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DigitCult | Scientific Journal on Digital Cultures
Grand Tour: immaginario, territorio e culture digitali
Emiliano Ilardi
Donatella Capaldi
Dipartimento di Pedagogia,
Psicologia, Filosofia
Università di Cagliari
Digilab
Università di Roma “La Sapienza”
Abstract
Il Grand Tour può essere recuperato come asset narrativo utile per un intervento strategico di rebranding del viaggio in Italia? Il contributo analizza il contesto e le condizioni per una progettazione di
questo livello nell’ambiente culturale dell’epoca digitale. Considerando gli archetipi moderni della
mediazione dei luoghi come una grande riserva di senso, da riattivare sia nelle pratiche basate sui
format seriali e transmediali che valorizzano i territori nella produzione creativa, sia nella costruzione
di infrastrutture digitali e transluoghi per la valorizzazione degli attrattori culturali.
Published 22 December 2016
Correspondence should be addressed to Emiliano Ilardi, Dipartimento di Pedagogia, Psicologia, Filosofia,
Università di Cagliari. Email:
[email protected]
DigitCult, Scientific Journal on Digital Cultures is an academic journal of international scope, peer-reviewed
and open access, aiming to value international research and to present current debate on digital culture,
technological innovation and social change. ISSN: 2531-5994. URL: http://www.digitcult.it
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DigitCult
2016, Vol. 1, Iss. 3, 37–48.
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Perché ritornare al Grand Tour? 1
Comunicazione turistica top down e bottom up, marketing esperienziale del territorio, (digital)
storytelling, immersività, profilazione del visitatore; docufiction, mockumentary e reality show per
il turismo, cineturismo, teatralizzazione degli spazi storico-artistici, realtà aumentata, 3D,
gamification, social network. Sono tanti gli strumenti oggi disponibili per la valorizzazione del
patrimonio culturale. C’è molta confusione, a iniziare dalla messa a fuoco dei punti di forza di un
italian cultural heritage e quindi dalle scelte sui settori del nostro patrimonio sui quali
concentrare (le poche) risorse: tangible o intangible? l’archeologia? il paesaggio?
l’enogastronomia? le città d’arte? i borghi? Tutti insieme? Mancano linee e macroobiettivi di
comunicazione e si procede come al solito a braccio. Ogni regione, ogni comune va avanti per
conto suo, con strumenti di promozione diversi e spesso non integrabili. Senza voler sminuire
qui le responsabilità delle istituzioni per il disastro in cui versa la comunicazione turistica e del
territorio in Italia, va ammesso che valorizzare e promuovere il Belpaese è oggettivamente
difficile, anche perché non ci sono modelli da imitare. La Spagna per esempio ha puntato in
gran parte su alcuni luoghi dello svago e dello “sballo” (Costa del Sol, la costa valenciana,
Barcellona e la Costa Brava, le Baleari) che attraggono soprattutto i giovani, mentre nei mesi
invernali si popolano di pensionati stranieri. Il turismo francese è "parigicentrico" e basato
essenzialmente sulla cultura artistica ed enogastronomica. Quello inglese, "londracentrico", su
un mix di cultura (soprattutto pop) e divertimento, oltre ovviamente sull’insegnamento della
lingua. Quello olandese, "amsterdamcentrico", funziona sul modello spagnolo, con più musei e
architettura. Tutti, in effetti, si caratterizzano per la presenza di una struttura semplice e
compatta di luoghi e archetipi, di asset narrativi transmediali (Giovagnoli 2013) su cui costruire
una diversificata strategia promozionale che utilizzi tutti gli strumenti comunicativi per poi
valorizzare il resto del patrimonio e dei territori. È più o meno la strategia della “coda lunga”
(Anderson 2006).
Una strategia difficilmente applicabile in Italia, dove i grandi attrattori sono moltissimi, di
molti tipi diversi, e sparsi sul territorio: Roma, Venezia, Firenze, Napoli, la Sicilia, l’Umbria, i
cinquantuno siti Unesco, le Alpi, i Vulcani, il mare della Sardegna e quello della riviera
romagnola, il trekking, lo sci, l’enogastronomia (diversa in ogni regione), le terme, la musica,
etc. Lo stesso per gli archetipi: il sacro, il profano, il benessere, il divertimento, il cibo, il clima, la
cultura (in tutte le sue possibili declinazioni), il paesaggio, lo sport, l’avventura, etc., senza
considerare la debole identità nazionale degli italiani e la loro scarsa fiducia nelle istituzioni
statali sovraregionali. Il rischio è che siano altri soggetti a costruire stereotipi (il paese del Papa,
dell’arte, del mare) e narrazioni su di noi, a determinare la nostra immagine, e dunque la
quantità e qualità dei flussi turistici (impermeabili l’uno all’altro e non organizzati sul territorio in
percorsi e itinerari coerenti). A fronte della straordinaria ricchezza dei punti di interesse, se il
soggiorno medio dei turisti stranieri in Italia resta inferiore alla settimana (a Roma solo tre notti)2
la causa principale è l’incapacità di immaginare strategie di gestione e promozione del
patrimonio sistemiche e coerenti, sulle quali costruire comunicazione e servizi.
Esiste una possibilità di creare per il patrimonio e territorio italiani un asset turisticonarrativo che attraversi verticalmente il paese e che possa assicurare coerenza ed efficienza
dal punto di vista gestionale, economico e comunicativo? E quali relazioni si configurano tra
l’ambiente digitale e queste scelte strategiche?
Nel nostro contributo proponiamo di tornare indietro nel tempo, a quando l’Italia era per
l’Europa la meta di viaggio per eccellenza, il luogo in cui fare esperienza di tutto: arte, religione,
natura, scienza, politica, catastrofe, erotismo, clima, benessere, avventura, festa, divertimento,
cibo, commercio. Tutto in un solo viaggio che infatti durava mesi, se non anni.
Rilanciato da una sterminata produzione letteraria, il Grand Tour era un sistema abbastanza
complesso che legava a sé tra la fine del XVI e il XIX secolo miti e territori del Belpaese in un
viaggio di formazione che metteva alla prova il visitatore e lo preparava alla sua vita futura.
