svolgono a metà strada tra l’individuo e la società, cioè nei contesti
personali, utilizzando strumenti che sono propri dell’antropologia e della sociologia oltre
che dell’economia, cercando di produrre una sinergia tra queste discipline. In particolare
cerca di mettere in luce le modalità con cui queste forme di organizzazione sociale
influenzano gli scambi economici.
Con la lettura di questo lavoro si riporta l’attenzione sugli aspetti prettamente
legati all’individuo, che, pur se vincolato alla sua posizione all’interno della rete sociale,
97
porta con sé caratteristiche uniche di identità. Come sostiene Burt (1995), può essere un
soggetto passivo per quanto riguarda l’informazione che riceve, ma le sue opportunità di
riuscire negli obbiettivi che si pone dipendono dalla sua capacità di interagire con la rete
in cui è immerso e di trasformarla e svilupparla nei modi che possono essere per lui più
vantaggiosi.
3.3.1 – The F-Connection: Families, Friends, and Firms and the Organisation of
Exchange13
Yoram Ben-Porath è un economista e cerca di descrivere con gli strumenti di sua
competenza le transazioni che si svolgono fuori dal campo di studio dell’economia.
Dopo aver evidenziato il fatto che la maggior parte di questi scambi si svolge all’interno
della famiglia, passa a descriverne le caratteristiche salienti cercando di mettere in luce
come queste modalità di relazione influenzino le transazioni di tipo economico e
interagiscano con la struttura stessa della società.
L’identità degli individui impegnati in una transazione svolge un ruolo
determinante nel definire le forme dello scambio. Certi scambi possono avere luogo
esclusivamente tra parti che si riconoscono anche se solo unilateralmente. Questa è
quella che Ben-Porath chiama “specializzazione tramite identità”. Anche questo autore è
interessato a descrivere come avviene il passaggio dal livello micro dell’individuo al
livello macro dei sistemi sociali.
In senso lato una transazione consiste nell’attività di trasferimento dei diritti di
proprietà di un oggetto tra almeno due individui o gruppi. Se si esula dalle transazioni
economiche il resto degli scambi avviene in buona parte tra gruppi di parentela o di
amicizia, entrambi contesti in cui l’identità dei partecipanti è ben conosciuta.
13
Ben-Porath (1980).
98
Gli scambi che si svolgono all’interno di istituzioni come la famiglia, o gruppi di
amici oppure in certi contesti di lavoro condividono alcune caratteristiche, tra cui il fatto
di protrarsi per periodi di tempo indefiniti, senza precise definizioni degli scopi né degli
oggetti di scambio, senza un preciso bilanciamento delle quantità scambiate e spesso con
lo scopo di tenere aperto il credito reciproco. Molto spesso l’appartenenza a questi
gruppi influenza le relazioni di scambio anche con l’esterno poiché diventa parte
integrante dell’identità del soggetto14.
In questo modo l’identità costruita attraverso l’appartenenza ad un gruppo riduce
i costi in termini di informazione. Una particolare estensione di questo fenomeno è
quella che l’autore chiama la “moralità contestuale”, riferendosi ad esempio al
comportamento di organizzazioni criminali che hanno codici di comportamento
improntati al rispetto di norme all’interno del gruppo e non all’esterno15.
L’identità, attraverso la sua funzione di rendere riconoscibili e quindi
sanzionabili in caso di defezione gli individui e i gruppi, è lo strumento su cui viene
costruita la fiducia necessaria per gli scambi. L’identità fornisce prevedibilità all’azione
di scambio.
L’uso dell’identità varia a seconda del contesto e dell’oggetto scambiato. Un
esempio è quello del cosiddetto “mercato dei limoni” cioè il mercato delle auto usate,
dove è preferibile rivolgersi ad una persona conosciuta, che quindi investe la sua identità
e non ha interesse ad imbrogliare. Nel caso invece di prodotti di elevata tecnologia, che
richiedono garanzie di comprovata qualità del prodotto, non è l’identità del venditore ad
essere importante, ma quella del produttore, la “Firm” del titolo, appunto, perché capace
di garantire rispetto alle caratteristiche legate alla competenza e ad aspetti di
standardizzazione del prodotto.
14
Il mercato dei diamanti a New York si basa su questa caratteristica, in quanto l’appartenenza dei
mercanti alla comunità Ebraica svolge una funzione di garanzia.
15
L’analisi fatta da Varese (2011) di cui si parla nel primo capitolo fornisce ampi esempi di come ad un
comportamento illegale si associa spesso un forte codice di lealtà interno al gruppo, proprio per sopperire
all’impossibilità di rivolgersi alle leggi formali e soprattutto perché qualsiasi gruppo ha bisogno di un
codice di fiducia per poter esistere come tale.
99
Quanto più le transazioni sono standardizzate, più ci si avvicina alla ideale
transazione di mercato e l’identità perde importanza. A questo scopo la moneta, come
istituzione sociale, ne riduce il ruolo, perché il suo valore è indipendente dall’identità del
venditore.
Il passaggio dalla identità collettiva a quella individuale è mediato dalle norme
interne al gruppo: l’appartenenza ad un gruppo determina per il soggetto l’acquisizione
delle caratteristiche e l’adesione alle norme che costituiscono il biglietto da visita di tutti
coloro che ne fanno parte.
Ben-Porath ribadisce l’importanza del ruolo della famiglia nelle transazioni con
l’esterno soprattutto nelle fasi di sviluppo dell’economia, dove il mercato non è ancora
in grado di ridurre l’incertezza o non esiste una fiducia generalizzata.
Lo sviluppo di una florida economia, con l’aumento della diffusione delle merci
e della standardizzazione, assieme all’aumento delle transazioni di tipo economico,
riduce sensibilmente il ruolo dell’identità, utilizzando prevalentemente gli aspetti
fiduciari insiti nella moneta, anziché quelli legati all’identità degli individui.
Quando si parla di servizi o nel caso di transazioni assicurative è però più
difficile ridurre il ruolo dell’identità personale rispetto ad uno scambio di merci anche
nelle società più evolute. Inoltre le economie moderne hanno sviluppato una consistente
accumulazione di competenze che si traducono in capitale umano16, ed anche in questo
caso l’identità permette di sfruttare le economie di scala prodotte dall’informazione,
svolgendo di fatto una funzione di euristica.
D’altro canto la modernità, attraverso la meccanizzazione e l’automazione, ha
ridotto l’importanza dell’identità in quei settori in cui ha reso i lavoratori intercambiabili
perché svolgono attività che richiedono scarse competenze, come Charlie Chaplin nel
film “Tempi moderni”.
16
Ad esempio aver studiato in una università prestigiosa va a costituire l’identità del soggetto in termini di
competenza, e rappresenta una qualità spendibile indipendentemente dalle capacità effettivamente
sviluppate dalla persona. Rappresenta una euristica utile per ridurre i costi di una ricerca accurata per
determinare le effettive qualità di un individuo attraverso prove o altro. Costituisce una garanzia e come
tale viene utilizzata.
100
Nella costruzione dell’identità la famiglia svolge un ruolo centrale, sia per la
funzione di socializzazione primaria, sia perché le forme della famiglia sono
interdipendenti con la struttura della società e con la divisione del lavoro sociale.
Dove la famiglia svolge un ruolo di assicurazione per i suoi membri, senza il
supporto dello stato o del mercato, i figli ne diventano lo strumento principale, e in
queste forme di organizzazione si preferisce che l’educazione dei giovani venga svolta
all’interno della famiglia per evitare che si allontanino.
Dove invece sono presenti sia stato che mercato e entrambi i genitori lavorano
fuori dalla famiglia, l’educazione pubblica costituisce un investimento che produce ampi
rendimenti perché consente di sviluppare le competenze dei figli dove altrimenti non se
ne avrebbe il tempo o si dovrebbe ricorrere ad insegnanti a pagamento.
Le famiglie, i gruppi di conoscenti, le imprese sono tutte istituzioni sociali che
contribuiscono a costruire l’identità dei soggetti che ne fanno parte. Questa identità è
fondamentale nelle transazioni e negli scambi anche se non di tipo commerciale, perché
sono alla base della costruzione della fiducia, che a sua volta è requisito indispensabile
perché possano aver luogo degli scambi.
L’autore ha cercato di costruire un modello in cui l’organizzazione della attività
sociale e la divisione del lavoro sono influenzate dall’opportunità di ridurre i costi di
transazione tramite investimenti specifici negli scambi fra soggetti dotati di identità.
L’opportunità di ridurre i costi di transazione facendo investimenti tra partner
definiti attraverso l’identità influenza l’organizzazione sociale. In questo articolo
l’autore ha illustrato come i vari aspetti dello sviluppo economico e sociale sono
collegati a mutamenti del ruolo dell’identità.
Un’attenzione particolare va dedicata al ruolo dell’identità nelle transazioni che
hanno funzione di assicurazione. In particolare quando questa funzione viene svolta
dalla famiglia è evidente il ruolo privilegiato dell’identità. Nella famiglia tipicamente
questa funzione viene svolta attraverso mutui scambi, spesso dilazionati.
Ben-Porath afferma che le famiglie possono diventare efficaci nello svolgere
questa funzione di assicurazione, sia quando lo fanno attraverso l’aumento del numero
101
dei figli, sia attraverso legami con membri di gruppi limitrofi. Nota però che se i legami
all’interno della famiglia o tra famiglie sono molto stretti, eventuali condizioni negative
possono danneggiare tutto il gruppo, e non svolgere adeguatamente questa funzione di
assicurazione.
Lo specifico investimento nelle relazioni con gli altri è soggetto ai rischi tipici
della scelta tra concentrare un grosso investimento su pochi soggetti o molti piccoli
investimenti diffusi.
In sintesi la prospettiva da cui guarda Ben-Porath è quella dei legami che si
fondano su una identità riconosciuta tra le parti in gioco: le relazioni informali della
famiglia, degli amici e del lavoro, di cui identifica l’importanza anche nei confronti
dell’influenza che hanno sulla realtà economica.
L’aspetto che ci introduce al capitolo successivo è quello relativo alla funzione di
assicurazione che questi legami svolgono, e quindi al loro ruolo per la protezione
sociale.
