NICOLA RIZZO
Isbn 9788828806431
Estratto dal volume:
LE FONTI DEL DIRITTO ITALIANO
I testi fondamentali commentati con la dottrina
e annotati con la giurisprudenza
CODICE DELLA RESPONSABILITÀ CIVILE
a cura di Emanuela Navarretta
2021
CAUSALITÀ MATERIALE
Commento di NICOLA RIZZO
1218
Responsabilità del debitore. — Il debitore che non esegue esattamente la prestazione
dovuta è tenuto al risarcimento del danno, se non prova che l’inadempimento o il ritardo è
stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile.
1223
Risarcimento del danno. — Il risarcimento del danno per l’inadempimento o il ritardo
deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto
ne siano conseguenza immediata e diretta.
2043
Risarcimento per fatto illecito. — Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad
altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.
c.c.
c.c.
c.c.
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780
CAUSALITÀ MATERIALE
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SOMMARIO
1. Le cause dei fenomeni e le ragioni del diritto. — 2. Il significato attuale delle differenti teorie causali. —
3. Il fondamento scientifico dell’accertamento del nesso causale. — 4. La causalità civile. — 5. Il problema
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Parte III — RESPONSABILITÀ
EXTRACONTRATTUALE
1
del concorso tra concause umane e naturali. — 6. La giurisprudenza sul concorso tra concause umane e
naturali. — 7. Le diverse sfaccettature della c.d. responsabilità proporzionale.
1. Le cause dei fenomeni e le ragioni del diritto. Nel giudizio di responsabilità civile l’indagine causale risponde, primariamente, alla domanda su chi sia il
responsabile dell’illecito. La risposta è, evidentemente, essenziale al fine dell’imputazione della responsabilità, o per essere più precisi della sua imputazione oggettiva.
L’art. 2043 c.c. lega la nascita dell’obbligazione di risarcimento alla condizione che
l’atto doloso o colposo abbia cagionato un danno ingiusto: nel linguaggio del legislatore, il tema della ricerca eziologica è, dunque, il collegamento causale tra l’azione (o
la situazione del candidato responsabile) ed il danno o — con un lessico più consapevole dell’oggetto di questa indagine — l’evento dannoso (v., fra i tanti, MONATERI,
1998, 144 ss.; FRANZONI, 2004, 55 ss.; VISINTINI, 2005, 711 ss.).
Quando i giuristi parlano di nesso causale tendono, talvolta, a sottovalutare che gli
scopi dell’indagine eziologica, nel giudizio di responsabilità, influenzano la stessa
concezione del nesso causale per il diritto: una cosa, infatti, è chiedersi quale sia la
causa di un fenomeno; altra è imputarne la responsabilità ad un soggetto.
La lettura dell’art. 41 c.p. basta per intendere il punto: il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione
del colpevole, non esclude il rapporto di causalità tra l’azione od omissione e l’evento:
questa norma — si ritiene comunemente — sancisce la c.d. teoria dell’equivalenza
delle condizioni (v., per tutti, ROMANO, 2004, 396 ss.). Ogni condizione che ha concorso a cagionare l’evento deve esserne considerata la causa: evidentemente, al
legislatore non importa confermare che l’elemento naturale che abbia contribuito
alla verificazione dell’evento debba esserne considerato una causa; l’interesse, invece,
è tutto per l’azione o l’omissione del colpevole, che — questo il senso della regola —
resta causa del fatto pur se a determinarlo abbia contribuito anche un altro fattore. Al
legislatore dell’art. 41 interessa, cioè, stabilire che l’azione o l’omissione del colpevole
è causa dell’evento indipendentemente dall’incidenza che abbia avuto, nella produzione dello stesso, un’altra condizione necessaria.
In altre parole, mentre all’osservatore “neutrale” del fenomeno importa stabilire
quale incidenza abbia avuto ciascun fattore nella produzione di un certo evento,
quindi quale sia il decorso causale del medesimo; scopo del giudice è determinare se
una determinata azione od omissione possa qualificarsi causa dell’evento. Il legislatore si è, allora, preso in carico il compito di indicare al giudice il criterio attraverso
cui prendere tale decisione, definendo causa dell’evento quella qualunque azione od
omissione che abbia avuta una incidenza — al 1°comma dell’art. 41 non importa,
ancora, quale — sulla produzione dello stesso: su questa scelta si impernia tutta la
differenza che intercorre tra cercare una causa ed imputare una causa (i.e. imputare
la responsabilità).
L’art. 41, c. 1, rappresenta un corollario dell’art. 40 c.p.: quest’ultima norma lega
l’attribuzione della responsabilità ad una valutazione di consequenzialità dell’evento
rispetto alla condotta, commissiva od omissiva (v., fra i tanti, ROMANO, 2004, 361 ss.;
BLAIOTTA, 2010, 23 ss.). Mentre, però, l’enunciato dell’art. 40 è senz’altro concludente
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1
CAUSALITÀ MATERIALE
per l’epistemologo, non lo è per il giurista: dato che conseguenza è ciò che deriva da
una determinata causa, se l’evento da cui dipende l’esistenza del reato non si sarebbe
realizzato in mancanza dell’azione del candidato responsabile, l’epistemologo può
concludere, senza attardarsi oltre, che la condotta sia stata causa dell’evento; ben più
complessa, invece, si fa la questione per il giurista, in quanto l’azione — pur necessaria per la creazione dell’evento — potrebbe avere avuto una incidenza affatto
secondaria nella causazione dello stesso, ponendo, in tal caso, il dubbio che un’imputazione della responsabilità all’autore della condotta — perfettamente consonante,
dal punto di vista logico, con la norma dell’art. 40 — ne tradirebbe la sostanza
giuridico-sistematica: portando a considerare autore dell’evento chi sia artefice di
una condizione — certo necessaria, ma di incidenza marginale — nella sua produzione. Questa complessità, non ancora emergente agli artt. 40 e 41, c. 1, guadagna il
proscenio dell’art. 41, c. 2, determinando una frattura tra la logica pura e la logica
giuridica.
Differenti interpretazioni sono state avanzate di quest’ultima norma: l’alternativa
fondamentale si pone tra l’ulteriore conferma della teoria condizionalistica ed una
correzione che ne mitighi il rigore sovra inclusivo. Coessenziale alla prima tesi è
interpretare l’enunciato normativo nel senso che la « causa sopravvenuta da sola
sufficiente a determinare l’evento » esprima una serie causale del tutto autonoma
rispetto a quella innescata dalla condotta del candidato responsabile: è la nuova
sequenza, dunque, che rappresenterebbe la condizione necessaria dell’evento, senza
la quale — come dimostra il giudizio controfattuale — il fatto non si sarebbe verificato
(cfr. MARINUCCI-DOLCINI-GATTA, 2020, 215 ss.). In altre parole, la causa sopravvenuta
esaurirebbe in sé l’intera eziologia dell’evento laddove avesse interrotto il processo
causale in corso, avviato dalla condotta dolosa o colposa. Irrefutabile giunge, però, a
smentire questa tesi l’esito della c.d. eliminazione mentale: se la causa sopravvenuta
fosse (realmente) autonoma, cancellando la condotta il prodursi dell’evento non
verrebbe posto in discussione: se così fosse, la norma dell’art. 41, c. 2, verrebbe
senz’altro a porsi quale conferma dell’art. 40, cioè della teoria della condicio sine qua
non (cfr., in questo senso, STELLA, 2000, 388 ss.); a perdere senso, per questa via,
sarebbe però lo stesso enunciato del cpv. dell’art. 41, che rappresenterebbe nulla più
che una ripetizione della norma dell’art. 40.
Vero è che anche il 1° comma dell’art. 41 altro non è che un corollario dell’enunciato
che lo precede, ma mentre la regola sull’incapacità delle cause preesistenti, simultanee o sopravvenute di escludere l’efficienza eziologica della causa umana, se nulla
dice al logico molto spiega al giurista, rispondendo alla domanda sull’efficacia causale
della condotta umana necessaria ma scarsamente incidente nel processo di determinazione dell’evento; il capoverso dell’art. 41 — se inteso nell’interpretazione proposta dai fautori del “condizionalismo” — rappresenterebbe una ripetizione non solo
per la logica in sé ma pure per la logica giuridica.
Da preferire è, quindi, l’opinione che identifica nell’art. 41, c. 2, un’eccezione all’art.
40, nella misura in cui esclude che la condotta dolosa o colposa — pur necessaria nella
dinamica di produzione dell’evento — possa essere qualificata causa dello stesso. Per
questa via diviene difficile, però, determinare quando la causa sopravvenuta possa
reputarsi da sola sufficiente a cagionare l’evento: nelle differenti elaborazioni date
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Parte III — RESPONSABILITÀ
EXTRACONTRATTUALE
2
dalla dottrina (BLAIOTTA, 2010, 28 ss., 201 ss.), il fattore sopraggiunto potrà individuarsi quale unico artefice del fatto quando esprima un’efficacia eziologica tale che la
condotta dolosa o colposa, ad una prognosi postuma, risulti inadeguata a produrre
un evento del tipo di quello verificatosi (secondo la teoria della causalità adeguata);
ovvero quando la causa sopravvenuta consista in un accadimento rarissimo, soltanto
grazie al quale il processo eziologico innescato dall’elemento umano abbia potuto
generare una conseguenza come quella venutasi a creare (secondo la teoria della
causalità umana); ovvero, ancora, quando — considerato l’evento realizzatosi — lo
stesso non concretizzi il rischio implicato dalla condotta, e quindi dalla norma che la
vieta (secondo la teoria dell’imputazione oggettiva dell’evento).
2. Il significato attuale delle differenti teorie causali. La teoria della causalità adeguata interessa al giurista e non all’epistemologo, per la ragione che la
condizione dell’adeguatezza non è necessaria per individuare le cause di un fenomeno ma per giudicare se sia “giusto” imputare ad un soggetto la responsabilità.
Ponendosi dalla prospettiva del diritto penale, la valutazione di adeguatezza dell’antecedente a produrre una conseguenza come quella che si è verificata sarebbe garanzia del principio di personalità della responsabilità sancito dall’art. 27 Cost.: in questo
senso, l’imputazione di un evento all’autore di una condotta adeguata a produrlo,
sulla base di un giudizio ex ante, sarebbe un’imputazione giusta.
