LA CHIRURGIA DI PRECI E LA VIA FRANCESCANA
Interrogarsi sulla genesi storica del concetto di scienza, porta lo studioso ad analizzare testi e realtà
culturali ben precedenti a quello che si definisce per convenzione il «secolo della rivoluzione
scientifica»; il XVII. Nel corso di questo saggio si ripercorreranno i primi passi, i presupposti, le
condizioni di possibilità della scienza moderna; in particolare di una scuola chirurgica sorta in un
piccolo borgo umbro e poi diffusasi in tutta Europa.
In un piccolo paesino della Valnerina, in Umbria, fin dal XIV secolo è documentata la presenza
cospicua di chirurghi specializzati in litotomia, operazioni di calcoli vescicali e alla cataratta. Un’arte e
una tecnica consolidata, efficace e precisa caratterizza i chirurghi preciani che, tramandandosi il
sapere di padre in figlio, arrivano ad operare personalità insigni tra cui la Regina Elisabetta I
d’Inghilterra. Tale fu la fama da parlare di una vera e propria Scuola.
Nei prossimi capitoli si tratterà ampiamente l’argomento, cercando di indagare i presupposti teorici
della nascita di questa scuola, attraverso l’analisi della relazione tra la scienza chirurgica di Preci e gli
innovativi e rivoluzionari apporti ontologici e gnoseologici dei movimenti francescano e
benedettino.
UNA FAMOSA TRADIZIONE CHIRURGICA IN UN BORGO UMBRO
Un interrogativo apparentemente di poca rilevanza per la storia della chirurgia e della medicina è
quello che lo studioso Giovanni Maria Giuliani esprime nella conferenza tenuta all’Accademia
Medica di Genova il 19 gennaio 1949 ed alla Società Medica di Parma il 3 giugno 1949: “Come mai i
chirurghi preciani e norcini hanno potuto costituire una Scuola che per ben quattro secoli – dal 1200
al 1600 – ha irradiato i suoi allievi per le città d’Italia e per quasi tutte le contrade d’Europa?”1. Tale
questione, in realtà, ha attraversato le menti di tutti gli studiosi di tale scuola chirurgica e della
chirurgia in generale ed ancora oggi non possiede una risposta certa, documentata, completa e
conclusa2. In realtà ritengo che tale domanda non ha una risposta univoca ma alcuni momenti di
cambiamento concorrono, come tessere di un mosaico, alla genesi di una scuola che occupa un
posto di primo piano nella storia della chirurgia.
1
GIULIANI G.M., I chirurghi preciani e norcini (Rapporti con la Scuola di Salerno e l’Ordine di S. Benedetto),p. 169, in «Archivio
italiano di chirurgia», vol. LXXII, fasc. III, 1949, pp. 169-190;
2
“Ma come dei minuscoli borghi poterono produrre tanti chirurghi e per tanto tempo, è stata una questione dibattuta da
tutti coloro che se ne sono occupati ed alcuni hanno creduto di trovare la risposta giusta, altri non hanno rinvenuto
elementi sufficienti per una precisa attribuzione” [CRUCIANI G.F., Cerusici e fisici. Preciani e Nursini dal XIV al XVIII secolo,
Edizioni Thyrus, Norcia 1999, p. 52];
1
Facendo riferimento al quesito appena posto, Giuliani continua dicendo: “la risposta mi è sempre
apparsa tanto più ardua riflettendo quali centri abitati dovevano essere Norcia e Preci intorno al
mille, epoca in cui la scuola era certo già organizzata e nota se Lanfranco, vissuto nel XII secolo la
nomina. Queste due località che per tanto tempo sono state le depositarie della cultura chirurgica
italiana, sorgono presso il limite orientale dell’Umbria nel tratto di confine con le Marche: sono quasi
appartate, isolate dal resto della regione umbra perché lontane da grandi strade e situate alle falde di
alti monti […]. Oggi il centro abitato di Norcia conta poco più di 2000 anime e quello di Preci 900, e
non si sarà lontani dal vero supponendo che sette secoli or sono, esso fosse inferiore alla metà
dell’attuale. Tuttavia questi due modestissimi centri hanno prodotto tanti illustri chirurghi, anzi i
chirurghi preciani sono stati più numerosi e più famosi di quelli norcini. L’interrogativo, a meditarlo,
si fa più assillante e complesso: come mai in vallate così impervie, così lontane dalle città che
favoriscono la formazione e la cultura del chirurgo anche col maggior apporto di malati, si è avuta
una così prodigiosa fioritura di chirurghi? E come mai Preci ha avuto una scuola chirurgica più
importante di quella di Norcia? Oggi che la chirurgia è divenuta vigoroso albero dal quale molti rami
si sono prodotti e slanciati vuole, con ragione, conoscere il suo atto di nascita”3.