102
Capitolo 4
Il ruolo dei legami per lo sviluppo di comunità
4.1 – Perché i legami contano
L’analisi dei precedenti capitoli ci ha permesso di delineare un’immagine
della realtà in cui siamo immersi attraverso la lettura dello scheletro di relazioni che
la definiscono e la sostengono. Oltre a svolgere un importante ruolo euristico nel
facilitare lo studio dei meccanismi che sono alla base del suo funzionamento, le
teorie precedentemente analizzate mettono in luce l’importanza delle forme di
relazione nello strutturare gli esiti delle azioni e le condizioni di soddisfazione degli
individui che ne fanno parte.
Dopo aver compreso che i legami del tipo più vincolante, i cosiddetti legami
forti, hanno perduto il loro primato nel fornire strumenti di realizzazione individuale,
occorre ricontestualizzare il loro ruolo nelle nuove forme sociali che richiedono e
presuppongono la possibilità di allontanarsi dalle proprie radici per poter continuare
ad occupare una posizione solida all’interno del proprio gruppo di appartenenza.
Considerato che non tutti gli individui si trovano a vivere nelle condizioni di
elevata cultura e disponibilità economica che consentono di ricavare i migliori
supporti dalla forza dei legami deboli, deve essere tenuto presente che per tutti gli
altri individui, che non sono pochi, i legami che vanno a strutturare forme di
comunità più vincolanti sono importanti per il benessere e per la sopravvivenza delle
stesse comunità di cui fanno parte.
Sono in questa situazione tutti gli individui che si trovano al di fuori della
elite e che devono fronteggiare situazioni di bisogno, anche se in molti casi solo
temporaneo, ma presente in alcune fasi della vita particolarmente sensibili alla
presenza o meno di supporto comunitario. Queste situazioni si riscontrano ad
esempio nella terza età, a causa dell’uscita dal mondo del lavoro e dell’insorgenza di
patologie o semplicemente della riduzione della capacità di autonomia, oppure nella
103
fase di formazione di nuovi nuclei familiari, per la contestuale presenza solitamente
di redditi non elevati insieme a forti richieste di impegno per lo sviluppo della
carriera e della famiglia stessa.
In certi casi quello che si viene a determinare è una vera e propria condizione
di povertà, in altri il disagio, pur non concretizzandosi in condizioni di indigenza,
conduce a risultati non ottimali, specialmente quando ha conseguenze sullo stato di
salute degli individui, al punto che la non presa d’atto dell’importanza di questi
fattori produce esiti che hanno un costo che ricade sull’intera comunità.
Per questo, utilizzare gli strumenti offerti dalle reti sociali in termini di
protezione dai rischi può essere un investimento che ha ricadute positive sugli
individui e sulle comunità a cui appartengono.
A questa ipotesi si ispirano i due articoli di Andrea Salvini e Irene
Psaroudakis che vediamo di seguito.
4.1.1 – Network theories for healthier communities1
Per Andrea Salvini i meccanismi che definiscono i fattori determinanti della
salute sono gli stessi che sono alla base del diffuso benessere sociale di una data
comunità.
L’importanza della prospettiva di rete si manifesta sia come strumento
d’analisi che come strategia di intervento. In molti studi empirici si dimostra che le
condizioni di salute degli individui sono fortemente correlate con la loro rete di
relazioni, e con le caratteristiche dei soggetti con cui entrano in relazione, in quanto
entrambi influenzano le loro scelte. Le scelte sono a loro volta influenzate dalla
posizione degli individui nella rete e dalle caratteristiche della rete stessa.
Negli ultimi anni la Social Network Analysis ha conquistato una posizione
solida nel mondo delle scienze sociali grazie alla capacità di leggere la struttura
sociale in modo coerente e metodologicamente ben fondato, che la rendono uno
1
Salvini (2011).
104
strumento adeguato da utilizzare per l’analisi del territorio e per le conseguenti
politiche di intervento.
Possiamo distinguere tra due dimensioni dell’analisi di rete: la prima che si
occupa di descrivere i network attraverso la definizione delle loro caratteristiche, la
seconda che utilizza le teorie dei network per descrivere diversi fenomeni sociali. Nel
primo caso le proprietà delle reti sono usate come variabili dipendenti, nel secondo
come variabili indipendenti che stanno alla base dei fenomeni osservati.
L’obiettivo delle teorie delle reti è quello di descrivere e se possibile spiegare
le connessioni tra la sottostante struttura sociale di relazioni e i risultati osservati e
rendere conto di come le differenze nelle proprietà strutturali producano effetti sul
tessuto sociale che variano per natura ed intensità.
Esistono due modelli di analisi: il primo modello studia il flusso di risorse e
considera la rete come una struttura di connessioni che possono facilitarne od
ostacolarne il percorso; il secondo modello analizza la forma dei legami e la loro
capacità o meno di sviluppare azioni coordinate tra gli individui e la formazione di
gruppi che agiscono come singoli attori.
È stato dimostrato che individui socialmente isolati presentano una minore
capacità di resistenza e di far fronte agli eventi cruciali e sono quindi maggiormente
esposti ai rischi legati allo stato di salute. I legami sociali al contrario influenzano la
salute attraverso diversi meccanismi: il supporto sociale, l’influenza reciproca,
l’accesso alle risorse, il coinvolgimento e il contagio.
Solitamente i legami sociali si formano tra persone che hanno caratteristiche
omogenee e che tendono a costruire sottogruppi coesi. In questi sottogruppi sono
frequenti gli scambi di assistenza che vanno a costituire la principale forma di
supporto.
Anche le relazioni tra due individui, per effetto della transitività, hanno la
tendenza ad andare a formare piccoli gruppi molto omogenei. In questi gruppi gli
scambi sono frequenti e vi è un forte impegno in termini di tempo, tanto da non
permettere l’estensione ad un numero elevato di membri.
I legami che costituiscono questi gruppi sono allo stesso tempo forti e
vincolanti, ma non consentono molti scambi con l’esterno, sono ridondanti e le
105
risorse scambiate tendono ad essere circoscritte. Sono i legami con l’esterno quelli
che possono consentire cambiamenti nel flusso di risorse e che non sono sottoposti
alle sanzioni del gruppo.
È stato dimostrato che la presenza di legami forti nelle comunità che si
trovano in situazioni di deprivazione possono influenzare negativamente lo stato di
salute e di benessere dei suoi membri, impedendo l’allontanamento da abitudini e
frequentazioni che reiterano la situazione di disagio, mentre legami deboli che siano
in grado di collegare queste comunità con altri contesti, possono consentire l’accesso
a risorse (di informazione, di opportunità, ecc.) che non vi sono presenti.
Studi sulla relazione tra capitale sociale e salute contribuiscono a dimostrare
come le differenze nelle condizioni di benessere dipendono non solo da fattori
individuali ma anche dalla posizione all’interno della struttura relazionale, per cui le
azioni di intervento che vogliano incrementare la loro efficacia devono essere mirate
anche a rinforzare la struttura relazionale della comunità in cui i soggetti si trovano.
L’articolo successivo si occupa appunto di come la prospettiva dei network ci
può guidare nello strutturare azioni che siano orientate a sviluppare e mantenere
comunità che possano fare da supporto a politiche di intervento.
4.1.2 – Network perspectives for community building2
Il lavoro di Irene Psaroudakis pone l’accento sul ruolo dell’attivazione di
network di relazioni per la costruzione di comunità.
Secondo vari autori la struttura delle relazioni sociali costituisce un valido
strumento per spiegare il funzionamento delle società, molto più di quanto possano le
caratteristiche degli individui che le compongono.
È opinione condivisa che il “capitale sociale” sia un risorsa condivisa che
appartiene alle comunità e che può essere intesa sia come il sistema di
funzionamento del network, sia come l’insieme delle risorse che vengono diffuse
2
Psaroudakis (2011).
106
attraverso questo network. Il capitale sociale riguarda le relazioni sociali, pur non
coincidendo con esse.
La conoscenza e l’utilizzo della Social Network Analysis si rende utile per i
decisori perché permette di comprendere i meccanismi di funzionamento delle
comunità e di progettare interventi che siano in grado di influenzarli. La
consapevolezza dell’importanza della struttura sociale può inoltre influenzare
positivamente l’impegno civico e le attività prosociali. A dare valore a questa lettura
interviene la prospettiva dell’Interazionismo Simbolico elaborata da Herbert Blumer
(1969), che sostiene che ogni sistema sociale è fondamentalmente azione congiunta,
determinata dalle azioni dei singoli attori, che nasce e si trasforma attraverso un
processo di interpretazione svolto costantemente dagli attori coinvolti, attraverso
l’interazione.
Attualmente le dimensioni di una comunità non sono limitate da
un’appartenenza territoriale, ma sono prevalentemente definite dalle relazioni tra gli
attori, in questo modo un social network è uno strumento importante per il soggetto
che è in grado di modificarne le caratteristiche a suo vantaggio perché rappresenta il
luogo privilegiato in cui sviluppare connessioni. Un incremento delle connessioni
consente un aumento delle opportunità: i benefici che ne derivano riguardano varie
dimensioni di capitale sociale: strutturale, relazionale e di accesso alle risorse.
In particolare allo sviluppo del network di relazioni in possesso di un
individuo può essere associato un incremento nell’accesso alle informazioni, una
maggiore resilienza, un incremento di status, l’accesso a pratiche innovative, anche
attraverso attività collaborative, e un incremento delle performance individuali grazie
appunto all’interazione con gli altri membri del gruppo.
Lo sviluppo di un network migliora le performance del sistema. Inoltre
l’empowerment di una comunità passa attraverso lo sviluppo di fiducia reciproca ed
è sostenuto dalla possibilità di redistribuire le risorse, diminuendo l’accentramento e
favorendo una maggiore diffusione del potere.
La funzione di fluidità favorita dalle connessioni, che consente alle risorse di
circolare all’interno del network, è fondamentale per il suo sviluppo e deve essere
sostenuta da una cultura condivisa.
107
I cambiamenti sono una costante nei sistemi di rete e ciascun cambiamento
genera conseguenze che devono essere incorporate adattando le dinamiche alla
nuova situazione.
Un network è un sistema complesso, ma non è caotico, ciò significa che è
capace di attivare processi creativi e riflessivi, capaci di assicurare un potenziale
livello di efficienza del sistema.