Del resto, tanto la teoria della condicio sine qua non quanto la costruzione della causalità
adeguata, a ben vedere, nulla apportano alla ricerca eziologica. Tanto l’una quanto
l’altra, infatti, non offrono alcuno strumento per stabilire se un determinato fattore
possa qualificarsi quale causa di un certo esito: così il giudizio controfattuale — su cui
si regge la teoria condizionalistica — rappresenta, semplicemente, un modello di
decisione, che permette di giungere alla formulazione di una soluzione attraverso
l’impiego di leggi scientifiche, universali o probabilistiche, od attraverso massime di
esperienza. Allo stesso modo, quando ci si chiede se una determinata condizione
dell’evento che si vuole imputare ad un soggetto sia, non solo necessaria nello
sviluppo eziologico del medesimo, ma pure adeguata a produrre una conseguenza
del tipo di quella verificatasi — sulla base di una valutazione da formulare ponendosi
al momento della realizzazione della condotta (c.d. prognosi postuma ex ante), e
contando sulle migliori conoscenze scientifiche del momento, da sommare alle cognizioni del candidato responsabile — non si sta facendo altro che sussumere il
fattore, sulla cui portata causale ci si interroga, sotto leggi della scienza, ovvero di altre
discipline o massime di esperienza: la risposta al quesito sull’adeguatezza (causale)
della condizione posta in essere dal candidato responsabile non viene realmente data
dalla teoria della causalità adeguata, né dallo schema — coessenziale alla stessa teoria
— della prognosi postuma ex ante, bensì dalle leggi elaborate nell’ambito delle discipline pertinenti allo specifico oggetto dell’indagine eziologica o dalle massime di
esperienza.
La teoria della causalità adeguata si sviluppa come reazione al condizionalismo, in un
diritto penale non ancora costituzionalizzato, colmo di ipotesi di responsabilità oggettiva (emblematico il caso dei c.d. delitti aggravati dall’evento), rispetto alle quali,
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2
CAUSALITÀ MATERIALE
quindi, l’imputazione soggettiva non può svolgere il ruolo, che le è proprio, di
discriminare tra condizione e condizione sulla base della rimproverabilità della condotta al soggetto (cfr. PULITANÒ, 2019, 171 ss.). Un’ascrizione della responsabilità, che
prescinda dal dolo e dalla colpa, contraddice il principio di imputazione della responsabilità per fatto proprio — e, dunque, il principio di personalità della responsabilità
— se l’imputazione oggettiva dell’evento poggia su di una teoria che risponde solo al
rigore dell’epistemologia, e non alle ragioni del diritto, come la teoria della condicio
sine qua non: la reazione dei dottori — concretizzatasi proprio attraverso l’elaborazione della teoria della causalità adeguata — è stata la tipizzazione della relazione
eziologica giuridicamente rilevante, realizzata attraverso l’individuazione di nessi
regolari tra classi di fatti. Lo stesso legislatore dell’art. 41, c. 2, quando assegna un
rilievo eccettuativo (di altre precedenti condizioni necessarie) alla causa sopravvenuta da sola sufficiente a cagionare l’evento, introduce una valutazione sull’incidenza
del singolo fattore eziologico affatto funzionale ad obliterare la rilevanza dei decorsi
causali atipici.
Le medesime considerazioni possono essere proposte a riguardo della tesi della c.d.
causalità umana (su cui v., in particolare, ANTOLISEI, 1934, 178 ss.), che tanta fortuna
ha avuto nella nostra giurisprudenza penale. Tiranti di questa teoria sono, da un lato,
l’esigenza — diffusamente sentita — di una precisazione del modello dell’adeguatezza causale; dall’altro, un più spiccato rafforzamento del principio della responsabilità per fatto proprio, con al centro l’azione dell’uomo quale vero oggetto della
causalità: una causalità umana per una umanizzazione della responsabilità, potrebbe
dirsi. La causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l’evento, in questa
logica, è il fattore rarissimo che — pur combinandosi con l’azione dell’uomo, senza la
quale il risultato lesivo non sarebbe, comunque, scaturito — assume su di sé l’intera
carica eziologica del fatto, impedendo un’imputazione oggettiva dell’evento prodromica ad un’ascrizione di responsabilità che non sarebbe valutata — nel giudizio dei
consociati — come propria dell’agente.
Riannodando le fila del discorso, né la teoria della condicio sine qua non né la dottrina
della causalità adeguata offrono un autonomo modello di soluzione del problema
causale, necessitando — ambo le costruzioni — di un livello cognitivo superiore che
dia sostanza agli schemi di decisione estrinsecantesi, rispettivamente, nel giudizio
controfattuale e nella stima di adeguatezza.
Il metodo della sussunzione sotto leggi scientifiche — universali, ma più spesso
probabilistiche — è stato proposto dai sostenitori della teoria condizionalistica ad
integrazione della medesima: a ben vedere, il suo accoglimento (non solo teorico ma
pure operativo, ad opera della giurisprudenza) risolve grandemente i problemi posti
dai fautori della teoria della causalità adeguata. Ancora più nettamente: nelle materie
oggetto di indagine scientifica — e pertanto di elaborazione delle relative leggi —
l’adozione della teoria della causalità adeguata risulta sostanzialmente inutile e,
perciò, superata. L’inconcludenza di questa ricostruzione è dovuta, anzitutto, al fatto
che le regole probabilistiche risolvono il problema dell’esclusione della rilevanza
causale (dal punto di vista giuridico) degli sviluppi anormali o — più precisamente,
appunto, poco probabili — creando, al contrario, il tema di quanto e come usare gli
785
Parte III — RESPONSABILITÀ
EXTRACONTRATTUALE
3
stessi coefficienti di probabilità: il dibattito giuridico in materia causale ne ha tratto,
peraltro, un rilevante guadagno, se non altro per nitore.
D’altra parte, se la teoria dell’adeguatezza (nell’ambito della vita segnato dall’applicazione di leggi scientifiche) ha perso la sua ragion d’essere, non hanno esaurito la
loro rilevanza le questioni alla base della sua elaborazione, che emergono, giustappunto, nel momento in cui si discute sul livello sufficiente di probabilità da raggiungere per l’imputazione oggettiva, dunque per la responsabilità o per l’irresponsabilità.
Fra i penalisti, la teoria della causalità adeguata, del resto, ha perso oramai totalmente
terreno, non solo nei settori dell’attività umana oggetto delle leggi probabilistiche ma
pure in quelli governati dalle “leggi” di altre discipline o dalle massime di esperienza;
e questo per l’attuale pervasività del principio di personalità della responsabilità, cioè
per la necessità che lo sviluppo causale dell’azione sia oggetto di dolo o sia quantomeno prevedibile dall’agente. Una porzione del posto che un tempo era occupata
dall’adeguatezza del nesso è, ora, coperta dalla teoria dell’imputazione oggettiva
dell’evento (cfr., soprattutto, DONINI, 2006, 19 ss.; 61 ss.) o — per usare un linguaggio
più familiare al civilista, anche se non del tutto preciso — dello scopo della norma
violata (su cui cfr., in particolare, TRIMARCHI, 1967, 52 ss.; BARCELLONA, 1973, 311 ss.).
Proprio il diritto civile, invece, quantomeno nelle declamazioni giurisprudenziali ma
pure in una certa area di conflitto, continua a riferirsi all’adeguatezza causale: resta
spazio per questa teoria in tutti i settori dell’attività umana che sono legati non a leggi
naturalistiche, ma d’interesse per le discipline sociali ed economiche.
3. Il fondamento scientifico dell’accertamento del nesso causale. È sul
legame tra scienza e diritto, cioè sull’uso della scienza nel giudizio di responsabilità,
che si gioca, attualmente, la definizione del problema causale.
Il vistoso ingresso della scienza nel processo riscrive le domande a cui le tradizionali
teorie causali cercavano di dare risposta: se a cambiare è, certamente, il linguaggio
con cui le questioni si pongono, vedremo che, in una certa misura, i nuovi problemi
hanno molto in comune con i vecchi, attorno a cui il dibattito sul nesso eziologico si è
sviluppato. Sintetizzando, le questioni fondamentali su cui si misura il cimento dell’interprete odierno si riducono, fondamentalmente, a due. Da un lato, il rapporto
tra leggi scientifiche e regole giuridiche: vale a dire se, ed a quali condizioni, un
risultato per la scienza possa trasformarsi in un giudizio (di responsabilità) per il
diritto; dall’altro, lo scarto tra l’astratta correlazione dei fenomeni oggetto dell’attenzione dello scienziato e la concreta sequenza dei fatti provati nel processo.
Conviene, però, andare con ordine.
La ricerca eziologica risponde, primariamente, alla domanda volta ad individuare il
responsabile dell’illecito, attraverso la determinazione dell’esistenza di un rapporto
causa-effetto tra la condotta posta in essere dal candidato responsabile (od una certa
situazione collegata allo stesso per il tramite di un criterio individuato dalla legge) e
l’evento dannoso. Definire la sussistenza di una relazione causale presuppone la
conoscenza della genesi degli eventi del tipo di quello sulla cui origine si indaga;
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3
CAUSALITÀ MATERIALE
conoscenza che è necessaria allo svolgimento dell’esame controfattuale dal cui esito
dipende la stessa ricerca eziologica (cfr. AGAZZI, 1999, 396 ss.).
A ben vedere, nel giudizio di responsabilità (civile o penale che sia) la determinazione
della sussistenza o meno della relazione causa-effetto non produce nuova conoscenza, limitandosi a farne applicazione secondo un schema di ragionamento di
matrice prettamente sillogistica, come la lettura di qualsiasi “classica” trattazione sulla
materia causale facilmente mostra (TRIMARCHI, 1967; REALMONTE, 1967): usualmente
l’interprete, prima, elabora una serie di esempi di illecito individuando — senza
alcuna difficoltà — l’origine della relazione eziologica sulla base della teoria condizionalistica, sicché valuta l’esito raggiunto mercé un qualche giudizio di valore,
ritenuto espressione dell’ordinamento giuridico, ed in caso di mancata corrispondenza tra la conclusione raggiunta attraverso il modello della condicio sine qua non e la
soluzione “giusta”, elabora una teoria causale — od aderisce ad una tesi già sviluppata
— che funzioni da correttivo della teoria condizionalistica, così da raggiungere il
risultato ritenuto corretto.
Proprio guardando alla letteratura classica sulla causalità, ci si avvede di come la
conoscenza dell’eziologia dei fenomeni venga data per scontata, né tantomeno divenga oggetto di classificazione: cionondimeno è il sapere delle scienze naturali che,
in molti casi, dà sostanza alla determinazione delle relazioni causa-effetto, senza però
che il fruitore della legge causale avverta la necessità di esplicitare la fonte della
premessa maggiore del suo ragionamento, la cui spiegazione analitica risulterebbe, in
effetti, ridondante al lettore, portato per esperienza a giungere, facilmente, alle
medesime conclusioni. Del resto, la conoscenza che l’autore ed il lettore condividono
— pur sofisticata che sia — è oramai acquisita per entrambi, quale sapienza diffusa
nella società di un dato tempo, ed assimilata per mezzo di massime di esperienza.
In un quadro, sotto questo aspetto, così sicuro, come si spiega la centralità assunta,
nel processo, dal sapere scientifico come tale; e cosa ha comportato?
Il primo interrogativo si scioglie nella considerazione della complessità del torto
(come del reato, del resto) nella modernità: lo sviluppo scientifico-tecnologico rappresenta, al contempo, un formidabile veicolo di inediti incidenti ed una potentissima cura delle conseguenze degli stessi, rivelandosi, singolarmente, fonte di “nuovi”
danni in entrambe le ipotesi. In questa chiave, si coglie la ragione per cui quel
bagaglio di conoscenze senza nome — munito del quale l’interprete, disinvoltamente,
ricostruisce i nessi causa-effetto — mostra tutta la sua insufficienza di fronte alla
complessità ed alla velocità dello sviluppo scientifico-tecnologico contemporaneo.