Gian Franco Cruciani ci offre un quadro abbastanza competo delle riflessioni e considerazioni di
vari studiosi del XX secolo riguardo la genesi della scuola chirurgica preciana 4. Tra le varie ipotesi,
una delle prime risale a Ernesto Benedetti5 che collega l’arte operatoria ai monaci benedettini del
Lebbrosario umbro di S. Lazzaro del Valloncello6. Un aspetto interessante da notare è che in realtà il
Lebbrosario è noto fin dal 1200, anno della sua fondazione ad opera dei benedettini eutiziani7, e “si
narra che lo stesso S. Francesco, che vi si recò in pellegrinaggio nel 1222, affidò il Lebbrosario alla
GIULIANI G.M., I chirurghi preciani e norcini (Rapporti con la Scuola di Salerno e l’Ordine di S. Benedetto), p. 169-172, in
«Archivio italiano di chirurgia», vol. LXXII, fasc. III, 1949, pp. 169-190. Molte inesattezze e affermazioni audaci prive di
fondamento documentario sono presenti nello scritto di Giuliani. Prima di tutto la collocazione temporale della scuola
antecedente al 1200. In secondo luogo l’accenno a Lanfranco, conoscitore dei chirurghi preciani e norcini. Gian Franco
Cruciani, a tal proposito, afferma che “molti autori, dal XVI al XX secolo, affermano che Lanfranco ossia Giudo
Lanfranchi, riferendosi alle operazioni di litotomia, fu il primo ad accennare, nel 1296, ai Norcini. In verità non v’è
traccia di questo nome nei suoi scritti e tutto ciò che attiene agli empirici così lo espresse: Considera quoque et saepe per loci
nominati incisiones generatio prohibetur: quia incisio quae sit per loca ista: consideratis pluribus timorosa est curam talem non consideres: sed
aliis cupidis cyrurgicis dimitte illa lucrari” [CRUCIANI G.F., Cerusici e fisici. Preciani e Nursini dal XIV al XVIII secolo, Edizioni
Thyrus, Norcia 1999, p. 59]. Alcuni autori quali Benedetti E., Fabbi A., Fedeli C., Giuliani G.M., Leonardi E., collocano
l’inizio della scuola nell’XII-XIII secolo. Secondo la mia opinione questa disposizione cronologica non rispecchia quanto
sostenuto nelle fonti fin qui a disposizione. Secondo lo studioso Gian Franco Cruciani, le prime prove documentali che
attestano la presenza a Preci di chirurghi, risalgono al XIV secolo, in particolare ad uno scritto di Maestro Berardo di
Maestro Cambio di Poggio di Croce-Preci datata 1384 [CRUCIANI G.F., Cerusici e fisici. Preciani e Nursini dal XIV al XVIII
secolo, Edizioni Thyrus, Norcia 1999];
4
CRUCIANI G.F., Cerusici e fisici. Preciani e Nursini dal XIV al XVIII secolo, Edizioni Thyrus, Norcia 1999, pp. 51-58;
5
BENEDETTI E., La scuola chirurgica preciana nell’alto-medioevo, Umbria Medica, Tipografia Augusto Visconti, Terni 1924;
6
“È probabile che in Valloncello pullulavano le sorgenti sulfurose di Triponzo. Il luogo era soggetto all’Abbazia di S.
Eutizio che vi reggeva il Beneficio con oratorio dedicato a S. Cataldo. Nel 1218 era retto dal prete Bono a nome
dell’Abbate, quando il Signore di Roccapazza Rozzardo fece donazione per l’erigendo Ospedale, secondo l’esempio e le
esortazioni che S. Francesco diffondeva per l’Umbria. I Minori francescani furono così i custodi e amministratori del
Lebrosario in dipendenza dal Convento di Monte S. Martino” [A. FABBI, La scuola chirurgica di Preci, Arti grafiche Panetto
e Petrelli, Spoleto 1974, p. 64];
7
DOMINICI C., La scuola chirurgica preciana, in Atti del XXI Congresso di Storia della Medicina, Perugia 1965;
3
2
cura dei suoi frati che edificarono un Convento in Castel di Monte San Martino verso la metà del
XII secolo. Il Lebbrosario ed il convento seguirono la sorte degli altri edifici di Preci, distrutti dal
terremoto del 1328. Il Lebbrosario fu restaurato e tornò ad operare nel 1449, quando fu affidato al
Comune di Norcia sotto la direzione del monaco di S. Eutizio Barnaba Fusconi” 8. Non si può certo
dedurre automaticamente, come afferma Benedetti, che personale laico abbia potuto imparare da
questi monaci l’arte della chirurgia, la quale “per potersi imporre deve presentarsi con tutte le sue
risorse, con tutto il suo bagaglio partico e scientifico. Non basta vi siano l’ospedale e i malati,
occorre che un cervello già chirurgicamente preparato decida, diriga, esegua quelle manualità
operatorie che sono il frutto di pensiero, di esperienza e di studio. Non i poveri frati dell’ospedale di
San Lazzaro o i modesti infermieri di Norcia e di Cascia poterono giungere agli interventi che i
preciani e i norcini hanno ripetutamente eseguito e diffuso, ma quegli studiosi che della chirurgia
avevano conoscenza”9. L’unione, presente nei chirurghi preciani, di sapere empirico e teorico, è
sottolineata con forza e a più riprese dagli stessi preciani che scrivono testi sulla loro arte. Cesare
Scacchi, nel Sussidio di Medicina, 1609, opera di traduzione dal latino al volgare del ben più corposo
testo del fratello Durante Scacchi – Subsidium Medicinae, 1596 – sottolinea l’importanza del sapere
teorico che deve sempre affiancare l’abilità pratica e tecnica con lo scopo di migliorarla. Cesare
Scacchi parla esplicitamente dei Preciani scientifici et sperimentati10, chirurghi cioè di grande esperienza e
sapienza scientifica. Ciò che li ha resi famosi e pressoché precisi nella loro arte11, è stata proprio
l’unione di scienza ed esperienza, teoria e pratica, medicina e chirurgia. Lo stesso Antonio Cattani,
medico preciano, nel 1745, nella sua opera Opuscoli o dissertazioni fisico-mediche, conferma e rafforza tali
concetti: essendo di tal fatta i professori delle Preci, che uniscano alla chirurgia la cognizione e per lo più anche
l’esercizio della medicina fisica, meritano senza dubbio somiglianti professori tutta la stima e la distinzione dagli
empirici ciurmadori12. Ciò rende la Scuola chirurgica preciana un caso sui generis nel panorama umbro ed
estremamente interessante da studiare: in un paesino isolato da qualsiasi centro universitario o
culturale, si sviluppa per secoli un’arte chirurgica dalle prestazioni altamente specialistiche. “E qui
l’influenza del pensiero, della tradizione, dello studio benedettino è profonda, direi risolutiva. Dai
8
CECCHINI L., La chirurgia preciana, Ufficio editoria della Provincia di Perugia, Perugia, 1997, p. 59;
GIULIANI G.M., I chirurghi preciani e norcini (Rapporti con la Scuola di Salerno e l’Ordine di S. Benedetto), p. 181;
10
SCACCHI C., Sussidio di Medicina, Presso Francesco Rampazetto, Venezia 1609;
11
Si riporta di seguito un passo tratto dal Sussidio di Medicina di Cesare Scacchi che descrive l’operazione dei calcoli
vescicali. Cura della pietra per opra manuale. Accomodato il patiente come di sopra, si metta la Serenga per la verga, sino alla pietra, la
quale, nella parte connessa, et gibba, sia di fuori appena come un canaletto, per spatio di mezo palmo, acciò possa sicuramente farsi l’incisione
sopra di essa cavità; poi tenute le coscie dalli ministri aperte, et uno delli ministri tenga con l’altra mano la Serenga, et elevati li Testicoli,
l’Artefice segni il luogo nella estremità della Natica sinistra, poco distante dal cesso, guardandosi non toccare la rimula detta femen del collo
della vessica, et con rasore infocato sopra il luogo segnato, in un medemo tempo si tagli, et si caustichi, che si veda et apparisca bene la Serenga;
et se apparirà sangue, si potrà con l’instrumento a forma di spatula infocato di nuovo cauterizare, cosi assicurato dal sangue si metta il secondo
dito chiamato Indice nella ferita mandandolo cosi dilatando il collo della vessica, fino che con esso sarà arrivato alla cavità, et tocchi la pietra.
