Moneta e Credito, vol. 65 n. 258 (2012), 95-101
Introduzione
ALESSANDRO RONCAGLIA
La crisi finanziaria ed economica avviata negli Stati Uniti nel 2007-8
a partire dal settore dei mutui immobiliari si è dal 2010 trasferita in
Europa, assumendo la forma della cosiddetta crisi dei debiti pubblici
(con, sullo sfondo, la crisi dell’euro); le ricadute sui livelli di attività e di
occupazione sono pesanti. A questi temi sono dedicati tanti tra i
contributi pubblicati negli ultimi numeri delle nostre riviste (ad esempio
D’Ippoliti e Roncaglia, 2011; D’Ippoliti, 2012; Ferrari, 2012; Kregel,
2011a, su Moneta e Credito; o Bhaduri, 2011; Hein, 2012; Kregel,
2011b; Masera, 2010; Montanaro e Tonveronachi, 2011; Niccoli e
Marchionne, 2012; Tonveronachi, 2010, su PSL Quarterly Review).
Tuttavia, non appena si considerino da vicino le politiche imposte a
paesi come la Grecia, la Spagna o l’Italia dalla forza degli eventi (in
particolare dalle impennate degli spread del tasso d’interesse, che
rischiano di rendere non sostenibile il costo del servizio del debito
pubblico), si scopre che il dilemma tra rigore di bilancio pubblico e
ripresa della crescita economica può essere attenuato, se non superato.
Fermi restando i vincoli macroeconomici è infatti possibile prestare
attenzione alle specifiche politiche di bilancio e accompagnarle con
interventi istituzionali, che possono andare dalla riforma della giustizia
alla riorganizzazione del sistema delle autonomie locali.
Al livello più generale, infatti, è chiaro che i tagli alla spesa pubblica
o gli aumenti del prelievo fiscale hanno necessariamente effetti negativi
su produzione e occupazione. Solo arrampicandosi sui levigati muri dei
modelli di equilibrio generale dinamico e stocastico (DSGE) si può
sostenere il contrario; ma quei modelli, presentati come il non plus ultra
della teoria economica, soffrono in realtà di difetti insormontabili (come è
stato spesso ricordato sulle pagine di questa Rivista, si vedano Reati,
2010; Roncaglia, 2008a; 2008b): sono in realtà modelli a un solo bene
Sapienza Università di Roma, email:
[email protected].
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base, in cui valgono i teoremi della mano invisibile del mercato – se c’è
concorrenza, la disoccupazione fa scendere il salario reale e questo a sua
volta genera una riduzione dell’intensità capitalistica dei processi
produttivi, guidando l’economia sulla strada del ritorno all’equilibrio di
piena occupazione – e nei quali non c’è spazio per l’incertezza
keynesiana (cfr. Roncaglia, 2009); cioè, in sostanza, sono modelli in cui
conta solo il lato dell’offerta e in cui quindi lo spazio lasciato libero dalla
ritirata dell’operatore pubblico viene automaticamente riempito dal
settore privato dell’economia. Keynes diceva che ciò può essere vero nel
lungo periodo, e che tuttavia nel lungo periodo siamo tutti morti; ma le
critiche ai meccanismi di aggiustamento della tradizionale teoria
marginalista portano a concludere che neppure per il lungo periodo
questo è vero. Anzi, quando la riduzione della domanda aggregata
rallenta l’attività si hanno effetti pesanti sul potenziale di crescita
economica anche per il lungo periodo: fattori come il progresso tecnico
incorporato in nuovi macchinari risentono del calo degli investimenti, il
learning by doing opera al contrario, impoverendo il capitale umano, le
risorse per la ricerca economica come quelle per la formazione e
l’istruzione vengono tagliate, e così via.