Prima delle metropoli, il principale spazio di simulazione per l’Europa, e il primo grande
immaginario transnazionale moderno. È possibile recuperarlo nell’ambiente culturale della
1
L'articolo è stato condiviso e discusso dagli autori. Nello specifico Emiliano Ilardi ha scritto i primi 3
paragrafi e Donatella Capaldi gli ultimi 2.
2 Statistiche ENIT 2015:
http://www.enit.it/it/studi.html e Comune di Roma: https://www.comune.roma.it/
PCR/resources/cms/documents/Il_turismo_a_Roma_24_11_2015_01_X.pdf
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società delle reti? Adattarlo all’Italia di oggi, e al viaggiatore contemporaneo, che si sposta
velocemente con aerei e treni ad alta velocità armato di smartphone e tablet? Renderlo credibile
per il turismo esperienziale, immersivo, consumista e disincantato?
Gli archetipi del Grand Tour
La nascita del Grand Tour a fine Cinquecento segna un passaggio chiave verso la modernità:
dai pellegrinaggi medievali - il cammino di Santiago, la via Francigena dal Nord dell’Europa
verso Roma e Ancona o Brindisi per l’imbarco per la Terra Santa, e altri itinerari devozionali
diretti a santuari e abbazie - a una concezione laica del viaggio come esperienza di formazione,
che da allora fino a metà Ottocento ha assolto una precisa funzione nella vita dei rampolli delle
classi dirigenti nobili e alto borghesi delle principali nazioni straniere, rispondendo a una doppia
pulsione, verso la conoscenza e verso il piacere. Convenzionalmente se ne attribuisce
l’invenzione a Elisabetta d’Inghilterra, poi imitata dal Re Sole e dall’Elettore del Brandenburgo
(Brilli 1995). Borse di studio venivano destinate a giovani gentiluomini che, accompagnati da un
tutor e spesati dalla corona, avrebbero dovuto raffinarsi sul piano politico ed estetico,
viaggiando in Francia, Svizzera, Germania, per approdare in Italia, terra di corti e di repubbliche
dogali, ossia dei modelli politici esemplari a livello europeo. Un “vademecum” del perfetto
viaggiatore, redatto da Francis Bacon (Of the travel, 1615), insegnava ad affinare l’osservazione
dei fenomeni politici ed economici (nello stile della nascente metodologia scientifica),
registrarne le peculiarità organizzative e culturali, imparare la lingua, le maniere e le relazioni
sociali, avviare e mantenere i contatti necessari per scoprire cose inedite, rinsaldare rapporti
futuri, e soprattutto comprendere il funzionamento delle istituzioni: politiche, giudiziarie,
religiose, artistiche, educative e militari. Nelle città-capitali (per l’Italia soprattutto Roma e
Venezia) i giovani dovevano visitare le corti dei principi e quelle di giustizia, le chiese e i
monasteri, i monumenti, le mura e le fortificazioni, le biblioteche, le università, l’alta manifattura
e le rarità; se si arrivava in una città di mare (Genova era per gli inglesi il punto di approdo in
Italia) anche il porto e le camere di commercio. La Serenissima, oggetto di culto soprattutto per i
britannici nel secolo della rivoluzione di Cromwell, coniugava istituzioni politiche “aperte”,
intense attività economiche e commerciali, una fertile produzione artistica e una nuova e
agguerrita industria dell’intrattenimento. Mentre Roma, rimessa a nuovo da Papa Sisto, era la
Corte ma anche l’Urbs per antonomasia, il luogo della Res Publica, della fondazione del diritto,
dell’Impero, dello Stato Pontificio, dell’antichità a cielo aperto e di una concentrazione unica e
irripetibile di opere d’arte e di architettura. Una terza capitale, Napoli, si aggiungeva al Grand
Tour alla fine del Seicento, con le incombenti e “minacciose” bellezze del Vesuvio e dei Campi
Flegrei e le vestigia greco-romane (Fino 1993; De Seta 2011). Da Genova, da Torino, dal
Brennero, partiva una rete di stazioni di posta che, ogni 30 km, garantivano riposo e cavalli
freschi; e lungo il viaggio altre esperienze si innestavano sul tragitto canonico, fino a creare un
archetipo più complesso: via Lucca (con i bagni termali, l’antenato della pratica salutistica
moderna); via Bologna, passando da Firenze e Siena; via Verona verso Venezia; o percorrendo
la dorsale adriatica, Ancona e Loreto (con il santuario religioso).
Ma se migliaia di giovani patrizi, e in seguito semplicemente benestanti, si muovevano nel
nostro paese era anche per intercettare le grandi ricorrenze spettacolari, come la “Sensa” a
Venezia con lo sposalizio del mare, e il celebrato Carnevale; e lo stesso a Roma: il Carnevale,
le cerimonie religiose e le intronizzazioni papali. Il ludus costituiva il versante solo
apparentemente minore di questo nuovo archetipo dell’immaginario collettivo. La festa ne era il
motore meno ufficiale ma più efficace: allestimenti fastosi, macchine spettacolari, teatri d’opera
e concorsi di popolo. E facilità di relazioni, incontro, stordimento, mirabilia e fantasmagoria,
travestimento e cambio di identità, trasgressione sessuale, superamento provvisorio delle
barriere sociali. Perciò Venezia diventò l’indiscussa prima meta di viaggio, la città-spettacolo
con i ridotti, le bische, il barcheggio sulla laguna, l’arte della cavallerizza, e la grande invenzione
- dal 1637 - dell’opera lirica, in una fusione già seriale di musica, canto, recitazione, danza, ed
effetti speciali, che ripetevano in spazi chiusi le grandi macchine delle cerimonie spettacolari in
piazza. Venezia, il luogo principe del divertimento - nutrito da sapienti operazioni di marketing
editoriale e onnipresente nella letteratura e nella pittura sei-settecentesca – era imperdibile per i
giovani europei, che annotavano tutte le loro esperienze nei diari di viaggio (De Seta 2014).