Al “nuovo” corredo di conoscenze necessario per condurre il giudizio di responsabilità — e, più precisamente, per affrontare l’indagine eziologica — l’interprete ha
dovuto dare un nome, oramai — anzi, tanti nomi quanti sono gli specialismi di cui il
sapere scientifico si nutre — ma proprio questa vivida consapevolezza ha coinciso con
la spoliazione, del resto inevitabile, del giurista (id est del giudice) dal ruolo di signore
di quella conoscenza e quindi, in una certa misura, pure del processo (cfr. TARUFFO,
2009, 213 ss.). Gli scienziati — nella veste di consulenti tecnici — fanno, così, ingresso
nell’agone giudiziario, quali unici veri detentori di un sapere non più né universale
(ontologicamente) né universalizzabile (inter-soggettivamente).
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Parte III — RESPONSABILITÀ
EXTRACONTRATTUALE
3
Cosa ha comportato, quindi, l’ingresso della scienza nel processo? Che il problema
non sia più solo né tanto quello del vaglio — fondato sui giudizi di valore dell’interprete — sulla ricostruzione della sequenza eziologica ottenuta sulla base dell’applicazione della teoria condizionalistica, al fine di accertare se l’esito ottenuto sia accettabile, bensì proprio quello di giungere ad una conclusione affidante sulla stessa
sussistenza della relazione causa-effetto (TARUFFO, 1992, 143 ss.).
La moderna complessità, al livello delle scienze naturali, si traduce nella diffusione di
leggi di tipo statistico, che descrivono correlazioni tra variabili empiriche, cioè la
tendenza di una di esse a variare con un’approssimazione più o meno grande — o,
appunto, con un grado di correlazione più o meno alto — in funzione dell’altra.
Mentre la sussunzione della sequenza di fatti oggetto del giudizio di responsabilità
nell’ambito di una legge universale permette di determinare, con certezza, se un
determinato antecedente possa o meno qualificarsi quale condizione necessaria di
una data conseguenza: la legge universale, dunque, provvede l’interprete di una
risposta all’interrogativo causale del tutto conferente con la domanda; nell’ipotesi
della sussunzione sotto leggi probabilistiche, al contrario, la risposta offerta dalla
scienza non è del tutto omogenea rispetto al quesito posto dall’indagine eziologica: se
ciò che si cerca è una causa ciò che si trova è una correlazione, più o meno affidante
se lo scopo è l’individuazione di una relazione causale (cfr. AGAZZI, 1999, 400 ss.;
STELLA, 2000, 153 ss., 275 ss., TARUFFO, 2006, 103 ss.). Le leggi c.d. probabilistiche
scoprono correlazioni di natura causale, in cui cioè — per il tipo di sperimentazioni
effettuate — un legame di tipo eziologico tra le variabili osservate è sostenibile. Ciò
che cambia, in queste ipotesi, non è il rigore dell’asserto ma la misura entro la quale
la correlazione (di natura causale) tra le variabili è stata riscontrata: escludendo le
ipotesi in cui la correlazione tra i fenomeni considerati sfiori la totalità delle misurazioni, negli altri casi non si potrà mai ricavare deduttivamente (modello nomologico
deduttivo) l’esistenza del nesso causa-effetto tra i fatti considerati nel giudizio di
responsabilità, sulla base della semplice sussunzione della sequenza osservata entro la
pertinente legge scientifica. Lo schema di ragionamento cui si dovrà accedere nell’indagine eziologica non sarà, pertanto, di tipo deduttivo (nomologico deduttivo)
bensì induttivo (nomologico induttivo), e se le conclusioni così raggiunte possono
soddisfare lo scienziato che si muove sul piano della c.d. causalità generale — in cui a
rilevare è il legame tra fenomeni presi nella loro dimensione tipologica — assai più
complessa è la situazione che si trova a fronteggiare il giurista, a cui, tutt’al contrario,
importa chiaramente solo della causalità individuale, rilevando il fenomeno oggetto
dell’indagine eziologica non in quanto tale ma come fatto causato da un soggetto che
può essere chiamato a risponderne (cfr. TARUFFO, 2006, 106 ss.).
A venir meno, nel paradigma nomologico-induttivo, è proprio la possibilità di predicare la necessità del nesso causale tra i fatti concreti di cui si occupa la ricerca causale
nel processo; eppure, ontologicamente, il legame causale o è necessario (anche solo
contingentemente) o non è.
Se il modello di ragionamento che il pensiero scientifico contemporaneo, in prevalenza, offre al giurista è di tipo nomologico-induttivo, di fronte all’interprete si apre
un bivio (che — vedremo poi — tende facilmente a trasformarsi in un trivio).
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3
CAUSALITÀ MATERIALE
Il giurista che prenda sul serio la funzione della ricerca eziologica nel giudizio di
responsabilità, non potrà che affidarsi esclusivamente alle leggi universali o quasi
universali quali unici parametri sulla base dei quali operare la sussunzione della
sequenza di fatti oggetto della fattispecie: non potendo l’evento essere imputato
(oggettivamente) all’autore della condotta che si candida ad esserne la causa, il
giudizio di responsabilità non potrà che risolversi in un diniego di tutela della vittima,
dovuto, già, all’insussistenza stessa del fatto (di reato — ponendosi nella prospettiva
del diritto criminale). È un problema di pieni e di vuoti (l’immagine può forse
rappresentare, facilmente, il discorso che si sta svolgendo): della legge probabilistica
il giurista non può che cogliere i vuoti, cioè il reciproco del coefficiente di probabilità
che esprime la correlazione che esiste tra due tipologie di fenomeni; proprio perché
la logica del giudizio di responsabilità non è generale bensì individuale. In questa
prospettiva, non ha quasi alcun valore l’indicazione del grado, seppure alto, di
correlazione, poiché in controluce svela la possibilità che l’evento possa avere un’altra
giustificazione; nello specifico un’altra causa rispetto alla condotta del presunto
responsabile. A ben vedere, è come se la legge statistica provvedesse l’interprete, ad
un tempo, della probabile spiegazione di un fatto e del ragionevole dubbio che quella
stessa interpretazione sia infondata (nel caso concreto).
I principi costituzionali — di stretta tipicità della sanzione penale e di personalità
della responsabilità — non potevano che portare la giurisprudenza (penale) ad
individuare nelle sole leggi universali, o quasi universali, gli unici parametri sotto la
cui copertura svolgere il giudizio controfattuale necessario all’individuazione della
causa dell’evento di reato. Non è un caso che il problema della matrice della c.d. legge
di copertura si sia posto, in particolare, nelle ipotesi di reato omissivo improprio, in
cui già si discute dell’efficienza eziologica di una condotta ipotetica e non reale, il
nodo essendo quello di determinare se — in luogo dell’inazione di colui il quale
rivesta una posizione di garanzia — una certa condotta avrebbe potuto impedire il
prodursi dell’evento. Affinché il giudice si formi un convincimento libero — ma
rispettoso, al contempo, del principio di tipicità e di personalità della responsabilità
— è necessario che il giudizio controfattuale — che, riguardo all’omissione, assume la
particolare forma della supposizione del verificarsi di una data azione, e non della
sottrazione della stessa dagli accadimenti che danno vita alla fattispecie concreta —
possa fondarsi sull’applicazione di una legge (universale o probabilistica) che istituisca una connessione certa, o rispettivamente quasi certa, tra la condotta ipotizzata ed
il secondo polo del giudizio causale (CP, SU, 11 novembre 2002, RCP, 2003, 94 ss.).
L’accennata biforcazione che il modello di sussunzione nomologico induttivo propone all’interprete è tra la scelta di basare il giudizio controfattuale, esclusivamente,
sulle leggi universali o quasi universali — e quindi, essenzialmente, rifiutare il ragionamento per induzione rimanendo nello schema deduttivo — o, viceversa, accogliere
l’apporto cognitivo che le leggi probabilistiche possono offrire al giudizio di responsabilità, scontandone però i relativi inconvenienti. Se la prima è stata, appunto, la via
imboccata dalla giurisprudenza penale, la seconda strada è, invece, quella percorsa
dalla giurisprudenza civile.
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Parte III — RESPONSABILITÀ
EXTRACONTRATTUALE
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4. La causalità civile. Nel giudizio civile — nell’ambito del quale, la
Cassazione (CC, SU, 11 gennaio 2008, n. 576, CP, 2009, 1, 69 ss., nt. BLAIOTTA)
conferma l’applicabilità degli artt. 40 e 41 c.p. — l’esistenza del legame causale tra la
condotta e l’evento viene, così, a perdere, inevitabilmente, la dimensione della necessarietà per abbracciare quella del rischio. Si tratta, a ben vedere, di un rischio
duplice, che tocca tanto il candidato responsabile quanto la vittima del pregiudizio:
scelto il coefficiente di probabilità — in presenza del quale la legge statistica che lo
esprime possa essere reputata un’idonea copertura dell’operazione di sussunzione
della sequenza di accadimenti portata alla ribalta dalla fattispecie oggetto del giudizio
— l’alea che grava sull’autore della condotta è la sovrainclusività della legge rispetto
alla (concreta) successione di eventi osservata. Vale, chiaramente, il reciproco per il
danneggiato: la legge che non sia generale (o quasi generale) esprime un coefficiente
di probabilità che è rappresentazione, in pari tempo, così di una certezza quanto di
una incertezza.
