354 _ Capitolo primo
DA CARVICO
ALLA VALLE DI GIOSAFAT
di Guido Dall’Olio
UNIVERSITÀ DI URBINO CARLO BO
Una lettera sulla soglia di casa
Nel pomeriggio di domenica 19 dicembre 1563, mentre Bartolomeo Colleoni
(non il famoso condottiero, ma un suo
omonimo, che negli atti viene chiamato anche “della Melanesa”) era sulla
porta della sua casa di Vanzone (frazione del comune di Calusco d’Adda),
in procinto di uscire, incontrò un tale
Francesco del Ronco, soprannominato Margutto. Questi gli disse che poco
prima, venendo da Bergamo, aveva
a sua volta incontrato su un pascolo
due sconosciuti a cavallo; dopo essersi
accertati che conosceva Bartolomeo, i
due gli avevano consegnato una lettera
da portargli, cosa che Francesco fece
appunto in quel momento1.
In realtà Margutto non aveva detto tutta
la verità a Bartolomeo. A dargli la lettera era stata una persona che conosceva, Bartolomeo di Cristoforo Mangili
(alias Cavalero) “deli Pradaci”, cioè dei
Pradazzi, di Carvico. Questi gli aveva
chiesto di recapitarla personalmente al
Colleoni; se per caso non l’avesse trovato, avrebbe dovuto restituirgliela.
Abbiamo la possibilità di conoscere
questi eventi con una certa precisione
perché il 19 gennaio 1564, esattamente
un mese dopo aver ricevuto la lettera, il
Colleoni si presentò di fronte al vicario
vescovile di Bergamo Niccolò Assonica2
per denunciare il fatto, dichiarando:
«Desidero et voglio si ritrovi il vero et
castigar colui l’ha mandata». Fu per questo che il vicario, una settimana dopo
la denuncia, interrogò il Margutto, scoprendo la reale provenienza della missiva. Riguardo a quest’ultima, Francesco
diede risposte molto caute: non soltanto ne ignorava il contenuto – dato che
non sapeva leggere – ma non avrebbe
saputo nemmeno riconoscerla, perché
quando l’aveva consegnata era buio.
Per la verità, anche Bartolomeo aveva
dovuto farsi leggere la lettera da qualcun altro. Ma quando l’ebbe udita, capì
che si trattava di «una cittatione in valle
Josaphat». Avendo saputo – disse – che
la composizione e la trasmissione di
quel tipo di documenti era stata proibita dalle autorità vescovili, Bartolomeo
si era recato dal vicario per ottenere
giustizia.
Lasciando per ora in sospeso la questione della citazione e del suo signifi-
cato – che comunque verrà affrontata
tra breve – rivolgiamoci ai motivi di
conflitto tra il Colleoni e il Mangili, il
cui esito era stato appunto la consegna di quel documento contro cui il
Colleoni reclamava3. Le ragioni della
controversia risalivano al periodo in
cui Cristoforo, padre di Bartolomeo
Mangili, in qualità di erede di Cristoforo
Farinelli, aveva dato a Bartolomeo
Colleoni «nonnullas petias terre iacentes in territorio de Carvico». Quei terreni erano stati trasferiti a Bartolomeo
in sostituzione del legato di quattrocento scudi che Cristoforo Farinelli aveva
lasciato a Dorotea, moglie dello stesso
Bartolomeo (che con ogni probabilità era sua figlia). Proprio per questo,
all’atto della cessione della terra, era
stato deciso che, dopo un certo periodo di tempo, Cristoforo Mangili avrebbe
potuto riscattarla. Tali accordi, tuttavia,
erano stati stabiliti soltanto in forma
orale, alla presenza di Dorotea. Perciò
quando Bartolomeo Mangili, erede di
Cristoforo, aveva cercato di far valere il
suo diritto di riavere la terra pagando i
quattrocento scudi, vedendosi opporre
un rifiuto da parte di Bartolomeo e di
Dorotea, non era riuscito a dimostrare la fondatezza di quella richiesta.
Dorotea, infatti, negava di essere stata
presente e di aver acconsentito all’accordo.
La controversia tra Colleoni e Mangili
era dunque in una fase di stallo. Stante
il rifiuto di Dorotea, Bartolomeo Mangili
si trovava nell’impossibilità di esibire
una prova che potesse essere considerata valida in un tribunale. Le alternative che egli aveva di fronte erano
quindi sostanzialmente due. La prima,
ovviamente, consisteva nel rassegnarsi
alla situazione che si era creata, cioè
tenersi il denaro e rinunciare alla terra.
Ma per il Mangili questa sarebbe stata
una grave ingiustizia. Non restava allora
che esercitare pressione su Bartolomeo
e sua moglie affinché si persuadessero
a rispettare gli accordi sul riscatto dei
terreni. Ma come fare, se le vie legali
erano precluse? Con ogni probabilità, la
condizione sociale del Mangili non era
tale da consentirgli di agire in modo
credibile ed efficace sul Colleoni; d’altra parte, anche ammesso che il ricorso alla violenza fosse stato concepibile, il rischio era quello di scatenare
una faida, o, nella migliore delle ipotesi, di subire un processo penale. Così
Bartolomeo Mangili decise di far consegnare ai suoi avversari una citazione
nella valle di Giosafat.
In spirito, nella valle di Giosafat
Era una prassi abbastanza diffusa in
diocesi di Bergamo: tra il 1520 e il
1591 sono noti circa 130 casi di controversie in cui una delle parti inviò
all’altra un documento di quel genere4. L’uso delle citazioni nella valle di
Giosafat è comunque attestato in altre
parti d’Italia e d’Europa – soprattutto
in area tedesca e svizzera – a partire
dal tardo Medioevo ed è sopravvissuto
fino all’Ottocento. Con ogni probabilità, si trattava di una particolare variante dell’usanza generica e diffusissima
di minacciare i nemici – specie quelli
contro cui si era impotenti – ricordando loro che avrebbero dovuto rendere
conto del loro comportamento davanti
a Dio nel giorno del giudizio. Le attestazioni finora note riguardano soprattutto persone condannate a morte ingiustamente, che, prive della possibilità
di appellarsi a un tribunale terreno,
invocavano il giudizio di Dio citando il
loro giudice a comparire nella valle di
Giosafat – anche se in alcuni casi ciò
accadeva invece nel corso di contese
di tipo “civile”, più simili a quella che
abbiamo appena descritto. Raramente,
tuttavia, le fonti menzionano l’esistenza
di citazioni in forma scritta; di solito il
condannato pronunciava a voce il suo
appello5. Proprio qui risiede la peculiarità della documentazione bergamasca.
