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Da Carvico alla valle di Giosafat

2016, G. Medolago, Carvico alle pendici del Monte Canto

Una lettera sulla soglia di casa nel pomeriggio di domenica 19 dicembre 1563, mentre bartolomeo Colleoni (non il famoso condottiero, ma un suo omonimo, che negli atti viene chiamato anche "della Melanesa") era sulla porta della sua casa di vanzone (frazione del comune di Calusco d'adda), in procinto di uscire, incontrò un tale francesco del ronco, soprannominato Margutto. Questi gli disse che poco prima, venendo da bergamo, aveva a sua volta incontrato su un pascolo due sconosciuti a cavallo; dopo essersi accertati che conosceva bartolomeo, i due gli avevano consegnato una lettera da portargli, cosa che francesco fece appunto in quel momento 1 . in realtà Margutto non aveva detto tutta la verità a bartolomeo. a dargli la lettera era stata una persona che conosceva, bartolomeo di Cristoforo Mangili (alias Cavalero) "deli Pradaci", cioè dei Pradazzi, di Carvico. Questi gli aveva chiesto di recapitarla personalmente al Colleoni; se per caso non l'avesse trovato, avrebbe dovuto restituirgliela. abbiamo la possibilità di conoscere questi eventi con una certa precisione perché il 19 gennaio 1564, esattamente un mese dopo aver ricevuto la lettera, il Colleoni si presentò di fronte al vicario vescovile di bergamo niccolò assonica 2 per denunciare il fatto, dichiarando: «Desidero et voglio si ritrovi il vero et castigar colui l'ha mandata». fu per questo che il vicario, una settimana dopo la denuncia, interrogò il Margutto, scoprendo la reale provenienza della missiva. riguardo a quest'ultima, francesco diede risposte molto caute: non soltanto ne ignorava il contenuto -dato che non sapeva leggere -ma non avrebbe saputo nemmeno riconoscerla, perché quando l'aveva consegnata era buio. Per la verità, anche bartolomeo aveva dovuto farsi leggere la lettera da qualcun altro. Ma quando l'ebbe udita, capì che si trattava di «una cittatione in valle Josaphat». avendo saputo -disse -che la composizione e la trasmissione di quel tipo di documenti era stata proibita dalle autorità vescovili, bartolomeo si era recato dal vicario per ottenere giustizia. lasciando per ora in sospeso la questione della citazione e del suo signifi-

354 _ Capitolo primo DA CARVICO ALLA VALLE DI GIOSAFAT di Guido Dall’Olio UNIVERSITÀ DI URBINO CARLO BO Una lettera sulla soglia di casa Nel pomeriggio di domenica 19 dicembre 1563, mentre Bartolomeo Colleoni (non il famoso condottiero, ma un suo omonimo, che negli atti viene chiamato anche “della Melanesa”) era sulla porta della sua casa di Vanzone (frazione del comune di Calusco d’Adda), in procinto di uscire, incontrò un tale Francesco del Ronco, soprannominato Margutto. Questi gli disse che poco prima, venendo da Bergamo, aveva a sua volta incontrato su un pascolo due sconosciuti a cavallo; dopo essersi accertati che conosceva Bartolomeo, i due gli avevano consegnato una lettera da portargli, cosa che Francesco fece appunto in quel momento1. In realtà Margutto non aveva detto tutta la verità a Bartolomeo. A dargli la lettera era stata una persona che conosceva, Bartolomeo di Cristoforo Mangili (alias Cavalero) “deli Pradaci”, cioè dei Pradazzi, di Carvico. Questi gli aveva chiesto di recapitarla personalmente al Colleoni; se per caso non l’avesse trovato, avrebbe dovuto restituirgliela. Abbiamo la possibilità di conoscere questi eventi con una certa precisione perché il 19 gennaio 1564, esattamente un mese dopo aver ricevuto la lettera, il Colleoni si presentò di fronte al vicario vescovile di Bergamo Niccolò Assonica2 per denunciare il fatto, dichiarando: «Desidero et voglio si ritrovi il vero et castigar colui l’ha mandata». Fu per questo che il vicario, una settimana dopo la denuncia, interrogò il Margutto, scoprendo la reale provenienza della missiva. Riguardo a quest’ultima, Francesco diede risposte molto caute: non soltanto ne ignorava il contenuto – dato che non sapeva leggere – ma non avrebbe saputo nemmeno riconoscerla, perché quando l’aveva consegnata era buio. Per la verità, anche Bartolomeo aveva dovuto farsi leggere la lettera da qualcun altro. Ma quando l’ebbe udita, capì che si trattava di «una cittatione in valle Josaphat». Avendo saputo – disse – che la composizione e la trasmissione di quel tipo di documenti era stata proibita dalle autorità vescovili, Bartolomeo si era recato dal vicario per ottenere giustizia. Lasciando per ora in sospeso la questione della citazione e del suo signifi- cato – che comunque verrà affrontata tra breve – rivolgiamoci ai motivi di conflitto tra il Colleoni e il Mangili, il cui esito era stato appunto la consegna di quel documento contro cui il Colleoni reclamava3. Le ragioni della controversia risalivano al periodo in cui Cristoforo, padre di Bartolomeo Mangili, in qualità di erede di Cristoforo Farinelli, aveva dato a Bartolomeo Colleoni «nonnullas petias terre iacentes in territorio de Carvico». Quei terreni erano stati trasferiti a Bartolomeo in sostituzione del legato di quattrocento scudi che Cristoforo Farinelli aveva lasciato a Dorotea, moglie dello stesso Bartolomeo (che con ogni probabilità era sua figlia). Proprio per questo, all’atto della cessione della terra, era stato deciso che, dopo un certo periodo di tempo, Cristoforo Mangili avrebbe potuto riscattarla. Tali accordi, tuttavia, erano stati stabiliti soltanto in forma orale, alla presenza di Dorotea. Perciò quando Bartolomeo Mangili, erede di Cristoforo, aveva cercato di far valere il suo diritto di riavere la terra pagando i quattrocento scudi, vedendosi opporre un rifiuto da parte di Bartolomeo e di Dorotea, non era riuscito a dimostrare la fondatezza di quella richiesta. Dorotea, infatti, negava di essere stata presente e di aver acconsentito all’accordo. La controversia tra Colleoni e Mangili era dunque in una fase di stallo. Stante il rifiuto di Dorotea, Bartolomeo Mangili si trovava nell’impossibilità di esibire una prova che potesse essere considerata valida in un tribunale. Le alternative che egli aveva di fronte erano quindi sostanzialmente due. La prima, ovviamente, consisteva nel