Tuttavia, la composizione delle misure di riduzione della spesa
pubblica e di aumento del prelievo fiscale è molto importante nel
determinare effetti più o meno pesanti su reddito e occupazione. Se c’è
accordo su questo punto, non ce n’è sulla direzione in cui muoversi. La
teoria tradizionale, sempre partendo dai presupposti richiamati sopra,
sostiene che il mix di interventi – come pure le riforme istituzionali –
debba essere diretto a stimolare gli investimenti ‘dal lato dell’offerta’,
rendendoli più convenienti, quindi spostando sia la distribuzione del
reddito sia i rapporti di potere economico (si pensi alla controversia sullo
Statuto dei lavoratori) a vantaggio delle imprese. Viceversa, la teoria
keynesiana sottolinea che, in assenza di prospettive di rilancio della
domanda e in presenza di un basso grado di utilizzo della capacità
produttiva esistente, non vi è alcuna speranza di un rilancio degli
investimenti in maggiore capacità produttiva, con il rischio che i profitti
si traducano – come di fatto è accaduto nell’era post-Reagan e post-
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Thatcher – in investimenti finanziari e quindi in una maggiore fragilità
finanziaria dell’economia.
Di conseguenza, mentre vi può essere accordo, ad esempio, sugli
interventi diretti ad assicurare una maggiore efficienza ed efficacia della
disastrata amministrazione della giustizia, gli economisti post-keynesiani
pongono l’accento sulla necessità di politiche fiscali che assicurino una
redistribuzione del reddito in senso più egualitario e che quindi
favoriscano un sostegno alla domanda aggregata, considerata una
precondizione per il rilancio degli investimenti; o, non necessariamente in
alternativa, maggiori investimenti in infrastrutture, eventualmente
finanziati con eurobond (Quadro Curzio, 2011), a proposito dei quali
pure la contrapposizione tra contrari e favorevoli ricalca quella tra
sostenitori delle teorie economiche tradizionali e post-keynesiani. La
posizione post-keynesiana implica, ad esempio, maggiore rispetto per la
spesa sociale, maggiore attenzione per i tagli alle posizioni di rendita dei
dirigenti pubblici e privati e per la lotta all’evasione fiscale, aumento del
prelievo fiscale sui redditi e sui patrimoni più elevati. Sul fronte delle
misure istituzionali, la stessa argomentazione esigerebbe maggiore
cautela nel rivedere la normativa di difesa dei diritti dei lavoratori, e
maggiore attenzione per i risultati che potrebbero essere conseguiti con
robuste dosi di politiche antitrust (nei confronti delle banche, delle
compagnie di assicurazione, delle società petrolifere; ma anche dei
tassisti e di tutti gli albi professionali).
A tutto ciò si aggiungono non solo considerazioni di giustizia
distributiva, ma anche i rischi di tensioni sociali crescenti che, come ci ha
ricordato di recente la Grecia, possono venire da un carico dei costi della
crisi più pesante per i ceti meno abbienti. Solo una divisione intellettuale
del lavoro spinta all’estremo può portare gli economisti a trascurare
questi aspetti, lasciandoli alle lamentazioni dei sociologi e trascurando i
pesanti costi economici che può avere una situazione caratterizzata da un
esplosivo malessere sociale.
In quest’ottica va letta la varietà di temi affrontati negli scritti
ospitati in questo numero di Moneta e Credito. L’articolo di Giacomo
Becattini (2012), che assieme a Sebastiano Brusco è stato il fondatore
della teoria (e dell’analisi concreta) dei distretti industriali, affronta il
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tema delle fondamenta socio-istituzionali di un’economia ben
funzionante, tramite uno sguardo retrospettivo alla Toscana della seconda
metà del Settecento e alla lezione del Granduca Pietro Leopoldo Asburgo
Lorena.
Antonio Lettieri (2012) illustra la contrapposizione tra il modello
sociale europeo e quello statunitense per sottolineare i rischi che si
corrono adottando, in risposta alla crisi, politiche dirette a riformare il
sistema di sicurezza sociale dei paesi europei più colpiti dalla crisi per
avvicinarlo al sistema statunitense.
Francesco Carlucci (2012) propone un punto di vista di medio-lungo
periodo per il rientro del debito pubblico, prendendo in considerazione la
recente normativa europea che impone la riduzione della parte di debito
pubblico che eccede il 60% del Pil nella misura di 1/20 di tale eccedenza
ogni anno.