La grandezza che emerge dalla legge probabilistica individua la frequenza con cui si
manifesta la correlazione tra le variabili considerate dalla stessa: un coefficiente del
50% più uno indica che l’ipotesi in cui dato [A] si verifichi [B] è maggiore — quindi
più probabile — dell’ipotesi contraria. Si deve notare, però, come una tale conclusione valga solamente sul piano della c.d. causalità generale, mentre alcun elemento
conoscitivo sia in grado di apportare se a venire in rilievo sia la c.d. causalità individuale, cioè se l’incertezza non riguardi il legame tra [A] e [B] in quanto espressioni
tipologiche di fenomeni ma la relazione tra [Ac] e [Bc], laddove [c] designa l’evento
considerato nella sua concretezza. Ancora più chiaramente, se sul piano generale è
corretto – in presenza di un coefficiente come quello congetturato – ritenere che
l’ipotesi in cui [A] e [B] si presentino (causalmente) correlati sia più probabile del
contrario, sul piano della fattispecie individuale tale implicazione non pare altrettanto sostenibile: l’osservatore di fronte al caso concreto non potrà far altro, infatti,
che rimettersi alla prospettiva causalistica generale. Pertanto, quando la giurisprudenza civile (CC, SU, 11 gennaio 2008, n. 581, FI, 2008, 2, I, 453 ss.) fa riferimento
al criterio del più probabile che non — preponderance of evidence, per gli anglofili — pone
la misura minima per il riconoscimento della sussistenza del nesso eziologico poco
oltre il limitare tra il grado (percentualistico) di conferma e di smentita dell’ipotesi
(generale) sulla correlazione causale tra i fenomeni — rilevanti perché inveratisi nella
fattispecie oggetto del giudizio di responsabilità — precipitando, in questo contesto,
i risultati conseguiti in un ambito in cui l’evento in quanto tale non riveste, al
contrario, alcuna funzione. Da qui la considerazione che il giudizio civile abbracci la
dimensione del rischio, abbandonando quella della necessità (della sussistenza del
nesso eziologico): il rischio è quello creato dall’agente per aver dato luogo ad una
condotta che, secondo una determinata legge statistica, più probabilmente che non
potrebbe aver causato un evento dannoso del tipo di quello prodottosi (cfr. CAPECCHI,
2008, 143 ss.). Accolta questa soluzione, la giurisprudenza civile si instrada su di un
pendio (inevitabilmente) scivoloso. Infatti, se la valutazione sulla sussistenza del nesso
eziologico, nella fattispecie concreta, è improntata non alla necessità di un riscontro
certo bensì alla soddisfazione di un criterio aleatorio — come il più probabile che non —
risulta, in un certo modo, coerente l’attribuzione di giuridica rilevanza all’efficienza
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CAUSALITÀ MATERIALE
causale di condotte che, rispetto all’evento dannoso considerato nella sua matrice
fenomenica, facciano registrare coefficienti di rischio positivi, seppur inferiori, probabilisticamente, alla soglia del 50% più uno (è il caso della c.d. perdita di chance).
Non suscita meraviglia, quindi, che la Cassazione civile (CC 16 ottobre 2007, n.
21619, DR, 2008, 43 ss., nt. PUCELLA) abbia individuato ben tre livelli di accertamento
del nesso eziologico: « l’alto grado di credibilità razionale » necessario per l’identificazione del nesso eziologico tra la condotta e l’evento di reato; « il più probabile che
non » quale misura minima della sussistenza del legame causale nel giudizio di
responsabilità civile (la c.d. causalità ordinaria); « la possibilità » come risultato sufficiente dell’indagine eziologica al fine del riconoscimento di tutela per la c.d. perdita
di chance.
Per questa strada, vengono così in rilievo i temi della c.d. causalità equitativo-proporzionale; della perdita di chance; del concorso tra concause umane e naturali.
Prima, però, di addentrarci in questi problemi, è il caso di fare un passo indietro, per
analizzare quella che ho definito la seconda questione fondamentale posta dall’ingresso della scienza nel processo: lo scarto tra l’astratta correlazione dei fenomeni
oggetto dell’attenzione dello scienziato e la concreta sequenza dei fatti provati nel
processo. Il problema dell’utilizzabilità, nel giudizio di responsabilità, di leggi scientifiche portatrici di coefficienti medio bassi di correlazione (causale) tra fenomeni, ha
rappresentato l’occasione, per la giurisprudenza penale, di valutare — nel confronto
con la probabilità statistica — l’impiego della c.d. probabilità logica nel processo. In
questo contesto, la probabilità logica dà la misura della conferma dell’ipotesi che il
giudice, nel suo libero convincimento, formula sulla base dei fatti provati nel processo. Se l’ipotesi si estrinseca in un enunciato che descrive la relazione tra gli
accadimenti — così come provati nel processo — che rappresentano i poli della
relazione causale, la cui sussistenza si vuole dimostrare; fatti che vengono descritti in
modo tale da attingere ad un livello di astrazione sufficiente a renderli sussumibili
sotto una pertinente legge statistica; la probabilità logica, calando l’enunciato attorno
al nesso causale nella vicenda concreta del processo, può suffragarne la fondatezza
sperimentandone la credibilità razionale — o, appunto, la tenuta logica — in relazione agli elementi di prova raccolti, in una dinamica che dal particolare va al
generale (attraverso la descrizione tipologica degli eventi e l’operazione di sussunzione), per tornare alla fattispecie singolare oggetto del giudizio (tramite la conferma
dell’ipotesi elaborata a confronto con i dati di realtà disponibili).
Così, anche una legge statistica che offra coefficienti medio bassi di probabilità c.d.
frequentista intorno alla correlazione tra due fenomeni, potrebbe rappresentare —
pure nel processo penale, guidato dal criterio di decisione dell’« oltre ogni ragionevole dubbio » — un’idonea copertura della valutazione controfattuale in ordine alla
necessità della relazione causale tra un determinato antecedente ed una certa conseguenza. La giustificazione di questo risultato necessita che si assuma di conoscere —
in astratto — l’esatta eziologia di un certo tipo di evento e di poter escludere — in
concreto — la sussistenza, nella fattispecie considerata, di tutti i fattori alternativi
idonei a provocarne la causazione, eccetto ovviamente quello posto in essere dal
candidato responsabile, pur se (in via generale) correlato all’evento con una frequenza medio bassa.
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Parte III — RESPONSABILITÀ
EXTRACONTRATTUALE
5
L’utilità dell’esclusione di fattori eziologici alternativi è, peraltro, sostenuta dalle
sezioni unite penali (CP, SU, 11 novembre 2002, cit.) specificamente riguardo ad
un’ipotesi di reato omissivo improprio, rispetto alla quale — a ben vedere — l’indagine causale deve, per forza di cose (cioè per la necessità della logica), imperniarsi sul
presupposto della certa efficacia impeditiva dell’evento da parte della condotta
omessa. L’esclusione di possibili decorsi eziologici differenti si rivela, pertanto, priva
di senso, giacché proprio l’omissione costituisce il fattore alternativo sulla cui forza
preclusiva (del fatto) ci si interroga. Ne deriva che — anche nelle fattispecie di reato
omissivo improprio — sarà rilevante appurare che non sussistano decorsi causali
diversi rispetto a quello che una legge statistica ricollega all’evento (anche con una
frequenza medio bassa), in guisa tale da rendere razionalmente credibile la conclusione raggiunta sul processo di causazione del fatto-reato; ma tali fattori eziologici
alternativi sono quelli che si pongono in concorrenza rispetto ad un processo causale
reale e non ipotetico (come quello che si immagina laddove il candidato responsabile
avesse realizzato la condotta, invece, omessa). Così, una volta chiarito quale sia stato
il percorso causale (reale) che ha portato all’evento, sarà allora possibile domandarsi
se l’azione omessa sarebbe stata idonea ad impedirne il verificarsi: come detto, questo
interrogativo potrà essere soddisfatto, però, solo disponendo di un’esatta cognizione
sulla capacità del fatto (omesso) di evitare l’evento concretamente realizzatosi (cfr.
DONINI, 1999, 32 ss.).
5. Il problema del concorso tra concause umane e naturali. Definito, così,
il quadro generale entro cui opera l’accertamento del nesso causale, ci si deve ora
addentrare in un’analisi che guardi, più specificamente, ai problemi della causalità
nel giudizio di responsabilità civile, ed in particolare alle questioni del concorso tra
concause naturali e cause umane imputabili e della c.d. responsabilità proporzionale;
e della (sua) variante della c.d. responsabilità equitativo-proporzionale o per l’aumento del rischio.
L’art. 2055 c.c. disciplina l’ipotesi del concorso tra cause — anche indipendenti tra
loro — che abbiano contribuito alla produzione dell’evento dannoso, ponendo al 1°
comma una regola che non ha a che fare con la determinazione della responsabilità
di ognuno dei coautori e, in particolare, con la individuazione del contenuto dell’obbligazione di risarcimento gravante su ciascuno, bensì con la definizione dalla natura
parziaria o solidale dell’obbligazione (cfr. GNANI, 2005, 11 ss.; ORLANDI, 1993, 101 ss.;
BUSNELLI, 1974, 85 ss.). L’art. 2055 sceglie la seconda qualificazione, così da porre il
danneggiato nella migliore condizione di ottenere il risarcimento dell’intero pregiudizio subìto da ciascuno dei condebitori, evitando, per questa via, una parcellizzazione delle richieste di risarcimento del danno verso i differenti corresponsabili. Una
frammentazione del risarcimento si delinea, invece, nella fattispecie del 2° comma
dell’art. 2055, allorquando viene in gioco, però, la pretesa non del danneggiato — già
soddisfatto da uno dei corresponsabili dell’illecito — ma di quello fra i coautori resosi
adempiente all’obbligazione risarcitoria, il quale dimostrando l’efficacia eziologica
della colpa di ciascun concorrente — nonché la gravità della medesima — potrà agire
in regresso nei confronti degli altri compartecipi, portando così ex post ad una
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5
CAUSALITÀ MATERIALE
calibratura del risarcimento fondata sulla misurazione dell’apporto causale del singolo autore.
Di concorso di cause si occupa anche l’art. 1227, c. 1, c.c. (a cui rinvia, nell’ambito
della responsabilità extracontrattuale, l’art. 2056 c.c.): la protasi è la compresenza
della condotta del danneggiante con il fatto colposo del danneggiato, ne consegue la
diminuzione del risarcimento, secondo la gravità della colpa e l’entità delle conseguenze che ne sono derivate: la convergenza tra le colpe si realizza nella produzione
dell’evento lesivo, cioè nel processo di causazione dell’inadempimento o dell’evento
che lede la situazione giuridica meritevole di protezione secondo l’ordinamento
giuridico (v. per tutti, CAREDDA, 2015, 11 ss.). Proprio il fatto che oggetto della
fattispecie sia l’eziologia dell’evento dannoso — che da solo è in grado di far sorgere
la responsabilità — ha portato la dottrina, seguita, poi, dalla giurisprudenza, a
ritenere che il concorso di cui all’art. 1227, c. 1, regoli un’ipotesi di causalità materiale
e non giuridica (nel senso che l’art. 1227 esprima una regola di responsabilità e non
di causalità v. CASTRONOVO, 2018, 362 ss.).
Essendo queste le norme che la legge civile dedica al concorso di responsabilità, si può
già constatare come, nel nostro ordinamento, non vi siano disposizioni (precipuamente) dedicate alla specifica ipotesi dell’interazione tra concause umane e naturali.
Cionondimeno, dagli artt. 2055 e 1227 sono stati tratti argomenti tanto contro
quanto a favore della rilevanza giuridica del concorso tra concausa naturale e umana;
argomenti che, in controluce, svelano un conflitto tra principi, sul quale è il caso di
porre attenzione, prima di analizzare le giustificazioni delle tesi contrapposte nel loro
aspetto tecnico.