rassegnarsi alla situazione che si era creata, cioè tenersi il denaro e rinunciare alla terra. Ma per il Mangili questa sarebbe stata una grave ingiustizia. Non restava allora che esercitare pressione su Bartolomeo e sua moglie affinché si persuadessero a rispettare gli accordi sul riscatto dei terreni. Ma come fare, se le vie legali erano precluse? Con ogni probabilità, la condizione sociale del Mangili non era tale da consentirgli di agire in modo credibile ed efficace sul Colleoni; d’altra parte, anche ammesso che il ricorso alla violenza fosse stato concepibile, il rischio era quello di scatenare una faida, o, nella migliore delle ipotesi, di subire un processo penale. Così Bartolomeo Mangili decise di far consegnare ai suoi avversari una citazione nella valle di Giosafat. In spirito, nella valle di Giosafat Era una prassi abbastanza diffusa in diocesi di Bergamo: tra il 1520 e il 1591 sono noti circa 130 casi di controversie in cui una delle parti inviò all’altra un documento di quel genere4. L’uso delle citazioni nella valle di Giosafat è comunque attestato in altre parti d’Italia e d’Europa – soprattutto in area tedesca e svizzera – a partire dal tardo Medioevo ed è sopravvissuto fino all’Ottocento. Con ogni probabilità, si trattava di una particolare variante dell’usanza generica e diffusissima di minacciare i nemici – specie quelli contro cui si era impotenti – ricordando loro che avrebbero dovuto rendere conto del loro comportamento davanti a Dio nel giorno del giudizio. Le attestazioni finora note riguardano soprattutto persone condannate a morte ingiustamente, che, prive della possibilità di appellarsi a un tribunale terreno, invocavano il giudizio di Dio citando il loro giudice a comparire nella valle di Giosafat – anche se in alcuni casi ciò accadeva invece nel corso di contese di tipo “civile”, più simili a quella che abbiamo appena descritto. Raramente, tuttavia, le fonti menzionano l’esistenza di citazioni in forma scritta; di solito il condannato pronunciava a voce il suo appello5. Proprio qui risiede la peculiarità della documentazione bergamasca. Oltre alle testimonianze giudiziarie, dovute al fatto che quell’uso era considerato superstizioso e quindi illegale da parte delle autorità ecclesiastiche, si sono conservati i testi di 26 citazioni nella valle di Giosafat, tra cui anche quella fatta recapitare da Bartolomeo Mangili a Bartolomeo Colleoni il 19 dicembre 1563, che riportiamo in appendice6. Osserviamo innanzitutto i suoi caratteri estrinseci. Si tratta di un testo scritto, redatto in lingua latina. Queste prime due caratteristiche impediscono di considerare il nostro documento, così come quasi tutte le altre citazioni nella valle di Giosafat di area bergamasca, come espressioni immediate di quella che fino a non molto tempo fa veniva chiamata “cultura popolare”. Come minimo, l’estensione di questi documenti richiedeva la presenza di figure di mediazione e, in particolare, di professionisti della scrittura: ecclesiastici o, come nella maggior parte dei casi in cui le fonti ci consentono di avere informazioni in proposito, notai7. Quand’anche non sia possibile accertare l’intervento di questi mediatori culturali – in alcuni Vita religiosa _ 355 Testo della citazione della Valle di Giosafat. casi, come quello che stiamo descrivendo ora, la rozzezza della scrittura potrebbe anche essere indizio del contrario – la struttura elaborata del documento implicava quasi sicuramente l’uso di formulari, su cui tuttavia al momento non è possibile avere alcuna informazione. Resta il fatto, comunque, che i redattori delle citazioni nella valle di Giosafat dovevano avere una buona confidenza con il latino delle sacre Scritture, ma anche con quello degli atti legali. Il testo, infatti, presenta una struttura in parte analoga a quella di molti atti ufficiali provenienti dalle cancellerie laiche o ecclesiastiche8. A una invocatio – in questo caso alla Trinità – segue un preambolo o arenga, in cui viene enunciato il principio generale dal quale discende l’atto concreto contenuto nel documento, espresso attraverso due citazioni dalle Scritture. Subito dopo viene la narratio, in cui si espongono le ragioni specifiche che avevano persuaso il committente della citazione a ricorrere a tale mezzo; ovviamente in questo caso si trattava della vicenda della terra che Bartolomeo Mangili non era riuscito a riavere indietro dal Colleoni. Alla parte narrativa – dopo una nuova giustificazione teologica del proprio operato, su cui torneremo – segue non una dispositio, come nella maggior parte dei documenti cancellereschi, bensì una richiesta («hortatur et rogat») alla parte avversa di addivenire entro un mese a un accordo che prevedesse la restituzione della terra (questa fu quasi certamente la ragione per cui il Colleoni aveva aspettato esattamente un mese prima di presentarsi davanti al vicario vescovile). Tale richiesta, tuttavia – come se fosse stata una dispositio – è seguita da una sanctio, o meglio da un insieme articolato di sanctiones che contiene la citazione vera e propria e che pertanto può essere considerato la parte principale del documento. Trascorso il mese senza che la parte avversa acconsentisse alle richieste, Bartolomeo e sua moglie Dorotea sarebbero stati infatti citati «ex parte iustitie omnipotentis Dei» a comparire entro un anno «in spiritu» di fronte a Dio giudice, per rispondere alle accuse del Mangili e per ricevere «quod iustum fuerit», ossia senza dubbio la punizione per il loro malvagio comportamento. Come «advocatos et defensores» di fronte a Dio, il Mangili nominava la Madonna, san Pietro, san Paolo, sant’Antonio da Padova e san Michele arcangelo. Infine, come sanctio aggiuntiva, si auspicava che, se il Colleoni e la moglie si fossero mostrati ostinati come il Faraone biblico, venissero inghiottiti da una voragine e scendessero vivi all’inferno, come era accaduto a Core, Datan e Abiron9. In questo documento – unico caso in tutto il corpus di citazioni a me note – manca la menzione del luogo in cui la parte avversa avrebbe dovuto comparire di fronte a Dio, che è all’origine del nome con cui questi scritti erano conosciuti – col quale