Quando con il dito non si possa cosi ben dilatare, si deve usare l’instrumento detto dilatatore; Aperto il viaggio, et trovata la pietra, vi si metta
la tenaglia fatta per questo effetto, et cosi leggiermente si apra una, et più volte, sino che pigli la pietra, et presa la cavi fuori; et bisogna à far
tale operatione che siano apparecchiati istrumenti fatti in diversi modi, come ben sanno i Preciani;
12
CATTANI A.N., Opuscoli o dissertazioni fisico-mediche, Assisi 1745;
9
3
benedettini a mio avviso sono sorti i chirurghi preciani e norcini”13. Dello stesso parere del Giuliani
risultano essere gli studiosi Romualdo Sassi, Pietro Pirri, Cristiano Dominici, Ansano Fabbi, Paola
Supino Martini14.
L’ABBAZIA DI S. EUTIZIO E LA SCUOLA MEDICA SALERNITANA
“Non abbiamo altra ipotesi più plausibile per l’origine” della scuola chirurgica di Preci “che la
vicinanza di un centro di civiltà ad alto livello qual era l’Abbazia di S. Eutizio15. Il Monastero risale al V
secolo d.C. quando l’oratorio di S. Maria fu trasformato in chiesa abbaziale dedicata al monaco S.
Eutizio; tra i secoli IX e XIII assume la Regola di San Benedetto e si trasforma in un prestigioso
centro di religione e di cultura con uno scriptorium, dove fiorì la miniatura, una biblioteca16 e
GIULIANI G.M., I chirurghi preciani e norcini (Rapporti con la Scuola di Salerno e l’Ordine di S. Benedetto), p. 182;
CRUCIANI G.F., Cerusici e fisici. Preciani e Nursini dal XIV al XVIII secolo, Edizioni Thyrus, Norcia 1999;
15
“La Valle dei Campi, denominata fin dal sec. IX «Valle Castoriana» dal culto a Castore e Polluce, discepoli del medico
centauro Chirone, ne continuò il culto cristiano ai SS. Cosma e Damiano e all’arte salutare. Nel sec. V era una Tebaide di
santi eremiti che vivevano in vari asceteri attorno ai piccoli Oratori secondo la regola di S. Basilio. Le loro gesta
leggendarie e i fatti miracolosi della loro vita penitente ebbero uno storico sicuro e informato in S. Gregorio magno tra il
593-594 col II libro dei Dialoghi. Essi erano S. Spes vissuto nel secolo V nell’Eremo dei Campli e che quale superiore
occupò 15 giorni a visitare gli altri eremi dipendenti, S. Fiorenzo che viveva nella semplicità dell’omonimo asceterio oltre
l’Abbazia, S. Eutizio successore di Spes con sede presso l’oratorio di S. Maria alla fine del sec. V, trasformato poi in
chiesa abbaziale a lui dedicata. La fama della loro vita santa era conosciuta alla vicina Norcia ove sbocciava l’adolescenza
di S. Benedetto, nato probabilmente tra il 470 e il 480, determinando la sua vocazione per cui la Valle può definirsi «la
culla spirituale del movimento benedettino». Recandosi a Subiaco, valle tanto simile all’asceterio eutiziano, ripeté
l’organizzazione della Laura nursina, e a Montecassino volle morire in piedi nell’oratorio come aveva fatto Spes, la cui
morte era stata annunziata da una colomba come quella di S. Scolastica.” [A. FABBI, La scuola chirurgica di Preci, Arti
grafiche Panetto e Petrelli, Spoleto 1974, p. 54]. Con l’assunzione della Regola di S. Benedetto gli asceteri si
trasformarono in Monastero e in prestigiosa Abbazia. “Soffocata fra gole di monti, lungi da ogni influsso, da ogni
possibilità culturale, Preci da sola non giustificherebbe mai la preparazione dei suoi chirurghi, ma se al villaggio di Preci
aggiungiamo l’abbazia di S. Eutizio, ci persuadiamo subito come i preciani abbiano potuto coltivarsi ed istruirsi”
[GIULIANI G.M., I chirurghi preciani e norcini (Rapporti con la Scuola di Salerno e l’Ordine di S. Benedetto), p. 186];
16
Oggi una sessantina di codici miniati della antica Biblioteca di S. Eutizio si trovano alla Biblioteca Vallicelliana a Roma.