Nella materia della responsabilità civile (extracontrattuale), la dimensione del conflitto tra principi si è incanalata, storicamente, in un contrasto sulle funzioni dell’istituto, di cui di volta in volta viene accentuata la finalità marcatamente solidaristico
compensativa od il profilo punitivo. Un’ormai consolidata sistemazione concettuale
assegna al principio di solidarietà, scolpito nell’art. 2 Cost., il ruolo di tenere assieme
i presupposti ed i fini della responsabilità aquiliana, restituendone un volto unitario:
la solidarietà — attraverso la clausola generale di ingiustizia del danno — limita la
libertà di agire dei soggetti al cospetto di altrui situazioni giuridiche tutelate, per un
qualche fine, dall’ordinamento, seppur non nella forma del diritto soggettivo assoluto, dunque non protette attraverso l’imposizione di generalizzati doveri di astensione (RODOTÀ, 1964, 79 ss.). Caratterizzandone il fondamento, inevitabilmente la
solidarietà impronta di sé anche gli stessi fini della responsabilità, vale a dire la
funzione dell’obbligazione risarcitoria, connotandola in un senso schiettamente compensativo (cfr., anche per i necessari riferimenti bibliografici, RIZZO, 2015, 295 ss.).
Non meno articolato, peraltro, è il ruolo che, nel tempo, il principio di solidarietà è
venuto a rivestire nell’ambito della responsabilità contrattuale, tramite la clausola
generale di correttezza e buona fede.
Sennonché la concezione della responsabilità — o, meglio, della condanna del responsabile ad una prestazione patrimoniale — come punizione non disarma, seguitando ad offrire una chiave di lettura dell’istituto eccentrica rispetto a quella riparatorio compensativa, ma soprattutto soluzioni operative che si fanno chiare, in
particolare, nel settore del danno non patrimoniale, in cui la funzione compensativa
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Parte III — RESPONSABILITÀ
EXTRACONTRATTUALE
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— non potendo contare sull’ancoraggio alla teoria della differenza — fatica maggiormente a dispiegarsi (cfr. RIZZO, 2018, 1811 ss.).
Ora, compensazione e punizione solitamente si fronteggiano nel definire funzionalmente ed operativamente l’orizzonte di senso della responsabilità civile, ma quando
si tratta del tema della rilevanza giuridica del concorso tra concause umane e naturali,
le istanze di compensazione del danneggiato e punizione del danneggiante sembrerebbero convergere nel sancirne l’ininfluenza, classificando irrimediabilmente questa forma di concorso come spuria. Infatti, così come — concentrandosi sul pregiudizio subìto dal danneggiato — la considerazione del peso attribuibile alla concausa
naturale, nel processo di causazione del medesimo, sembra impedire quella riparazione integrale del danno, cui la responsabilità, sempre, dovrebbe tendere per adempiere alla sua funzione; allo stesso modo — volgendosi al danneggiante, vale a dire
alla sua condotta — l’assegnazione di un rilievo alle concause naturali depotenzierebbe la punizione dell’agente, il quale se ha commesso (od omesso) un’azione idonea
a renderlo responsabile di un illecito, di tale responsabilità dovrebbe sopportare ogni
conseguenza: ne verrebbe meno, in caso contrario, la stessa efficacia deterrente e
retributiva del risarcimento. Più concretamente, riconoscere l’efficienza eziologica
dispiegata dalla concausa naturale nella produzione dell’evento dannoso e ridurre,
su questa base, il quantum del risarcimento depotenzia, al contempo, l’efficacia compensativa della riparazione per il danneggiato, che non potrà contare sul pieno
ristoro del pregiudizio subìto, e l’efficacia punitiva della condanna (risarcitoria) per il
danneggiante, il disvalore della cui condotta tale rimane con o senza la concausa
naturale.
Nella materia del concorso, l’evocato conflitto tra principi non vede contrapporsi,
dunque, la compensazione e la punizione — che, anzi, convergono nell’escludere la
rilevanza giuridica delle concause naturali — ma il principio di integrale riparazione
del pregiudizio e la concezione punitiva della condanna risarcitoria. Ciò che spetta al
danneggiato è una somma di denaro equivalente al valore del pregiudizio subìto, che
rappresenta così la soglia oltrepassata la quale — nei due possibili versi, positivo o
negativo — il risarcimento abdica alla sua funzione, prendendo la forma, rispettivamente, dell’arricchimento — come tale ingiustificato — o della (parziale) negazione
di tutela della vittima. A ben vedere, però, il principio di integrale riparazione è, esso
stesso, un corollario della funzione compensativa della responsabilità, da concepirsi
tuttavia — in questo caso — quale espressione del principio di uguaglianza e non di
solidarietà.
Così, rispetta il principio di uguaglianza quel sistema di responsabilità che condanna
il convenuto a risarcire un danno che possa essere imputato oggettivamente alla sua
azione; creandosi, in caso contrario, una sperequazione tra il danneggiante ed il
danneggiato, poiché ciò che il secondo riceve non è riparazione ma arricchimento.
Pertanto, se il danneggiante è condannato a risarcire un pregiudizio che in parte —
ma il punto sarà chiarito nel prosieguo — non gli è oggettivamente imputabile, si crea
una discriminazione tra i danneggianti come tra l’offensore e la stessa vittima: tra
danneggianti, che vengono trattati in egual modo quantunque autori unici dell’illecito ovvero in concorso con un fattore eziologico non imputabile ad alcuno, come,
appunto, quello determinato da un elemento naturale: dunque, a situazioni diverse
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CAUSALITÀ MATERIALE
consegue il medesimo effetto giuridico. Al contempo, contrario al principio di uguaglianza è pure il trattamento cui vengono assoggettati danneggiato e danneggiante,
nella misura in cui il primo — ottenendo dal secondo la compensazione piena di un
pregiudizio che, solo in parte, trova causa nella condotta dell’agente — profitta di
una attribuzione patrimoniale (parzialmente) ingiustificata: l’esito del giudizio di
responsabilità viene, così, a sbilanciare lo stato di equilibrio tra le sfere giuridicopatrimoniali dei soggetti, fondamentale corollario del principio di uguaglianza.
Tanto premesso, il principio di integrale riparazione del pregiudizio, inteso nell’accezione del divieto di ingiustificato arricchimento, imporrebbe — nelle forme che
verranno discusse oltre, prendendo in esame il dibattito sviluppatosi in dottrina e in
giurisprudenza — di riconoscere l’apporto causale dato dal fattore naturale alla
produzione dell’evento dannoso. Per questa via — siamo, così, all’evocato conflitto
tra principi — il cardine dell’integrale riparazione del danno si scontra con la concezione punitiva della responsabilità: è chiaro, infatti, che se la condotta è valutata
non in rapporto al pregiudizio ma in quanto tale, allora il concorso o meno della
concausa naturale nulla toglie e nulla aggiunge al disvalore dell’azione posta in essere
dal danneggiante in sé considerata. In altre parole: nella misura in cui — a prescindere dalla partecipazione di un elemento naturale all’eziologia dell’evento dannoso
— il disvalore dell’azione del danneggiante rimanga intatto, la visione della responsabilità come punizione — implicando il disconoscimento di qualsivoglia rilevanza
giuridica al concorso tra concause umane e naturali — è destinata a scontrarsi con il
principio di integrale riparazione del pregiudizio.
Pur potendo sembrare bizzarro, si può notare come l’imprimere una curvatura
punitiva alla responsabilità civile porti, nella materia del nesso eziologico, ai medesimi risultati cui si giunge assegnando alla responsabilità una funzione compensativa:
tanto nell’una quanto nell’altra prospettiva, l’esito è l’inconfigurabilità del concorso
di un fattore naturale con la condotta del responsabile. Diversamente, il principio di
integrale riparazione del pregiudizio porta, invece, a ritenere integrato un concorso
di cause anche qualora una di esse non sia imputabile ad alcuno, come nell’ipotesi
dell’intervento di un elemento naturale nel processo di produzione dell’evento dannoso.
Disconosciuta qualunque nuance punitiva alla responsabilità di diritto civile, la soluzione del problema del concorso tra concause naturali ed umane è da ricercarsi in un
corretto inquadramento della funzione compensativa del risarcimento, quale espressione tanto del principio di solidarietà quanto del principio di uguaglianza, perfettamente e bilateralmente convergenti nel divieto (i.e. principio) di ingiustificato
arricchimento e nel principio di integrale riparazione del pregiudizio.
Si può cercare, ora, di capire come il dibattito sul rilievo da attribuire alle concause
naturali si nutra degli argomenti che si possono formulare sulla base degli artt. 1227
e 2055. La qualificazione come solidale dell’obbligazione risarcitoria, di cui all’art.
2055 c. 1, offre — proprio nella logica del principio (costituzionale) di solidarietà —
un argomento contro la rilevanza giuridica delle concause naturali e proprio in
quanto naturali, cioè in quanto non imputabili ad alcuno. La naturale solidale dell’obbligazione risarcitoria mostra, una volta di più, l’orientamento del nostro sistema
di responsabilità civile ad assicurare al danneggiato la compensazione piena del
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Parte III — RESPONSABILITÀ
EXTRACONTRATTUALE
6
pregiudizio subìto, gravando il danneggiante (cui viene chiesto l’adempimento per
l’intero) del rischio dell’insolvenza degli altri corresponsabili.
Utile a dimostrare la configurabilità del concorso tra concause umane e naturali si
mostra, invece, il 2° comma dell’art. 2055. La considerazione che, nel campo del
regresso tra coautori, l’oggetto dell’obbligazione sia calibrato (anche) sulla base dell’apporto causale di ciascuno dei corresponsabili rappresenta, effettivamente, un
indice se non altro del fatto che l’ordinamento conosca un modello di determinazione
dell’oggetto dell’obbligazione attraverso l’individuazione dell’apporto (con)causale
dei differenti fattori che hanno prodotto l’evento lesivo. L’art. 2055, peraltro, al c. 3,
si pone pure il problema che l’apporzionamento della responsabilità non si riveli
tecnicamente possibile: inconveniente risolto attraverso l’adozione di una regola di
carattere equitativo: nel dubbio le singole colpe si presumono uguali.
Come già ricordato, l’ordinamento prevede, già, una calibratura del contenuto dell’obbligazione di risarcimento del danno anche nell’ipotesi di cui all’art. 1227, c. 1, e
sulla base dei medesimi parametri individuati per perimetrare il contenuto dell’azione di regresso del debitore adempiente.
Un interludio, in questa fase del ragionamento, può rivelarsi utile. Accogliendo la tesi
della segmentazione del nesso eziologico in causalità materiale e causalità giuridica, la
giurisprudenza assegna alla norma dell’art. 1223 la funzione di regolare la dimensione della c.d. causalità giuridica, assegnandole così il ruolo di definire, attraverso
l’indagine eziologica, il perimetro dell’obbligazione di risarcimento. D’altra parte,
anche le norme degli artt. 1227, c. 1, e 2055, c. 2, determinano — proprio attraverso
la ricerca causale — l’oggetto dell’obbligo risarcitorio che grava sul danneggiante:
qual è, allora, la differenza che — con un’attenzione portata al profilo funzionale
delle regole — si può tracciare tra queste norme e l’art. 1223? In ciascuna delle
fattispecie menzionate, l’indagine eziologica assume il ruolo di fattore determinante
della quantificazione del risarcimento, però, nell’ipotesi di cui all’art. 1223, il compito
della ricerca eziologica è selezionare gli eventi dannosi che possono dirsi conseguenza
dell’inadempimento o dell’evento ingiusto (ossia dell’evento dannoso che corrisponde alla lesione dell’interesse meritevole di protezione ex art. 2043); nelle fattispecie degli artt. 2055, c. 2, e 1227, c. 1, invece, l’indagine causale non determina il
contenuto dell’obbligazione qualificando (o meno) gli eventi dannosi come conseguenze immediate e dirette dell’illecito, bensì attraverso l’individuazione dell’apporto eziologico dei singoli fattori nella determinazione degli eventi dai quali dipende la responsabilità.