comunque, come abbiamo visto, anche Bartolomeo Colleoni aveva designato senza indugio la lettera a lui indirizzata: la valle di Giosafat. Si tratta, com’è noto, del luogo in cui, secondo una tradizione risalente almeno ai primi secoli dell’era cristiana, si verificherà il secondo avvento di Gesù, che vi celebrerà anche il giudizio universale10. Per quanto riguarda invece il momento in cui il giudizio di Dio si sarebbe 356 _ Capitolo primo verificato e le modalità con cui la parte avversa avrebbe dovuto comparire di fronte all’Onnipotente, la citazione che Bartolomeo Mangili aveva consegnato al Colleoni non si differenziava da tutte le altre a me note. Benché nel preambolo del documento, attraverso una doppia citazione di san Paolo (Rm 14,10 e 2Cor 5,10), venisse menzionato il giorno del giudizio, questo riferimento temporale remoto scompariva nella parte finale. Alle persone citate veniva infatti assegnato un termine preciso e relativamente vicino (in questo caso un anno) trascorso il quale esse avrebbero dovuto comparire in spiritu di fronte al tribunale di Dio. Mentre non è chiaro se davanti a Dio avrebbe dovuto convenire anche chi aveva emanato la citazione, sembra verosimile che quella convocazione in forma disincarnata implicasse di fatto la morte delle persone oggetto della citazione, il che spiega almeno in parte la proibizione delle autorità ecclesiastiche11. Sospendendo per il momento l’analisi riguardo all’invocazione (o addirittura propiziazione) della morte del proprio nemico, che almeno per quest’aspetto sembra avvicinare le citazioni nella valle di Giosafat alla pratica dei cosiddetti Mordbeten in uso nel mondo tedesco, soffermiamoci invece sulla sequenza morte-giudizio12. Mentre il richiamo alla valle di Giosafat evoca immediatamente il giudizio universale – una credenza testimoniata da migliaia di testi e di immagini a partire dal primo cristianesimo – l’idea di un tribunale divino di fronte a cui gli uomini compaiono immediatamente dopo la morte sembra avvicinare questi documenti alla dottrina del “giudizio particolare”. Si tratta di un dogma che – benché provvisto di qualche fondamento nelle sacre Scritture – si costruì e si precisò molto più lentamente rispetto all’altro13. E’ molto difficile capire attraverso quali canali una credenza del genere possa essere confluita nella pratica delle citazioni nella valle di Giosafat. Possiamo però osservare che fu a partire dal Trecento e, soprattutto, dal Quattrocento, che per la prima volta il tema del giudizio subito dopo la morte cominciò a farsi strada in modo deciso nell’arte e nella letteratura devozionale. Nelle artes moriendi, così come in molte altre forme della pietas tardomedievale, si esprimeva quella paura della morte in quanto “resa dei conti” che nelle citazioni veniva usata come arma di ricatto nei confronti dell’avversario; possiamo inoltre osservare che una delle prime opere dedicate interamente al giudizio particolare fu un dialogo di Dionigi il Certosino, composto nel 1471, in cui si trovano alcune assonanze testuali con le citazioni nella valle di Giosafat14. Si tratta naturalmente di un nesso ancora molto generico e che andrà ulteriormente indagato, ma che forse – nell’assenza di riferimenti precisi – può fornire un ancoraggio cronologico preferibile alla totale a-temporalità che solitamente caratterizza le cosiddette “superstizioni”, popolari o meno che siano. A questo possiamo aggiungere il fatto che la prima testimonianza finora nota di appello al tribunale di Dio contenente la menzione della valle di Giosafat e un temine per la comparizione riguarda una condanna a morte avvenuta a Zurigo nel 148215. Stratigrafia di un testo Proprio per evitare un’eccessiva genericità, prima di tornare al significato complessivo della pratica delle citazioni nella valle di Giosafat, possiamo tentare di individuare, se non proprio “l’origine”, almeno dei possibili paralleli testuali di alcune formule usate. Per il momento ci limiteremo a indicarli e a segnalarne la probabile provenienza, poi cercheremo di individuare il loro significato all’interno del documento e dell’interpretazione complessiva che è possibile avanzare. Naturalmente, l’analisi andrà estesa a tutte le citazioni presenti nel manoscritto bergamasco. L’arenga “Quoniam ut ait apostolus”, che contiene, come abbiamo visto, due citazioni dalle lettere di san Paolo, corrisponde quasi alla lettera all’incipit della formula che il Concilio Lateranense IV del 1215 prescriveva ai vescovi per le lettere di indulgenza concesse ai fedeli durante l’ostensione di reliquie. Si trattava in realtà della ripresa di formule molto diffuse risalenti al XII secolo, con cui di solito papi e vescovi concedevano beni di natura spirituale a coloro che elargivano fondi per l’edilizia ecclesiastica. La sua diffusione comunque continuò e, ovviamente, aumentò moltissimo dopo il concilio; in qualche caso venne anche usata dalle cancellerie laiche16. A questa formula, nel testo del nostro documento, segue un altro brano contenente una citazione paolina, che evocava (e invocava) la capacità divina di conoscere le cose occulte: «apud Deum nullum latet secretum, sed omnia eius conspectui nuda et aperta sunt»17. Si trattava di una formula liturgica, usata nell’ordinario della messa e diffusa in una grande quantità di sacramentari e messali provenienti di tutta l’Europa occidentale. In particolare, essa veniva recitata nella collecta introduttiva della Messa dello Spirito Santo18. Formule simili, anche se non del tutto identiche, ricorrevano anche nella liturgia che accompagnava i “giudizi di Dio” o ordalie, con le quali, come vedremo, le citazioni nella valle di Giosafat avevano un rapporto di forte analogia19. Infine, la sorte di Core, Datan e Abiron, che si erano ribellati all’autorità di Mosè e di Aronne e che per questo erano stati puniti da Dio venendo inghiottiti da una voragine, si ritrova in diverse categorie di documenti. Innanzitutto, i loro nomi e la loro vicenda venivano ricordati nelle sanctiones e negli anatemi presenti nelle cosidddette Formulae Marculfi (VII sec.) e poi anche in formulari di età carolingia e di epoche successive, attingendo