“Le prime notizie relative ai libri posseduti dall’abbazia provengono da un sommario inventario che un anonimo
monaco vergò negli ultimi decenni del XII secolo in una pagina bianca di un codice eutiziano, attuale Vallicelliano To. I
(c. VIIIv). La memoria, comprensiva di una sessantina di codici, è indirizzata – non desti meraviglia - ai posteri: difatti, i
nuovi modi di produrre il libro e una nuova mentalità nei suoi confronti, determinati, nel XII secolo, dalla rinascita di
forme di cultura laica, non avevano coinvolto i conservatori ambienti monastici, dove perdurava la concezione del libro
strettamente legato al luogo di fattura, investimento, bene immobile, pressoché inalienabile. […] Sia che ‘inventario
rispondesse a criteri «moderni» di completezza, sia che riflettesse la disponibilità della biblioteca – vale a dire di un’arca,
di un armarium -, senza tener conto, ad esempio, dei libri depositati nelle celle dei monaci, nel refettorio, nella chiesa e
nell’immancabile schola interna pare probabile che la sessantina di codici elencati costituisse il nucleo fondamentale del
patrimonio librario eutiziano dell’epoca. Fra i lemmi più interessanti compaiono: un Liber Ordinis Cluniensis et Farfensis,
testimone dell’adesione dell’abbazia alla riforma di Cluny, forse per il tramite (scritto?) di Farfa; vari libri dell’Antico e
Nuovo Testamento, ma non una intera Bibbia; testi di esegesi scritturale e canonistica, di lettura meditativa e
contemplativa, di genere storico, storico-edificante, escatologico, agiografico. Inoltre libri liturgici resi preziosi da
legature d’argento […] Né l’inventario, né alcuno dei codici eutiziani giunti fino a noi reca testi grammaticali e l’assenza
stupisce soprattutto nel primo caso, mentre non c’è da meravigliarsi della perdita, nel tempo, di libri destinati alla scuola,
generalmente poveri nella fattura, soggetti a rapida usura e destinati ad essere rinnovati con relativa frequenza”. [SUPINO
MARTINI P., Itinerario monastico in area romanesca, pp. 49-101, in I luoghi della memoria scritta. I libri del silenzio, i libri del decoro, i
libri della porpora, a cura di GUGLIELMO C., Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, Libreria dello Stato, Roma 1994, p. 5253]. Si veda anche SUPINO MARTINI P., La produzione libraria negli Scriptoria delle abbazie di Farfa e di S. Eutizio, pp. 581-607,
in Il Ducato di Spoleto, Atti del IX Congresso Internazionale di Studi sull’Alto Medioevo, Tomo II, Spoleto 27 settembre-2
ottobre 1982, Arti Grafiche Panetto e Petrelli, Spoleto; PIRRI P., L’Abbazia di Sant’Eutizio in Val Castoriana presso Norcia e
le chiese dipendenti, Studia Anselmiana Fasciculus XLV, Tipografia Pio X, Roma 1961. In base a studi condotti da vari
13
14
4
probabilmente una infermeria17. Data la rilevanza e l’influenza dell’Abbazia di S. Eutizio, “non si può
escludere allora che nel flusso e riflusso dei monaci provenisse da Montecassino o da altra abbazia
un monaco esperto di cose mediche e chirurgiche”18. Alcuni studiosi sottolineano la relazione
dell’Abbazia di S. Eutizio con l’Abbazia di Farfa e con il porto di Ancona per sottolineare il possibile
flusso di conoscenze dall’Oriente o dalla Scuola Medica Salernitana: al formarsi della scuola
chirurgica di Preci, Giorgio Cosmacini afferma che “contribuì indirettamente la «via nursina» che
collegava Ancona a Spoleto attraverso Norcia. Dal porto adriatico aperto all’Oriente giunsero
probabilmente apporti consistenti di cultura chirurgica araba, veicolati da medici ebrei, miscelatori e
amplificatori di conoscenze nel mondo mediterraneo”19. A tal proposito, Ansano Fabbi è di
opinione diversa, in quanto afferma che “allacciare l’origine al movimento eremitico di Siriaci in
Valnerina (sec. V-VI) ci porta troppo lontano: un distacco di 8 secoli. Darne la causa all’influsso dei
Bizantini dalle guerre gotiche alle crociate è troppo azzardato poiché Preci è nel Ducato longobardo
fuori dell’influsso dell’Esarcato. Cercarne le cause nell’approdo dei greci e bizantini nel mare
Adriatico diventa improbabile perché la valle di Preci è separata da Ancona dal baluardo della catena
appenninica”20. Tali differenti visioni, sono la prova della mancanza di documentazione certa per
esprimere delle ipotesi fondate. A mio avviso, la relazione con Salerno – già suggerita dal Giuliani –
o con la medicina araba è una direzione possibile di studio. Le intuizioni di Giuliani – anche
imprecise – contengono degli spunti interessanti per riflettere e per condurre una possibile linea di
ricerca. Si potrebbe riaprire il fronte di analisi che riguarda ad esempio il rapporto dell’Abbazia di S.
Eutizio con Salerno o con la medicina araba, indagando in maniera più accurata biblioteche e
collezioni. Si riporta di seguito il passo di Giuliani in cui accenna le affinità tra le tecniche chirurgiche
preciane e salernitane, anche se la descrizione manca di riferimenti bibliografici.
“La dimostrazione anche più precisa della stretta parentela tra benedettini e scuola di Preci balza
evidente confrontando il manoscritto lasciato da Costantino l’Africano e quanto hanno scritto i
chirurghi preciani circa l’operazione della pietra […]. I suggerimenti di Costantino visti e commentati
da Ruggiero furono adottati pari pari dai litotomisti di Preci. Ecco il testo latino lasciato da
Costantino che non differisce molto da quello di Ruggiero: «Precipe ministro ut a foris cum dextra
manu conducat lapidem ad locum operationis, et tunc cum ferro acuto incide inter testiculum et
podicem, tantum ut digitus de intus retineat pertram; fundus autem fiat ab una parte lapidis juxta
podicem et in superficie amplum, ut lapis exire possit, et in fundo angustum…». Infatti lo Scacchi
ricercatori fino ad oggi non sono risultati presenti nel corpus dei testi manoscritti o a stampa eutiziani, opere a carattere
scientifico (ricettari, testi di botanica, di medicina, di chirurgia, di alchimia);
17 “Era certamente presente una infermeria col Monacus infirmarius come quell’Adam diaconus morto nel 1089” [A.