6. La giurisprudenza sul concorso tra concause umane e naturali. Ora, a
fronte di questi indici normativi, la giurisprudenza della Cassazione ha maturato
negli ultimi anni posizioni opposte: sugli artt. 2055, c. 2, e 1227, c. 1, la sentenza n.
975 del 2009 (CC 16 gennaio 2009, 975, DR, 2010, 372 ss., nt. CAPECCHI) ha fondato
il riconoscimento della rilevanza giuridica delle concause naturali; ed è andata anche
oltre, dando spazio alle tesi della c.d. causalità equitativo proporzionale ed indirettamente dell’aumento del rischio. Tralasciando, ma solo per il momento, il tema del
ricorso all’equità, l’argomento principale della Corte sembra proprio essere quello
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6
CAUSALITÀ MATERIALE
secondo cui l’ordinamento conoscendo già — come dimostrano le norme, precedentemente, analizzate — una forma di apporzionamento dell’obbligo risarcitorio —
sulla base di una misurazione dell’efficienza eziologica delle differenti concause
dell’illecito — deve applicare un’analoga disciplina alle concause naturali, del cui
apporto causale è, parimenti, necessario tenere conto nella quantificazione del risarcimento addossato all’agente.
In due pronunce successive, la n. 15991 del 2011 (CC 21 luglio 2011, n. 15991,
NGCC, 2012, I, 180 ss., nt. PUCELLA) e la n. 3893 del 2016 (CC 29 febbraio 2016, n.
3893, NGCC, 2016, I, 1049 ss., nt. D’ADDA), la Cassazione corregge decisamente il
proprio orientamento, sostenendo che il solo rilievo che la concausa naturale assume
nel giudizio di imputazione della responsabilità, extracontrattuale o da inadempimento, è quello di fattore di esclusione della stessa, nell’eventualità in cui si accerti che
il fatto naturale sia stato da solo sufficiente a determinare l’evento lesivo. Il significato,
soltanto ostativo dell’imputazione di responsabilità, attribuito alla concausa naturale,
si giustifica — nel ragionamento della Corte — attraverso un’opposta analisi delle
disposizioni pocanzi esaminate.
Nel nostro ordinamento, l’unica norma ad attribuire rilevanza giuridica all’azione
della concausa naturale, nel processo di causazione dell’evento lesivo, sarebbe l’art.
41, c. 2, c.p., assegnando ad essa, però, la sola funzione di escludere la responsabilità
dell’autore della condotta della cui efficienza eziologica si discute, nel caso in cui il
fatto naturale abbia interrotto il decorso causale che dalla predetta condotta avrebbe
potuto portare all’evento lesivo. Suggella questa conclusione la disposizione del
primo capoverso dello stesso art. 41, quando prevede che il concorso di cause
preesistenti, simultanee o sopravvenute non escluda il rapporto di causalità fra
l’azione e l’evento; regola che, se considerata sotto la specola della concausa naturale,
porta in effetti ad arguire che qualunque ruolo — diverso dall’interruzione del nesso
— abbia giocato il fatto naturale nella determinazione dell’evento, il giudizio sull’imputazione della responsabilità non cambi di segno (nel senso dell’irrilevanza della
concausa naturale nel giudizio di responsabilità civile: CC 8 marzo 1963, n. 568, GI,
1964, I, 209 ss.; CC 5 novembre 1999, n. 12339, NGCC, 2000, I, 661 ss.; CC 4
novembre 2003, n. 16525, DR, 2004, 677 ss.; CC 2 febbraio 2010, n. 2360, NGCC,
2010, I, 940 ss.; CC 6 maggio 2015, n. 8995, De Jure.
In dottrina v., tra i sostenitori di questa tesi, FORCHIELLI, 1960, 89 ss.; REALMONTE,
1967, 151 ss.; SALVI, 1988, 1257 ss.)
Questo esito sarebbe, appunto, confermato dall’interpretazione della norma dell’art.
2055, c. 1, non smentito dalle norme di cui agli artt. 1227, c. 1, e 2055, c. 2: il primo
capoverso dell’art. 2055, ponendo la regola della solidarietà nell’adempimento dell’obbligazione risarcitoria, riafferma, infatti, il principio dell’integrale riparazione del
pregiudizio pur a fronte di un evento dannoso derivante dall’azione di più condotte;
principio che, pensando al ruolo da attribuire alla concausa naturale nel giudizio di
responsabilità, impedirebbe di pensare ad essa — neppure imputabile ad alcuno —
come ad un fatto ricorrendo il quale il risarcimento del danno debba essere ridotto in
proporzione alla sua efficacia eziologica. D’altra parte, è vero che l’art. 2055, c. 2,
determina l’oggetto dell’azione di regresso in relazione all’effettivo apporto causale
di ciascun autore dell’evento lesivo, ma tale divisione della responsabilità — ottenuta
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Parte III — RESPONSABILITÀ
EXTRACONTRATTUALE
7
segmentando il nesso causale — regola, non a caso, soltanto i rapporti interni tra
codanneggianti; mentre l’unica ipotesi in cui il risarcimento dovuto al danneggiato
diminuisce a seconda dell’effettiva efficacia causale riconosciuta all’azione del danneggiante è quella in cui, ex art. 1227 c. 1, la concausa è rappresentata da una
condotta del medesimo danneggiato, al quale non può essere assicurata la compensazione di (una parte di) un danno che, in mancanza di una sua stessa colpa, non si
sarebbe prodotto.
7. Le diverse sfaccettature della c.d. responsabilità proporzionale. La
Cassazione, più in generale, prende posizione contro quell’orientamento — fatto
proprio dalla pronuncia n. 975 del 2009 — definito « causalità equitativo proporzionale », portatore della tesi secondo cui la responsabilità dovrebbe essere imputata al
soggetto in misura proporzionale all’apporto causale recato dalla sua condotta, da
determinarsi ricorrendo anche, nei casi più difficili, ad un giudizio equitativo.
Per descrivere, succintamente ma compiutamente, il contenuto di questo orientamento, mi sembra utile scomporne la definizione chiedendomi perché la causalità
dovrebbe essere « proporzionale », e cosa si intenda per giudizio di equità in materia
di nesso causale. Prima di rispondere a questa domanda, bisogna precisare che la
causalità equitativo proporzionale si afferma in un contesto — in particolare quello
medico legale — di incertezza nella determinazione della relazione eziologica tra gli
eventi (cfr. PUCELLA, 2007, 165 ss.), per dare forma ad un giudizio di responsabilità
che persegua l’obbiettivo tanto di non lasciare la vittima del pregiudizio priva di
qualsivoglia compensazione, quanto di non addossare al danneggiante il peso dell’intero danno anche nelle ipotesi di processi eziologici complessi, di cui solo una
porzione può effettivamente essergli imputata. Con questo scopo, e quindi per
ragioni di giustizia sostanziale, si vuole superare la regola definita, nella letteratura
nordamericana, dell’all or nothing, secondo la quale, raggiunta la prova che un certo
antecedente è la causa di una determinata conseguenza, all’autore della condotta
viene attribuita, per intero, la responsabilità dell’evento lesivo e l’onere economico
dell’integrale risarcimento del relativo danno, pur quando l’affermato rapporto
causa-effetto sia stato accertato solo nella misura del più probabile che non: alla regola
dell’all or nothing deve sostituirsi quella della causalità proporzionale. Specularmente,
la spinta solidaristica verso il danneggiato porta a soppiantare la regola del più
probabile che non — soglia minima al di sotto della quale non può ritenersi provato che
[A] sia causa di [B] — con una valutazione che, equitativamente, imputi all’autore di
[A] quella porzione di responsabilità commisurata alla probabilità che [A], concretamente, abbia causato [B], ancorché non sia provato che la relazione tra [A] e [B] sia
più probabile della derivazione di [B] da un’altra fonte: la causalità proporzionale
può equitativamente superare la regola del più probabile che non (sostiene questa tesi, in
particolare, CAPECCHI, 2012, 266 ss.).
La Cassazione, con la sentenza n. 3893 del 2016, riprende le critiche che aveva già
rivolto a questo orientamento con la pronuncia n. 15991 del 2011: la tesi di una
valutazione equitativa e proporzionale del nesso causale è incompatibile con il nostro
sistema di responsabilità civile, come dimostra l’interpretazione — proposta dalla
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7
CAUSALITÀ MATERIALE
Corte — degli artt. 41 c.p. e 1227 e 2055 c.c., che impone una determinazione
oggettiva delle relazioni causali.
La sentenza n. 15991 del 2011 non aveva, peraltro, chiuso ogni spazio ad una
valutazione equitativa sul nesso di causalità — giuridica, però, non materiale —
affermando che, una volta individuato a monte, e su di una base oggettiva, il nesso di
causalità cd. di fatto, l’equità del giudice potrebbe rientrare, a valle, tra i criteri di
valutazione del danno risarcibile da porre a carico del danneggiante (cd. causalità
giuridica). Proprio nella complessa ipotesi in cui, nello sviluppo del processo eziologico di una certa malattia, si accerti la probabile incidenza di una patologia pregressa,
mentre ciò non basta ad escludere l’affermazione della sussistenza del nesso causale
tra la condotta del medico e l’evento lesivo, può avere, invece, un rilievo in sede di
selezione dei danni risarcibili, portando ad una equa riduzione del risarcimento del
danno, legittimata dalla norma dell’art. 1226 c.c. Tale soluzione è, sostanzialmente,
condivisa anche dalla pronuncia n. 3893 del 2016, con un distinguo importante dal
punto di vista teorico, espresso dai giudici con un obiter dictum: « dovendo la relazione
materiale designante il derivare di un evento da una condotta (dolosa o) colposa
essere correttamente qualificata come nesso di causalità (non già meramente materiale bensì) giuridica, quantomeno in ragione dell’essere essa rilevante per il diritto
[...], il diverso ed autonomo (successivo) momento della determinazione del risarcimento dovuto attiene in realtà propriamente non già al piano della “causalità giuridica” bensì a quello dei criteri di delimitazione dell’ambito del danno risarcibile,
come risulta confermato (anche) dalla segnalata interpretazione che riceve l’art. 1223
c.c. Tale norma non pone infatti una regola in tema di nesso di causalità ma si risolve
nell’indicazione di un mero criterio [...] di delimitazione dell’ambito del danno
risarcibile » (criticano la tesi della scomposizione del giudizio causale nelle fasi della
c.d. causalità materiale e della c.d. causalità giuridica, soprattutto, BELVEDERE, 2006, 7
ss.; PUCELLA, 2007, 239 ss.; RIZZO, 2020, 327 ss.).