ai quali venivano compilati gli atti ufficiali delle cancellerie laiche ed ecclesiastiche. Essi erano menzionati anche nei clamores, ossia nei rituali di maledizione con cui gli ecclesiastici dell’alto medioevo invocavano il castigo di Dio su coloro che li danneggiavano o si impadronivano dei loro beni. Anch’essi, infine, venivano citati nella liturgia delle ordalie20. Il nostro documento, così come tutte le altre citazioni nella valle di Giosafat – che peraltro presentano varianti anche molto complesse che qui non possiamo trattare in dettaglio – si può dunque considerare una mescolanza o una sedimentazione di strati diversi, che non sappiamo ancora quando giunsero per la prima volta a combinarsi. Il primo aspetto, come abbiamo visto, derivava dalla dottrina e dalla pratica delle indulgenze. In un certo senso, le citazioni nella valle di Giosafat possono essere considerate delle “indulgenze al contrario”: mentre le indulgenze propriamente dette conferivano (o propiziavano) un premio spirituale che seguiva un’elargizione di beni materiali, questi documenti invocavano il giudizio di Dio e la dannazione eterna su persone che si erano rese colpevoli di aver danneggiato materialmente il loro prossimo. Altri aspetti delle citazioni nella valle di Giosafat le rendevano simili alle maledizioni monastiche. Da un punto di vista che possiamo chiamare “funzionale”, si trattava infatti anche in questo caso, come in quello dei clamores, della ricer- Vita religiosa _ 357 Testo della citazione della Valle di Giosafat. ca di un aiuto soprannaturale contro un avversario su cui non si era riusciti ad aver ragione con mezzi umani (più specificamente, nel caso delle citazioni, con mezzi legali). Di qui anche l’uso delle formule arcaiche di sanctio e – anche se in questo documento non emerge in modo particolarmente evidente – dei salmi in cui l’aiuto di Dio veniva invocato contro i nemici21. Per lo stesso motivo, questi documenti presentano un’analogia ancora più chiara con la pratica e le formule dell’ordalia o “giudizio di Dio”22. Anche l’ordalia consisteva nell’affidare a Dio un caso giudiziario che non aveva potuto essere risolto dai giudici terreni. Le citazioni nella valle di Giosafat, anzi, se è valida l’interpretazione che abbiamo avanzato più sopra, invocavano il giudizio divino in due riprese: dapprima con la morte dell’avversario e la sua comparsa in spirito di fronte al tribunale di Dio entro un certo termine, in seguito col giudizio di condanna vero e proprio. Queste analogie rendono ragione anche del fatto che molte citazioni nella valle di Giosafat, diversamente da quella che illustriamo qui, abbiano più la struttura di una preghiera che di un atto legale, nonché del ricorrere in esse di formule tratte dalla liturgia23. Sia le ordalie che le indulgenze, d’altra parte – a prescindere dal fatto che le prime venissero proibite finendo con l’estinguersi e le seconde siano sopravvissute fino ad oggi – rappresentano quel peculiare tipo di commistione tra diritto e religione che stava a fondamento della cristianità occidentale tra i secoli centrali del Medioevo e l’inizio dell’età moderna24. Le citazioni nella valle di Giosafat avevano dunque la funzione di dare voce al bisogno di giustizia di uomini e donne che non riuscivano a trovare udienza nei tribunali terreni, per diversi motivi: in questo caso, come abbiamo visto, si trattava della mancanza di prove; in altri poteva essere la mancanza di denaro per affrontare una causa legale; in altri ancora, l’incapacità di districarsi tra giudici, avvocati e leggi di fronte a un avversario molto più esperto in quel campo25. In un certo senso, esse possono essere considerate una versione “quotidiana” – non necessariamente una banalizzazione – di quel «grido di giustizia degli impotenti» che emerge dai salmi in cui la giustizia di Dio veniva invocata contro i malvagi26. Naturalmente, non si tratta qui di giudaismo biblico, bensì di un’espressione della religiosità tardomedievale, caratterizzata dalla commistione tra il giuridico e il religioso a cui abbiamo appena accennato. Fatte consegnare come un vero e proprio precetto di comparizione – in molti casi servendosi di un pubblico ufficiale – le citazioni nella valle di Giosafat facevano appello non soltanto a Dio e al suo giudizio, ma anche alla coscienza di chi le riceveva. D’altra parte, proprio come accadeva nella giustizia del tardo medioevo e della prima età moderna, all’avversario veniva offerta la possibilità di un accordo che interrompesse l’azione giudiziaria. La giustizia di Dio, insomma, al pari di quella degli uomini, poteva venire usata come strumento per fare pressione su un avversario, più che come sistema di premi e punizioni per buoni o cattivi comportamenti (in buona sostanza, avrebbe detto Mario Sbriccoli, come strumento di “giustizia negoziata” anziché di “giustizia egemonica”)27. Forse fu proprio questo aspetto, che umanizzava eccessivamente la giusti- 358 _ Capitolo primo zia divina, oltre naturalmente a quello della maledizione nei confronti del prossimo, a indurre le autorità ecclesiastiche bergamasche a vietare le citazioni nella valle di Giosafat e a perseguire chi ne faceva uso. Così come le ordalie, l’usanza delle citazioni cominciò a venire considerata una forma di “superstizione”. Questo mutamento, tuttavia, al contrario che per le ordalie, dovette verificarsi in modo lento e incompleto, anche se per il momento la mancanza di testimonianze rende difficile ricostruire la storia nei dettagli. Con ogni probabilità, sulla repressione delle citazioni nella valle di Giosafat influì anche la divisione della cristianità europea verificatasi con la Riforma protestante. Nel Settecento, teologi e giuristi di area evangelica consideravano quell’uso un residuo delle “superstizioni papistiche” e della loro intrinseca malvagità. Per la verità, come abbiamo appena visto, l’uso delle citazioni veniva punito anche dalle autorità cattoliche; e tuttavia vi fu almeno un teologo – bergamasco, non certo per caso (il canonico Giovan Battista Terzi)– che scrisse un trattato per difenderlo. E con ogni probabilità non è un caso nemmeno che il vescovo più deciso ad