Ancora dopo quasi due secoli, calato in parte il fascino di quello veneziano, il Grand Tour si
polarizzava sull’altro grande Carnevale, quello romano, raccontato da Goethe, Gogol, Stendhal,
Dickens e soprattutto Dumas, nel Conte di Montecristo (1845): un evento in cui saltavano le
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norme sociali e si allentavano le rigide divisioni di classe per cui si incontrava l’aristocratico
giocare a carte in una lurida osteria con il calzolaio, il maniscalco o addirittura un brigante (la
scena restituita da Mario Monicelli e Alberto Sordi nel Marchese del Grillo).
Nasceva così l’immaginario turistico occidentale, dove l’archetipo del viaggio di formazione
“politica” si arricchiva teatralizzando i luoghi, liberando la pulsione erotica e ludica e
immergendo i primi turisti in un mix di arte e di cultura popolare. L’iniziazione, l’avventura a
sfondo sessuale, il gioco, l’industria del piacere sollevavano il giovane viaggiatore, spesso
proveniente da paesi calvinisti o riformati, dalle norme e dalle mortificazioni del corpo
(Littlewood 2004), come testimoniano le più esplicite note di viaggio del Settecento spesso
romanzate (come l’Ardinghello di Wilhelm Heinse), dove il tratto libertino si combinava con
l’avventura romanzesca on the road: l’imprevisto legato al mezzo di trasporto, il pericolo
incombente dei briganti che rendevano le vie malsicure, le fughe da situazioni scabrose e
malavitose, duelli e sfide all’arma bianca in cui incappavano regolarmente i viaggiatori (Brilli
2003, 2004). Già ibridandosi con la fiction, il romanzo, il Grand Tour diveniva così un gigantesco
problem solving dal vivo, una sfida con l’insicurezza e l’ignoto, la scoperta, la sorpresa,
l’incontro fortunato. In aggiunta, scemando via via la valenza politica delle corti italiane,
cresceva l’immaginario sull’Italia come luogo del classico, evocato dalla grande pittura
rinascimentale e ridefinito dal Poussin “romano” nel Seicento. Il paesaggio archeologico, le
rovine come fastigi di uno splendore e di una armonia perduti, la Natura come Mater Tellus,
depositaria e custode della bellezza, e come sprigionamento del desiderio e dell’amore, alla
base della civiltà e del sentimento. Una inclinazione prima arcadica e poi romantica che aveva
radici nel già consolidato contrasto barocco tra Roma e Napoli, immaginata come luogo della
catastrofe e degli inferi: l’eruzione del Vesuvio del 1674 richiamò migliaia di turisti, e fu
riprodotta in centinaia di quadri diffusi in tutta Europa; nel 1738 il Vesuvio tornò a parlare
attraverso la scoperta delle rovine di Ercolano, a cui seguì quella di Pompei (un continuum non
casuale collega l’ambasciatore inglese Hamilton che sovvenzionava alla fine del XVII sec. la
prima campagna di scavo e gli interventi recenti su Pompei e Ercolano del British Museum e
della fondazione HP). Il Grand Tour assorbì dunque da Napoli il senso della catastrofe, insieme
a un “format della rovina”, che serializzava Roma, e in generale l’Italia in senso neoclassico
(con il ruolo sempre più importante di Firenze), come paesaggio della storia e dell’arte, che
Winckelmann diffuse in tutta Europa: i luoghi come immenso deposito di reperti e opere,
concentrati all’inverosimile e fruibili ovunque, anche nelle cantine dei palazzi, in un
addensamento tale da far quasi svenire Stendhal a Santa Maria Novella (e ancora oggi, gli
spettatori della Grande Bellezza di Sorrentino davanti al panorama di Roma visto dal Gianicolo).
Fragonard, Goethe, David, Chateaubriand e molti altri intellettuali e artisti in viaggio ne
rimanevano folgorati, e restituivano uno spazio sentito come enorme quinta variata e variabile in
cui mettersi in scena, e in cui scavare fino alle radici più antiche. Così il viaggio a Sud si
prolungava da Napoli alla Sicilia, trainato dalla riesumazione dei templi dorici delle colonie
greche e delle architetture normanno-sveve (Cometa 1999; Bonaventura 2009).
L’arco storico connesso alla formazione del gentiluomo iniziava ad esaurirsi nella prima
metà dell’Ottocento: cambiavano il soggetto del viaggio in Italia (ora il turista borghese), e nel
suo complesso l’ambiente culturale (ora i nuovi media metropolitani: oltre al romanzo, il
giornale, la rivista illustrata, la fotografia, la pubblicità). Ciò nonostante, tutte le strutture
archetipiche che abbiamo disegnato fin qui hanno continuato a rielaborarne i tratti e, ri/mediate
dalla narrativa e dalla pittura, sono diventate la prima riserva di un iniziale branding turistico
italiano: il mito di Venezia, rilanciato da Hoffmann nei suoi aspetti decadenti, e più tardi da
Ruskin nella celebrazione dell’artista-artigiano. Quello di Firenze, corroborato dai Preraffaeliti.