La struttura determina la forma del sistema, attraverso l’assegnazione di ruoli
e responsabilità e dalle sue caratteristiche di flessibilità derivano la forza e la
debolezza dei suoi legami. Un punto di forza è la flessibilità di fronte ai
cambiamenti, ottenuta garantendo comunque continuità e coerenza interna, la sua
cultura è espressa attraverso i principi di reciprocità, di fiducia e collaborazione e la
sua durata è sostenuta attraverso la capacità di mantenere un equilibrio tra risultati e
innovazione.
Per la creazione di una comunità sono necessarie due fasi: conoscere il
network e tesserne la trama.
Il punto di partenza è la riflessione sulle relazioni e sull’ambiente in cui si
sviluppano, successivamente è necessario identificare l’obiettivo che coinvolge gli
attori.
L’equilibrio e un’adeguata flessibilità sono raggiunti solo facilitando le
relazioni all’interno di una larga struttura di comunità, ciò può essere fatto attraverso
l’attribuzione dei ruoli chiave come può essere la governance o la costruzione delle
infrastrutture, ma tutte queste azioni devono essere orientate a favorire gli scambi e
la fluidità, in modo da permettere il consolidamento della fiducia reciproca, del
potenziale collaborativo e soprattutto del capitale sociale pubblico.
Il passo successivo è la formazione di un sistema di network in connessione
tra di loro per poter produrre un incremento delle risorse circolanti, questa azione si
esplica attraverso la costruzione di nuove connessioni che traggono risorse dal
capitale sociale degli altri network; gli incontri e le discussioni che servono per fare
ciò contribuiscono ad accrescere il senso di partecipazione e di identificazione tra i
partecipanti.
108
Inoltre una comunità si può considerare come un sistema di valori, di norme e
di codici morali che facilitano la percezione di un senso comune e definiscono la sua
stessa identità, per questo è necessario integrare la visione strutturale della comunità
con una prospettiva interpretativa quale può essere l’Interazionismo Simbolico, per il
quale l’organizzazione sociale è la cornice dentro cui si svolge l’azione degli attori.
Le pratiche, il sistema e le sue trasformazioni sono in ultima analisi il
risultato delle attività sociali, ma l’importanza dell’organizzazione sociale risiede
nella condivisione dei significati dell’azione e nella produzione dei simboli utilizzati
dagli attori per interpretare le circostanze date.
Di conseguenza per attivare la costruzione di comunità è necessario investire
nei legami tra gli individui che, attraverso l’interazione, diventano attivi partecipanti
del network.
4.2 – Capitale sociale e processi di impoverimento3
Nei lavori di Elisa Matutini si ribadisce l’importanza rappresentata dal
concetto di capitale sociale e in particolar modo dal sistema di relazioni di cui
dispone l’individuo per gli aspetti relativi al proprio benessere. Il ruolo di tali sistemi
è prevalentemente di difesa dai rischi anche se in talune circostanze le relazioni
presenti possono costituire vincoli che limitano la capacità di azione. Per questo
anche il concetto di capitale sociale è entrato a far parte degli strumenti di studio dei
processi di impoverimento, in quanto fornisce una visione multidimensionale di un
problema che non può essere circoscritto alla sola dimensione economica.
La povertà è stata definita e studiata fin dagli esordi come un problema di
scarsità di risorse, intese in termini di reddito o comunque di beni, il capitale sociale
invece si caratterizza per essere una risorsa per l’azione, svincolata dal soggetto e
incardinata nel sistema di relazioni del medesimo e da lui utilizzabile per il
raggiungimento dei propri obiettivi.
3
Il presente paragrafo è costruito attraverso l’analisi dei lavori di Matutini (2010, 2011a, 2011b,
2011c).
109
Secondo questa lettura le caratteristiche del soggetto vengono prese in
considerazione solo in un secondo momento, portando in primo piano i meccanismi
di impoverimento che sono da attribuire al sistema e ridefinendo contestualmente sia
le responsabilità che gli indirizzi per la soluzione.
Grazie al concetto di capitale sociale vengono messe in evidenza quelle
situazioni in cui la scarsità di beni è compensata dalla disponibilità di risorse
accessibili attraverso le relazioni e in cui possono presentarsi dei rischi quando le
variazioni del sistema relazionale arrivano a pregiudicare l’accesso o la disponibilità
delle suddette risorse.
Questo approccio consente di delineare più accuratamente il quadro
complesso che caratterizza molte situazioni che vengono definite di povertà
oscillante, e nello stesso tempo offre la possibilità di individuare le eventuali risorse
da valorizzare per produrre miglioramenti. Gli eventi critici a cui ci si riferisce
riguardano sia un peggioramento delle condizioni dei soggetti che forniscono le
risorse agli altri membri della rete sia quei casi in cui tali legami vengono perduti ad
esempio a causa di separazioni o lutti.
Per descrivere in che modo si mette in luce il valore delle relazioni riguardo
alla funzione di protezione si può far riferimento a tre concetti: la chiusura delle
relazioni, i legami deboli e i vuoti strutturali.
Come abbiamo già visto, il concetto di chiusura viene proposto da Coleman
(1988), che spiega come le norme condivise si formano e vengono mantenute proprio
grazie alla “chiusura” delle relazioni, cioè alla ridondanza dei legami che vincolano
tra loro gli individui e che consentono un rapido passaggio delle risorse e delle
informazioni, pur costituendo il principale vincolo contro le innovazioni. Questa
definizione consente a Coleman di mantenere la sua teoria all’interno della Rational
Choice Theory ed in conformità all’individualismo metodologico.
Il secondo autore a cui fare riferimento è Granovetter (1973), che descrive
l’importanza dei legami deboli per favorire l’accesso a risorse nuove rispetto a quelle
presenti all’interno del gruppo di relazione, di cui sottolinea il valore per le
opportunità di cambiamento e di mobilità sociale. L’autore compie un attento lavoro
110
per definire le caratteristiche dei legami e identifica la loro forza nella quantità di
tempo, di intimità reciproca e di scambi che li caratterizza.
Il terzo autore è Burt (1995), che attraverso la definizione di vuoto strutturale
specifica il ruolo svolto dai legami deboli e i motivi della loro importanza chiarendo
perché questi legami consentono a chi li possiede di svolgere un ruolo di mediazione
tra le risorse possedute e quelle da acquisire, attribuendogli il ruolo di broker, cioè di
nodo cruciale per l’accesso alle risorse.
Per Coleman è ben connesso un network chiuso, mentre per Burt è tale un
network ricco di vuoti strutturali. È evidente la necessità di operare una sintesi tra le
due dimensioni per poter definire un network che abbia contemporaneamente
caratteristiche di solidità e compattezza capaci di fornire scambi e sostegno ai suoi
membri, e che possieda sufficienti connessioni con l’esterno in modo da poter
attingere a risorse di tipo nuovo per fronteggiare le situazioni che non sono gestibili
con le risorse interne.
Per quanto riguarda il confronto tra legami forti e legami deboli emerge come
il loro ruolo sia diverso a seconda del contesto che viene analizzato.
Granovetter (1973), che compie un’indagine sui legami che hanno consentito
di trovare un impiego a soggetti appartenenti ad una classe di cultura medio alta, e
Grieco (1987), che svolge la stessa indagine tra operai del settore industriale in
Inghilterra, giungono a conclusioni opposte: per il primo sono stati i legami deboli,
mentre per la seconda sono stati i legami familiari a consentire l’accesso al lavoro.
Un tentativo di formalizzazione del concetto di capitale sociale viene operato
da Snijders (1999). L’autore costruisce uno strumento di indagine che chiama
Position generator, con il quale, tramite questionari, si chiede ai soggetti di una rete
di indicare la professione dei loro contatti, partendo dalla considerazione che il
livello di capitale posseduto sarà determinato dal livello di prestigio sociale dei
componenti di quella rete.
Un secondo strumento, sempre ideato da Snijders (1999), è il Resource
generator che ha come scopo di quantificare la effettiva possibilità di usufruire delle
risorse appartenenti alla rete di conoscenze. Entrambi sono importanti strumenti
111
conoscitivi utilizzabili anche per il miglioramento dell’efficacia degli interventi di
contrasto alle dinamiche di impoverimento.
La natura multidimensionale della povertà è un elemento conoscitivo dato per
scontato, sono quindi necessari strumenti di analisi capaci di coglierne la complessità
attraverso la lettura della pluralità di fattori di natura economica e sociale che
agiscono e interagiscono nella sua determinazione.
Una conferma a queste ipotesi, e cioè che la deprivazione non sia da intendere
solo come carenza di risorse materiali, ma come il frutto di una pluralità di
dinamiche biografiche e di contesto, si trova anche in una ricerca descritta
dall’autrice (Matutini, 2011a), svolta nel comune di Capannori su un campione di
100 soggetti a cui sono stati somministrati questionari tesi a determinare il loro
capitale sociale attraverso l’uso degli strumenti appena descritti. Tra i risultati si è
evidenziato che il numero di relazioni significative varia nel corso della vita, con un
incremento legato al periodo dell’attività lavorativa e una successiva diminuzione
con l’uscita dalla vita attiva.
Anche il livello di istruzione influenza il numero di contatti, con una
correlazione positiva tra titolo di studio dei soggetti e quantità e prestigio dei contatti
medesimi.
La parte più cospicua dei legami è costituita dai legami familiari, quasi
sempre molto stabili e intensi per tutto il percorso di vita. Dove questi vengono a
mancare si riscontrano le situazioni di maggiore criticità, e cioè tra gli anziani e le
famiglie monogenitoriali.
I soggetti che all’interno del campione risultano poveri in termini monetari
sono anche quelli tra cui si riscontra una misura minore di capitale sociale,
denunciando la presenza di dinamiche ricorsive e della difficoltà di uscire da tali
meccanismi senza l’apporto di interventi capaci di migliorare la qualità e la quantità
delle relazioni.
La povertà si manifesta dunque come un fenomeno dai contorni sfumati, per
la cui definizione è necessario un apparato complesso di indicatori anziché limitarci
ad utilizzare esclusivamente la disponibilità di reddito o di risorse per misurarla.