estirpare quella “superstizione” dalla diocesi di Bergamo fosse stato Vittore Soranzo, di cui sono fin troppo note le tendenze filo-luterane. Le testimonianze più tardive della pratica – orale – della citazione nella valle di Giosafat, d’altra parte, provengono dai cantoni cattolici della Svizzera tedesca28. Questa parziale diversità di esiti nella repressione di una “superstizione” rinvia a un tratto fondante della teologia luterana, ossia all’idea della giustizia di Dio. Semplificando in modo estremo, si può dire che mentre per il fedele cattolico Dio si pone sullo stesso piano degli uomini e la sua giustizia è solo “quantitativamente” diversa dalla nostra (ha cioè la possibilità di vedere le cose occulte e di scrutare cuori e coscienze, nonché la forza per imporsi), ma è retta dagli stessi principi, per Lutero e gli altri riformatori invece Dio non agisce secondo i dettami dell’Etica di Aristotele o del Codice di Giustiniano29. Tra le due giustizie, umana e divina, c’è un abisso, che non l’uomo, ma soltanto Dio può colmare. Naturalmente il corollario di quest’affermazione è che – almeno idealmente – al fedele evangelico vittima di un’ingiustizia non restava nemmeno la possibilità di invocare concretamente la giustizia di Dio sui suoi persecutori. D’altra parte, l’umanizzazione di Dio e la sua trasformazione in un giudice d’appello per le vicende terrene - e persino per le contese patrimoniali - rischiava di cancellare Dio dall’orizzonte dell’uomo nel senso opposto. Note 1 Appendice Citazione nella valle di Giosafat fatta consegnare da Bartolomeo Mangili di Carvico a Bartolomeo Colleoni di Vanzone (dicembre 1563) A messer Bartolomeo di Coleoni da Vanzone suo quanto fratello carissimo/ In Vanzone30 In nomine sancte et individue Trinitatis Patris, Filii et Spiritus Sancti, amen. Quoniam, ut ait Apostolus, omnes stabimus ante tribunal Christi31 in die illa tremebundi iudicii, recepturi sive bonum, sive malum, et prout in corpore nostro gesserimus32, et quoniam apud Deum nullum latet secretum33, sed omnia eius conspectui nuda et aperta sunt34, ideo ad illius infalibilem iustitiam recurrit Bartholomeus quondam Christofori de Mangilis de Carvico et constitutus coram imagine pietatis domini nostri Iesu Christi lachrymabiliter conqueritur adversus Bartholomeum de Cachinettis35 de Vanzono36 et Dorothea(m) eius uxorem pro eo quod alias idem Christoforus uti eredes37 hereditatis iacentis Christofori Farinelli dedit Bartholomeo predicto nonnullas petias terre iacentes in territorio de Carvico in solutum scutorum quattuorcentum alias per Christoforum Farinellum et Bartholomeum eius filium legatorum uxori ipsius Bartholomei supranominate, reservato certo ter(min)o ad eas redimere valendum, cui reservationi fuit presens et consentiens predicta uxor Bartholomei, licet modo id neget, et id negando contra omne conscientie debitum et in preiudicium salutis anime sue et in grave damnum ipsius Christofori conquerentis. Quare, cum suprascriptus conquerens propter probationis defectum non speret apud iudices huius seculi consequi iustitie complementum, intendit ad auxilium altissimi qui solus pauperi, vidue, pupillo et indebite oppressis factus est adiutor 38, confugere. Unde per virtutem charitatis qua nos invicem diligere tenemur, hortatur et rogat eosdem iugales ut in termino unius mensis proxime venturi post praesentium intimacionem velint dictas terras eidem Bartholomeo conquerenti restituisse, parato ipsis iugalibus reddere dictos scutos quatuorcentum una cum expensis instrumentorum aut cum eo amicabiliter composuisse. Alioquin, si dictum mensem labi permiserint sine huiusmodi restitutione, ex nunc prout ex tunc ex parte iustitie omnipotentis Dei citantur dicti iugales quatenus infra unum annum immediate futurum a lapsu dicti mensis, qui annus illis pro omni peremptorio termino39 prefigitur, compareant in spiritu coram infalibili illo iudice Deo apud quem non prevalebunt preces, precium, favor, aut aliqua alia humana gratia40 ad eidem conquerenti super veritate premissorum respondendum et quod iustum fuerit reportandum, coram quo omnipotenti Deo invocat in suos protectores, advocatos et defensores immaculatam Dei genitricem Mariam, beatos apostolos Petrum et Paulum et sanctum Antonium de Padua et Michaelem archangelum, quos devotissime rogat et obsecrat per viscera misericordie Dei nostri Iesu Christi dignentur sibi in premissis adesse et patrocinari. Ceterum, si dicti iugales animo fuerint obstinato imitati Pharaonis duriciem, illis eveniat sicuti etiam evenit Chore, Dathan et Abyron quos41 ob eorum pertinaciam terra sustinere non valuit, sed viventes in infernum descenderunt42. Laus Deo. 2 3 4 5 6 (Bergamo, Archivio della Curia Vescovile, Citazioni in Vallem Josphat e relativi processi, cc. 303r-304r) Tutte le notizie sulla vicenda si ricavano dal procedimento aperto dal vicario vescovile in seguito alla denuncia di Bartolomeo Colleoni del 19 gennaio 1564 (che negli atti viene chiamato anche “della Melanesa”) in ASDB, Citazioni in Vallem Josphat e relativi processi, cc. 302r-v; l’interrogatorio di Margutto ivi, 305r-v. Il 16 ottobre 1564 il Mangili venne convocato dal vicario vescovile in quanto era incorso nella pena della scomunica e di cinquanta scudi di multa prevista per gli autori delle citazioni nella valle di Giosafat in un editto emanato dal vescovo Vittore Soranzo l’11 maggio 1546 (sulle citazioni vedi infra); il Mangili peraltro oppose al mandato di comparizione eccezioni di natura non specificata (25 ottobre 1564) ivi, c. 306r. Il testo dell’editto si può leggere ivi, Lettere Pastorali, b. 1, vol. 1, c. 61r; cfr. M. Firpo, Vittore Soranzo vescovo ed eretico. Riforma della chiesa e Inquisizione nell’Italia del Cinquecento, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 212-213. Ringrazio sentitamente Gabriele Medolago per il generoso aiuto nella trascrizione dei testi e per le numerose segnalazioni di documenti e bibliografia. Che si trattasse dell’Assonica si ricava da altri procedimenti nello stesso manoscritto. Secondo un elenco di vicari vescovili di mano di Pier Antonio Uccelli premesso al volume delle Lettere Pastorali citato sopra alla nota 