FABBI, La scuola chirurgica di Preci, Arti grafiche Panetto e Petrelli, Spoleto 1974, p. 54];
GIULIANI G.M., I chirurghi preciani e norcini (Rapporti con la Scuola di Salerno e l’Ordine di S. Benedetto), p. 183;
COSMACINI, G., La vita nelle mani. Storia della chirurgia, Laterza, Roma-Bari 2003, p. 69;
20
A. FABBI, La scuola chirurgica di Preci, Arti grafiche Panetto e Petrelli, Spoleto 1974, p. 53;
18
19
5
(XIV secolo) per estrarre i calcoli, dal perineo aggredisce la vescica secondo gli insegnamenti di
Ruggiero. Anch’egli esegue il taglio tra podice e testicolo, secondo cioè i canoni che la Scuola di
Salerno aveva appreso da Costantino l’Africano: fa uso di un «rasore infocato» che si può identificare
col «ferro acuto» citato nel testo latino scritto da Costantino stesso; usa introdurre in vescica il dito
per estrarre la pietra, manovra richiesta anche da Ruggiero. Ora un’identità così evidente di norme
non poteva essere in origine stabilita dai chirurghi preciani, né è ammissibile che essi le abbiano
ignorate nei due secoli intercorsi dal momento in cui lo Scacchi le eseguiva”21.
In realtà ci sono alcuni elementi che sembrano accomunare la Scuola Salernitana e la Scuola
chirurgica preciana. Il primo tra questi riguarda l’origine delle due scuole. Per quanto riguarda quella
salernitana, la documentazione è carente e lacunosa; si sa che il periodo di massimo sviluppo si
colloca tra l’XI e il XII secolo. Come per la tradizione preciana, gli studiosi si dividono tra quelli che
sostengono una origine laica e altri che protendono per una origine ecclesiastica. Alcuni infatti
evidenziano la presenza a Salerno di monasteri benedettini dotati di ospedali con monaci-medici,
come prescrive la Regola di S. Benedetto22. Altri autori sostengono un’origine vescovile della scuola,
altri ancora un’origine laica, forse l’ipotesi più avvalorata. Nell’XI secolo, invero, a Salerno si trovano
delle associazioni di maestri e studenti per l’apprendimento pratico e teorico della medicina e della
chirurgia. La Scuola inizialmente ha un orientamento pratico, sempre comunque ispirato dagli
insegnamenti classici di Galeno e Ippocrate; poi la parte teorica ha dato l’impulso maggiore per la
diffusione della produzione scientifica. “Doppiato l’anno Mille, la città era un rinomato luogo di
cura, prima che di cultura, sede privilegiata di un mestiere professato da una schiera di pratici prima
che di un sapere coltivato da una frangia di dotti. In una Salerno pre-scolastica, magistri salernitani
erano «maestri d’arte» formatisi spontaneamente sul campo, maestri del fare; essi diventavano
maestri del sapere, «maestri di scienza»”23. Tale citazione può essere a ragione applicata agli empirici
chirurghi di Preci, «maestri d’arte» prima e «di scienza» poi; abili chirurghi con una tradizione e un
armamentarium chirurgicum che passava da una generazione all’altra per secoli, fino alla presa di
coscienza della propria esperienza e maturità, arrivando alla consapevolezza della necessità di
GIULIANI G.M., I chirurghi preciani e norcini (Rapporti con la Scuola di Salerno e l’Ordine di S. Benedetto), p. 185. Si notino le
imprecisioni e le inesattezze nell’argomentazione di Giuliani, la mancanza di riferimento preciso alle fonti e - forse un
errore di scrittura – il riferimento a Scacchi, probabilmente Durante, come autore che opera nel XIV secolo ma in realtà
vive tra il 1540 e il 1620.
22
“Con l’articolo 36 della sua Regola ordinava ad ogni abbate di avere nel cenobio un ospedale per gli infermi e di
averne cura molto diligente e calda di carità cristiana: «Infirmorum cura ante omnia et super omnia adhibenda est, ut
sicut revera Christo, ita eis serviatur. Ergo cura maxima sit abbati ne aliquam neglegentiam patiantur. Quibus fratribus
infirmis sit cella super se deputata, et servitor timens Deum, et diligens, ac sollicitus. Balneorum usus, quotiens expedit,
afferatur». In questo modo S. Benedetto provvedendo ai bisogni degli uomini del suo tempo salvò da un completo
naufragio la medicina e ne trasmise il fecondo germe alle generazioni future. I primi Benedettini o imparavano essi stessi
l’arte medica o avevano cura di ammettere tra i religiosi uno o due medici per adempiere quanto la regola prescriveva.
Quindi già nel VI secolo la storia ci trasmette notizie sicure di medici nell’Ordine benedettino, e regnanti e pontefici
come S. Gregorio Magno prescelsero i propri medici tra i monaci” [GIULIANI G.M., I chirurghi preciani e norcini (Rapporti
con la Scuola di Salerno e l’Ordine di S. Benedetto), p. 173-174];
23
COSMACINI G., L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità a oggi, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 165;
21
6
difendere la propria arte e tradizione attraverso la scrittura di testi per testimoniare come gli
insegnamenti di Galeno, Ippocrate, Avicenna, e altri autori classici costituissero la base necessaria
per ogni intervento chirurgico. La Scuola Salernitana ha seguito in parte e con altri sviluppi lo stesso
cammino di quella di Preci: “ il secolo XII segna certamente il punto culminante dello sviluppo della
Scuola medica di Salerno, la quale cominciò all’inizio del secolo XII a passare dal compendio e dalla
collazione di ricette e di prescrizioni alla forma del commentario, vale a dire dall’istruzione pratica a
quella teorica. Il successivo passo avanti, che può essere collocato nella seconda metà del secolo
XII, fu di basare l’istruzione teorica nella medicina non sui primi prodotti della letteratura
salernitana, ma sulle opere classiche di medicina greca e araba che erano state tradotte da Costantino
Africano”24.
Altri destini teorico-scientifici ha affrontato la Scuola Medica salernitana rispetto a quella preciana,
considerando anche l’importanza della posizione geografica, ma simili inizi, elementi e principi
hanno caratterizzato le due tradizioni; una singolarità da indagare e da esplorare.