Oltre alle testimonianze giudiziarie,
dovute al fatto che quell’uso era considerato superstizioso e quindi illegale
da parte delle autorità ecclesiastiche,
si sono conservati i testi di 26 citazioni nella valle di Giosafat, tra cui anche
quella fatta recapitare da Bartolomeo
Mangili a Bartolomeo Colleoni il 19
dicembre 1563, che riportiamo in
appendice6.
Osserviamo innanzitutto i suoi caratteri
estrinseci. Si tratta di un testo scritto,
redatto in lingua latina. Queste prime
due caratteristiche impediscono di
considerare il nostro documento, così
come quasi tutte le altre citazioni nella
valle di Giosafat di area bergamasca,
come espressioni immediate di quella
che fino a non molto tempo fa veniva chiamata “cultura popolare”. Come
minimo, l’estensione di questi documenti richiedeva la presenza di figure
di mediazione e, in particolare, di professionisti della scrittura: ecclesiastici o,
come nella maggior parte dei casi in cui
le fonti ci consentono di avere informazioni in proposito, notai7. Quand’anche
non sia possibile accertare l’intervento
di questi mediatori culturali – in alcuni
Vita religiosa _ 355
Testo della citazione della Valle di Giosafat.
casi, come quello che stiamo descrivendo ora, la rozzezza della scrittura
potrebbe anche essere indizio del contrario – la struttura elaborata del documento implicava quasi sicuramente
l’uso di formulari, su cui tuttavia al
momento non è possibile avere alcuna
informazione. Resta il fatto, comunque,
che i redattori delle citazioni nella valle
di Giosafat dovevano avere una buona
confidenza con il latino delle sacre
Scritture, ma anche con quello degli
atti legali.
Il testo, infatti, presenta una struttura
in parte analoga a quella di molti atti
ufficiali provenienti dalle cancellerie
laiche o ecclesiastiche8. A una invocatio – in questo caso alla Trinità – segue
un preambolo o arenga, in cui viene
enunciato il principio generale dal quale
discende l’atto concreto contenuto nel
documento, espresso attraverso due
citazioni dalle Scritture. Subito dopo
viene la narratio, in cui si espongono
le ragioni specifiche che avevano persuaso il committente della citazione
a ricorrere a tale mezzo; ovviamente
in questo caso si trattava della vicenda della terra che Bartolomeo Mangili
non era riuscito a riavere indietro dal
Colleoni. Alla parte narrativa – dopo
una nuova giustificazione teologica del
proprio operato, su cui torneremo –
segue non una dispositio, come nella
maggior parte dei documenti cancellereschi, bensì una richiesta («hortatur et
rogat») alla parte avversa di addivenire
entro un mese a un accordo che prevedesse la restituzione della terra (questa
fu quasi certamente la ragione per cui
il Colleoni aveva aspettato esattamente
un mese prima di presentarsi davanti al
vicario vescovile). Tale richiesta, tuttavia – come se fosse stata una dispositio
– è seguita da una sanctio, o meglio
da un insieme articolato di sanctiones
che contiene la citazione vera e propria
e che pertanto può essere considerato la parte principale del documento.
Trascorso il mese senza che la parte
avversa acconsentisse alle richieste,
Bartolomeo e sua moglie Dorotea sarebbero stati infatti citati «ex parte iustitie
omnipotentis Dei» a comparire entro un
anno «in spiritu» di fronte a Dio giudice,
per rispondere alle accuse del Mangili
e per ricevere «quod iustum fuerit»,
ossia senza dubbio la punizione per il
loro malvagio comportamento. Come
«advocatos et defensores» di fronte a
Dio, il Mangili nominava la Madonna,
san Pietro, san Paolo, sant’Antonio da
Padova e san Michele arcangelo. Infine,
come sanctio aggiuntiva, si auspicava
che, se il Colleoni e la moglie si fossero
mostrati ostinati come il Faraone biblico, venissero inghiottiti da una voragine
e scendessero vivi all’inferno, come era
accaduto a Core, Datan e Abiron9.
In questo documento – unico caso in
tutto il corpus di citazioni a me note
– manca la menzione del luogo in cui
la parte avversa avrebbe dovuto comparire di fronte a Dio, che è all’origine
del nome con cui questi scritti erano
conosciuti – col quale comunque, come
abbiamo visto, anche Bartolomeo
Colleoni aveva designato senza indugio la lettera a lui indirizzata: la valle di
Giosafat. Si tratta, com’è noto, del luogo
in cui, secondo una tradizione risalente
almeno ai primi secoli dell’era cristiana, si verificherà il secondo avvento di
Gesù, che vi celebrerà anche il giudizio
universale10.
Per quanto riguarda invece il momento in cui il giudizio di Dio si sarebbe
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verificato e le modalità con cui la parte
avversa avrebbe dovuto comparire di
fronte all’Onnipotente, la citazione
che Bartolomeo Mangili aveva consegnato al Colleoni non si differenziava
da tutte le altre a me note. Benché nel
preambolo del documento, attraverso
una doppia citazione di san Paolo (Rm
14,10 e 2Cor 5,10), venisse menzionato il giorno del giudizio, questo riferimento temporale remoto scompariva
nella parte finale. Alle persone citate
veniva infatti assegnato un termine preciso e relativamente vicino (in questo
caso un anno) trascorso il quale esse
avrebbero dovuto comparire in spiritu
di fronte al tribunale di Dio. Mentre non
è chiaro se davanti a Dio avrebbe dovuto convenire anche chi aveva emanato la citazione, sembra verosimile che
quella convocazione in forma disincarnata implicasse di fatto la morte delle
persone oggetto della citazione, il che
spiega almeno in parte la proibizione
delle autorità ecclesiastiche11.
Sospendendo per il momento l’analisi
riguardo all’invocazione (o addirittura
propiziazione) della morte del proprio
nemico, che almeno per quest’aspetto sembra avvicinare le citazioni nella
valle di Giosafat alla pratica dei cosiddetti Mordbeten in uso nel mondo tedesco, soffermiamoci invece sulla sequenza morte-giudizio12. Mentre il richiamo
alla valle di Giosafat evoca immediatamente il giudizio universale – una
credenza testimoniata da migliaia di
testi e di immagini a partire dal primo
cristianesimo – l’idea di un tribunale
divino di fronte a cui gli uomini compaiono immediatamente dopo la morte
sembra avvicinare questi documenti
alla dottrina del “giudizio particolare”.
Si tratta di un dogma che – benché
provvisto di qualche fondamento nelle
sacre Scritture – si costruì e si precisò
molto più lentamente rispetto all’altro13. E’ molto difficile capire attraverso quali canali una credenza del genere possa essere confluita nella pratica
delle citazioni nella valle di Giosafat.