Quello di Roma dal celebre Fauno di marmo di Hawthorne (1860), dove la scenografia
monumentale della città eterna diventava anche luogo dei misteri. L’Italia come una miniera ad
alta concentrazione di classicità, un palcoscenico di millenni, civiltà e popoli, in una sorta di
sospensione temporale, era da un lato il terreno preferito per il gothic con inclinazioni fantasticohorror, decisamente avventuroso e sinistro, per i cunicoli e sotterranei di castelli (Horace
Walpole e Ann Radcliffe); dall’altro era il contesto del best seller europeo indiscusso di tutto il
primo Ottocento: Corinna o l’Italia di Madame de Stäel (1807), dove il paesaggio, tra Roma,
Napoli, Firenze e Venezia, era esperienza spirituale, rapporto con l’infinito, educazione
sentimentale, e occasione per rigenerare il format del Grand Tour basato sul viaggio di
formazione culturale (sulle orme di Corinna si sarebbe incamminato il drappello di inglesi
“romani”: Byron, Percy e Mary Shelley, Keats). Seguono il giornalismo politico (che introduceva
un nesso di lì in poi quasi obbligato tra Italia e il conflitto/instabilità) con il periodo delle guerre di
Indipendenza, della nascita di uno Stato unitario, e delle gesta di Garibaldi, e poi altri generi e
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media editoriali: il libro di viaggio, rivolto a un ampio pubblico borghese; e la rivista illustrata,
destinata a un’audience ancora più popolare e trasversale. Tecnologie sempre più raffinate per
l’immagine, prima ad opera di illustratori, xilografi e bozzettisti e in seguito incorporando la
fotografia, erano finalmente disponibili per la carta stampata, riproducibili a fine Ottocento anche
in milioni di copie. Dei monumenti e delle opere d’arte principali si poteva ormai avere un’idea
indipendentemente dal viaggiare; e la mobilità si allargò a strati più ampi, lungo le strade
ferrate, e poi in automobile: commercianti, professionisti, artigiani, impiegati, studiosi, giovani
studenti. Con la possibilità di scoprire palmo a palmo il territorio, frammentando spaziotemporalmente il canone direzionale nord-sud, il percorso iniziò ramificarsi in molti modi, per
esempio verso la costa orientale. E dal 1897 arrivava anche in Italia il viaggio organizzato dalle
agenzie stile Thomas Cook.
Con il passaggio definitivo al sistema dei media della metropoli l’asset narrativo del Grand
Tour durante il Novecento si è definitivamente frammentato, e le sue riserve di senso
(motivazioni, immaginari dei luoghi, strutture archetipiche in grado di generare storie) sono state
riutilizzate nei nuovi format dei linguaggi e delle pratiche di consumo, e negli stereotipi del
turismo massificato. Le singole mete di viaggio canoniche sono tuttavia rimaste invariate:
Venezia – la città/oleografia degli amanti, pallido riflesso del passato; Roma – la città della
classicità e del papa; Firenze – la città dell’arte; e Napoli - la città degli inferi sotto il Vesuvio e
degli scavi di Pompei. Le aggiunte più evidenti sono state nutrite fin dagli anni Cinquanta dal
cinema (che ha sfruttato, ancora una volta, il romanzo): le isole di Capri, Procida e Ischia, e le
Eolie; la riviera romagnola; il paesaggio toscano degli inglesi (da Camera con vista a Io ballo da
sola, fino alla saga vampiresca di Twilight che scopre Volterra e Montepulciano); più
recentemente il Sud profondo, con anticipi sulla costa amalfitana, Taormina, il Salento, il
Cilento, la costa meridionale della Sicilia. E come gli immaginari relativi alle quattro città
principali, anche altre strutture topiche sembrano sopravvivere nella lunga durata, in particolare
l’idea dell’Italia come ambiente saturo d’arte; mentre altre sono state riutilizzate dal cinema e
dalla televisione, come la festa e l’avventura erotica (nella versione abbassata dei latin
lover/vitelloni); la catastrofe naturale e antropica (dai vulcani al relitto della Costa Concordia);
l’avventura (sistemazioni di fortuna, detective story); le terme (il fitness); l’esotico (e il cibo); il
gothic; il conflitto e l’instabilità, ma anche la facilità di relazioni e l’accoglienza (distrutte e
ripristinate, da Benvenuti al Sud fino a Hotel da incubo).
I flussi e i social network
Su questo complesso archetipico ormai ridotto a stereotipi diffusi a livello globale agisce di solito
lo storytelling pubblicitario dell’industria turistica. Ma come viene messo a fuoco da studi recenti
(Giordana 2010; Calabrese e Ragone 2016), il turista è da tempo e prima di tutto uno spettatore
e un attore dei media, e questo è un aspetto fondamentale se si vuole passare dallo
sfruttamento dell’immagine banalizzata del luogo a una narrazione che ricostruisca (o ricrei) in
modo fertile e stabile un immaginario sul luogo. È anzi possibile espandere questa tesi: solo a
partire dal lavoro sugli immaginari collettivi, dal territorio immaginato, dagli archetipi culturali, si
possono generare nuove mete turistiche, allargando il potenziale disponibile, creando nuovi
asset stabili per lo storytelling, e allungando come effetto finale i periodi di permanenza. Purché
si produca una interazione tra quattro flussi narrativi, che qui proviamo a scorporare e definire:
a) il senso autoctono dei luoghi: dato dall’insieme di patrimoni materiali, immateriali e
paesaggistici, storici antropologici e socio-economici che rendono un territorio
caratteristico e immediatamente identificabile (le Cinque Terre o la Laguna Veneta);
b) i racconti sui luoghi costruiti dall’industria turistica; nei casi migliori, quando un
patrimonio storico-antropologico prima semisconosciuto e disaggregato riesce a
divenire un nuovo brand grazie ad investimenti in cultura, valorizzazione e marketing (la
val d’Orcia, la val Marecchia, il Salento, la via Francigena);
c) i racconti sui luoghi costruiti dai media spettacolari, che trasformano in attrattori alcuni
territori e centri urbani (il cinema - che ora genera direttamente cineturismo, i best seller
letterari, la serialità televisiva, i videogame);
d) le storie personali che si proiettano sulla meta di viaggio e/o si identificano con essa,
partecipando alla costruzione di (auto)biografia e senso identitario.
L’interazione fra i quattro flussi è stata resa possibile dalla rivoluzione culturale delle reti che,
con le tecnologie digitali, ha permesso di ibridarli stabilmente (Ragone 2011). I social media,
nella fase attuale della trasformazione sociale (Boccia Artieri 2012), accelerano e riplasmano la
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portata dell’interazione, funzionando come vettore di frammentazione, rielaborazione personale,
creazione di link transmediali e condivisione delle esperienze che si vivono in ognuno di essi. I
luoghi diventano iperlink, reali e virtuali, transluoghi (Bertone, Morreale e Taddeo 2013; Capaldi
e Ilardi 2016). E fungono inoltre da sorgente della comunicazione sulle piattaforme digitali per la
gestione e la riconversione dei territori, che oggi sono infrastrutture imprescindibili e vitali per
ogni operazione di branding che si basi sulla mobilitazione di reti, soggetti e imprese per una
co-produzione di immaginari e servizi.