LA CHIRUGIA POPOLARE E LA NASCITA DELLA CHIRURGIA MODERNA
Barbieri, guaritori, ciarlatani, flebotomi, praticoni, conciaossa, cavadenti, mediconi e medichesse25,
figure che sfumano l’una nell’altra, costituiscono la schiera dei chirurghi illitterati, privi di nozioni
anatomiche o di conoscenze relative alla medicina galenica, ippocratica e araba, ma ricchi di
esperienza maturata direttamente sui corpi. Il passaggio di conoscenze medico-chirurgiche
dall’ambiente ecclesiastico a quello laico, ha prodotto una «secolarizzazione» del sapere scientifico e
la nascita di quella «chirurgia popolare» che tanto ha contribuito alla nascita della chirurgia moderna.
Difficili e problematici sono stati i rapporti tra medicina e chirurgia, specialmente negli ambienti
universitari ed a lungo hanno dovuto attendere i medici preciani per entrare come Physici nelle grandi
Università, lente ad accogliere innovazioni e cambiamenti. Come sottolineato precedentemente, i
chirurghi illitterati hanno contribuito in maniera considerevole e direi primaria allo sviluppo della
chirurgia, per alcuni aspetti molto più dei chirurghi aulici universitari.
24
KRISTELLER P.O., Studi sulla Scuola medica salernitana, Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, Napoli 1986, p. 35 e 3940. Opera citata anche da COSMACINI G., L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità a oggi, Laterza, Roma-Bari 1997, p.
170;
25
Per un approfondimento: BONGI S., «I cerretani e le rime dell’Ariosto», Archivio Storico Italiano, serie quinta, tomo II,
1888; CAMPORESI P., (a cura di) Il libro dei vagabondi, Einaudi, Torino 1973; ID. Rustici e buffoni, Einaudi, Torino 1991;
COLAPINTO L., ANNETTA A., Ciarlatani, mammane, medici, ebrei e speziali conventuali nella Roma barocca, Aboca Edizioni 2002;
COSMACINI G., Ciarlataneria e medicina. Cure, maschere, ciarle, Raffaello Cortina, Milano 1998; CORSINI A., Medici ciarlatani e
ciarlatani medici, Zanichelli, Bologna 1922; CRUCIANI G., Il norcino in scena, Quattroemme, Perugia 1995; FRIZZI A., Il
ciarlatano, Ed. Avanti!, Milano-Roma 1953; PITRÈ G., Medici, chirurgi, barbieri e speziali antichi in Sicilia. Secoli XIII-XVIII, a
cura di Giovanni Gentile, Casa editrice del libro italiano, Roma 1942; RAJBERTI G., Il volgo e la medicina, SambrunicoVismara, Milano 1840; RIGOLI P., Gli infiniti inganni. Il mestiere del ciarlatano tra Sei e Settecento, Della Scala, Verona 1990;
SEPPILLI T., (a cura di) La medicina popolare in Italia, in «La ricerca folklorica», n. 8, ottobre 1983; VIVIANI U., Ciarlatanismo
medico, in «Rivista di storia critica delle scienze mediche», X, nn. 3-4, maggio-agosto 1919;
7
“La scienza del Seicento non nasce però solo ad opera dei grandi personaggi. Viene costruita, ed
anche propagandata ed energicamente difesa, da una folla composita e variopinta: professori di
matematica ed astronomia nelle università, insegnanti di queste stesse discipline (in specie la
matematica) fuori dalle università, medici, agrimensori, navigatori, ingegneri, costruttori di strumenti,
farmacisti, alchimisti, chirurghi, viaggiatori, filosofi naturali e cultori di filosofia meccanica, artigiani
colti e «virtuosi». […] È vero che quasi tutti i grandi scienziati del Seicento (e del Settecento) hanno
studiato nelle università, ma è anche vero che sono pochissimi gli scienziati la cui carriera si sia
svolta per intero o prevalentemente all’interno delle università. Queste ultime, nel Seicento, restano
nel più dei casi chiuse alle scoperte della fisica, astronomia, botanica, zoologia e chimica,
continuando a coltivare ricerche di matematica e medicina, ma restando nella sostanza estranee alle
dottrine della nuova filosofia «meccanica» o «sperimentale» che si diffonde non attraverso i corsi
universitari, ma attraverso libri, periodici, atti delle accademie e delle società scientifiche, lettere
private”26. Si è scelto di riportare per intero la citazione in quanto essa si applica bene allo sviluppo
della chirurgia. Non solo la scienza del Seicento ma anche quella precedente è frutto di scoperte,
esperimenti, personalità, abilità e tecniche sorte al di fuori di un ambito accademico: l’esempio dei
chirurghi di Preci è assolutamente calzante. In un paesino piccolo e circondato da monti, attraverso
una tradizione popolare tramandata di generazione in generazione, abili chirurghi empirici hanno
contribuito alla nascita di una scienza, quale quella chirurgica che solo dopo alcuni secoli si inserisce
nell’ambito universitario, quando però grandi scoperte, esperimenti e primi sviluppi di nuove ipotesi
e teorie erano già state messe in atto da personalità che mai la storia della chirurgia si ricorderà.
La litotomia dunque, l’operazione della cataratta e dei calcoli vescicali, da Preci si è estesa in tutta
Europa grazie ai chirurghi di un piccolo paese fieri e orgogliosi della propria arte.
CHIRURGHI PRECIANI E DANESI. UNA SCOPERTA
Siamo nel 1600. Molti chirurghi preciani sono ormai professori in molte università europee che
hanno il pregio di mantenere e promuovere quella libertà di pensiero e di azione che molte università
italiane non posseggono.
L’Università di Leida, ad esempio, è uno dei maggiori centri europei nel campo degli studi medici.