Infine, Cosimo Perrotta (2012) recensisce un libro di Alfonso
Sensales su Fedele Lampertico, economista cattolico attivo nella seconda
metà dell’Ottocento; Maria Chiara Malaguti (2012) illustra le tendenze
del diritto internazionale dell’economia in Italia utilizzando a tal fine il
ponderoso volume in onore di Paolo Picone, uno dei maestri della
disciplina.
Desideriamo in questa sede sottolineare in particolare l’attualità dei
temi affrontati nello scritto di Becattini, che può essere apprezzata se
consideriamo un appello, organizzato dallo stesso autore e firmato da vari
economisti italiani, sulla ricostruzione post-terremoto in Emilia, che qui
di seguito riportiamo.
Salviamo i distretti industriali emiliani!
Le distruzioni del terremoto emiliano colpiscono al cuore la formula
produttiva italiana; quella formula distrettuale che in pochi decenni ci ha
portati da paese industrialmente arretrato a punta aguzza
dell’industrializzazione mondiale. Vi è un sostanziale accordo, fra gli
storici economici italiani, che ciò è accaduto, in modo spontaneo e
imprevisto, per accumulazione interna e reinvestimento sistematico delle
risorse aziendali e – a parte le svalutazioni degli anni pre-ECE e l’azione
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dell’ICE sui mercati esteri – senza alcun sostanziale sostegno pubblico
degli investimenti privati. Anzi, nella generale incomprensione e –
paradossalmente – condanna dell’arretratezza di una industria che appariva
attestata sulla dimensione aziendale piccola e media.
Ebbene, la permanenza dell’Italia al top dell’industria mondiale è oggi
in serio pericolo! Anche nei settori più tipicamente nostri.
Se sbagliamo la diagnosi della peculiarità del nostro processo di
sviluppo corriamo il rischio di vanificare gli sforzi dei 50 anni passati. I
distretti industriali emiliani, oggi colpiti dal terremoto, sono, infatti, una
delle punte di diamante del nostro export.
Il terremoto emiliano mette il dito sulla piaga. Prendiamo due casi
emblematici: l’elettromedicale di Mirandola e la ceramica di Sassuolo. Si
tratta di produzioni che nei passati 40 anni si sono costruite, lentamente,
tenacemente, un posto di monopolio condizionato, ampiamente
riconosciuto, nel mercato mondiale.
Voler vedere, come certuni fanno, la fonte della loro eccellenza negli
impianti modernissimi, quasi avveniristici, dell’una e/o dell’altra zona,
significa deviare l’attenzione dai veri fattori differenziali del loro primato,
come la competenza tecnica e la diffusa convinzione (e l’orgoglio) di essere
nel flusso del progresso, non solo tecnologico o organizzativo, ma, in senso
generale, umano e civile.
Ebbene, è in questa consapevolezza, la preziosa risorsa che deve
guidarci, oggi, nell’opera ricostruttiva. I piccoli e medi imprenditori
emiliani e i loro dipendenti, consapevoli che le loro fortune sono legate a
una collaudata formula organizzativa – economica e, al tempo stesso, civile
– il distretto industriale, si trovano a porsi l’interrogativo se delocalizzare
l’attività in zone sismicamente più sicure, oppure pazientemente ricostruire
in loco le infrastrutture, umane e materiali, intaccate o distrutte dal
terremoto. Sappiamo tutti che alcuni di essi cadranno a metà strada della
ripresa, e altri finiranno col delocalizzare, ma è il clima civile, di
ricostruzione e di sviluppo, che anch’essi avranno contribuito a produrre,
quel che conta. Clima culturale e civile di una popolazione storicamente
fattiva, che si riconosce e si misura nelle sfide più impegnative.
Popolazioni di tal genere – oggi, nelle difficoltà angosciose del dopo
terremoto, lo possiamo dire meglio di sempre – sono un patrimonio
prezioso per un paese come il nostro. Esse debbono, conseguentemente,
nell’interesse di tutti, essere aiutate a risorgere dai calcinacci del terremoto.
Ogni misura promozionale della loro ricostruzione e del loro sviluppo ci
ritornerà moltiplicata – siamone certi – a tempo debito!
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Moneta e Credito
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