Ma torniamo al soggetto, al turista che è attore dei media: le azioni di sistema per la
valorizzazione turistica, affinché si inneschi un circolo virtuoso efficace, nutrito dal social
networking, non possono prescindere da un ampio riuso degli immaginari dell’industria creativa,
tendenzialmente ad audience più larga. Partendo dal fattore (c) si può attivare più facilmente il
circolo virtuoso che coinvolga i racconti sulle storie personali (d) e sui patrimoni locali (a), fino a
riaggregarli nel re-branding (b).
Riusare i media creativi
Per formalizzare l’ipotesi strategica di un “ritorno” all’asset narrativo del Grand Tour occorre
quindi esaminare brevemente i format attuali dei media (oggi in vorticosa convivenza e
ibridazione nell’ambiente digitale) che, come hanno rilevato ormai da un quarto di secolo gli
studi sull’immaginario turistico (a partire da Urry 1990), determinano ampiamente l’economia,
l’organizzazione e l’evoluzione del settore. Si tratta di almeno quattro zone principali: i format
televisivi di viaggio, la rimediazione dei luoghi nelle produzioni creative di fiction o documentari,
la nuova produzione di format e fiction seriali sul web, e la teatralizzazione e virtualizzazione di
luoghi attraverso il riuso delle produzioni creative.
La prima zona comprende in Italia programmi ormai ben collaudati (Sereno Variabile, Linea
Verde, Linea Blu, Linea Bianca, Geo and Geo, Kilimangiaro, in parte Quark e derivati), basati
sull’assemblaggio di format altrettanto classici: servizio giornalistico, documentario, docufilm di
avventura, clip di film, talk show; l’appeal è generato dalla qualità spettacolare degli spezzoni in
audiovideo, ma il palinsesto è altrettanto standard: presentazione basic di un luogo, bellezze
artistiche/archeologiche, paesaggio, memorie locali, enogastronomia, patrimonio immateriale
(feste, usanze, leggende, lingue, musica, sistemi agricoli e di pesca), itinerari consigliati, sport
associabili; schemi da guida turistica piuttosto che da wiki-enciclopedia, e comunque privi di
asset narrativi forti. Ultimamente è comparso un reality show come Pechino Express, format
fiammingo riadattato da RAI2, che offre storytelling e valenza immersiva. Il viaggio come
avventura, improvvisazione, incontro inaspettato; un precedente è stato Turisti per caso, dal
1991, dove il modello letterario del libro di viaggio si mescolava con leggerezza a suspense,
problem solving e un pre-reality sui rapporti interpersonali della coppia; ne è nato un sito
collaborativo - emulo del celebre WAYN: Where are you now, attivo dal 2002 e che oggi conta
20 milioni di utenti - dove il pubblico condivide diari, itinerari consigli, notizie e pacchetti
personalizzati, integrato con Facebook e con forum specializzati; come vedremo, un anticipo
non banale della tendenza verso la sitcom in rete. Pechino Express viene animato da coppie di
viaggiatori chiamate a superare delle mission, come è tipico di un genere mutuato in parte sul
videogame. Il territorio funziona come una mappa, e come una quinta, la scenografia della
prestazione: un misto di sport, ostacoli vari, performance, e ricerca di soluzioni, gestito dal
conduttore, tra commenti salaci e incitamenti. Più che reality show, l’esito è quello di una fiction,
complice un sapiente montaggio del girato (mentre le scene più divertenti vengono subito
lanciate sui social network). Di nuovo, sebbene a un livello molto superficiale, c’è la scoperta di
tradizioni e usi autoctoni, e l’accento sulla capacità di relazione, che riguarda le dinamiche
interne alla coppia, ma anche la maniera di rapportarsi ai nativi con l’ausilio di un linguaggio
extraverbale che genera esilaranti malintesi o inaspettate forme di aiuto.
Se la banalità classica e standard dei format televisivi non offre vere storie utili nella
mediazione dei luoghi, al massimo frammenti, gag e testimonial che possono riprodursi nelle
pratiche delle reti, sono invece i best seller – romanzi sempre più spesso di tipo seriale – a
trainare il più delle volte location note o anche inedite, oppure tradizioni del patrimonio
immateriale: gli esempi sono tanti, dalla Stoccolma dei gialli di Stieg Larsson, alla Sicilia del
Commissario Montalbano. Seguendo la lunga tradizione del film di avventura e spy story, un
effetto di ri/mediazione potente è imperniato attualmente soprattutto su plot avventurosi basati
su un segreto, un enigma da risolvere, come nel Codice da Vinci e in Angeli e Demoni; mentre i
videogame hanno abituato i giocatori alle ricostruzioni in 3D con salti temporali anche
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lunghissimi (Assassins’ Creed a Venezia o nella Roma dei Borgia). I luoghi divengono a volte
metafore colme di senso e associabili a uno stile di vita: la fontana di Trevi nella Dolce Vita
felliniana; o all’eterno conflitto dell’amore impossibile: la Bocca della Verità in Vacanze Romane,
il castello di Aglié in Elisa di Rivombrosa. Il Colosseo nel Gladiatore, invece, o la Fontana
dell’Acqua Paola nella Grande bellezza sono lo specchio della resistenza e della decadenza. Ci
sono infine strategie pubblicitarie originali e avanzate, che insegnano come trainare
contemporaneamente un territorio e i suoi prodotti. Il pastificio Garofalo di Caserta, per
esempio, da oltre un decennio coltiva il brand trasformandosi in produttore di video sui luoghi
più affascinanti della Campania; la potenza dell’immaginario evocato dal territorio diventa
garante implicito del prodotto, nemmeno citato, ma veicolato in maniera affatto obliqua e
sotterranea. Del tutto al di fuori dei format della pubblicità televisiva, la Garofalo affida dei “corti”
(max 20’) a grandi registi italiani e americani, reclutando come protagonisti star internazionali3
(Richard Dreyfuss tra gli altri). I corti vengono trainati, a parte i passaggi nelle sale
cinematografiche, da eventi web e campagne di fidelizzazione attraverso Facebook (del resto la
tendenza dominante nella pubblicità degli ultimi anni è di depotenziare le grandi agenzie e
riportare la strategia all’interno delle aziende). Il brand Garofalo, e l’alta qualità della pasta,
vengono associati allo splendore di un cinema di qualità e al fascino delle storie che vengono
evocate dai luoghi (il Museo Madre di Napoli per Valeria Golino regista, o San Gregorio Armeno,
la via napoletana, dei presepi che si trasforma con Terry Gilliam, in un plot inquietante negli
inferi di Napoli).