Dopo Salerno, Bologna, Padova, Montpellier e Parigi, tra il XVII e il XVIII secolo Leida risalta per
importanza negli studi scientifici27. “Le università olandesi avevano un pregio: erano istituti nuovi,
ROSSI P., Lo scienziato, p. 303, in VILLARI R., L’uomo barocco, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 299-328;
COSMACINI G., L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità a oggi, Laterza, Roma-Bari 2001. “L’Olanda di Leida e di
Delft, e delle tante città operose affacciate sul mare e sui canali, era nel XVII secolo la giovane nazione dove aveva pieno
sviluppo la cultura di una borghesia moderna in ascesa. L’agricoltura progrediva grazie agli imponenti lavori di ingegneria
idraulica per strappare al mare i «paesi bassi». Le scienze naturali progredivano anche per effetto dei viaggi di commercio
e di colonizzazione spinti nelle più lontane terre d’oltremare. Le manifatture e le arti progredivano per l’organizzazione
26
27
8
non gravati dal peso di un passato medioevale. Ciò non significa che il sistema dell’insegnamento
superiore tramandato dalla scolastica non venisse adottato e non opprimesse anche qui: Aristotele vi
trionfava come altrove. Ma le università olandesi erano più libere di tante altre più antiche e avevano
maggiore possibilità di contribuire allo sviluppo dei nuovi rami della scienza […]. L’anatomia,
l’astronomia e la botanica, la fisica e la nascente chimica furono le discipline che dettero fama
duratura alle nostre università”28.
L’Università di Leida, con il suo clima di internazionalizzazione, libertà culturale e forte spinta
all’innovazione, ha degli interessanti rapporti con l’Università di Copenaghen, altro centro di
fioritura della medicina nel Seicento.
Tra i più prestigiosi rappresentanti in Europa della medicina danese, oltre Stenone, si ricorda la
dinastia dei Bartholin, in particolare Caspar primus (1585-1629) e Thomas (1616-1680) Bartholin, il
primo fondatore della domus anatomica universitaria. Caspar secundus (1655-1738) scopre le «ghiandole
del Bartolino». “Thomas fu un partigiano della vivisezione, pur non praticandola; o meglio la praticò
per interposta persona. Sua longa manus fu dapprima il chirurgo Niels Boje, seguito poi dal chirurgo
Henrik Skriver: entrambi praticarono, fra le tante prestazioni, l’incisione dell’occhio in alcune oche,
così da permettere al sedicente medico chimico Giuseppe Francesco Borri (1627-1695) di introdurre
nei bulbi afflosciati un’acqua da lui detta miracolosa e in grado di ottenere la «rigenerazione degli
umori oculari». La sperimentazione del Bartholin era finalizzata al tentativo di far recuperare la vista
ai soggetti divenuti ciechi per l’opacamento dell’umor cristallino, ovviando al tradizionale
affondamento nell’umor vitreo della lente opacata da cataratta”29. Ciò che in questa sede ci interessa
sono gli studi e l’opera di Caspar secundus. Suo dissezionatore intorno al 1696 è Jacob B. Winsløw
(1669- 1760), anatomista olandese, professore all’Università di Leida, uno dei padri dell’anatomia
moderna. La sua opera principale, Exposition anatomique de la structure du corps humain30, pubblicata nel
1732, è considerata il primo trattato di anatomia descrittiva senza alcun riferimento agli scritti degli
anatomisti precedenti ma affidandosi solo alla descrizione di oggetti reali e realmente osservati ed
analizzati.
di tipo corporativo della società olandese. In seno a questa fioriva inoltre la cultura del libro, causa e conseguenza di una
alfabetizzazione da primato. In un clima di tolleranza in cui non si discriminava nessuno, né ugonotti, né Ebrei,
circolavano liberamente le idee” [COSMACINI G., L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità a oggi, Laterza, Roma-Bari
2001, p. 286];
28
HUIZINGA J., La civiltà olandese del Seicento, trad. it. di Pietro Bernardini Marzollo, Antonio Rotondò e Anna Omodeo,
Einaudi, Torino 1967, p. 58;
29
COSMACINI G., La vita nelle mani. Storia della chirurgia, Laterza, Roma-Bari 2004, p. 148-149;
30
Nell’edizione latina del 1758, prima della lettera dedicatoria, è interessante notare che l’autore riporta una frase di
Stenone, allievo all’Università di Leida dove Jacob B. Winsløw disseziona: Pulchra quae videntur, pulchriora quae sciuntur, longe
pulcherrima quae ignorantur. [traduzione dell’autrice: Belle sono le cose che si vedono, più belle quelle che si conoscono, di gran lunga più
belle quelle che si ignorano]. Se si contestualizza la frase, si comprende il clima di libertà di pensiero e quindi di ricerca e di
studio che si respirava all’Università di Leida.
9
Perché dunque parlare di famosi anatomisti danesi all’interno di un discorso che riguarda i chirurghi
di Preci? Perché proprio un preciano collabora o per lo meno scrive un trattato con un grande
maestro dell’anatomia quale Caspar secundus Bartholin.
Riprendiamo i rilevanti e considerevoli studi di Gian Franco Cruciani per correggerli in alcune parti
ed integrarli31.
Cruciani, passando in rassegna le famiglie preciane con medici scrittori, si sofferma con una pagina
sulla famiglia Petrucci. Già ho incontrato tale nome in varie note manoscritte nel testo di Cesare
Scacchi Sussidio di Medicina del molto Eccellente M. Durante Scacchi. Tradotto dal Latino in lingua Volgare, dal
molto Eccellente M. Cesare Scacchi delle Preci, suo fratello, ambedui Medici, Fisici, Chirurgici, e Anatomici. Con
licenza de’ Superiori, e Privilegio. In Venetia, MDCIX. Presso Francesco Rampazetto, precedentemente citato.
Nelle note – rispettivamente nella pagina di apertura e di chiusura del testo - si legge che l’opera è
stato acquistata da Attilio Petrucci dalle Preci, che ci dice di aver comperato il volume nel giorno 14
marzo 1610 dal Maestro Cesare Scacchi delle Preci al prezzo di bisanti quattro dico baiocchi quaranta 40
et di farlo ligare costo baiocchi diciasette 17. Il libro è stato quindi acquistato dallo stesso autore e, da
quanto si evince, in fascicoli non rilegati.