112
Resta comunque innegabile la sua caratteristica di deprivazione, ma per
poterne fare una lettura in chiave etica è necessario stabilire quali siano le dimensioni
focali di cui si debba garantire la presenza.
L’approccio sviluppato da Amartya Sen e descritto da Matutini (2011c) è
quello che attualmente sembra in grado di fornire una prospettiva multidimensionale,
poiché pone al centro delle sue analisi l’uomo, inserito nel suo contesto storico e
culturale, con i suoi bisogni ma anche con le sue aspirazioni e la sua peculiare
visione di benessere.
Non viene negata l’oggettività e la misurabilità della condizione di povertà,
anzi viene ampliata ed arricchita attraverso la considerazione delle caratteristiche
individuali che fanno in modo che ad individui diversi occorrano diverse quantità e
modalità degli stessi beni o opportunità perché entrambi possano giungere a
trasformarli in capacità e azioni.
Diventa saliente l’aspetto di disuguaglianza che si manifesta nella povertà.
Quello che Sen definisce Capability Approach è un paradigma teorico e
metodologico in grado di rappresentare una nuova prospettiva di analisi nell’ambito
degli studi sulla povertà, che viene vista come un fenomeno culturalmente relativo e
soggettivamente definito.
Il tema della deprivazione è inserito a pieno titolo tra le dinamiche che sono
alla base della formazione delle disuguaglianze che precedono l’insorgenza della
povertà. Questo richiede però che vengano chiaramente individuate le dimensioni di
cui è essenziale promuovere l’uguaglianza. Per questo aspetto il dibattito si svolge su
due fronti: Sen che è a favore di una definizione autonoma di queste dimensioni di
base e dall’altra parte teorici come Martha Nussbaum che, rifacendosi alla filosofia
aristotelica, riconoscono l’universalità di alcune dimensioni da garantire in qualsiasi
contesto.
Sen difende la sua posizione argomentando un possibile effetto autoritario di
una lista di dimensioni precostituita.
Ritornando alla definizione di povertà a questa appartiene comunque una
dimensione assoluta, secondo Sen, oltre la quale non sono garantite condizioni
essenziali di vita. I comuni approcci allo studio della povertà che partono
113
dall’assunto utilitaristico però non consentono di leggere le variazioni all’interno
della soglia di povertà, sia che si tratti di miglioramenti che di peggioramenti. Inoltre
il possesso o l’accesso alle risorse non deve essere per Sen l’unico obiettivo di
politiche miranti a migliorare le condizioni di vita degli individui: i beni sono il
mezzo attraverso cui poter conseguire adeguati funzionamenti, la loro presenza non
garantisce la qualità della vita dei loro possessori.
Quello che è importante per gli individui sono i risultati conseguiti attraverso
l’azione e in particolare i risultati da loro considerati importanti, anche se bisogna
tenere presente che spesso gli individui che vivono in condizioni di forti deprivazioni
hanno sviluppato la tendenza a non desiderare situazioni per loro inaccessibili e
finiscono per non avere cognizione dell’importanza di certe acquisizioni
fondamentali come può essere la libertà o l’accesso all’istruzione.
Una prima definizione che introduce alla struttura concettuale delle
capabilities viene espressa da Sen attraverso l’Assioma debole di equità, che dice
testualmente: “se a parità di reddito una persona A ottiene meno benefici, perché
possiede minori capacità di godimento di questo, rispetto ad un’altra persona B,
allora la distribuzione ottimale del reddito deve prevedere che l’individuo A riceva
più risorse dell’individuo B, al fine di eguagliare il benessere”4, assioma che viene
corroborato sottolineando che non è la scarsità delle risorse a disposizione degli
individui il nodo cruciale, ma la adeguatezza rispetto alle loro capacità di fruizione.
Nello stesso tempo le risorse accessibili (commodities) non sono il fine, ma il
mezzo che consente di ottenere i funzionamenti (functionings) che rappresentano
l’opzione effettivamente realizzata tra le varie opportunità che sono potenzialmente
realizzabili per l’individuo (capabilities).
Quindi per Sen è povero non solo colui che non possiede mezzi adeguati per
soddisfare i propri bisogni, ma anche e soprattutto quell’individuo che non ha
accesso ai funzionamenti relativi alle capacità che devono essere ritenute
fondamentali.
Solo mediante la promozione delle capacità individuali si riuscirà a rompere
la relazione di dipendenza, subalternità e passività che caratterizza la condizione di
4
Cit. in Matutini 2011c, p.60.
114
povero (Matutini, 2011c, p. 159), e in questa azione hanno un ruolo centrale le
politiche pubbliche.
I processi di impoverimento e la formazione delle disuguaglianze maturano
all’interno dello spazio delle possibilità; quest’ultimo, a sua volta, trova la sua
ragione di essere nell’ambito delle libertà, intese come la capacità di conseguire i
funzionamenti desiderati. La lotta alla povertà deve quindi, inevitabilmente, passare
per la via della promozione delle capacità e delle libertà a disposizione
dell’individuo per realizzare lo stile di vita al quale egli attribuisce valore (Matutini,
2011c, p. 164).
4.3 – La diseguaglianza – Un riesame critico5
Per Amartya K. Sen l’origine di molte problematiche sociali va studiata
attraverso l’uso del concetto di disuguaglianza. Come evidenziato nei lavori di
Matutini è un passo indispensabile per questo approfondimento la definizione di
quali siano gli ambiti in cui valutare la disuguaglianza.
Sen ribadisce che gli indicatori economici svolgono un ruolo non trascurabile
nella definizione degli stati di deprivazione ma ne evidenzia i limiti.
Nella sua analisi il contesto in cui gli individui sono inseriti svolge un ruolo
fondamentale, sia per la definizione delle qualità focali di cui valutare la presenza e
l’equa diffusione, sia per i significati che gli individui vi attribuiscono, sia per le
norme condivise che in molti casi influenzano la reale possibilità di trasformare le
risorse in funzionamenti. Le relazioni svolgono un ruolo non indifferente nel
determinare il livello di star bene (well-being) di ciascuno.
Utilizzando il concetto di capacità (capabilities) possiamo effettuare una
valutazione che si svincola dai limiti degli indicatori economici ed è in grado di
leggere l’interazione dei beni disponibili con le caratteristiche specifiche
dell’individuo per mettere in luce il modo in cui viene influenzata la concreta
possibilità di trasformarli in risultati.
5
Sen (2000).
115
Anche il concetto di libertà in questa lettura assume nuove valenze: viene
primariamente indicata come libertà di scelta, valore indiscutibile che diventa
elemento discriminante nei casi in cui si giunga a funzionamenti uguali ma con
motivazioni opposte. L’esempio che porta a questo proposito è di due persone che
digiunano: una per scelta, l’altra perché non ha cibo; mentre nel primo caso
l’individuo ha la libertà di scegliere il digiuno ma anche il suo opposto, nel secondo
caso non ha questa opzione ed è obbligato a digiunare. Nello stesso modo un
individuo affetto da un problema metabolico, pur avendo i mezzi per nutrirsi,
potrebbe essere costretto a digiunare.
Un altro metodo usato per confrontare lo stato degli individui è il criterio
dell’utilità, che può essere misurato solo tramite indicatori in genere di tipo
psicologico, che sono difficilmente quantificabili e soggetti alle variazioni dovute a
fattori ambientali quali le norme condivise o la storia pregressa. Un esempio di questi
indicatori è rappresentato dai desideri; anche in questo caso, un individuo che non ha
mai conosciuto una condizione di libertà intesa come autodeterminazione o che
ritiene che le sue caratteristiche non la rendano possibile, anche per il ragionevole
scopo di non esporsi a desideri irrealizzabili che gli causerebbero solo sofferenza,
non identificherà tale bisogno tra i suoi desideri.
Anche se lo scopo degli individui è lo star bene (well-being), conseguito
attraverso le loro capacità di agire (agency), i due concetti devono essere tenuti
distinti: non sempre la volontà di agire conduce l’individuo a star bene, ad esempio
in quei casi in cui la sua azione, mirata a conseguire risultati comunitari, produca
nell’immediato un peggioramento della sua qualità della vita. In questo caso il
riferimento può essere agli attivisti politici che lottano per l’acquisizione di diritti
della loro categoria e per questa loro attività rischiano di perdere la libertà o la salute
se vengono arrestati o feriti.
Altra distinzione interessante è quella tra libertà e controllo: la delega di certe
attività ad altri enti, pur riducendo il controllo dell’individuo su tali attività, non
riduce il benessere degli individui, e in alcuni casi lo può addirittura aumentare, se
gli consente di dedicarsi ad altri compiti nel tempo che avrebbero dedicato al
controllo e gli esiti prodotti da chi controlla sono esattamente quelli che il soggetto
116
avrebbe preferito. L’esempio è riferito al controllo delle epidemie, svolto dalla
comunità anziché dagli individui, ed è evidente il vantaggio che si ricava dal non
esercitare singolarmente tale controllo.
Sen fa riferimento alla teoria della giustizia di Rawls e in particolare al
concetto di eguaglianza di opportunità e alla definizione di beni primari, di cui non
contesta la validità ma di cui ribadisce i limiti, sostenendo che, data la premessa che
tutti gli individui sono diversi nella loro capacità di trasformare beni e opportunità,
ne discende che tale uguaglianza non ci garantisce uniformità di possibilità, e per
questo suggerisce che i confronti devono essere svolti nello spazio dei funzionamenti
(functionings), per poter avere un quadro più complesso della realtà analizzata.
Molte analisi della disuguaglianza utilizzano il concetto di “linea di povertà”
allo scopo di determinare l’effettiva situazione di deprivazione di una società. In
realtà secondo Sen questo strumento serve solo a contare i poveri, ma non ne
definisce le caratteristiche. Questo indicatore non è in grado di determinare se chi sta
sotto la soglia di povertà si trova immediatamente sotto, e quindi ad un passo dal
tornare sopra, o ben lontano dal limite, trovandosi così in una condizione di
indigenza inaccettabile. Non consente inoltre di leggere tutte le variazioni che
avvengono al di sotto della soglia di povertà.
Per una lettura più accurata del fenomeno suggerisce l’utilizzo di più indici,
combinati tra loro, tra cui il coefficiente di Gini, da considerare sempre nell’ambito
della povertà intesa come basso reddito, in modo da tenere conto sia della quota di
individui che si trova sotto la soglia, della loro distanza dalla soglia e della
distribuzione del reddito tra i poveri.