Possiamo però osservare che fu a partire dal Trecento e, soprattutto, dal
Quattrocento, che per la prima volta il
tema del giudizio subito dopo la morte
cominciò a farsi strada in modo deciso
nell’arte e nella letteratura devozionale.
Nelle artes moriendi, così come in molte
altre forme della pietas tardomedievale,
si esprimeva quella paura della morte
in quanto “resa dei conti” che nelle citazioni veniva usata come arma di ricatto
nei confronti dell’avversario; possiamo
inoltre osservare che una delle prime
opere dedicate interamente al giudizio
particolare fu un dialogo di Dionigi il
Certosino, composto nel 1471, in cui
si trovano alcune assonanze testuali
con le citazioni nella valle di Giosafat14.
Si tratta naturalmente di un nesso
ancora molto generico e che andrà
ulteriormente indagato, ma che forse
– nell’assenza di riferimenti precisi –
può fornire un ancoraggio cronologico
preferibile alla totale a-temporalità che
solitamente caratterizza le cosiddette
“superstizioni”, popolari o meno che
siano. A questo possiamo aggiungere
il fatto che la prima testimonianza finora nota di appello al tribunale di Dio
contenente la menzione della valle di
Giosafat e un temine per la comparizione riguarda una condanna a morte
avvenuta a Zurigo nel 148215.
Stratigrafia di un testo
Proprio per evitare un’eccessiva genericità, prima di tornare al significato
complessivo della pratica delle citazioni nella valle di Giosafat, possiamo
tentare di individuare, se non proprio
“l’origine”, almeno dei possibili paralleli
testuali di alcune formule usate. Per il
momento ci limiteremo a indicarli e a
segnalarne la probabile provenienza,
poi cercheremo di individuare il loro
significato all’interno del documento e
dell’interpretazione complessiva che è
possibile avanzare. Naturalmente, l’analisi andrà estesa a tutte le citazioni
presenti nel manoscritto bergamasco.
L’arenga “Quoniam ut ait apostolus”,
che contiene, come abbiamo visto, due
citazioni dalle lettere di san Paolo, corrisponde quasi alla lettera all’incipit della
formula che il Concilio Lateranense IV
del 1215 prescriveva ai vescovi per le
lettere di indulgenza concesse ai fedeli
durante l’ostensione di reliquie. Si trattava in realtà della ripresa di formule
molto diffuse risalenti al XII secolo, con
cui di solito papi e vescovi concedevano
beni di natura spirituale a coloro che
elargivano fondi per l’edilizia ecclesiastica. La sua diffusione comunque continuò e, ovviamente, aumentò moltissimo dopo il concilio; in qualche caso
venne anche usata dalle cancellerie
laiche16.
A questa formula, nel testo del nostro
documento, segue un altro brano contenente una citazione paolina, che evocava (e invocava) la capacità divina di
conoscere le cose occulte: «apud Deum
nullum latet secretum, sed omnia eius
conspectui nuda et aperta sunt»17. Si
trattava di una formula liturgica, usata
nell’ordinario della messa e diffusa in
una grande quantità di sacramentari e
messali provenienti di tutta l’Europa
occidentale. In particolare, essa veniva
recitata nella collecta introduttiva della
Messa dello Spirito Santo18. Formule
simili, anche se non del tutto identiche, ricorrevano anche nella liturgia
che accompagnava i “giudizi di Dio” o
ordalie, con le quali, come vedremo, le
citazioni nella valle di Giosafat avevano
un rapporto di forte analogia19.
Infine, la sorte di Core, Datan e Abiron,
che si erano ribellati all’autorità di Mosè
e di Aronne e che per questo erano stati
puniti da Dio venendo inghiottiti da una
voragine, si ritrova in diverse categorie
di documenti. Innanzitutto, i loro nomi
e la loro vicenda venivano ricordati
nelle sanctiones e negli anatemi presenti nelle cosidddette Formulae Marculfi
(VII sec.) e poi anche in formulari di
età carolingia e di epoche successive,
attingendo ai quali venivano compilati
gli atti ufficiali delle cancellerie laiche
ed ecclesiastiche. Essi erano menzionati anche nei clamores, ossia nei rituali
di maledizione con cui gli ecclesiastici
dell’alto medioevo invocavano il castigo di Dio su coloro che li danneggiavano o si impadronivano dei loro beni.
Anch’essi, infine, venivano citati nella
liturgia delle ordalie20.
Il nostro documento, così come tutte le
altre citazioni nella valle di Giosafat –
che peraltro presentano varianti anche
molto complesse che qui non possiamo trattare in dettaglio – si può dunque considerare una mescolanza o una
sedimentazione di strati diversi, che
non sappiamo ancora quando giunsero
per la prima volta a combinarsi.
Il primo aspetto, come abbiamo visto,
derivava dalla dottrina e dalla pratica
delle indulgenze. In un certo senso, le
citazioni nella valle di Giosafat possono
essere considerate delle “indulgenze al
contrario”: mentre le indulgenze propriamente dette conferivano (o propiziavano) un premio spirituale che
seguiva un’elargizione di beni materiali,
questi documenti invocavano il giudizio di Dio e la dannazione eterna su
persone che si erano rese colpevoli di
aver danneggiato materialmente il loro
prossimo.
Altri aspetti delle citazioni nella valle di
Giosafat le rendevano simili alle maledizioni monastiche. Da un punto di vista
che possiamo chiamare “funzionale”,
si trattava infatti anche in questo caso,
come in quello dei clamores, della ricer-
Vita religiosa _ 357
Testo della citazione della Valle di Giosafat.
ca di un aiuto soprannaturale contro
un avversario su cui non si era riusciti
ad aver ragione con mezzi umani (più
specificamente, nel caso delle citazioni, con mezzi legali). Di qui anche
l’uso delle formule arcaiche di sanctio
e – anche se in questo documento non
emerge in modo particolarmente evidente – dei salmi in cui l’aiuto di Dio
veniva invocato contro i nemici21.
Per lo stesso motivo, questi documenti
presentano un’analogia ancora più chiara con la pratica e le formule dell’ordalia o “giudizio di Dio”22. Anche l’ordalia
consisteva nell’affidare a Dio un caso
giudiziario che non aveva potuto essere
risolto dai giudici terreni. Le citazioni
nella valle di Giosafat, anzi, se è valida
l’interpretazione che abbiamo avanzato
più sopra, invocavano il giudizio divino
in due riprese: dapprima con la morte
dell’avversario e la sua comparsa in spirito di fronte al tribunale di Dio entro
un certo termine, in seguito col giudizio
di condanna vero e proprio.
Queste analogie rendono ragione
anche del fatto che molte citazioni
nella valle di Giosafat, diversamente
da quella che illustriamo qui, abbiano
più la struttura di una preghiera che di
un atto legale, nonché del ricorrere in
esse di formule tratte dalla liturgia23.