Riguardo alla tesi della c.d. causalità equitativo proporzionale, non sembra che
questo orientamento possa essere approvato o disapprovato una volta per tutte, nella
sua interezza, dovendo, invece, essere considerato, partitamente, guardando agli
obbiettivi che si prefigge. Accogliendo questo punto di vista, la tesi della causalità
equitativo proporzionale può essere condivisa quando mira al superamento della cd.
regola dell’all or nothing; deve invece essere rigettata quando porta l’equità tra i criteri
di giudizio sulla sussistenza del nesso causale.
Cominciando da questo secondo aspetto, si può subito osservare come la causalità
equitativa si ponga nella medesima scia che ha accompagnato la creazione del cd.
danno da perdita di chance.
Anche in questa ipotesi, infatti, il problema — se tale lo si ritenga — è quello di evitare
l’iniquità che deriverebbe dall’impossibilità di imputare al candidato danneggiante
una responsabilità per il verificarsi dell’evento lesivo, a cagione del mancato raggiungimento della prova della sussistenza di un nesso causa-effetto tra la condotta e
l’evento. Se non può accertarsi, nella misura minima del più probabile che non, che
l’utilità che il supposto danneggiato aveva di mira sia mancata a causa della condotta
del presunto danneggiante, si crea una nuova ed autonoma posizione soggettiva —
estrinsecantesi proprio nella chance di conseguire il vantaggio voluto — la cui lesione,
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Parte III — RESPONSABILITÀ
EXTRACONTRATTUALE
7
dal punto di vista causale, possa essere messa in rapporto con la condotta del candidato responsabile. Accorciando in questo modo la catena causale, si può concludere
che se è vero che [A] non ha cagionato [B], non è vero però che [A] non abbia
cagionato [Ax], dove [B] sarebbe l’utilità finale che il danneggiato voleva conseguire
mentre [Ax] sarebbe l’utilità intermedia (consistente in una certa probabilità di
conseguire il risultato sperato). Ora, se [Ax] diventa l’oggetto di una posizione
giuridica soggettiva, la sua lesione — provocata dalla condotta [A] — fa sorgere il
diritto al risarcimento del danno subìto da chi di quella posizione soggettiva è il
titolare: in questo modo il problema dell’insussistenza di un nesso causale tra [A] e [B]
è risolto con l’attribuzione al danneggiato di un risarcimento per l’evento [Ax],
determinato percentualmente in una certa misura dell’utilità finale [B], quella stessa
misura che esprime la probabilità che [A] abbia determinato [B] (cfr., in quest’ordine
di idee, BELVEDERE, 2011, 229 ss.; MAZZAMUTO, 2010, 86 ss.; CASTRONOVO, 2008, 315 ss.).
Sostanzialmente simile è il risultato cui si giunge attraverso una valutazione equitativa
del nesso causale: stimata in una certa probabilità — inferiore alla soglia del più
probabile che non — l’incidenza causale di [A] rispetto a [B], l’equità porta ad addossare
all’autore di [A] la responsabilità per il verificarsi di [B] in una misura coincidente con
la probabilità che [A] abbia cagionato [B]. In questo modo, la vittima di [B] non
rimane priva di una compensazione, seppur non integrale, per il pregiudizio subìto,
mentre l’artefice di [A] si vedrà imputata una responsabilità non per aver provocato
un evento lesivo ma per aver posto in essere una condotta che, con una certa
probabilità, potrebbe cagionare un evento del tipo di quello che si è verificato. A
questo proposito, si è parlato in dottrina di una responsabilità per l’aumento del
rischio del prodursi di un evento lesivo (cfr. CAPECCHI, 2012, 266 ss.).
L’unica linea distintiva che si può tracciare rispetto alla responsabilità per la cd.
perdita di chance riguarda non l’esito raggiunto ma il modo del suo conseguimento:
nell’ipotesi della perdita di chance vi è la creazione di una autonoma posizione
giuridica soggettiva (la chance appunto), viceversa per l’aumento del rischio l’affermata responsabilità ha una funzione schiettamente sanzionatoria, in quanto è punita
la condotta di chi, con una propria azione, ha accresciuto le possibilità che un
determinato evento lesivo si verificasse. Nella tesi dell’aumento del rischio, infatti,
non traspare neanche il tentativo dell’individuazione di una posizione giuridica
protetta, mentre è evidente la natura sanzionatoria ed il fine equitativo dell’attribuzione della responsabilità. Del resto, non si potrebbe certo sostenere che vi sia un
interesse protetto dall’ordinamento a non subire l’aumento del rischio che un evento
lesivo si verifichi, anche perché l’affermare che [A] con una probabilità del venti per
cento potrebbe causare [B], non solo non comporta che [A] abbia, in concreto, causato
[B] ma neppure che [A], nel caso preso in esame, abbia aumentato del venti per cento
il rischio che [B] si verificasse. Nella teoria dell’aumento del rischio si mostra, quindi,
nella sua massima evidenza il tentativo di utilizzare la responsabilità di diritto civile —
extracontrattuale o da inadempimento, il risultato non cambia — per perseguire
scopi che con la funzione compensativa del danno, conseguente alla lesione di una
situazione soggettiva protetta dall’ordinamento, hanno davvero poco a che vedere.
Dunque, non può che condividersi la necessità, ribadita dalla Cassazione con le
pronunce del 2011 e del 2016, di una valutazione oggettiva del nesso causale, che
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CAUSALITÀ MATERIALE
porti ad un’imputazione della responsabilità solo quando sia raggiunta — almeno
nella misura minima del più probabile che non — la prova della sussistenza di un
rapporto causa-effetto tra la condotta e l’evento lesivo, presupposto indispensabile
affinché il risarcimento del danno non si trasformi né nella sanzione di determinati
comportamenti né in un’occasione di arricchimento per il danneggiato (cfr., in
questo senso, anche BELVEDERE, 2004, 193 ss.).
Diversamente, invece, proprio avendo in mente la funzione della responsabilità di
diritto civile, non si possono che prendere le distanze dalla tesi, ribadita dalla Corte,
dell’irrilevanza delle concause naturali nel giudizio di imputazione della responsabilità (critici verso la tesi fatta propria dalla Cassazione anche PUCELLA, 2012, 189 ss.;
FRENDA, 2015, 1161 ss.; nello stesso senso v., invece, PIRAINO, Il principio, 2018, 515 ss.).
Mentre la norma dell’art. 2055, disciplinando l’ipotesi del concorso di più cause
imputabili nella produzione del medesimo evento lesivo, non offre argomenti circa la
rilevanza o meno delle concause naturali nel giudizio di responsabilità, l’art. 1227 è
chiara espressione, nella materia del concorso di cause, dei principi che informano il
sistema della responsabilità di diritto civile. La diminuzione del risarcimento del
danno, a seconda della gravità della colpa e dell’entità delle conseguenze che dall’azione del danneggiato siano derivate, è il portato coerente della struttura compensativa e non sanzionatoria dell’imputazione della responsabilità, risultato che, uniformemente, deve essere conseguito anche nell’ipotesi in cui l’apporto alla produzione
dell’evento lesivo sia dato da un fatto naturale. Rispetto al concorso di una concausa
naturale si coglie, pertanto, quella eadem ratio che giustifica l’applicazione analogica
dell’art. 1227.
Il riconoscimento dell’efficacia causale del fatto naturale si giustifica nell’orizzonte
strutturale e funzionale della responsabilità di diritto civile: giungere a siffatta conclusione circa la rilevanza della concausa naturale presuppone questa consapevolezza, da cui coerentemente deve derivare l’obliterazione di ogni riferimento agli artt.
40 e 41 c.p. come regole sulla determinazione del nesso causale in materia civile, per
l’insuperabile diversità di funzioni che connota la responsabilità civile rispetto a
quella penale. Per questa ragione, non può ritenersi applicabile l’art. 41, c. 1, c.p. nel
giudizio di responsabilità civile, realizzando questa regola una finalità punitiva che
non si attaglia al risarcimento del danno: la sussistenza di una causa preesistente,
come una patologia congenita, può ben giustificare una proporzionale riduzione
della responsabilità dell’autore della condotta che, più probabilmente che non, abbia
cagionato l’evento lesivo. Allo stesso modo, la regola secondo cui la causa sopravvenuta esclude il rapporto di causalità quando è stata da sola sufficiente a determinare
l’evento non sembra applicabile, nel giudizio di responsabilità civile, in presenza di
una pregressa concausa naturale. Delle due l’una: o la condotta umana, per le sue
caratteristiche, non sarebbe stata idonea a produrre un evento del tipo di quello che
si è verificato, in assenza di una situazione patologica pregressa, ed allora in questo
caso dovrà escludersi il rapporto causa-effetto tra quella condotta e l’evento lesivo,
con il conseguente esonero da ogni responsabilità dell’autore della condotta; ovvero,
il fatto naturale ha aggravato o ha contribuito a causare un danno che la condotta
umana era comunque in grado di cagionare, ma in questo caso, nel giudizio civile,
non potrà ignorarsi il ruolo dispiegato dalla pregressa patologia. Non si tratta, come
801
Parte III — RESPONSABILITÀ
EXTRACONTRATTUALE
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sostiene erroneamente la Cassazione, di valutare equitativamente, ex art. 1226, il
danno risarcibile da parte del danneggiante, ma di determinare oggettivamente la
porzione di responsabilità imputabile causalmente a chi, con la sua condotta, è più
probabile che abbia cagionato l’evento lesivo.
Di recente (CC 11 novembre 2019, n. 28986, NGCC, 2020, 295 ss., nt. PUCELLA), la
Cassazione ha avuto occasione di ribadire il suo orientamento (maggioritario) sulla
(in)configurabilità del concorso tra concause umane e naturali, giocando interamente
la conferma della propria soluzione sulla distinzione tra causalità materiale e giuridica, sulla falsa riga della quale la Corte differenzia — per quanto attiene al rispettivo
trattamento giuridico — le concause di lesione dalle concause di menomazione.
Un fattore naturale è concausa della lesione quando, supponendone l’inesistenza,
l’evento dannoso non si sarebbe realizzato; così, in mancanza della patologia pregressa, la condotta dell’agente non sarebbe stata sufficiente a provocare la lesione.
Nella contingenza della fattispecie concreta, quindi, entrambe le condizioni, singolarmente considerate, risultano necessarie alla verificazione dell’evento ma si rivelano insufficienti a cagionarlo autonomamente. Si tratta dell’ipotesi in cui la vittima
soffra di una particolare predisposizione per una determinata patologia — non in
atto, però, al momento dell’illecito — od evidenzi una significativa vulnerabilità nella
psiche o nel fisico, tali che l’agire di una condotta di per sé inidonea a procurare l’esito
lesivo riesca — sprigionando le potenzialità nocive della situazione morbosa preesistente — a determinarne, nondimeno, la verificazione. Il riferimento ad una « inidoneità per sé » traduce il giudizio controfattuale secondo cui — in forza dell’applicazione di una certa legge di copertura — un fattore come quello rappresentato
dall’azione del candidato responsabile, incidendo su di un soggetto “sano”, non
avrebbe dispiegato l’efficacia eziologica necessaria e sufficiente a causare il risultato
lesivo prodottosi.