La difficoltà di descrivere e misurare la povertà risiede nel fatto che la sua
concreta declinazione dipende in molte società anche da aspetti valutativi. È inoltre
subordinata allo scopo che ci si prefigge: se soltanto descrittivo o anche di politiche
pubbliche di intervento. Per questi motivi il reddito come misura di povertà risulta
inadeguato: non è la misura assoluta di reddito a determinare lo stato di indigenza ma
la sua adeguatezza al contesto, ai bisogni e alle reali capacità di convertire il reddito
in funzionamenti da parte del soggetto.
117
Sen compie una interessante analisi della povertà nei paesi ricchi, dove si
confrontano misure assolute di reddito con i funzionamenti e si rilevano fenomeni
interessanti che conducono ad ammettere che il benessere non è identificabile con le
misure di reddito. Indicatori come l’aspettativa di vita non sempre covariano con il
reddito, anzi si hanno situazioni paradossali in cui società definite povere in termini
assoluti hanno una soddisfacente situazione dal punto di vista degli indicatori non
economici, e al contrario società affluenti manifestano situazioni in cui, pur in
presenza di livelli accettabili di reddito le condizioni di vita sono nettamente
inadeguate ad essere definite di benessere. Gli esempi in questo caso sono della
regione indiana del Kerala, in cui una tradizione di alfabetizzazione estesa anche alle
donne che risale al diciannovesimo secolo, assieme a politiche pubbliche e sanitarie,
ha prodotto l’esito di una dignitosa aspettativa di vita e di salute, migliore di quanto
si riscontra tra gli individui di colore in alcune città americane, dove il reddito è
nettamente superiore, ma le condizioni di criminalità, l’analfabetismo e l’assenza di
un valido sistema sanitario, riducono enormemente l’aspettativa di vita.
Questo tema è particolarmente caro a Sen, proprio per le sue origini
dall’India, paese in cui le differenze di casta producono effetti non trascurabili sui
comportamenti e il benessere degli individui. In particolare ha avuto risonanza
mondiale la sua analisi della condizione delle donne, con cui ha evidenziato che in
molti paesi sottosviluppati il rapporto numerico tra maschi e femmine scende di
alcuni punti sotto il valore determinato dalle differenze biologiche e di sopravvivenza
alla nascita.
In questo testo Sen si limita ad attribuire la responsabilità di questo fenomeno
al diverso accesso alle risorse e alla nutrizione, spesso legato all’accettazione da
parte delle vittime di tali discriminazioni delle loro condizioni, non solo le donne ma
anche gli individui appartenenti alle caste basse, che ritengono di non aver diritto di
opporsi al proprio destino.
Per questo Sen ribadisce l’importanza del sistema di relazioni nel determinare
le aspirazioni degli individui e le loro realizzazioni, in sintesi del loro capitale
sociale.
118
Da tutta l’analisi di Sen sulla diseguaglianza emerge il ruolo importante
svolto dal contesto sociale e dalle relazioni, non solo nel breve accenno al capitale
sociale, ma lungo tutta la sua riflessione torna costantemente l’attenzione alle
caratteristiche dei soggetti, che si esplicano anche attraverso le loro relazioni, e che
determinano la possibilità di trasformare le capacità in funzionamenti.
4.3.1 – La diseguaglianza nella rete, alcune considerazioni
Possiamo tentare una lettura in parallelo tra la definizione di libertà come
controllo di Sen e la descrizione di Burt (1995) relativa ai vuoti strutturali. Se
intendiamo la libertà come la capacità di controllare gli eventi (e quindi le relazioni)
in cui siamo immersi è immediato il richiamo al concetto di ridondanza. Se per Burt
è essenziale che i legami siano numerosi ma non ridondanti per consentire ai soggetti
la maggior gamma di opportunità possibile con i vincoli di tempo dati, nello stesso
modo l’analisi di Sen suggerisce che sia da considerare e scegliere il tipo di attività
su cui è più utile e necessario poter esercitare personalmente il controllo, e lasciar
perdere quella vasta gamma di attività in cui tale compito sottrarrebbe risorse che,
delegandolo, possono essere utilizzate in modo più produttivo per il soggetto.
L’analisi di Burt propone la possibilità per l’individuo di allargare il suo
controllo sull’ambiente attraverso il maggior numero di legami non ridondanti
anziché ridurlo. In entrambi i casi quello che viene ritenuto di primaria importanza è
l’estensione del “controllo” effettuabile, piuttosto che la sua “potenza” riferita ad una
limitata attività6.
Sen ritiene che sia una premessa fondamentale il fatto che i soggetti a cui
viene delegato il controllo e il soggetto dell’azione abbiano la medesima finalità. In
effetti la libertà intesa come controllo si può attuare attraverso la condivisione delle
6
Sen, come già detto, fa l’esempio del controllo della diffusione delle epidemie: poter delegare ad un
organismo pubblico questo ruolo, oltre a permetterne una maggiore efficacia, libera l’individuo da un
carico di compiti che paralizzerebbe la sua restante attività. Nello stesso modo i legami ridondanti,
così come definiti da Burt, non lascerebbero spazio per i legami che attraversano vuoti strutturali e
forniscono risorse aggiuntive.
119
norme. Le stesse norme che interagiscono con la possibilità di trasformare le risorse
possedute dagli individui in funzionamenti.
Un’altra interessante analogia con la teoria dei funzionamenti di Sen
possiamo ricavarla utilizzando i risultati che Granovetter (1973) e Grieco (1987)
hanno ottenuto nelle loro ricerche sulle tipologie di legami utilizzati per trovare
lavoro in due diversi contesti sociali.
Come già evidenziato Granovetter trova che il vantaggio informativo fornito
dai legami deboli è la caratteristica che determina il successo nella ricerca di lavoro
per i professionisti che operano in settori ad elevato contenuto culturale e
specialistico. Per questi soggetti i legami deboli, ricchi di vuoti strutturali,
consentono di trasformare le potenzialità (culturali, professionali, specializzate) nel
funzionamento richiesto, cioè diventare titolare di un contratto di lavoro. La
particolarità da tenere presente è che i legami deboli sono i legami tipici di contesti
lavorativi di elevata specializzazione.
Grieco invece trova che tra gli operai non specializzati (o nelle catene
migratorie) sono i legami familiari, cioè quelli forti, a svolgere la loro funzione di
supporto e sono questi i legami che facilitano l’inserimento nel mondo del lavoro.
Entrambi i tipi di legame consentono la concretizzazione di capacità in
funzionamenti, ma sono specifici sia per i soggetti che li utilizzano, sia per il tipo di
funzionamenti a cui danno accesso. Entrambi i soggetti possiedono entrambe le
tipologie di legame, ma in differente proporzione, quello che cambia è la loro
possibilità di utilizzarli, e che Sen attribuisce alle diverse caratteristiche del soggetto.
Infatti i legami deboli sono scarsi e inefficaci per i gruppi sociali meno abbienti, per i
quali sono i legami forti quelli che possono produrre informazioni utili.
Al contrario, nei gruppi sociali benestanti i legami forti, che appartengono
ugualmente alla cerchia familiare, non forniscono informazioni nuove rispetto a
quelle già possedute, mentre quelli deboli, che sono maggiormente presenti rispetto
alle classi più deboli, consentono un allargamento dell’ambito in cui vengono
raccolte le informazioni.
È evidente anche una gerarchia nella qualità del potere informativo dei
legami, che aumenta nel passaggio da forti a deboli, ma la capacità di sfruttarne le
120
potenzialità è presente per i soggetti che hanno caratteristiche individuali che
consentono loro di utilizzarli, mentre questa capacità è assente per i soggetti più
deboli, che anche se messi al corrente delle informazioni necessarie, spesso non
hanno le caratteristiche per poterle utilizzare7.
Questa constatazione ci riporta alla domanda iniziale di Sen: se esistono
caratteristiche che modificano in modo così sensibile la possibilità di conversione di
risorse in funzionamenti da parte degli individui è innegabile che ci si debba chiedere
di che cosa si debba garantire l’uguaglianza, per poter garantire a chiunque un livello
minimo di acquisizioni.
L’interesse di Sen è rivolto anche a svincolare la valutazione della
diseguaglianza da considerazioni esclusivamente di tipo economico, proprio perché
non è insolito trovare contesti in cui la struttura sociale determina i funzionamenti in
modo indipendente dalle risorse materiali possedute.
Questa è una implicita affermazione che le risorse relazionali e di contesto
svolgono un ruolo più importante e determinante di quelle economiche, o che è
almeno indispensabile una sinergia tra le due tipologie di risorse. Il tipo di sinergia
sarà determinante per il risultato, perché se non è orientata al sostegno sociale
produce l’esito paradossale della povertà in condizioni di affluenza.
È implicito il ruolo delle politiche sociali e delle norme sottostanti, che
devono guidare il processo in direzione di valorizzare il benessere degli individui,
che si trovano sempre inseriti nel loro contesto ed in interazione con esso.
4.4 – Dal tempo della diseguaglianza alla vulnerabilità
La sempre più veloce evoluzione dei sistemi sociali verso una costante
frammentazione assieme ad una tendenza a ridurre gli spazi e le distanze attraverso
7
Possiamo fare un esempio: un giovane in cerca di lavoro, con il livello minimo di istruzione, può
apprendere facilmente il lavoro di muratore attraverso l’apprendistato, e può venire introdotto a
svolgere questa attività da un parente che già fa questo mestiere, ma se viene informato della ricerca di
tecnici informatici in una azienda del suo quartiere da parte di amici o conoscenti, non può sfruttare
questa informazione perché non ha la preparazione adeguata per essere assunto.
121
quel fenomeno che viene definito globalizzazione ridefinisce gli scenari del disagio a
cui fare riferimento quando si vogliano attuare politiche di intervento.
Si passa in questo modo dal tema della diseguaglianza, caro a Sen, alla
necessità di definire le problematiche sociali attraverso un nuovo concetto capace di
metterne in luce gli aspetti salienti.