Sia le ordalie che le indulgenze, d’altra
parte – a prescindere dal fatto che le
prime venissero proibite finendo con
l’estinguersi e le seconde siano sopravvissute fino ad oggi – rappresentano
quel peculiare tipo di commistione tra
diritto e religione che stava a fondamento della cristianità occidentale tra
i secoli centrali del Medioevo e l’inizio
dell’età moderna24.
Le citazioni nella valle di Giosafat
avevano dunque la funzione di dare
voce al bisogno di giustizia di uomini
e donne che non riuscivano a trovare udienza nei tribunali terreni, per
diversi motivi: in questo caso, come
abbiamo visto, si trattava della mancanza di prove; in altri poteva essere
la mancanza di denaro per affrontare
una causa legale; in altri ancora, l’incapacità di districarsi tra giudici, avvocati e leggi di fronte a un avversario
molto più esperto in quel campo25. In
un certo senso, esse possono essere
considerate una versione “quotidiana”
– non necessariamente una banalizzazione – di quel «grido di giustizia degli
impotenti» che emerge dai salmi in cui
la giustizia di Dio veniva invocata contro i malvagi26. Naturalmente, non si
tratta qui di giudaismo biblico, bensì
di un’espressione della religiosità tardomedievale, caratterizzata dalla commistione tra il giuridico e il religioso a
cui abbiamo appena accennato. Fatte
consegnare come un vero e proprio
precetto di comparizione – in molti
casi servendosi di un pubblico ufficiale – le citazioni nella valle di Giosafat
facevano appello non soltanto a Dio e
al suo giudizio, ma anche alla coscienza
di chi le riceveva. D’altra parte, proprio
come accadeva nella giustizia del tardo
medioevo e della prima età moderna,
all’avversario veniva offerta la possibilità di un accordo che interrompesse
l’azione giudiziaria. La giustizia di Dio,
insomma, al pari di quella degli uomini,
poteva venire usata come strumento
per fare pressione su un avversario, più
che come sistema di premi e punizioni
per buoni o cattivi comportamenti (in
buona sostanza, avrebbe detto Mario
Sbriccoli, come strumento di “giustizia
negoziata” anziché di “giustizia egemonica”)27.
Forse fu proprio questo aspetto, che
umanizzava eccessivamente la giusti-
358 _ Capitolo primo
zia divina, oltre naturalmente a quello della maledizione nei confronti del
prossimo, a indurre le autorità ecclesiastiche bergamasche a vietare le citazioni nella valle di Giosafat e a perseguire
chi ne faceva uso. Così come le ordalie,
l’usanza delle citazioni cominciò a venire considerata una forma di “superstizione”. Questo mutamento, tuttavia,
al contrario che per le ordalie, dovette
verificarsi in modo lento e incompleto,
anche se per il momento la mancanza
di testimonianze rende difficile ricostruire la storia nei dettagli. Con ogni
probabilità, sulla repressione delle citazioni nella valle di Giosafat influì anche
la divisione della cristianità europea
verificatasi con la Riforma protestante.
Nel Settecento, teologi e giuristi di area
evangelica consideravano quell’uso
un residuo delle “superstizioni papistiche” e della loro intrinseca malvagità.
Per la verità, come abbiamo appena
visto, l’uso delle citazioni veniva punito
anche dalle autorità cattoliche; e tuttavia vi fu almeno un teologo – bergamasco, non certo per caso (il canonico Giovan Battista Terzi)– che scrisse
un trattato per difenderlo. E con ogni
probabilità non è un caso nemmeno
che il vescovo più deciso ad estirpare
quella “superstizione” dalla diocesi di
Bergamo fosse stato Vittore Soranzo,
di cui sono fin troppo note le tendenze filo-luterane. Le testimonianze più
tardive della pratica – orale – della
citazione nella valle di Giosafat, d’altra
parte, provengono dai cantoni cattolici
della Svizzera tedesca28.
Questa parziale diversità di esiti nella
repressione di una “superstizione” rinvia a un tratto fondante della teologia
luterana, ossia all’idea della giustizia
di Dio. Semplificando in modo estremo, si può dire che mentre per il fedele cattolico Dio si pone sullo stesso
piano degli uomini e la sua giustizia
è solo “quantitativamente” diversa
dalla nostra (ha cioè la possibilità di
vedere le cose occulte e di scrutare
cuori e coscienze, nonché la forza
per imporsi), ma è retta dagli stessi
principi, per Lutero e gli altri riformatori invece Dio non agisce secondo i
dettami dell’Etica di Aristotele o del
Codice di Giustiniano29. Tra le due giustizie, umana e divina, c’è un abisso,
che non l’uomo, ma soltanto Dio può
colmare. Naturalmente il corollario
di quest’affermazione è che – almeno idealmente – al fedele evangelico
vittima di un’ingiustizia non restava
nemmeno la possibilità di invocare
concretamente la giustizia di Dio sui
suoi persecutori. D’altra parte, l’umanizzazione di Dio e la sua trasformazione in un giudice d’appello per le
vicende terrene - e persino per le contese patrimoniali - rischiava di cancellare Dio dall’orizzonte dell’uomo nel
senso opposto.