Dall’immaginario filmico deriva, come indotto, il fenomeno in ingente crescita del
cineturismo” (Todaro 2011) che tradizionalmente porta a una mappatura dei luoghi e dei set dei
film (a volte dei romanzi) per creare un percorso di visita, promosso da una articolata
operazione di marketing, curato in Italia dalle diciannove agenzie regionali per le location. Casi
emblematici i Sassi di Matera, con la Passione di Cristo di Mel Gibson; e all’estero i luoghi cult
della serie Sex and the City a New York; le ambientazioni della saga di Harry Potter; gli scorci
della Nuova Zelanda nel Signore degli anelli. Un’altra tendenza diffusa, resa possibile dalle
tecnologie digitali, è la rifunzionalizzazione dei luoghi come aggregatori eterogenei di frammenti
di fiction e altre produzioni creative: passeggiate cineturistiche metropolitane in cui è possibile
richiamare con una app le scene dei film girate in questa o quella strada, da Parigi a Tokyo, da
Londra a New York. Per l’Italia ricordiamo Napoli con il Movie Tour dei film di De Sica, Rosi,
Martone, e Roma, con le location dei maggiori film, e tre percorsi dedicati alla Grande Bellezza
di Paolo Sorrentino. Anche Google Play, piattaforma mirata al noleggio e all’acquisto dal
catalogo Play Film, ha lanciato una app simile sui set di varie città del mondo.
Del resto, al di là del cineturismo e delle app, il virtuale tende ad innestarsi nei luoghi reali,
in forme sempre diverse di teatralizzazione. Fin dal tardo Ottocento (copiosi esempi si trovano
nei romanzi satirici di Jerome K. Jerome) i media hanno stimolato la creazione di luoghi fittizi,
“realizzando” storie e immaginari collettivi: la famosa “casa di Giulietta” in via Cappello a Verona
viene visitata ogni anno da milioni di persone, ma è in realtà un’invenzione che risale agli anni
Trenta del XX sec. sulla scia del successo mondiale della tragedia shakespeariana in salsa
hollywoodiana di George Cukor (1936)4. Il verosimile diventa vero, e il luogo della storia
coinvolge, genera proiezione e identificazione, complice anche la statua di Giulietta sistemata
ad hoc e i messaggi d’amore che gli innamorati possono lasciare sulle pareti predisposte.
Funziona anche con la pubblicità: il duecentesco mulino delle Pile a Chiusdino nel senese si
tramuta nel brand Mulino Bianco della Barilla, e come tale è divenuto meta di viaggio. Altro
esempio di trasferimento dalla fiction alla riutilizzazione di luoghi reali: Ponte Milvio a Roma
come meta dove appendere un lucchetto sul modello del best seller Tre metri sopra il cielo di
Federico Moccia (1992), una pratica dilagata a livello globale grazie anche ai social network. O
ancora: il Museo d’arte Ghibli, una sorta di parco interattivo, concepito dal celebre regista di
animazione Hayao Miyazaki in un quartiere periferico di Tokyo, dove tutto rimanda alle creazioni
più famose dell’omonimo studio di disegni animati (Heidi, Porco Rosso, La città incantata).
Anche dal Museo dell’Innocenza, scritto nel 2008 dal premio Nobel Ohran Pamuk, è nato a
Istanbul un vero e proprio museo. La teatralizzazione e virtualizzazione dei luoghi con
installazioni digitali eredita in realtà pratiche tradizionali, che hanno sempre puntato sulla
rimediazione della letteratura, e delle sue riduzioni filmiche e seriali: dalla Märchen Straβe, la
3
http://raffaeleconte.com/strategie-web-marketing-facebook-garofalo/;
https://www.youtube.com/watch?v=R6c1STmvNJc
4
http://www.verona-in.it/2007/12/24/antonio-avena-lurbanista-del-900-che-creo-i-luoghi-di-giulietta-eromeo/
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Strada delle favole dei Fratelli Grimm, che in Germania si stende per quasi 600 km da Hanau a
Brema, toccando tutti i paesi resi celebri dalle loro fiabe, al percorso della Bella Addormentata a
Sommariva del Bosco in Piemonte, o alle miniere di sale di Wielickza vicino a Cracovia, dove
grandi statue di nani o orchi rimandano al Signore degli Anelli di Tolkien, che visitò forse il luogo
nel 1908, traendone ispirazione per le Miniere di Moria.
Dalla televisione e dal cinema ci stiamo così via via spostando verso l’esperienza dei
transluoghi (Calabrese e Ragone 2016). Inseriti in un ambiente-fiction, in una storia che ci porta
a rivivere aspettative, reazioni emozionali, e a caricarle di significati individuali, i beni e i territori
vengono valorizzati - e visitati fisicamente - in modo “laterale” rispetto al loro valore storicoartistico (Kotler e Andreasen 2004). Il belief finzionale, come Morin (1956) spiegava già nel suo
saggio-capolavoro sul cinema, cattura, suscita e rafforza di per sé il ricordo e l’affettività, ed
espande l’interesse per l’esplorazione anche antropologica dei luoghi. L’immersione non più
solo virtuale ma fisica nell’ambiente e nell’azione della fiction - magari coadiuvata dalla realtà
aumentata - permette di condividere e provare modelli di vita e codici di comportamento, invita a
saldare l’archetipo narrativo all’esperienza individuale, dilata la partecipazione e lo status di
soggetto sociale del visitatore; e non da ultimo, stimola la riappropriazione del corpo all’interno
del format. Ed è una estensione soggettiva che per la sua valenza sempre più importante (in
tempi di an-estesia ed euforia della virtualizzazione digitale) tende a essere riproiettata
spontaneamente - miliardi di volte - nei social network. Il riuso intelligente degli immaginari di
massa e la teatralizzazione degli spazi con tecnologie digitali sono oggi - insieme al social
networking - una via obbligata per qualsiasi strategia di valorizzazione turistica.