La diseguaglianza è il tema su cui si scontrano e su cui lavorano gli individui
immersi in una società che mantiene la sua forma in un ordine temporale comunque
lungo e che consegna immagini di staticità e continuità.
La diseguaglianza è un tema da risolvere in un contesto in cui il divario tra
chi sta bene e chi no resta immutato o ha caratteristiche di solidità, in cui i parametri
da confrontare sono costanti nel tempo e permettono di misurare gli spostamenti
prodotti.
In contesti come questo il disagio si esprime attraverso la scarsità: di risorse,
di libertà, di opportunità, da cui la necessità di aumentarne la disponibilità per chi ne
è privo.
Questo quadro si adatta ad una società salariale, in cui il raggiungimento di
un equilibrio di base per le fasce più deboli della popolazione incoraggia la richiesta
di miglioramento da raggiungere attraverso un aumento quantitativo delle risorse
cruciali.
Ma la società salariale, con le sue iniquità e con il suo carattere di forte
prevedibilità, non è più la realtà dominante. La crisi delle economie fordiste ha
prodotto un nuovo scenario sociale che si definisce attraverso la flessibilità, intesa
come continuo mutamento e assenza di radici. L’elevata competizione globale spinge
i sistemi produttivi a confrontarsi su orizzonti illimitati e questo determina la
richiesta della massima adattabilità agli individui che vi operano. La ricchezza delle
nazioni non ha più la solidità descritta da Adam Smith ma è sottoposta alle
fluttuazioni del mercato globale. La mobilità delle persone si esprime attraverso
migrazioni sempre più diffuse. Le comunità si disgregano in questo moto continuo
che tende all’entropia.
Per gli individui questo stato di cose è fonte di profonda insicurezza e si
manifesta attraverso la richiesta di sempre maggiore controllo, identificando la
122
richiesta di sicurezza con l’ordine sociale. La mancanza di prevedibilità genera
infinite paure, alcune delle quali estremamente concrete. Il lavoro, strumento di
emancipazione per eccellenza, non ha più le caratteristiche di durata e di affidabilità
che possedeva nella struttura precedente della società, la sua precarizzazione rende
gli individui privi di quella rete su cui costruire il proprio progetto di vita e disgrega
le comunità impoverendole, non solo attraverso una diminuzione dei mezzi a
disposizione, ma soprattutto attraverso la frantumazione di quei legami su cui si
fondavano.
In questo quadro diventa saliente il concetto di vulnerabilità per la definizione
di politiche di intervento.
4.4.1 – Rischio, vulnerabilità, sicurezza8
L’insicurezza generata dalla fragilità dei sistemi economici e dalla mancanza
di prevedibilità nei progetti di vita degli individui produce come effetto una grande
richiesta di sicurezza, intesa come ordine sociale, come difesa del patrimonio, che
come contraltare costruisce capri espiatori nelle figure degli estranei. Le politiche
volte a fornire sicurezza attraverso misure di polizia non riescono però a restituire la
pace perduta, che andrebbe invece ricercata attraverso la costruzione di consenso
attivo e partecipazione.
La modernità avanzata, il tempo in cui viviamo, viene definito attraverso i
concetti di rischio, vulnerabilità e insicurezza. Queste dimensioni in realtà sono
condizioni universali nell’esperienza umana che adesso hanno ottenuto un posto di
primo piano.
L’espansione delle possibilità e il processo di individualizzazione hanno
caricato gli individui di infinite possibilità a cui corrispondono altrettante
responsabilità. Soprattutto in caso di insuccesso non è più possibile fare appello alle
categorie di sfortuna o destino, ma solo di responsabilità. Questo determina un carico
eccessivo di scelte e di decisioni per l’individuo, da cui deriva la definizione di
8
Ciucci (2004).
123
“Società del rischio”. Questo aumento degli spazi di libertà ha privato gli individui
non solo dei vincoli a cui volentieri hanno rinunciato, ma anche dei meccanismi
sociali che ne garantivano la sicurezza.
La prospettiva pubblica si sposta dall’idea del futuro intesa come progresso
ad una ricerca di garanzie contro il rischio di un futuro reso incerto dalla
precarizzazione del lavoro e dalla perdita delle reti di sostegno relazionale, tra le
quali occupa un posto di primo piano la famiglia.
Nasce così la definizione di “vulnerabilità sociale” intesa come precarietà di
accesso alle risorse assieme alla perdita del supporto delle reti sociali.
La vulnerabilità è caratterizzata principalmente dalla fragilità dell’inserimento
nei sistemi di integrazione sociale e di distribuzione delle risorse, quali sono il lavoro
e i sistemi di welfare oltre alle reti relazionali. Soprattutto le donne e i giovani
vengono limitati nelle loro opportunità di progettarsi o di attribuire senso ai propri
percorsi di vita. In particolare il sistema di welfare è stato costruito sui rapporti di
lavoro a lungo termine e sulle figure tipiche della società salariale, tanto che nella
società attuale gruppi sempre più ampi di individui ne restano esclusi. Questo
fenomeno non esclude la disuguaglianza, anzi la amplifica assieme al costante
aumento della vulnerabilità.
La famiglia svolge un ruolo centrale in Italia nel proteggere dalla
vulnerabilità i suoi appartenenti. Il reddito principale del capofamiglia garantisce per
tutto il nucleo valorizzando i redditi accessori anche se precari e costituisce il
principale vettore per il mantenimento delle disuguaglianze attraverso la
riproduzione delle situazioni di partenza. La sua criticità si manifesta attraverso
l’assenza: quando viene a mancare il suo supporto diventa più gravida di
conseguenze la precarietà lavorativa.
Il rischio di scendere sotto la linea di povertà diventa concreto per sempre più
ampi settori sociali. Il tipo di risposta delle politiche sociali per contrastare i
fenomeni di povertà consiste di due modalità: trasferimenti monetari o erogazioni di
servizi. I primi fondano la loro efficacia sul modello tradizionale di famiglia con la
differenziazione dei ruoli di cura e di produzione del reddito secondo il genere. I
secondi sono più efficaci nel rispondere ai bisogni anche di nuovi modelli di
124
famiglia. L’efficacia degli interventi è però legata alla possibilità di integrare
entrambe
le
modalità
insieme
alla
capacità
di
promuovere
una
attiva
responsabilizzazione dei soggetti (Ciucci, 2004, p. 27).
Fino agli anni ’80 in Italia il modello di sicurezza si è fondato su un modello
di famiglia che prevedeva una netta separazione dei ruoli di cura e di sostegno
economico, svolgendo anche la funzione di redistribuzione delle risorse al suo
interno. La vulnerabilità è risultata strettamente legata alla composizione familiare ed
in particolare alle necessità di cura e al loro bilanciamento con le possibilità di
produzione di reddito, essendo il lavoro di cura alternativo al lavoro remunerato.
In particolare sono risultati soggetti deboli le donne, i giovani e gli anziani.
Le donne perché concentrate sul lavoro di cura non retribuito e quindi a
rischio di povertà in caso di perdita del legame coniugale.
I giovani perché la possibilità di restare a lungo in famiglia costituisce lo
strumento principale di emancipazione attraverso una formazione capace di condurre
a situazioni lavorative maggiormente remunerative.
Gli anziani perché la possibilità di contare sulla rete familiare costituisce,
oltre che una fonte di gratificazione non sostituibile, la migliore protezione dagli
eventi avversi e dalla perdita di autonomia legata al processo di invecchiamento. In
particolare anche a seguito della modifica nella struttura demografica della nostra
società si è andati incontro ad una crisi fiscale, legata alla difficile sostenibilità
economica del sistema pensionistico.
In ogni caso a parità di reddito si riscontra nel nostro paese che la rete di
relazioni familiari costituisce la discriminante per la qualità della vita degli anziani.
Il tema della vulnerabilità sopravanza il tema della disuguaglianza con la crisi
della società salariale. Le disuguaglianze presenti in una economia basata sul lavoro
salariato, soprattutto nella fase di espansione attraversata tra gli anni ’50 e ’80 del
secolo scorso, lasciavano spazio ad aspettative egalitarie e di mobilità ascendente. Il
dilagante processo di “decomposizione della società salariale” ha spostato il fuoco
dell’attenzione dalla stabilizzazione sociale attraverso la riduzione delle
disuguaglianze alla politica riparatoria dei processi di degradazione del lavoro
125
salariato. … La lotta alla povertà e all’esclusione sostituisce le rivendicazioni di
riduzione delle disuguaglianze (Ciucci, 2004, p. 30).
Il declino dell’interesse delle scienze sociali e delle politiche di intervento nei
confronti della disuguaglianza si manifesta in un momento storico che ha visto un
acuirsi delle disuguaglianze senza precedenti. Questo processo si è accompagnato ad
un aumento delle rivendicazioni delle differenze al fine di ottenere interventi
riparatori, rivendicazioni che però sanciscono la rinuncia a politiche universalistiche
di riduzione delle disuguaglianze.
In questo dibattito si inserisce a pieno titolo la teoria dei funzionamenti
elaborata da Sen (2000) con la quale si tengono assieme la finalità di ridurre le
disuguaglianze con la necessità di mantenere viva l’attenzione sulle caratteristiche
individuali che agiscono come amplificatori di disuguaglianza.
L’interazione tra disuguaglianze e differenze produce una cumulazione degli
effetti e un costante aumento del divario tra svantaggi e privilegi. Si assiste ad una
istituzionalizzazione della precarietà lavorativa, all’erosione dell’universalismo delle
garanzie e all’indebolimento delle reti sociali. Il sentimento collettivo di insicurezza
che ne scaturisce può essere ammortizzato soltanto attraverso il suo riconoscimento
ed una corretta attribuzione delle cause determinanti.
L’insicurezza è il prodotto di processi sociali fondamentali che conducono ad
una perdita di valore della fedeltà e dell’impegno reciproco, degli impegni a lungo
termine e della territorialità.
Per reazione questo capitalismo globale e flessibile ha prodotto in modo
imprevisto un rafforzamento del valore dei luoghi e del desiderio di appartenenza ad
una comunità, ha prodotto cioè un bisogno di comunità.