Note
1
Appendice
Citazione nella valle di Giosafat fatta
consegnare da Bartolomeo Mangili
di Carvico a Bartolomeo Colleoni di
Vanzone (dicembre 1563)
A messer Bartolomeo di Coleoni da Vanzone suo quanto
fratello carissimo/ In Vanzone30
In nomine sancte et individue Trinitatis Patris, Filii
et Spiritus Sancti, amen. Quoniam, ut ait Apostolus,
omnes stabimus ante tribunal Christi31 in die illa tremebundi iudicii, recepturi sive bonum, sive malum, et
prout in corpore nostro gesserimus32, et quoniam apud
Deum nullum latet secretum33, sed omnia eius conspectui nuda et aperta sunt34, ideo ad illius infalibilem
iustitiam recurrit Bartholomeus quondam Christofori de
Mangilis de Carvico et constitutus coram imagine pietatis domini nostri Iesu Christi lachrymabiliter conqueritur
adversus Bartholomeum de Cachinettis35 de Vanzono36
et Dorothea(m) eius uxorem pro eo quod alias idem
Christoforus uti eredes37 hereditatis iacentis Christofori
Farinelli dedit Bartholomeo predicto nonnullas petias
terre iacentes in territorio de Carvico in solutum scutorum quattuorcentum alias per Christoforum Farinellum
et Bartholomeum eius filium legatorum uxori ipsius
Bartholomei supranominate, reservato certo ter(min)o
ad eas redimere valendum, cui reservationi fuit presens
et consentiens predicta uxor Bartholomei, licet modo
id neget, et id negando contra omne conscientie debitum et in preiudicium salutis anime sue et in grave
damnum ipsius Christofori conquerentis. Quare, cum
suprascriptus conquerens propter probationis defectum
non speret apud iudices huius seculi consequi iustitie
complementum, intendit ad auxilium altissimi qui solus
pauperi, vidue, pupillo et indebite oppressis factus est
adiutor 38, confugere. Unde per virtutem charitatis
qua nos invicem diligere tenemur, hortatur et rogat
eosdem iugales ut in termino unius mensis proxime
venturi post praesentium intimacionem velint dictas
terras eidem Bartholomeo conquerenti restituisse,
parato ipsis iugalibus reddere dictos scutos quatuorcentum una cum expensis instrumentorum aut cum eo
amicabiliter composuisse. Alioquin, si dictum mensem
labi permiserint sine huiusmodi restitutione, ex nunc
prout ex tunc ex parte iustitie omnipotentis Dei citantur
dicti iugales quatenus infra unum annum immediate
futurum a lapsu dicti mensis, qui annus illis pro omni
peremptorio termino39 prefigitur, compareant in spiritu
coram infalibili illo iudice Deo apud quem non prevalebunt preces, precium, favor, aut aliqua alia humana
gratia40 ad eidem conquerenti super veritate premissorum respondendum et quod iustum fuerit reportandum,
coram quo omnipotenti Deo invocat in suos protectores,
advocatos et defensores immaculatam Dei genitricem
Mariam, beatos apostolos Petrum et Paulum et sanctum
Antonium de Padua et Michaelem archangelum, quos
devotissime rogat et obsecrat per viscera misericordie
Dei nostri Iesu Christi dignentur sibi in premissis adesse
et patrocinari. Ceterum, si dicti iugales animo fuerint
obstinato imitati Pharaonis duriciem, illis eveniat sicuti
etiam evenit Chore, Dathan et Abyron quos41 ob eorum
pertinaciam terra sustinere non valuit, sed viventes in
infernum descenderunt42. Laus Deo.
2
3
4
5
6
(Bergamo, Archivio della Curia Vescovile,
Citazioni in Vallem Josphat e relativi processi,
cc. 303r-304r)
Tutte le notizie sulla vicenda si ricavano dal procedimento aperto dal vicario vescovile in seguito alla denuncia
di Bartolomeo Colleoni del 19 gennaio 1564 (che negli
atti viene chiamato anche “della Melanesa”) in ASDB,
Citazioni in Vallem Josphat e relativi processi, cc. 302r-v;
l’interrogatorio di Margutto ivi, 305r-v. Il 16 ottobre 1564
il Mangili venne convocato dal vicario vescovile in quanto
era incorso nella pena della scomunica e di cinquanta
scudi di multa prevista per gli autori delle citazioni nella
valle di Giosafat in un editto emanato dal vescovo Vittore Soranzo l’11 maggio 1546 (sulle citazioni vedi infra);
il Mangili peraltro oppose al mandato di comparizione
eccezioni di natura non specificata (25 ottobre 1564)
ivi, c. 306r. Il testo dell’editto si può leggere ivi, Lettere
Pastorali, b. 1, vol. 1, c. 61r; cfr. M. Firpo, Vittore Soranzo
vescovo ed eretico. Riforma della chiesa e Inquisizione
nell’Italia del Cinquecento, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp.
212-213. Ringrazio sentitamente Gabriele Medolago per
il generoso aiuto nella trascrizione dei testi e per le numerose segnalazioni di documenti e bibliografia.
Che si trattasse dell’Assonica si ricava da altri procedimenti nello stesso manoscritto. Secondo un elenco di
vicari vescovili di mano di Pier Antonio Uccelli premesso
al volume delle Lettere Pastorali citato sopra alla nota 1,
infatti, l’Assonica fu vicario soltanto dal 1551 al 1553. Su
di lui, sul suo legame col Soranzo e sui sospetti di eresia
che continuarono a perseguitarlo, fino alla convocazione
al Sant’Ufficio romano tra il 1558 e il 1559 (che non
ebbe conseguenze con ogni probabilità soltanto grazie
alla morte di papa Paolo IV) cfr. M. Firpo-S. Pagano, I processi inquisitoriali di Vittore Soranzo (1550-1558). Edizione
critica, t. I, Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano,
2004, pp. 222-224n. Nel novembre del 1576 l’Assonica
faceva ancora parte del capitolo della cattedrale.
Quanto segue si ricava dalla narratio contenuta nella
citazione, ASDB, Citazioni in Vallem Josphat e relativi
processi, cc. 303r-304v (riportata integralmente in Appendice).
Per la precisione, 123 casi si trovano nel volume citato
alla nota precedente, che con ogni probabilità era una raccolta di documenti rilegati assieme a posteriori dall’abate
Uccelli. Altre attestazioni in ASDB, Vacchetta 1528-1533
- cause civili, 2, c. 161v (28 marzo 1533), ivi, Vacchetta
1540-45 - cause civili, 5, c. 106r (20 aprile 1542), 108v
(12 maggio 1542), e 145v (11 aprile 1543) ; ivi, Vacchetta
1564-66 - Cause civili, 9, c. 68r (3 agosto 1565); ivi, Vacchetta 1580-82 - cause civili, 15, c. 47r (17 maggio 1580).