1, infatti, l’Assonica fu vicario soltanto dal 1551 al 1553. Su di lui, sul suo legame col Soranzo e sui sospetti di eresia che continuarono a perseguitarlo, fino alla convocazione al Sant’Ufficio romano tra il 1558 e il 1559 (che non ebbe conseguenze con ogni probabilità soltanto grazie alla morte di papa Paolo IV) cfr. M. Firpo-S. Pagano, I processi inquisitoriali di Vittore Soranzo (1550-1558). Edizione critica, t. I, Città del Vaticano, Archivio Segreto Vaticano, 2004, pp. 222-224n. Nel novembre del 1576 l’Assonica faceva ancora parte del capitolo della cattedrale. Quanto segue si ricava dalla narratio contenuta nella citazione, ASDB, Citazioni in Vallem Josphat e relativi processi, cc. 303r-304v (riportata integralmente in Appendice). Per la precisione, 123 casi si trovano nel volume citato alla nota precedente, che con ogni probabilità era una raccolta di documenti rilegati assieme a posteriori dall’abate Uccelli. Altre attestazioni in ASDB, Vacchetta 1528-1533 - cause civili, 2, c. 161v (28 marzo 1533), ivi, Vacchetta 1540-45 - cause civili, 5, c. 106r (20 aprile 1542), 108v (12 maggio 1542), e 145v (11 aprile 1543) ; ivi, Vacchetta 1564-66 - Cause civili, 9, c. 68r (3 agosto 1565); ivi, Vacchetta 1580-82 - cause civili, 15, c. 47r (17 maggio 1580). Fa eccezione il testo di Giovan Battista Terzi (vedi infra). Oggi quasi completamente dimenticate, le citazioni nella valle di Giosafat, o comunque davanti al tribunale di Dio, nel corso dei secoli hanno attratto l’attenzione di numerosi eruditi e studiosi. Per limitarci all’essenziale – sul resto riferirò in una futura monografia: G. B. Terzi, Il rimedio sopremo del quale può lecitamente l’huomo valersi contra le segnalate ingiurie [...]. Nel quale, tra varie maniere di provocare l’avversario al Tribunale di Dio, principalmente si disputa della citatione alla Valle di Giosafat, Bergamo, Comin Ventura, 1596 (su questo testo, cfr. ora G. Dall’Olio, Giustizia degli uomini, giustizia di Dio: note su un trattato di ine Cinquecento, in Religione, scritture e storiograia. Omaggio ad Andrea Del Col, a cura di Giuliana Ancona e Dario Visintin, Montereale Valcellina [PN], Circolo Culturale Menocchio, 2013, pp. 73-96); Christian Herold, De provocatione ad judicium in Valle Josaphat, Noribergae, typis Simonis Halbmayeri, 1624; Johann Ludwig Hannemann, Zacharias Pontifex, i.e. commentarius de appellatione ad vallem Josaphat, Hamburgi, apud Gottfried Liebezeit, 1696; Christian Ebeling, Tractatus de provocatione ad judicium Dei, sive de probationibus quae ieri olim solebant per juramentum [...] &denique per citationem ad tribunal Dei, Lemgoviae, sumptibus Henrici Wilhelmi Meyeri, 1708; Christian Faber, Schediasma de appellatione ad tribunal supremi in coelo judicis quae vulgo dicitur citatio seu Provocatio in vallem Josaphat oder Vorladung und Forderung in das Thal Josaphat und vor den Richterstuhl Christi, Tubingae, Cotta, 1730; S. Hardung, Die Vorladung vor Gottes Gericht. Ein Beitrag zur rechtlichen und religiösen Volkskunde, Bühl-Baden, Konkordia, 1934; L. Carlen, Die Vorladung vor Gottes Gericht nach Wallisen Quellen, “Schweizerisches Archiv für Volkskunde”, 52 (1956), pp. 10-18; G. Dall’Olio, La provocatio ad vallem Josaphat tra diritto e religione, in Riti di passaggio, storie di giustizia. Per Adriano Prosperi, vol. III, a cura di Vincenzo Lavenia e Giovanna Paolin, Pisa, Edizioni della Normale, 2011, pp. 283-290. I testi si trovano nel manoscritto citato alla nota 1, cc. 1r (1520), 2r-v (1523), 3r-4r (1525), 159r-160r (1546), 201r202r (s.d., ma 1550), 207r-209v (s.d., ma 1551), 214r-v (1552), 224r-v (1553), 225r-226r (1523), 237r-v (s.d., ma 1555), 242r-v (s.d., ma 1555), 258r-259r (s.d., ma 1557), Vita religiosa _ 359 7 8 9 10 11 12 13 14 15 265r-266r (1557), 268r-269r (1557), 303r-304r (s.d., ma 1563), 314r-v (1567), 329r-v (s.d., ma 1571), 331r-v (1572), 342r-v (1574), 344r-v (1574), 358r-v (s.d.), 369r-v (s.d.), 370r (s.d.), 372r-v (s.d.), 374r-v (s.d.), 376r-377r (s.d.). Cfr. ad es. L. Allegra Il parroco: un mediatore fra alta e bassa cultura, in Storia d’Italia. Annali 4. Intellettuali e potere, Torino, Einaudi, 1981, pp. 895-947; sul notariato L. Faggion, Il notaio, la società e la mediazione in età moderna nelle storiograie francese e italiana: un confronto, “Acta Histriae” 16, 2008, pp. 527-544 e la bibliografia ivi citata. Dall’analisi degli atti processuali bergamaschi relativi alle citazioni apprendiamo ad esempio che il notaio Telamone Mora stese personalmente la citazione consegnata a Bartolomeo Vailotti nel 1546. Egli peraltro dichiarò al giudice: «Io la ho fatta mi da mia posta et ho tolto la forma da altri simili libelli mandati da altre persone e ne ho doi o tre copie in casa za doi o tre anni fa»; ASDB, Citazioni in Vallem Josphat e relativi processi, cc. 152r-157v (la citazione a c. 154r). Sulla partizione diplomatica dei documenti cfr. ad es. H. Bresslau, Manuale di diplomatica per la Germania e l’Italia, Roma, Ministero per i Beni Culturali e Ambientali – Ufficio Centrale per i Beni Archivistici, 1998, vol. I, pp. 8 ss. La “durezza di cuore” del Faraone – che era stata tra l’altro oggetto di polemica tra Erasmo e Lutero riguardo al libero arbitrio – in Es 7,13 e 9,12; l’episodio di Core, Datan e Abiron o Abiràm, che si erano ribellati all’autorità di Mosè e di Aronne, occupa tutto Nm 16. Sulla valle di Giosafat i riferimenti possibili sono moltissimi; qui mi limito soltanto a uno dei più recenti, che contiene ampie indicazioni bibliografiche: T. N. Hall, Medieval Traditions about the Site of Judgment, in A. J. Frantzen (ed.), Four Last Things: Death, Judgment, Heaven, and Hell in the Middle Ages, Essays in Medieval Studies, vol. 10, Chicago, IMA, 1994, pp. 79-97 (si veda comunque anche Hardung., Vorladung, pp. 55-65). Com’è noto, la denominazione trae origine dalla trasformazione in nome proprio dell’espressione “emeq jehosaphat”, ossia “valle dove Dio giudica” usata dal profeta Gioele (3,1-2 e 3,12). A partire dal IV secolo, la valle di Giosafat cominciò a venire identificata, tra gli altri luoghi possibili, con la valle del Kidron, che separa Gerusalemme dal Monte degli Ulivi. Da allora, essa