La lettura giuridica del problema porta ad individuare, nello stato pregresso della
vittima, una condizione in mancanza della quale la lesione della situazione soggettiva
tutelata dall’ordinamento non avrebbe avuto luogo. Così, se la sussistenza della
concausa si rivela un presupposto necessario della lesione, e la lesione si caratterizza
— nella ricostruzione della c.d. causalità materiale — come il secondo termine del
nesso che lega la condotta all’evento dannoso, allora la possibilità di un riconoscimento giuridico dell’apporto eziologico offerto dalla concausa naturale si infrange
con l’assunto (giurisprudenziale) che nega la frazionabilità del nesso di causalità
materiale. Si deve rilevare, peraltro, come tale conclusione echeggi, pienamente, la
soluzione applicata nei sistemi di common law, nota come thin skull rule, secondo cui la
vittima affetta da una straordinaria fragilità del cranio — o della colonna vertebrale;
ma lo stesso ragionamento si applica anche al caso dell’emofiliaco — non può vedersi
ridurre il risarcimento dovutogli da colui il quale — con un’azione che può definirsi,
appunto, di per sé inidonea al risultato — gli abbia cagionato uno sbriciolamento
della componente ossea del capo (ovvero una gravissima lesione della colonna vertebrale od un’importante emorragia).
Diverso sarebbe il discorso rispetto a quelle che la Corte definisce « concause di
menomazione ». Nei casi in cui opera una concausa di menomazione, l’azione (o
l’omissione) del danneggiante è condizione necessaria e sufficiente della lesione
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CAUSALITÀ MATERIALE
dell’integrità psicofisica della vittima, mentre la concausa può — solo se concorrente
ma non se coesistente, secondo la tassonomia proposta dalla Cassazione — contribuire ad aggravare le conseguenze della lesione. Dunque, se la ricerca eziologica ha
dato un responso chiaro circa la sussistenza del nesso causale tra la condotta del
responsabile e l’evento (dannoso) ingiusto, mentre restano da determinare esattamente le conseguenze della lesione — indagando sull’esistenza di un nesso causaeffetto tra l’azione del danneggiante ed i danni lamentati dalla vittima — il concorso
tra la causa umana e la concausa naturale (di menomazione) diviene giuridicamente
configurabile, perché pertiene a quella fase della ricerca eziologica — la c.d. causalità
giuridica — in cui non è più in discussione l’individuazione del responsabile, ma il
perimetro del danno risarcibile. Così, se lo stato di salute della vittima, anteriore
all’illecito, ha amplificato gli effetti negativi che la causa umana avrebbe provocato
nella sfera psicofisica di una persona “sana”, allora quell’intensificazione della dannosità della condotta non dovrà gravare sul suo autore, che — legittimamente —
potrà domandare che si identifichi quella porzione di danno riconducibile, eziologicamente, alla concausa naturale.
La determinazione del nesso di causalità giuridica tra l’illecito ed il danno si ottiene
applicando il criterio d’indagine individuato dall’art. 1223, che impone di sceverare,
tra le conseguenze sfavorevoli succedutesi all’evento dannoso, quelle immediate e
dirette da quelle che, invece, siano mediate ed indirette, e come tali non imputabili
all’autore dell’illecito (anche se la giurisprudenza — come è noto — conosce massime
assai divergenti sul punto: v. Parte III, RESPONSABILITÀ EXTRACONTRATTUALE, Nesso di
causalità, di RIZZO). Così, secondo la Cassazione, sono conseguenze immediate e
dirette quei peggioramenti delle condizioni dell’esistenza che la vittima avrebbe
interamente patito anche laddove, prima dell’evento dannoso, avesse potuto vantare
un quadro clinico senza ombre: di talché, alcuna rilevanza potrebbe essere assegnata
alle c.d. concause coesistenti di menomazione, cioè a quelle patologie che — o per il
fatto di incidere su organi differenti da quello danneggiato (ma sul punto non
possono darsi valutazioni aprioristiche, che facciano discendere dalla diversità dell’apparato corporeo coinvolto la qualifica di « coesistenza » e, quindi, l’irrilevanza
giuridica della menomazione) o perché assorbite dalla malattia portata dall’illecito —
non influenzino le conseguenze della lesione. A tal proposito, la Cassazione riporta
un interessante esempio di concausa di menomazione coesistente rispetto all’illecito:
il disturbo uditivo già sofferto dalla vittima rispetto all’evento in grado, da solo, di
generare la sordità del danneggiato.
Le c.d. menomazioni concorrenti, invece, sarebbero in grado di amplificare il portato
negativo della lesione, generando effetti che, se riguardati rispetto all’illecito, si
pongono quali conseguenze mediate ed indirette: proprio perché tali, esse dovrebbero essere sottratte dal perimetro del danno risarcibile da parte dell’autore dell’illecito, il concorso della cui condotta con questa tipologia di concause naturali verrebbe, per questa via, ad essere riconosciuto. Centrale diviene, a questo punto,
l’individuazione del metodo più corretto — cioè conforme all’importanza del bene
giuridico tutelato — per operare la sottrazione dell’effetto dannoso della concausa
concorrente: il metodo definito dalla Cassazione prevede una valutazione (medicolegale) dell’invalidità del soggetto, che non si limiti, semplicemente, ad isolare la
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Parte III — RESPONSABILITÀ
EXTRACONTRATTUALE
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percentuale di invalidità legata alla lesione ma ne stimi le conseguenze nella loro
globalità, individuando, poi, la somma di denaro idonea a compensare il pregiudizio
così determinato; somma dalla quale — ricorrendo, se del caso, all’equità di cui
all’art. 1226 — dovrà essere detratto l’ammontare in denaro considerato rappresentativo del grado di menomazione dell’integrità psicofisica della vittima prima che
l’illecito avesse luogo.
In questa sede, vi è lo spazio solo per poche considerazioni. Nella sentenza del 2019,
la Cassazione affronta il problema del concorso tra concause umane e naturali
sistematizzando e chiarendo, significativamente, il suo orientamento, che fa registrare, peraltro, qualche discontinuità rispetto alle pronunce precedenti, in particolare il già menzionato provvedimento del 2016.
Se si considera la tassonomia proposta dalla Corte, di un vero e proprio concorso di
cause nella produzione dell’evento dannoso ingiusto si può parlare soltanto in relazione alle c.d. concause di lesione, in mancanza del cui apporto eziologico la condotta
dell’agente si sarebbe rivelata inidonea a determinare la violazione della situazione
giuridica meritevole di protezione. Il mancato riconoscimento, in questa ipotesi,
dell’efficacia (con)causale della pregressa situazione patologica del danneggiato sposta, interamente, sul danneggiante il rischio insito nello stato morboso della vittima,
senza che un tale risultato sia necessitato dall’esigenza di soddisfare la funzione
deterrente e preventiva della responsabilità. Mentre, infatti, nell’ambito del sistema
penale la pena non è divisibile, quindi al riconoscimento della responsabilità non può
che conseguire la sanzione (della privazione della libertà personale), per cui una volta
che un evento di reato sia imputato oggettivamente e soggettivamente ad un determinato autore, la pena non può che discenderne conclusivamente; nel sistema di
responsabilità civile — accertato che la condotta dell’agente rappresenti la condicio
sine qua non dell’illecito — vi è nondimeno lo spazio per tenere in considerazione
l’intero processo causale che ha portato alla produzione dell’evento dannoso (come
gli artt. 1227 e 2055, nitidamente, mostrano). Difatti, il riconoscimento dell’apporto
causale del fattore naturale non impedisce di individuare, chiaramente, il responsabile dell’evento nell’autore della condizione necessaria dello stesso ed, al contempo,
non impone di addossargli per intero le conseguenze dell’azione compiuta, proprio
perché la funzione della responsabilità non è la reazione al disvalore rappresentato
dalla condotta lesiva del bene giuridico tutelato — estrinsecantesi nella punizione del
reo — ma la compensazione del pregiudizio.
Una valutazione integrale dell’eziologia del fatto consente, d’altra parte, di distribuire, equamente, il rischio che una situazione di vulnerabilità inevitabilmente serba,
facendolo ricadere tanto sul portatore di quella determinata deficienza psicofisica
quanto su chiunque vi entri a contatto, e, con la propria condotta colposa, finisca per
arrecare un danno che, nella sua ampiezza, appaia del tutto inconferente rispetto alla
violazione della regola cautelare posta in essere.
Infine, non vi è alcun pericolo di frazionamento del nesso causale, poiché la ricerca
causale in quanto processo logico è ontologicamente frazionata, come qualsiasi processo logico è divisibile fra le sue componenti.
Ancora poche considerazioni rispetto alle c.d. concause di menomazione coesistenti e
concorrenti: essenziale, in queste ipotesi, è l’esatta individuazione del secondo polo
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CAUSALITÀ MATERIALE
della ricerca eziologica, che — nella stessa impostazione della Cassazione — deve
essere identificato nello stato di invalidità del soggetto a seguito dell’illecito. Fatta
questa basilare premessa, una volta appurata la natura di condizione necessaria
dell’evento dannoso della condotta del danneggiante, si dovrà riconoscere alla concausa naturale il peso che la stessa abbia avuto nella produzione della conseguenza
pregiudizievole, traducendone, poi, la stima nella quantificazione del danno e liquidazione dell’obbligazione risarcitoria. La posizione della Corte — sia per ciò che
attiene all’assegnazione al fattore naturale del suo effettivo ruolo concausale, sia per
la definizione del concreto metodo di calcolo del risarcimento — sembra corretta,
seppure arroccata all’escamotage della distinzione tra causalità materiale e causalità
giuridica.
Nella discriminazione tra concause di menomazione coesistenti e concorrenti si
riflette, invece, la condivisibile necessità che vi sia un’omogeneità, quanto agli effetti,
tra concause umane e naturali, uniformità che conduce a negare rilevanza alle
concause c.d. coesistenti. Proprio l’esempio, individuato dalla Corte, per indicare
quest’ultima tipologia di concause, però, non convince: il disturbo uditivo — già
sofferto dalla vittima, rispetto all’evento lesivo in grado, da solo, di generare la sordità
del danneggiato — esercita, infatti, la stessa efficacia concausale della sindrome di
down rispetto all’ipossia al momento del parto; efficacia che, diversamente, è stata
riconosciuta dalla Cassazione nella già esaminata pronuncia del 2016, seppure sempre sul piano della causalità giuridica.
Per maggiori approfondimenti sul tema, v. supra, Parte I, RESPONSABILITÀ CONTRATTUALE, sub art. 1223 c.c. Risarcimento del danno e sub art. 1224 c.c. Danni nelle obbligazioni
pecuniarie, entrambi di GRANDI.
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