Fa eccezione il testo di Giovan Battista Terzi (vedi infra). Oggi quasi completamente dimenticate, le citazioni
nella valle di Giosafat, o comunque davanti al tribunale
di Dio, nel corso dei secoli hanno attratto l’attenzione di
numerosi eruditi e studiosi. Per limitarci all’essenziale
– sul resto riferirò in una futura monografia: G. B. Terzi,
Il rimedio sopremo del quale può lecitamente l’huomo valersi contra le segnalate ingiurie [...]. Nel quale, tra varie
maniere di provocare l’avversario al Tribunale di Dio, principalmente si disputa della citatione alla Valle di Giosafat,
Bergamo, Comin Ventura, 1596 (su questo testo, cfr. ora
G. Dall’Olio, Giustizia degli uomini, giustizia di Dio: note
su un trattato di ine Cinquecento, in Religione, scritture
e storiograia. Omaggio ad Andrea Del Col, a cura di Giuliana Ancona e Dario Visintin, Montereale Valcellina
[PN], Circolo Culturale Menocchio, 2013, pp. 73-96);
Christian Herold, De provocatione ad judicium in Valle
Josaphat, Noribergae, typis Simonis Halbmayeri, 1624;
Johann Ludwig Hannemann, Zacharias Pontifex, i.e. commentarius de appellatione ad vallem Josaphat, Hamburgi,
apud Gottfried Liebezeit, 1696; Christian Ebeling, Tractatus de provocatione ad judicium Dei, sive de probationibus
quae ieri olim solebant per juramentum [...] &denique per
citationem ad tribunal Dei, Lemgoviae, sumptibus Henrici
Wilhelmi Meyeri, 1708; Christian Faber, Schediasma de
appellatione ad tribunal supremi in coelo judicis quae vulgo
dicitur citatio seu Provocatio in vallem Josaphat oder Vorladung und Forderung in das Thal Josaphat und vor den Richterstuhl Christi, Tubingae, Cotta, 1730; S. Hardung, Die
Vorladung vor Gottes Gericht. Ein Beitrag zur rechtlichen
und religiösen Volkskunde, Bühl-Baden, Konkordia, 1934;
L. Carlen, Die Vorladung vor Gottes Gericht nach Wallisen
Quellen, “Schweizerisches Archiv für Volkskunde”, 52
(1956), pp. 10-18; G. Dall’Olio, La provocatio ad vallem
Josaphat tra diritto e religione, in Riti di passaggio, storie di giustizia. Per Adriano Prosperi, vol. III, a cura di
Vincenzo Lavenia e Giovanna Paolin, Pisa, Edizioni della
Normale, 2011, pp. 283-290.
I testi si trovano nel manoscritto citato alla nota 1, cc. 1r
(1520), 2r-v (1523), 3r-4r (1525), 159r-160r (1546), 201r202r (s.d., ma 1550), 207r-209v (s.d., ma 1551), 214r-v
(1552), 224r-v (1553), 225r-226r (1523), 237r-v (s.d., ma
1555), 242r-v (s.d., ma 1555), 258r-259r (s.d., ma 1557),
Vita religiosa _ 359
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265r-266r (1557), 268r-269r (1557), 303r-304r (s.d., ma
1563), 314r-v (1567), 329r-v (s.d., ma 1571), 331r-v (1572),
342r-v (1574), 344r-v (1574), 358r-v (s.d.), 369r-v (s.d.),
370r (s.d.), 372r-v (s.d.), 374r-v (s.d.), 376r-377r (s.d.).
Cfr. ad es. L. Allegra Il parroco: un mediatore fra alta e
bassa cultura, in Storia d’Italia. Annali 4. Intellettuali e
potere, Torino, Einaudi, 1981, pp. 895-947; sul notariato L. Faggion, Il notaio, la società e la mediazione in età
moderna nelle storiograie francese e italiana: un confronto,
“Acta Histriae” 16, 2008, pp. 527-544 e la bibliografia
ivi citata. Dall’analisi degli atti processuali bergamaschi
relativi alle citazioni apprendiamo ad esempio che il
notaio Telamone Mora stese personalmente la citazione
consegnata a Bartolomeo Vailotti nel 1546. Egli peraltro
dichiarò al giudice: «Io la ho fatta mi da mia posta et
ho tolto la forma da altri simili libelli mandati da altre
persone e ne ho doi o tre copie in casa za doi o tre anni
fa»; ASDB, Citazioni in Vallem Josphat e relativi processi,
cc. 152r-157v (la citazione a c. 154r).
Sulla partizione diplomatica dei documenti cfr. ad es. H.
Bresslau, Manuale di diplomatica per la Germania e l’Italia,
Roma, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali – Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, 1998, vol. I, pp. 8 ss.
La “durezza di cuore” del Faraone – che era stata tra
l’altro oggetto di polemica tra Erasmo e Lutero riguardo al libero arbitrio – in Es 7,13 e 9,12; l’episodio di
Core, Datan e Abiron o Abiràm, che si erano ribellati
all’autorità di Mosè e di Aronne, occupa tutto Nm 16.
Sulla valle di Giosafat i riferimenti possibili sono moltissimi; qui mi limito soltanto a uno dei più recenti, che
contiene ampie indicazioni bibliografiche: T. N. Hall, Medieval Traditions about the Site of Judgment, in A. J. Frantzen (ed.), Four Last Things: Death, Judgment, Heaven, and
Hell in the Middle Ages, Essays in Medieval Studies, vol. 10,
Chicago, IMA, 1994, pp. 79-97 (si veda comunque anche Hardung., Vorladung, pp. 55-65). Com’è noto, la denominazione trae origine dalla trasformazione in nome
proprio dell’espressione “emeq jehosaphat”, ossia “valle
dove Dio giudica” usata dal profeta Gioele (3,1-2 e 3,12).
A partire dal IV secolo, la valle di Giosafat cominciò a
venire identificata, tra gli altri luoghi possibili, con la valle
del Kidron, che separa Gerusalemme dal Monte degli
Ulivi. Da allora, essa è presente in quasi tutti i resoconti
di viaggio e nelle guide per i pellegrini in Terrasanta. Alle
fonti citate da Hardung e Hall si può aggiungere il Viaggio
in Terrasanta di Santo Brasca, 1480, con l’Itinerario di Gabriele Capodilista, 1458, a cura di Anna Laura Momigliano
Lepschy, Milano, Longanesi, 1966, pp. 77-78 e 191-192.
Del resto, così avveniva puntualmente nei racconti delle
citazioni pronunciate dai condannati a morte contro i
loro giudici, in cui questi ultimi morivano miracolosamente allo scadere del termine prefissato; cfr. ad es.
Terzi, Rimedio sopremo, cit., pp. 3-4.
Sui Mordbeten (“preghiere omicide”), che includevano
la pratica di recitare per i vivi messe da morti, K. Schreiner, Tot- und Mordbeten, Totenmessen für Lebende.
Todeswünsche im Gewand mittelalterlicher Frömmigkeit,
in: M. Kintzinger, W. Stürner, J. Zahlten (hrsg.), Das andere Wahrnehmen. Beiträge zur europäischen Geschichte.
August Nitschke zum 65. Geburtstag gewidmet, Köln-Weimar-Wien, 1991, pp. 335ss. (che non ho ancora visto);
J. Bossy, La messa come istituzione sociale [1983], in Id.,
Dalla comunità all’individuo. Per una storia sociale dei
sacramenti nell’Europa moderna, tr. it. Torino, Einaudi,
1998, pp. 143-190, in part. pp. 164-166 e nn.; C. Baja
Guarienti, Reggio, 28 giugno 1517. Liturgia di un omicidio,
“Studi storici”, 4/2008, pp. 985-999 (e v. anche infra,
nota *, sull’uso del salmo 109).
Ampia sintesi nella voce Jugement (di J. Rivière), in Dictionnaire de théologie catholique, vol. 8, Paris, 1925, coll.