Resta un’ultima zona che vale la pena di esaminare, quella della produzione “nativa” sul
web. La moderna serialità ha essenzialmente due temi portanti: il viaggio avventuroso in terre
lontane e inaccessibili (che dall’esotico ottocentesco arriva alla fantascienza e al fantasy) e la
drammatizzazione della vita quotidiana (che dal romanzo rosa arriva alla soap opera e alla
sitcom senza dimenticare ovviamente il giallo, il thriller, l’horror, il medical drama).
Apparentemente, il primo genere sembrerebbe quello più riusabile per le strategie turistiche. Si
sta però creando un effetto di saturazione da eccesso di pressione causato dai format che
governano la sorpresa e l’avventura, secondo schemi – sempre gli stessi - progettati e
standardizzati. Occorre guardare al riuso nell’immaginario turistico anche per l’altra dimensione
della serialità, quella della drammatizzazione del quotidiano. A partire dal secondo dopoguerra,
con l’allargamento dell’accesso delle masse ai mezzi di trasporto, il viaggio ha smesso di
essere avvertito come una rottura radicale con la quotidianità, ed è divenuto anzi uno dei suoi
elementi costitutivi. Non solo la vacanza o il lungo viaggio di lavoro ma anche l’eterno e noioso
movimento del pendolare, in treno, in macchina, sull’autobus e, ultimamente, anche in aereo.
La diffusione delle compagnie low cost ha trasformato perfino il weekend fuori porta in un
viaggio all’estero. Le aspettative del nuovo viaggiatore non prevedono più l’incontro con il
diverso “assoluto” o l’avventura radicale ma, più modestamente, la scoperta di nuovi scorci o
luoghi (spesso di un panorama già conosciuto attraverso i media); tornare a casa sapendone un
po’ più di prima, gestire un’avventura “sotto controllo”, da raccontare sui social, al limite con
qualche imprevisto ma di facile soluzione, e se va bene l’incontro con persone interessanti. La
moderata drammatizzazione da sitcom (che è poi il clima comunicativo tipico di Facebook),
ripresa in televisione da Turisti per Caso, Milano-Roma, Frontalieri o Piloti, lontana eredità delle
storyline secondarie del Grand Tour, fatte di feste, incontri casuali con persone di tutti i tipi,
piccole avventure e imprevisti, tende a diventare terreno fertile per un format nato da pochi anni,
ma che sta riscuotendo sempre più successo: la webserie. Sono essenzialmente
autoproduzioni a basso costo, girate quasi sempre nei luoghi di origine dei produttori. Ve ne
sono anche di genere fantascientifico, come While, viaggi nel tempo ambientati nei luoghi
simbolici della Basilicata; o fantasy, come L’uomo di Montevecchio, creata da un gruppo di
studenti nelle miniere di Montevecchio in Sardegna. Ma di solito sono girate in luoghi e
situazioni che gli autori conoscono bene in ogni dettaglio: anche quelli che il comune turista non
può immaginare; e che possono offrire uno sguardo alternativo su ciò che per molti è già
familiare, e dove è sempre possibile fare nuove scoperte o incontri stimolanti. Travel
Companions è per esempio ambientato interamente sulla tangenziale di Napoli con le avventure
di due personaggi che cercano quotidianamente di recarsi al lavoro. BlaBlaCar Road Movie,
creata dalla famosa piattaforma online di ride sharing, è un tour di quaranta tappe: piccole e
grandi città da nord a sud, per raccontare, telecamera alla mano, l’Italia che si sposta insieme
ad estranei, offrendo e accettando passaggi in auto. Gli attori sono persone sconosciute,
compagni di viaggio di ogni paese, lingua e cultura; il copione è imprevedibile, affidato al caso
dell’incontro. Interessante è anche ’A Famigghia che racconta in cinque episodi la sgangherata
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impresa turistica di tre ventenni che a bordo di un furgoncino offrono a due turiste in crociera,
appena sbarcate al porto di Messina, «un viaggio “on the road” alla scoperta della vera Sicilia».
Un fenomeno prevalentemente giovanile da tenere in conto per le strategie di re-branding come
quella che proponiamo.
Re-branding e ambiente/culture digitali
Al panorama della produzione creativa più popolare, attiva nel veicolare immaginari sul nostro
territorio, e in lenta ibridazione con l’ambiente digitale, con i social media e con le installazioni
nei luoghi, dobbiamo naturalmente aggiungere il lavoro documentaristico. Dove ai prodotti
audiovideo spesso di altissimo livello, ma raramente accessibili in rete, si affianca da tempo una
sterminata factory costituita da community e videomakers locali, spesso artigianale, e mirata
alla valorizzazione diretta attraverso YouTube o siti web dedicati ai patrimoni locali.
Le risorse di base (l’immaginario dei media, le energie utilizzabili localmente per la
valorizzazione in rete dell’immaginario dei luoghi) sono ampiamente disponibili. Il punto è che ai
giganteschi vantaggi delle culture digitali, che hanno rivoluzionato i sistemi di valorizzazione
dell’heritage (accelerazione della comunicazione, globalizzazione, trasformazione dei consumer
in prosumer, ibridazione tra conoscenze formalizzate e creatività), si accompagna l’implosione,
non solo del tempo (l’istantaneità della comunicazione e la simultaneità dei collegamenti tra
frammenti di conoscenza e di esperienza) ma anche dello spazio; cosa assai evidente per il
turismo in termini di micronizzazione spontanea delle proposte, quando non esista una strategia
efficace di storytelling basata su archetipi di lunga durata: il Palazzo Te e non la Mantova dei
Gonzaga, il Colosseo e i Fori e non la Città Eterna, per non parlare delle cento città e dei borghi
che pure sono la storia e lo spazio che ci rende unici al mondo.