è presente in quasi tutti i resoconti di viaggio e nelle guide per i pellegrini in Terrasanta. Alle fonti citate da Hardung e Hall si può aggiungere il Viaggio in Terrasanta di Santo Brasca, 1480, con l’Itinerario di Gabriele Capodilista, 1458, a cura di Anna Laura Momigliano Lepschy, Milano, Longanesi, 1966, pp. 77-78 e 191-192. Del resto, così avveniva puntualmente nei racconti delle citazioni pronunciate dai condannati a morte contro i loro giudici, in cui questi ultimi morivano miracolosamente allo scadere del termine prefissato; cfr. ad es. Terzi, Rimedio sopremo, cit., pp. 3-4. Sui Mordbeten (“preghiere omicide”), che includevano la pratica di recitare per i vivi messe da morti, K. Schreiner, Tot- und Mordbeten, Totenmessen für Lebende. Todeswünsche im Gewand mittelalterlicher Frömmigkeit, in: M. Kintzinger, W. Stürner, J. Zahlten (hrsg.), Das andere Wahrnehmen. Beiträge zur europäischen Geschichte. August Nitschke zum 65. Geburtstag gewidmet, Köln-Weimar-Wien, 1991, pp. 335ss. (che non ho ancora visto); J. Bossy, La messa come istituzione sociale [1983], in Id., Dalla comunità all’individuo. Per una storia sociale dei sacramenti nell’Europa moderna, tr. it. Torino, Einaudi, 1998, pp. 143-190, in part. pp. 164-166 e nn.; C. Baja Guarienti, Reggio, 28 giugno 1517. Liturgia di un omicidio, “Studi storici”, 4/2008, pp. 985-999 (e v. anche infra, nota *, sull’uso del salmo 109). Ampia sintesi nella voce Jugement (di J. Rivière), in Dictionnaire de théologie catholique, vol. 8, Paris, 1925, coll. 1722-1828; in part. coll. 1804ss.; per il primo cristianesimo J. N. D. Kelly, Il pensiero cristiano delle origini, tr. it. 2 Bologna, Dehoniane, 1999 (ed. or. London, 1968), pp. 585ss. Il giudizio particolare è tuttora presente nel Catechismo della chiesa cattolica, articoli 1021 e 1022; http:// www.vatican.va/archive/ITA0014/_INDEX.HTM. Nel leggere questi e altri testi va tenuta presente la tendenza dei teologi di ogni chiesa ad anticipare la formulazione di dottrine che impiegarono in realtà molto tempo a precisarsi. Sull’accentuazione della paura della morte nel Tre-Quattrocento, sul tema del macabro e sulle artes moriendi in connessione al giudizio particolare A. Tenenti, Il senso della morte e l’amore della vita nel Rinascimento, Torino, 2 Einaudi, 1989 (ed. or. 1957), pp. 62ss; P. Ariès, L’uomo e la morte dal Medioevo a oggi, tr. it. Roma-Bari, Laterza, 1984 (ed. or. Paris, 1977), pp. 121 ss. Il dialogo De particulari judicio in obitu singulorum di Dionigi il Certosino, sul quale qui non possiamo dilungarci, si apre proprio con la citazione di 2Cor 5,10, a cui segue un commento: D. Dionysii Cartusiani Opera omnia. Opera minora, IX, Tornaci, Typis Cartusiae S. M. De Pratis, 1912, pp. 421-488. Hardung, Vorladung, p. 27, n° 25. 16 Il testo della formula del Lateranense IV in Conciliorum Oecomenicorum Decreta, edd. G. Alberigo et al., Bologna, Istituto per le Scienze Religiose, 1973 p. 263; sulla derivazione e la diffusione H. Enzensberger, “Quoniam ut ait Apostolus”. Osservazioni su lettere di indulgenza nei secoli XIII e XIV, “Studi Medievali e moderni. Arte, letteratura, storia”, I, 1999, pp. 57-100, in part. pp. 62-63 e nn. Per l’uso da parte di una cancelleria laica si veda ad es. l’atto con cui l’anti-re dei Romani Guglielmo d’Olanda confermava il giuspatronato della chiesa di Meiringen concesso dal suo predecessore ai cavalieri di San Lazzaro (settembre 1248) in D. Hägermann, J. G. Kruisheer, A. Gawlik (hrsgg.), Henrici Rasponis et Wilhelmi de Hollandia diplomata inde ab a. MCCXLVI usque ad a. MCCLI (MGH, Diplomata Regum et Imperatorum Germaniae, tom. XVIII pars I), Hannover, Hahn, 1989, pp. 73-74. 17 Cfr. Hb 4,13. 18 L. A. Muratori, Opere, vol. 13/2, Arezzo, per Michele Bellotti, 1772, p. 1106: “Deus, cui omne cor patet, & omnis voluntas loquitur, & nullum latet secretum”; la ricorrenza della formula in un gran numero di libri liturgici risulta evidente dalle fonti citate in E. Moeller, J. M. Clément, B. Coppieters ‘t Wallant (eds.), Corpus orationum, t. II (Corpus Christianorum, Series Latina, CLX A), Turnhout, Brepols, 1993, pp- 131-132 (n° 1135). 19 In particolare, l’idea di Dio come unico possibile “scrutator cordium”, o “renum” (Ps 7,10: “et scrutans corda et renes Deus”; ma cfr. anche Jerem 17,10, Apoc 2,23 e 1Cor 4,5) ricorre nelle citazioni (ASDB, Citazioni in Vallem Josaphat, cc. 201r, 206r, 214r, 225r, 374r). Per la ricorrenza nella liturgia che precedeva le ordalie cfr. K. Zeumer (ed.), Formulae Merowingici et Karolini aevi. Accedunt ordines iudiciorum Dei (MGH, Legum, Sectio V: Formulae), rist. anast. Cambridge, Cambridge University Press, 2010 [ed. or. Hannover, Hahn, 1886], p. 629; A. Franz, Die kirklichen Benediktionen im Mittelalter, rist. anast. Bonn, Nova & Vetera, 2006 (ed. or. Freiburg i.B., 1909), vol. II, pp. 385, 387. 20 Per le Formulae Marculi e dei periodi successivi, Zeumer, Formulae, pp. 73, 172, 577 e 593 (in quest’ultimo caso si tratta della formula di un giuramento); sui clamores L.K. Little, Benedictine Maledictions. Liturgical Cursing in Romanesque France, Ithaca-London, Cornell University Press, 1993 (ad es. pp. 254, 255, 257, 261), ma anche F. M. Beltran Torreira, Notas en torno a una sancion religiosa de época visigoda (la maledicion de Core, Datan y Abiron), “Heresis” 16, 1991, pp. 21-35 (che non ho ancora visto); M. Zimmermann, Le vocabulaire latin de la malédiction du IXe au XIIe siècle. Construction d’un discour eschatologique, “Atalaya”, 5 (1994), numero monografico che ospita gli atti del convegno “L’invective au Moyen Age. France, Espagne Italie”, Parigi, 4-6 febbraio 1993, pp. 37-55 (per Core Dathan e Abiron, pp. 42 e 49); A. Garcia y Garcia, Las imprecaciones en los diplomas Leoneses, ivi, pp. 57-66 (cfr. p. 60; ringrazio Antonella Negri per avermi segnalato questi contributi). Su questi stessi temi si vedano anche H. Saradi, Cursing in the Byzantine Notarial Acts: a Form of Warranty, “Byzantina” 17 (1994), pp. 441-533; A. Feniello, J.-M. Martin, Clausole di anatema e di maledizione nei documenti (Italia meridionale, Sicilia e Sardegna, X-XII secolo), “Mélanges de l’École Française de Rome. Italie et Mediterranée”, 123/1 (2011), pp. 105-127 per le ordalie Franz, Die kirklichen Benediktionen, II, p. 389. 