1722-1828; in part. coll. 1804ss.; per il primo cristianesimo J. N. D. Kelly, Il pensiero cristiano delle origini, tr. it.
2
Bologna, Dehoniane, 1999 (ed. or. London, 1968), pp.
585ss. Il giudizio particolare è tuttora presente nel Catechismo della chiesa cattolica, articoli 1021 e 1022; http://
www.vatican.va/archive/ITA0014/_INDEX.HTM. Nel leggere questi e altri testi va tenuta presente la tendenza dei
teologi di ogni chiesa ad anticipare la formulazione di dottrine che impiegarono in realtà molto tempo a precisarsi.
Sull’accentuazione della paura della morte nel Tre-Quattrocento, sul tema del macabro e sulle artes moriendi in
connessione al giudizio particolare A. Tenenti, Il senso
della morte e l’amore della vita nel Rinascimento, Torino,
2
Einaudi, 1989 (ed. or. 1957), pp. 62ss; P. Ariès, L’uomo
e la morte dal Medioevo a oggi, tr. it. Roma-Bari, Laterza,
1984 (ed. or. Paris, 1977), pp. 121 ss. Il dialogo De particulari judicio in obitu singulorum di Dionigi il Certosino,
sul quale qui non possiamo dilungarci, si apre proprio
con la citazione di 2Cor 5,10, a cui segue un commento:
D. Dionysii Cartusiani Opera omnia. Opera minora, IX, Tornaci, Typis Cartusiae S. M. De Pratis, 1912, pp. 421-488.
Hardung, Vorladung, p. 27, n° 25.
16 Il testo della formula del Lateranense IV in Conciliorum
Oecomenicorum Decreta, edd. G. Alberigo et al., Bologna,
Istituto per le Scienze Religiose, 1973 p. 263; sulla derivazione e la diffusione H. Enzensberger, “Quoniam ut
ait Apostolus”. Osservazioni su lettere di indulgenza nei
secoli XIII e XIV, “Studi Medievali e moderni. Arte, letteratura, storia”, I, 1999, pp. 57-100, in part. pp. 62-63
e nn. Per l’uso da parte di una cancelleria laica si veda ad
es. l’atto con cui l’anti-re dei Romani Guglielmo d’Olanda
confermava il giuspatronato della chiesa di Meiringen
concesso dal suo predecessore ai cavalieri di San Lazzaro
(settembre 1248) in D. Hägermann, J. G. Kruisheer, A.
Gawlik (hrsgg.), Henrici Rasponis et Wilhelmi de Hollandia
diplomata inde ab a. MCCXLVI usque ad a. MCCLI (MGH,
Diplomata Regum et Imperatorum Germaniae, tom. XVIII
pars I), Hannover, Hahn, 1989, pp. 73-74.
17 Cfr. Hb 4,13.
18 L. A. Muratori, Opere, vol. 13/2, Arezzo, per Michele Bellotti, 1772, p. 1106: “Deus, cui omne cor patet, & omnis
voluntas loquitur, & nullum latet secretum”; la ricorrenza
della formula in un gran numero di libri liturgici risulta
evidente dalle fonti citate in E. Moeller, J. M. Clément,
B. Coppieters ‘t Wallant (eds.), Corpus orationum, t. II
(Corpus Christianorum, Series Latina, CLX A), Turnhout,
Brepols, 1993, pp- 131-132 (n° 1135).
19 In particolare, l’idea di Dio come unico possibile “scrutator cordium”, o “renum” (Ps 7,10: “et scrutans corda
et renes Deus”; ma cfr. anche Jerem 17,10, Apoc 2,23
e 1Cor 4,5) ricorre nelle citazioni (ASDB, Citazioni in
Vallem Josaphat, cc. 201r, 206r, 214r, 225r, 374r). Per
la ricorrenza nella liturgia che precedeva le ordalie cfr.
K. Zeumer (ed.), Formulae Merowingici et Karolini aevi.
Accedunt ordines iudiciorum Dei (MGH, Legum, Sectio V:
Formulae), rist. anast. Cambridge, Cambridge University
Press, 2010 [ed. or. Hannover, Hahn, 1886], p. 629; A.
Franz, Die kirklichen Benediktionen im Mittelalter, rist.
anast. Bonn, Nova & Vetera, 2006 (ed. or. Freiburg i.B.,
1909), vol. II, pp. 385, 387.
20 Per le Formulae Marculi e dei periodi successivi, Zeumer,
Formulae, pp. 73, 172, 577 e 593 (in quest’ultimo caso
si tratta della formula di un giuramento); sui clamores
L.K. Little, Benedictine Maledictions. Liturgical Cursing in
Romanesque France, Ithaca-London, Cornell University
Press, 1993 (ad es. pp. 254, 255, 257, 261), ma anche F.
M. Beltran Torreira, Notas en torno a una sancion religiosa
de época visigoda (la maledicion de Core, Datan y Abiron),
“Heresis” 16, 1991, pp. 21-35 (che non ho ancora visto);
M. Zimmermann, Le vocabulaire latin de la malédiction du
IXe au XIIe siècle. Construction d’un discour eschatologique,
“Atalaya”, 5 (1994), numero monografico che ospita gli
atti del convegno “L’invective au Moyen Age. France, Espagne Italie”, Parigi, 4-6 febbraio 1993, pp. 37-55 (per
Core Dathan e Abiron, pp. 42 e 49); A. Garcia y Garcia,
Las imprecaciones en los diplomas Leoneses, ivi, pp. 57-66
(cfr. p. 60; ringrazio Antonella Negri per avermi segnalato
questi contributi). Su questi stessi temi si vedano anche
H. Saradi, Cursing in the Byzantine Notarial Acts: a Form
of Warranty, “Byzantina” 17 (1994), pp. 441-533; A. Feniello, J.-M. Martin, Clausole di anatema e di maledizione
nei documenti (Italia meridionale, Sicilia e Sardegna, X-XII
secolo), “Mélanges de l’École Française de Rome. Italie et
Mediterranée”, 123/1 (2011), pp. 105-127 per le ordalie
Franz, Die kirklichen Benediktionen, II, p. 389.
21 I salmi sono presenti in modo massiccio in tutti testi delle
citazioni nella valle di Giosafat; in particolare, versetti
del salmo 109 (108 secondo la numerazione ebraica)
– il salmo imprecatorio per eccellenza – vengono citati
in ASDB, Citazioni in vallem Josaphat, cc. 4r, 208v-209r
(trascrizione approssimativa di tutto il salmo), 258v, 259r.
Riflessioni profonde e feconde sui salmi “imprecatori” –
benché accompagnate da una radicale incomprensione
di matrice teologico-confessionale nei confronti del cristianesimo popolare dell’età medievale e moderna – in
E. Zenger, Un Dio di vendetta? Sorprendente attualità dei
salmi “imprecatori”, tr. it. Milano, Ancora, 2005 (ed. or.