Le relazioni hanno assunto nuove forme estremamente fragili e questo le
rende incapaci di generare una fiducia in grado di compensare il senso crescente di
insicurezza, che può essere contenuto attraverso l’esperienza del “noi” e
l’accettazione della dipendenza reciproca, unica forma di legame in grado di
ricostituire vincoli sociali solidi e positivi. In questo processo deve essere accolta e
superata la vergogna che deriva dalla dipendenza e deve essere accettato il conflitto,
ineliminabile componente delle dinamiche sociali, frutto del confronto tra le
126
differenze. Paradossalmente trova la sicurezza una società in cui le comunità e i
gruppi sono disponibili ad avventurarsi nell’insicurezza dei tanti “noi” parziali,
coinvolti in un confronto esteso e mai concluso (Ciucci, 2004, p. 37).
I temi della vulnerabilità e della sicurezza devono essere affrontati a livello
globale, perché è lì che affondano le loro radici e perché il potere capace di
governare questi processi è extraterritoriale e la politica locale si rivela inefficace:
bisogna richiamare dall’esilio l’universalismo.
127
Conclusioni
5.1 – Una sintesi del percorso
In questo viaggio alla scoperta dei legami ho attraversato epoche storiche e
teorie diverse, paesi lontani e mondi vicini, sono stata incuriosita dalla laboriosità dei
pratesi e dalla coesione delle famiglie mafiose. Il collage di documenti così disparati
che ne è venuto fuori rischia di far perdere di vista il filo logico suscitato dalla
domanda che mi ero posta, per questo ritengo necessario farne una sintesi che ne
riepiloghi le connessioni.
L’analisi è iniziata con la descrizione della ricerca di Banfield (1958) su
Montegrano
perché mi sembrava opportuno partire da quelle condizioni di
arretratezza in cui i legami non riuscivano ad affermarsi come strumento di coesione
sociale, ma sia le conclusioni dell’autore che il quadro descritto conducevano ad una
assenza di prospettive che non mi sono sentita di condividere. Per questo ho cercato
conforto nel lavoro di uno studioso autorevole che descrivesse una situazione di
altrettanto innegabile arretratezza, in questo caso per motivi storici: l’analisi
sociologica ante litteram che svolge Machiavelli (1513) sulla realtà italiana del suo
tempo induce infatti a pensare in termini più ottimistici riguardo alla possibilità degli
uomini di intervenire sul proprio destino attraverso un’organizzazione sociale che
consenta lo sviluppo delle arti e dei commerci. L’importanza della rete di relazioni
all’epoca dei Comuni è poi messa in evidenza dalla ricerca di Padgett e Ansell
(1993) sull’ascesa al potere di Cosimo dei Medici.
Dopo aver evidenziato il legame tra l’arretratezza e l’inefficienza del tessuto
sociale, l’altro tema su cui si è diretta la mia attenzione per comprendere le
condizioni in cui i legami non svolgono appieno la loro funzione è stato quello della
parzialità: quando i legami non interessano tutto il tessuto sociale e quindi sono in
grado di apportare benefici solo ad alcuni gruppi di individui.
Il testo di Varese (2011) fornisce uno spaccato delle modalità di sviluppo e
movimento dei gruppi mafiosi, in cui i legami sono elemento fondamentale di
esistenza e di sopravvivenza, e il corposo studio di Eisenstadt e Roniger (1984)
128
mostra le modalità di costruzione e estensione della fiducia attraverso i legami
clientelari in varie parti del mondo, offrendo un quadro esaustivo della diffusione di
questo tipo di legami e del loro ruolo a supporto dello sviluppo economico e sociale.
La ricerca di Putnam (1993) sulle Regioni italiane, pur restando ancorata
all’ipotesi che la storia passata sia determinante per lo sviluppo futuro, fornisce una
ampia visione delle diverse realtà sociali che si ritrovano a varie latitudini nella
nostra penisola e nello stesso tempo mostra gli effetti delle diverse condizioni di
coesione sociale.
In tutto il primo capitolo il filo conduttore delle varie ricerche è il ruolo che la
famiglia, intesa come gruppo di appartenenza e discendenza, svolge nella struttura
sociale, divenendo spesso il fulcro attorno a cui ruota quasi sempre la suddivisione in
ruoli e gerarchie.
Il passaggio successivo ci conduce ai comportamenti virtuosi che producono
effetti nel tessuto economico delle società. Un esempio di questi è il fenomeno che è
stato definito della “Terza Italia”, cioè di quella realtà di piccole imprese che
attraverso la coesione sociale e una fitta struttura di interazioni e di norme che
guidano la collaborazione riesce a produrre benessere diffuso in varie parti d’Italia.
Le considerazioni su questa realtà prendono lo spunto dal lavoro di Nesi (2010),
testimonianza autobiografica che affronta il tema da un punto di vista molto
personale e soprattutto molto attento all’esperienza individuale che accompagna certe
trasformazioni sociali. Le conclusioni dell’autore sono disincantate e poco propense
all’ottimismo, ma ci introducono i temi successivi: l’importanza di sviluppare
coesione sociale attraverso strumenti flessibili, in grado di accogliere i cambiamenti
pur favorendo la continuità con il passato.
Diventa importante sottolineare il ruolo della fiducia nella costruzione delle
società moderne, che viene vista attraverso la sintesi di Roniger (1992). Fiducia che
diventa il precursore di quello che da vari autori, dopo Coleman (1988, 1990) viene
definito capitale sociale.
Il ruolo del capitale sociale, che include di diritto i legami tra gli elementi che
lo compongono, è innegabile. Le sue definizioni possono variare per alcuni aspetti e
per la descrizione degli effetti che gli possono essere attribuiti, oltre alla possibilità di
129
distinguere che cosa è capitale sociale e che cosa non lo è, ma resta fondamentale la
sua funzione di concetto capace di descrivere una serie di comportamenti virtuosi che
producono effetti benefici sullo sviluppo economico e sociale. Queste conclusioni
derivano dalla lettura di vari autori, oltre il già citato Coleman, tra cui gli italiani
Bagnasco (1999, 2010) e Mutti (1998).
Il concetto di capitale sociale ha appena acquisito uno status autorevole che
Putnam (1995) ne annuncia la decadenza: i giocatori di Bowling non fanno più
squadra e questo fatto viene interpretato come il sintomo di una progressiva
disgregazione sociale.
Questo in sintesi il filo logico del secondo capitolo, che ruota attorno ai
legami che supportano i settori dello sviluppo economico e politico delle società.
Riprendendo il tema del cambiamento emergono due tematiche contrapposte:
quella della globalità, favorita dalle comunicazioni, e quella della disgregazione in
tanti piccoli mondi. Lo strumento di analisi per eccellenza è lo studio delle reti
sociali, perché ci permette di descrivere sia la visione macrosociale che quella
microsociale.
Il lavoro di Travers e Milgram (1969) sul problema del piccolo mondo dà
l’avvio al dibattito sul livello di connessione tra individui, ma le loro entusiastiche
conclusioni non sono pienamente supportate dalle evidenze, come precisa Kleinfeld
(2002), mentre Wellman (1999) è più attento a valutare gli aspetti di cambiamento
della struttura sociale che accompagnano certi fenomeni, nell’ottica di coglierne le
potenzialità e le prospettive future più che emettere un verdetto di qualità. La
struttura sociale sta cambiando velocemente, grazie alla tecnologia e allo sviluppo
delle comunicazioni. La condivisione di uno spazio circoscritto non è più la sede
dello sviluppo di legami comunitari. Devono essere studiati nuovi strumenti capaci di
leggere la realtà sociale, capaci di identificare il valore delle nuove forme di legami e
il loro ruolo nella produzione di coesione: Granovetter (1973) e Burt (1995) sono gli
autori analizzati a questo punto, di cui si descrivono i contributi riguardanti le
specifiche caratteristiche dei legami che li rendono efficaci nell’azione di
promozione delle potenzialità degli individui e cioè la loro forza (in questo caso la
loro debolezza) e la presenza di vuoti strutturali.
130
L’ultimo autore analizzato nel capitolo, Ben-Porath (1980), mi ha colpito
perché produce una sintesi dei temi che ho analizzato in precedenza, portando in
primo piano la funzione di costruzione dell’identità che si esplica attraverso la
famiglia e le relazioni di amicizia e di lavoro. Questo autore attribuisce all’identità
così costruita un ruolo importante negli scambi, perché la ritiene elemento costitutivo
della fiducia necessaria a garantirli. In questo caso è importante sottolineare il fatto
che l’identità degli individui deriva dall’appartenenza dei medesimi ad una comunità
di cui ne rafforza e ne condivide le caratteristiche.
Dopo questa lunga carrellata sulla forma e il ruolo dei legami è necessario
spiegare perché i legami sono importanti e a quale scopo possono servire.
A mio avviso i legami possono rappresentare la doppia elica del tessuto
sociale: il codice da leggere per comprendere gli esiti delle azioni ed eventualmente
influenzarne il corso.
Ci supportano in questa visione Salvini (2011) e Psaroudakis (2011) che
ripercorrono gli aspetti salienti della Social Network Analysis e dell’Interazionismo
Simbolico e l’importanza dello studio e dello sviluppo delle reti sociali per
l’attuazione di politiche di intervento orientate al miglioramento delle condizioni
degli individui. La loro riflessione parte dall’idea che la comunità, o comunque la
rete di relazioni di cui ciascun individuo fa parte, costituisce il terreno su cui viene
costruita la qualità della vita, e ci introduce al tema del disagio sociale e soprattutto
dei processi di impoverimento, studiati attraverso la prospettiva del capitale sociale,
che si rivela essere uno strumento privilegiato anch’esso per definire in modo più
accurato le caratteristiche del fenomeno povertà.
Attraverso le sintesi di Matutini (2010, 2011a, 2011b, 2011c) possiamo
vedere come la povertà sia un fenomeno multidimensionale, di non facile
definizione, nei confronti della quale il compito di misurarne l’effettiva presenza si
scontra con la difficoltà di descriverne le molteplici sfaccettature e con la ricerca di
indicatori capaci di superare i limiti di quelli economici, ormai da tempo riconosciuti
inadeguati a descrivere il problema in tutta la sua complessità.
Matutini ci introduce i lavori di Sen (2000), studioso a cui nel 1998 è stato
conferito il premio Nobel per l’economia proprio per i suoi studi sulla povertà anche
131
nelle società affluenti. Il testo preso in considerazione tratta specificamente il tema
della diseguaglianza, per procedere con la definizione degli aspetti di equità che
devono essere garantiti per migliorare le condizioni degli individui nella società.