21 I salmi sono presenti in modo massiccio in tutti testi delle citazioni nella valle di Giosafat; in particolare, versetti del salmo 109 (108 secondo la numerazione ebraica) – il salmo imprecatorio per eccellenza – vengono citati in ASDB, Citazioni in vallem Josaphat, cc. 4r, 208v-209r (trascrizione approssimativa di tutto il salmo), 258v, 259r. Riflessioni profonde e feconde sui salmi “imprecatori” – benché accompagnate da una radicale incomprensione di matrice teologico-confessionale nei confronti del cristianesimo popolare dell’età medievale e moderna – in E. Zenger, Un Dio di vendetta? Sorprendente attualità dei salmi “imprecatori”, tr. it. Milano, Ancora, 2005 (ed. or. Freiburg. i.B., 1998); in part. sul salmo 109 si vedano le pp. 110ss. 22 Sulle ordalie esiste una bibliografia vastissima. Oltre al datato F. Patetta, Le ordalie. Studio di storia del diritto e scienza del diritto comparato, Torino, Fratelli Bocca, 1890, si vedano almeno J. Gaudemet, Les ordalies au Moyen Age: doctrine, législation et pratique canoniques, “Recueils de la Societé Jean Bodin”, XVII: La preuve, Bruxelles, 1965, pp. 99-135; C. Morris, Judicium Dei: the Social and Political Signiicance of the Ordeal in the Eleventh Century, in D. Baker (ed.) Studies in Church History, 12, Oxford, Blackwell, 1975, pp. 95-111; R. Bartlett, Trial by Fire and Water. The Medieval Judicial Ordeal, Oxford, Clarendon Press, 1980. 23 Si vedano ad es. gli incipit in ASDB, Citazioni in vallem Josaphat, cc. 214r («Iustissime et invectissime [sic] domine Jesu Christe, cui datum est omne iudicium in celo et in 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40 41 42 terra»), 225r («Clementissime, immortalis et invictissime Deus»), 258r («Deus Abraam, Deus Isach, Deus Jacob, omnipotens sempiterne Deus»; anche quest’ultima formula, come quelle che abbiamo elencato più sopra, ricorre nei formulari della liturgia che accompagnava le ordalie) H. J. Berman, Diritto e rivoluzione. Le origini della tradizione giuridica occidentale, tr. it. Bologna, Il Mulino, 1998 (ed. or. Cambridge, Mass., 1983); P. Prodi, Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, Bologna, Il Mulino, 2000. Sono fondamentali, anche se non riguardano specificamente il medioevo e l’età moderna, le riflessioni contenute nella raccolta di saggi di H. Kelsen, L’anima e il diritto. Figure arcaiche della giustizia e concezione scientiica del mondo, a cura di a. Carrino, Roma, Edizioni Lavoro, 1989 (saggi apparsi originariamente tra il 1922 e il 1967). Cfr. ad es. ASDB, Citazioni in vallem Josaphat, cc. 1r, 3r, 214r, 224r. Anche le ordalie potevano essere usate come un’arma a disposizione della parte più debole in una lite; Morris, Judicium Dei, p. 110. Zenger, Un Dio di vendetta?, p. 101. M. Sbriccoli, Giustizia negoziata, giustizia egemonica: rilessioni su una nuova fase degli studi di storia della giustizia criminale, in M. Bellabarba, G. Schwerhoff (eds.), Criminalità e giustizia in Germania e in Italia. Pratiche giudiziarie e linguaggi giuridici tra tardo medioevo ed età moderna, Bologna, Il Mulino, 2001, pp. 345-364; su paci e perdoni si veda O. Niccoli, Perdonare. Idee, pratiche, rituali in Italia tra Cinque e Seicento, Roma-Bari, Laterza, 2007. Sugli eruditi tedeschi del Settecento e sul canonico bergamasco Giovan Battista Terzi, unico a difendere le citazioni nella valle di Giosafat, ancorché con qualche riserva sul loro abuso, si veda sopra, nota * (per la proibizione del Soranzo, vedi sopra, nota *). Sulle testimonianze folkloriche R. Beitl, Im Sagenwald, Neue Sagen aus Vorarlberg, 1953, p. 103 (n° 162); Richard M. Dorson, Folktales Told Around the World, Chicago, Chicago University Press, 1976, pp. 78-81. M. Lutero, Il servo arbitrio (1525), a c. di F. De Michelis Pintacuda, Torino, Claudiana, 1993, pp. 307-308. L’indirizzo si trova a c. 304v. Cfr. Rm 14,10. Cfr. 2Cor 5,10.. Oltre al versetto paolino citato alla nota seguente, si veda, nel sacramentario gregoriano, la collecta intoduttiva della Missa de Spiritu Sancto; L. A. Muratori, Opere, vol. 13/2, Arezzo, per Michele Bellotti, 1772, p. 1106: “Deus, cui omne cor patet, & omnis voluntas loquitur, & nullum latet secretum”. Cfr. Hb 4,13: “et non est ulla creatura invisibilis in conspectu eius; omnia autem nuda et aperta sunt oculis eius”. Oltre che nell’indirizzo, questo personaggio viene designato col il cognome di “Colleoni” negli atti processuali relativi alla vicenda (vedi sopra, nota *); l’identità si deduce comunque anche dalle circostanze e dal contesto. Contrada di Calusco. Eredes sscr. un un precedente “curator”, canc. Innumerevoli sono i brani dell’Antico Testamento in cui Dio viene definito protettore delle vedove e degli orfani; cfr. tra gli altri Dt 10,18, Ps 9,35 e Ps 145, 9. Dopo “termino”, “illis”, canc. Formula giuridica molto usata nei giuramenti e negli interrogatori dei testimoni. Tra i molti esempi possibili, cfr. Pragmaticae, edicta, decreta, interdicta regiaeque sanctiones Regni Neapolitani ... Dominicus Alfenus Varius I.C. recensuit, vol. II, Neapoli, 1772, p. 58, ma anche i giuramenti degli operai che lavorarono all’opera di Santa Maria del Fiore nel Quattrocento, digitalizzati in http:// duomo.mpiwg-berlin.mpg.de, ad es. “Bartolomeus Nerii de Pictis unus ex operariis dicte Opere noviter extractus ad delationem mei notarii infrascripti iuravit ad sancta Dei evangelia scripturis corporaliter manu tactis prosequi facere antiquum modellum cupole magne et eius offitium bene, legaliter et sine fraude facere et exercere remotis hodio, amore, prece, pretio et omni humana gratia” (4 novembre 1429). V. anche P. Vigo, Montenero. Guida storicoartistico-descrittiva, con appendice di documenti inediti, doc. XVI (compromesso fra i PP. Gesuati di Montenero e Domenico Ceuli con esame di testimoni, 24 marzo 1520, stile fiorentino): “Interrogatus si hec dixit odio amore timore prece pretio aut alia aliqua humana gratia, dixit quod non, sed pro ueritate”; http://www.infolio.it/montenero/montenero13.htm. Dopo “quos”, “devos”, canc. Nm, 16; v. sopra, p. * e nota *.