Freiburg. i.B., 1998); in part. sul salmo 109 si vedano le
pp. 110ss.
22 Sulle ordalie esiste una bibliografia vastissima. Oltre al
datato F. Patetta, Le ordalie. Studio di storia del diritto e
scienza del diritto comparato, Torino, Fratelli Bocca, 1890,
si vedano almeno J. Gaudemet, Les ordalies au Moyen
Age: doctrine, législation et pratique canoniques, “Recueils
de la Societé Jean Bodin”, XVII: La preuve, Bruxelles,
1965, pp. 99-135; C. Morris, Judicium Dei: the Social and
Political Signiicance of the Ordeal in the Eleventh Century,
in D. Baker (ed.) Studies in Church History, 12, Oxford,
Blackwell, 1975, pp. 95-111; R. Bartlett, Trial by Fire and
Water. The Medieval Judicial Ordeal, Oxford, Clarendon
Press, 1980.
23 Si vedano ad es. gli incipit in ASDB, Citazioni in vallem Josaphat, cc. 214r («Iustissime et invectissime [sic] domine
Jesu Christe, cui datum est omne iudicium in celo et in
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terra»), 225r («Clementissime, immortalis et invictissime
Deus»), 258r («Deus Abraam, Deus Isach, Deus Jacob, omnipotens sempiterne Deus»; anche quest’ultima formula,
come quelle che abbiamo elencato più sopra, ricorre nei
formulari della liturgia che accompagnava le ordalie)
H. J. Berman, Diritto e rivoluzione. Le origini della tradizione giuridica occidentale, tr. it. Bologna, Il Mulino, 1998
(ed. or. Cambridge, Mass., 1983); P. Prodi, Una storia della
giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra
coscienza e diritto, Bologna, Il Mulino, 2000. Sono fondamentali, anche se non riguardano specificamente il
medioevo e l’età moderna, le riflessioni contenute nella
raccolta di saggi di H. Kelsen, L’anima e il diritto. Figure
arcaiche della giustizia e concezione scientiica del mondo,
a cura di a. Carrino, Roma, Edizioni Lavoro, 1989 (saggi
apparsi originariamente tra il 1922 e il 1967).
Cfr. ad es. ASDB, Citazioni in vallem Josaphat, cc. 1r, 3r,
214r, 224r. Anche le ordalie potevano essere usate come
un’arma a disposizione della parte più debole in una lite;
Morris, Judicium Dei, p. 110.
Zenger, Un Dio di vendetta?, p. 101.
M. Sbriccoli, Giustizia negoziata, giustizia egemonica: rilessioni su una nuova fase degli studi di storia della giustizia
criminale, in M. Bellabarba, G. Schwerhoff (eds.), Criminalità e giustizia in Germania e in Italia. Pratiche giudiziarie
e linguaggi giuridici tra tardo medioevo ed età moderna,
Bologna, Il Mulino, 2001, pp. 345-364; su paci e perdoni
si veda O. Niccoli, Perdonare. Idee, pratiche, rituali in Italia
tra Cinque e Seicento, Roma-Bari, Laterza, 2007.
Sugli eruditi tedeschi del Settecento e sul canonico bergamasco Giovan Battista Terzi, unico a difendere le citazioni nella valle di Giosafat, ancorché con qualche riserva
sul loro abuso, si veda sopra, nota * (per la proibizione
del Soranzo, vedi sopra, nota *). Sulle testimonianze folkloriche R. Beitl, Im Sagenwald, Neue Sagen aus Vorarlberg,
1953, p. 103 (n° 162); Richard M. Dorson, Folktales Told
Around the World, Chicago, Chicago University Press,
1976, pp. 78-81.
M. Lutero, Il servo arbitrio (1525), a c. di F. De Michelis
Pintacuda, Torino, Claudiana, 1993, pp. 307-308.
L’indirizzo si trova a c. 304v.
Cfr. Rm 14,10.
Cfr. 2Cor 5,10..
Oltre al versetto paolino citato alla nota seguente, si veda,
nel sacramentario gregoriano, la collecta intoduttiva della
Missa de Spiritu Sancto; L. A. Muratori, Opere, vol. 13/2,
Arezzo, per Michele Bellotti, 1772, p. 1106: “Deus, cui
omne cor patet, & omnis voluntas loquitur, & nullum
latet secretum”.
Cfr. Hb 4,13: “et non est ulla creatura invisibilis in conspectu eius; omnia autem nuda et aperta sunt oculis eius”.
Oltre che nell’indirizzo, questo personaggio viene designato col il cognome di “Colleoni” negli atti processuali
relativi alla vicenda (vedi sopra, nota *); l’identità si deduce comunque anche dalle circostanze e dal contesto.
Contrada di Calusco.
Eredes sscr. un un precedente “curator”, canc.
Innumerevoli sono i brani dell’Antico Testamento in cui
Dio viene definito protettore delle vedove e degli orfani;
cfr. tra gli altri Dt 10,18, Ps 9,35 e Ps 145, 9.
Dopo “termino”, “illis”, canc.
Formula giuridica molto usata nei giuramenti e negli
interrogatori dei testimoni. Tra i molti esempi possibili, cfr. Pragmaticae, edicta, decreta, interdicta regiaeque
sanctiones Regni Neapolitani ... Dominicus Alfenus Varius
I.C. recensuit, vol. II, Neapoli, 1772, p. 58, ma anche i
giuramenti degli operai che lavorarono all’opera di Santa
Maria del Fiore nel Quattrocento, digitalizzati in http://
duomo.mpiwg-berlin.mpg.de, ad es. “Bartolomeus Nerii
de Pictis unus ex operariis dicte Opere noviter extractus
ad delationem mei notarii infrascripti iuravit ad sancta
Dei evangelia scripturis corporaliter manu tactis prosequi
facere antiquum modellum cupole magne et eius offitium
bene, legaliter et sine fraude facere et exercere remotis
hodio, amore, prece, pretio et omni humana gratia” (4 novembre 1429). V. anche P. Vigo, Montenero. Guida storicoartistico-descrittiva, con appendice di documenti inediti,
doc. XVI (compromesso fra i PP. Gesuati di Montenero e
Domenico Ceuli con esame di testimoni, 24 marzo 1520,
stile fiorentino): “Interrogatus si hec dixit odio amore
timore prece pretio aut alia aliqua humana gratia, dixit
quod non, sed pro ueritate”; http://www.infolio.it/montenero/montenero13.htm.
Dopo “quos”, “devos”, canc.
Nm, 16; v. sopra, p. * e nota *.