L’analisi di Sen sottolinea la multidimensionalità del fenomeno e ribadisce il ruolo
delle caratteristiche individuali, nel determinare gli esiti, che descrive attraverso la
sua teoria dei funzionamenti. Anche se non si riferisce alle reti in modo esplicito è
evidente come per Sen le relazioni facciano parte di quelle caratteristiche individuali
che possono produrre differenze.
Sen quindi sposta il focus della diseguaglianza dalle risorse possedute alle
caratteristiche su più livelli dell’individuo.
Ciucci (2004), attraverso l’analisi della letteratura sulla modernità,
approfondisce questa lettura indicando come la definizione di diseguaglianza sia più
adatta ad un particolare contesto storico individuato attraverso il concetto di società
salariale, mentre per le nuove forme sociali, costruite sulla flessibilità e sulla
dilagante diffusione dell’incertezza, il concetto guida per le politiche di intervento
che è in grado di fornire una descrizione più accurata della realtà è quello della
vulnerabilità.
Il fenomeno della globalizzazione assieme alla trasformazione dei legami ha
determinato una crisi di sicurezza: resta da capire se nelle nuove forme di
aggregazione persiste la percezione del senso di comunità, in modo tale da fornire
agli individui quel supporto primordiale necessario a proseguire il cammino o se
questo supporto vada cercato in nuove modalità.
Per cercare di dare risposte a queste domande, nel paragrafo che segue, faccio
riferimento ai lavori di Bauman (2001), Boltanski (2005) e Ciucci (2005).
5.2 - Il presente proiettato nel futuro: i legami in prospettiva
Qual è lo strumento che può supportare le attuali comunità rese fragili e
inconsistenti dalla globalizzazione? Quali risorse hanno a disposizione gli individui
per non perdersi nel mare burrascoso della flessibilità? Dove troveranno supporto per
132
medicare le ferite inferte dalla mole opprimente di responsabilità che sono venute a
gravare sulle loro spalle dopo la disgregazione di tutti quei vincoli comunitari che si
facevano carico di destini ingrati e di insuccessi collettivi?
Ancora nelle relazioni, anche se non più tra gruppi di individui, ma tra
singole persone: per questo i legami acquisiscono una posizione di primo piano
rispetto al passato, perché non sono più solo uno strumento a disposizione delle
comunità per gestire gli scambi tra gruppi, ma sono il linguaggio comune, il requisito
minimo, che consente agli individui di continuare ad esistere in una comunità,
anziché diventare isola in un arcipelago di solitudine.
Cosa potranno costruire queste persone, private della corazza comunitaria, per
garantirsi una esistenza ancora gratificante e sicura?
Le società e le comunità come ci sono state descritte dai padri della sociologia
sono costruite su un insieme di regole che ne determinano le caratteristiche e le
modalità di funzionamento. In tutte le analisi l’elemento sfuggente è sempre il
collante misterioso che spinge gli individui a restare assieme. Una volta analizzati gli
interessi e i bisogni che supportano la coesione, resta da descrivere quella parte in
positivo, svincolata dal concetto di necessità, che riguarda la scelta spontanea dei
soggetti di restare uniti, anche senza evidente utilità o vantaggio.
Abbiamo definito tra i compiti dei legami quello di favorire gli scambi tra
individui e gruppi. In queste forme regolamentate di comunità gli scambi sono
definiti attraverso l’equivalenza: la moneta ne rappresenta l’emblema più purificato
dagli aspetti emotivi. Attraverso la moneta si garantisce l’equivalenza di quanto
viene scambiato e si riconferma la fiducia nel sistema di norme condivise che
regolano il gruppo.
L’equivalenza ci conduce in uno stato di giustizia, in cui la disputa è regolata,
ma non soppressa. L’unica possibilità che abbiamo di far scomparire la disputa
dall’orizzonte relazionale è agire in stato di agape: in agape sono escluse le
equivalenze, non si parla di scambi ma di dono. Il dono in agape vive nel presente e
non ha memoria, non prevede il contro dono, non prevede equivalenza.
Anche se questa analisi sembra irrealistica, in realtà ha molti più spazi di
realizzazione di quanto possa apparire.
133
Le società immerse nella modernità liquida (Bauman, 2001) hanno sgretolato
il passato per consentire agli individui (o per condannarli) ad una totale flessibilità:
assenza di radici, assenza di passato, flebile permanenza delle relazioni, quasi
inesistente prevedibilità, percorsi di vita costretti ad inventarsi in ogni momento.
In questo quadro di individui atomizzati e dispersi in uno stato liquido,
metafora presa dalla chimica che descrive i liquidi formati da molecole tenute
insieme da legami di vicinanza sempre pronti a scivolare gli uni sugli altri, cosa resta
alle persone per poter nutrire la propria relazionalità? Non viene offerta alcuna
garanzia per gli scambi in equivalenza: domani tutto potrebbe essere diverso e le
norme di oggi potrebbero venire contraddette.
È difficile ipotizzare che il benessere degli individui si fondi esclusivamente
sulle merci che consumano: la comunità ha fornito agli individui oltre al supporto
materiale tutta quella parte di beni inconsistenti ma profondamente necessari alla
buona qualità della vita che sono riconducibili all’identità, al riconoscimento
reciproco, alle relazioni affettive.
La modernità liquida mette a nudo il ruolo dei legami, li rende fragili e
vulnerabili, finché si voglia definirli attraverso gli scambi in equivalenza.
Nel momento in cui se ne accetta la loro fondamentale funzione di nutrimento
per l’anima oltre che di supporto materiale, se ne riscopre il valore anche in queste
condizioni.
Ad una prima lettura si può pensare che i concetti di disputa e pace e di
scambi in equivalenza o meno siano da riferire ai grandi temi della relazionalità
umana: le interazioni tra stati o tra gruppi sociali. Poi si scopre che in una lunga nota
Boltanski (2005, p. 145) porta l’esempio di Mary che vorrebbe, attraverso l’astuzia,
ottenere che Pierre la aiuti ad aggiustare l’asciugacapelli, e che questo può
rappresentare un esempio di scambio, in questo caso in equivalenza perché l’agape
esclude l’astuzia e il calcolo.
Il tema degli scambi, in equivalenza oppure in agape, ci riguarda da vicino
perché interessa tutte le forme di relazione, anche le più private.
134
Lo scopo di queste mie riflessioni è introdurre una lettura che restituisca al
futuro delle relazioni una possibilità di esistenza, che lasci spazio anche a visioni
ottimistiche.
Le riflessioni di Boltanski (2005) richiamano alcune modalità di relazione,
che anche se non costituiscono la regola, si possono riscontrare con una certa
frequenza e di solito contribuiscono a confortare le persone che vi partecipano o che
vi assistono.
Uno di questi esempi è il caso di chi compie un gesto di aiuto senza avere
alcuna prospettiva di ricevere alcuna forma di restituzione dal beneficiario. Alla base
della gratificazione di questa modalità di relazione è la condivisione del gesto: io lo
compio nei confronti di chi mi sta di fronte, chiunque altro lo farà e quindi potrò
riceverlo da chi mi avrà di fronte se ne avrò bisogno.
Lo scambio in agape, escludendo l’equivalenza, induce stupore e rassicura:
produce uno stato di pace.
È una consuetudine diffusa in contesti tendenzialmente chiusi, che potrebbero
essere assimilati a certe piccole comunità dei paesini di campagna, che le
incomprensioni o i dissapori tra famiglie o clan inducano una forma di non
riconoscimento: gli appartenenti ai gruppi in conflitto si tolgono il saluto, smettono
di parlarsi, interrompendo così, oltre agli scambi, ogni forma di relazione.
Questa contrapposizione in blocchi è possibile solo in presenza di gruppi che
si definiscono e si riconoscono come entità “solide”, lasciando a volte poco spazio
agli individui di proseguire la relazionalità secondo le loro autonome percezioni.
La disgregazione di queste piccole comunità coatte lascia spazio agli
individui di non caricarsi delle “colpe” di alcuni membri1.
1
Senza giungere alla storia di Giulietta e Romeo si può facilmente immaginare come nel passato fatti come ad
esempio un fidanzamento interrotto potevano condurre famiglie intere a congelare le loro relazioni. Mi è capitato di assistere in
uno di questi contesti ad un incontro tra persone che potremmo definire rappresentativo dello stato di pace descritto da
Boltanski. In una situazione conviviale si sono trovate insieme persone di due famiglie a cui appartenevano due ex fidanzati, in
quel momento felicemente sposati altrove. Gli eventi risalivano a circa vent’anni prima, le persone presenti non si incontravano
da parecchi anni. Come di fronte a un “mezzogiorno di fuoco” ho pensato con imbarazzo a cosa avrei potuto assistere,
soprattutto temendo il non riconoscimento reciproco. Invece gli attori hanno ignorato qualsiasi forma di equivalenza: si sono
riconosciuti e salutati calorosamente, ricordando solo la reciproca familiarità. Gli attori hanno agito in agape e ricordo ancora
quell’episodio con piacere.
135
La disgregazione della comunità, con le sue qualità di permanenza e di
chiusura, non elimina il bisogno di comunità dall’orizzonte umano: lo rende più
sentito, come per tutte quelle caratteristiche che diamo quotidianamente per scontate
di cui si percepisce il valore soprattutto al momento della loro assenza.
Ecco perché la comunità, intesa come dimensione “festiva” (Ciucci, 2005)
assume, usando una formulazione di Kant, ancora di più il ruolo di “idea regolativa”,
di immagine guida a cui ispirare il quotidiano della sua non diffusa presenza.
La sua esistenza si rende fondamentale, così come la sua scarsità.
La presenza costante di una comunità in agape renderebbe attuata un’utopia e
se ne comprende l’impraticabilità.
La sua totale assenza renderebbe privo di speranza il mondo delle relazioni.
La sua attuabilità, solo come eccezione, come festività appunto, la fa divenire
principio guida a cui tendere.
La sua non prevedibilità ne aumenta il valore, ne rende eccelsa la presenza,
quando si ha il dono di trovarla.
136
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