Torniamo allora all’ipotesi di partenza: il re-branding del Grand Tour. Segnali di evoluzione
di almeno alcune aree del fenomeno turistico sembrano motivare ulteriormente l’idea di un salto
di qualità del brand Italia, sia come operazione di storytelling coerente con una nuova
antropologia del viaggiatore, che come organizzazione e servizi in rete. Il viaggio, infatti, è
sempre più inteso come “cultura”, e quindi come attività creativa e non solo ricreativa (Miliani
2015)5; un’esperienza che rimette in gioco il corpo, la fisicità dei luoghi, e la relazione sociale, in
cui trovare senso rispetto alla pressione troppo forte della virtualità, della connettività e del
solipsismo imperante sui social media. Ritorna il viaggio come “tecnologia del sé”, cura del
corpo e dell’identità, mediante immersione e dialogo con narrazioni altre. Il senso del Grand
Tour riemerge e crea una nuova domanda. L’archetipo della formazione europea che abbiamo
descritto - esplorazione ed educazione, esperienza estetica, avventure e divertimento,
accoglienza e enogastronomia, in territori sempre diversi, con differenti modi di vivere, di fare
cultura e di essere nel paesaggio - si collega alla filosofia post-industriale di Slow Travel, una
delle espressioni del Movimento Slow, teorizzato da Carlo Petrini e da Carl Honoré. Non solo
relax, sostenibilità, agriturismi, trasporti a bassa emissione di CO2 come il treno, la bicicletta,
ma anche un’esperienza di vita nella quotidianità dei luoghi, la ricerca di esperienze fuori degli
itinerari di massa, il territorio come spazio del rapporto con l’altro (Nocifora, De Salvo e Calzati
2011). L’ospite diventa attore, in un ambiente dove si sovrappongono esperienze spaziotemporalmente diverse rispetto al suo trascorso di vita, e nella condivisione ciò che accade di
inatteso e inaspettato funziona come una chiave di entrata possibile per conoscere una
comunità (Gardner 2009). Il fenomeno va estendendosi, per esempio con la riattivazione come
asset narrativo di percorsi antichi (la Francigena, in embrione l’Appia), sia con il ritorno alla
grande festa, che rappresentava nel Grand Tour l’attrattore implicito del viaggio (la Taranta); ed
è oggetto in questo periodo di riflessioni e ipotesi di lavoro interessanti come l’idea delle
“geografie private” (Brilli 2014), quelle del viaggiatore di un tempo, del viaggio “lento” come
vettore essenziale dei percorsi da riprogettare in Italia. Il momento è probabilmente maturo per
passare da una dimensione di nicchia a un’operazione di strategia nazionale, come è accaduto
negli ultimi anni per Slow Food.
L’ipotesi di un re-branding basato sulla reinvenzione dell’itinerario nazionale Nord-Sud,
deve includere naturalmente i due aspetti: il viaggio lento (con stazioni che sostituiscano le
antiche stazioni di posta), e le feste (un investimento strategico, che al di là di quanto già
accade a Venezia, deve trovare sostegno pubblico e capacità di progetto almeno a Roma,
5
Una riflessione sui risultati emersi dall’indagine dell’Osservatorio “Vivo la cultura” 2015, nato dalla
collaborazione tra SWG e DigiLab-Sapienza.
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Napoli, Palermo). Terzo aspetto, gli immaginari collaudati e ancora molto fertili nella cultura di
massa che possono essere richiamati nei luoghi (il gothic, l’avventura, il mistero, la catastrofe,
la detective story, le terme e il gusto, etc.), a nutrire, come un tempo, i percorsi. E quarto
aspetto, quello relazionale, dove è possibile prevedere, secondo modelli di sharing economy
momenti di scambio e di esperienza in comune (turisti di altri paesi, comunità locali): senza
ripristinare salotti e diligenze, il viaggio può tornare a essere scoperta di culture diverse, anche
trovandosi a cena, dopo aver programmato insieme l’invito su una piattaforma digitale. Oltre ai
servizi standard del tipo di Trip Advisor, infatti, una piattaforma social network del Grand Tour
potrebbe offrire molto di più di quanto oggi è disponibile fra guide turistiche, siti di promozione
territoriale, di musei, alberghi o ristoranti. Elencando in breve: i libri e i diari di viaggio, le
repliche delle tappe “classiche” negli itinerari principali e nelle ramificazioni - un buon esempio
su questo versante è stato realizzato da tempo in Toscana6; le stazioni di posta e di ristoro
anche sulle vie secondarie, le attività tipiche del community-based tourism come gli alberghi
diffusi (Valayer 1993; Dall’Ara 2011); e ancora: i materiali disponibili sui luoghi nominati nei
resoconti di viaggio; visite virtuali e in loco, servizi per la mobilità, prenotazioni, escursioni,
attività, occasioni di incontro; interazione, apertura alle proposte di community locali e blogger,
un’espansione reticolare della piattaforma sono le altre componenti essenziali per trasformare
un luogo in net-locality (Gordon e De Souza e Silva 2011). La creazione di installazioni digitali
locali e la “smartizzazione” dei luoghi avverrebbero così in connessione con una infrastruttura di
comunicazione e servizio di livello internazionale. In tempi di (necessaria) ricentralizzazione
delle politiche per il turismo, il re-branding del Grand Tour è un’ipotesi concretamente
realizzabile: con una campagna di comunicazione e di marketing virale; con il concorso delle
Regioni e degli enti locali, che per frammenti stanno in parte ricostruendo il circuito e la sua
memoria, come a Latina o a Reggio Calabria (Scamardi 1998); e soprattutto con la
partecipazione attiva al (social) network di imprenditori del settore turistico, di gestori del
patrimonio culturale, di community di fan dei luoghi e di singoli cittadini e turisti.
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