Cruciani riporta due nomi di medici: Antonio e Giuseppe. Di Giuseppe ricorda che “è chiamato, nel
Libro dei Battesimi dell’Archivio di Preci, all’anno 1636, “perillustris et admodum excellens”. Nel 1676
dette alle stampe una sua opera: De capsulis renalibus, earumque usu. Stampato a Roma nel
1676. Non mi è riuscito di scovarlo.”32
Nel testo di M. Portal, Tableau Chronologique d’anatomie et de chirurgie, Tomo VI, Parte I, stampato a
Parigi nel 1773, a pagina 717; nell’analizzare la bibliografia sui reni, l’autore, oltre che Bartholin, cita
il libro di un certo «Petrucci (T)» dal titolo De capsulis renalibus, earumque usu, Romae 1676. Sempre
nella stessa pagina, si ricorda che Petrucci descrive una cavità all'interno della ghiandola surrenale,
che egli osserva “essere di volume notevole in un anziano”.
Siamo di fronte ad una prima conferma ma anche ad una prima incongruenza: Cruciani afferma che
il nome dell’autore è Giuseppe; nel testo del 1773 si accenna ad una iniziale del nome, “T”, che non
coincide con quanto detto dal Cruciani. Nel Dictionnaire Historique, Critique et bibliographique, stampato
a Parigi nel 1822, tomo ventunesimo, a pagina 450 del testo compare la voce «Petrucci (Joseph)».
Ritorna dunque il nome Giuseppe citato da Cruciani, ma con qualche differenza. Si riporta di seguito
l’intera voce del dizionario in francese: “PETRUCCI (JOPEPH) médecin, né à Rome, en 1648, et
dont on fixe la mort en 1711, fut recudocteur dans sa ville natale, ou il devint ensuite savant
professeur et habile praticen. On lui attribue on ouvrage intitulé: Decapsulis renalibus earumque usu,
Romae, 1676, in-12. Quelque hasardée que soit l’opinion de l’auteur dans cette production on n’a
31
Si ringrazia il dott. Alessandro Bocci per la collaborazione alle ricerche ed alla stesura di questa parte del saggio. Sua è
la scoperta della relazione tra il chirurgo Petrucci e Caspar secundus Bartholin ed a lui va tutta la mia gratitudine.
32
CRUCIANI G.F., Cerusici e fisici. Preciani e Nursini dal XIV al XVIII secolo, Edizioni Thyrus, Norcia 1999, p. 176;
10
pas laissé de joindre l’opuscule qui l’annonce à celle de Gaspard Bartholin, sur les ovaires des
femmes, et un autre de Jean Verle, sur l’oeil, Lyon, 1696, in-12, sours le titre de Petrucci, Gasparis
Bartholini et Joannis Verle, opuscula nova anatomica. Haller cite une édition du premier ouvrage, publié à
Rome, en 1680, in-12, sous le titre de Spicilegium anatomicum de structura et usu capsularum renalium, ornée
de quelques figures peu estimées”. La traduzione italiana del testo ci informa che “Medico, nato a
Roma nel 1648, e la cui morte è stabilito avvenisse nel 1711, divenne dottore nella sua città natale,
ove poi fu anche sapiente professore ed abile pratico. A lui è attribuita un'opera intitolata De capsulis
renalibus earumque usu, Romae 1676, formato in-12. Alcuni azzardano che l'autore non permettesse di
pubblicare quest'opera insieme a quella di Gaspare Bartolini sulle ovaie femminili ma che poi ne
autorizzò la pubblicazione insieme ad un'altra di Jean Verle, in Lione, 1696, formato in-12, col titolo
di Petrucci, Gaspari Bartholini et Johannis Verle, Opuscula nova anathomica. Haller cita un'edizione della
prima opera, pubblicata a Roma nel 1680, formato in-12, col titolo di Spicilegium anathomicum de
structura et usu capsularium renalium, ornata da qualche figura di poco pregio”33. Dal testo emergono
delle nuove affermazioni che sembrano non coincidere ancora una volta con quanto affermato da
Cruciani. Questi afferma di aver letto nel Libro dei Battesimi dell’Archivio di Preci che un certo
Giuseppe Petrucci nasce a Preci nel 1636; il testo del 1822 ci informa che il Giuseppe Petrucci
autore del De capsulis renalibus earumque usu, nasce a Roma nel 1648. Forse il Giuseppe citato da
Cruciani è un omonimo e, stando alla fonte documentale appena citata, non l’autore del testo in
questione; si potrebbe altresì trattare di un errore dell’autore ottocentesco, che difatti risulta
impreciso in alcune annotazioni, come ad esempio quando cita l’Opuscula nova anathomica, Petrucci,
Gaspari Bartholini et Johannis Verle, come stampato nel 1696, quando in realtà esiste una edizione del
1680.
Il testo di Petrucci – se non preciano di nascita, almeno di probabili discendenze preciane - dal titolo
De capsulis renalibus earumque usu lo si può ritrovare – per correggere ed integrare le informazioni
fornite da Cruciani – in Opuscula nova anatomica Thomae Petruccii, Casparis Bartholini et Joannis Verle,
Lugduni 1680, pp. 1-120.
Al momento della redazione del presente scritto, è in corso un’opera di ulteriore approfondimento
sul sopracitato testo in quanto rappresenta un momento fondamentale di “internazionalizzazione”
del sapere scientifico preciano. L’importanza della scoperta della relazione tra Petrucci e Caspar
secundus Bartholin è infatti la testimonianza documentata della diffusione della pratica chirurgica dei
medici di Preci che, da una piccola realtà umbra, sono riusciti nei secoli ad inserirsi con meriti ed
onori nel dibattito medico-chirurgico europeo, frequentando e scrivendo trattati con i maggiori
rappresentanti della chirurgia dal XVI al XVIII secolo.
33
Traduzione del dott. Alessandro Bocci.
11
PRESUPPOSTI TEORICI DELLA SCUOLA CHIRURGICA PRECIANA
Qualsiasi siano state le evoluzioni dei vari settori della scienza, ma in particolar modo della chirurgia
studiata sotto determinati aspetti in questo saggio; ogni maturazione, progresso, svolgimento e
trasformazione, richiede necessariamente una nuova percezione, un cambiamento epistemologico,
gnoseologico e in alcuni casi ontologico del rapporto uomo-mondo, una nuova e diversa visione
della realtà da parte dell’intelletto umano, un riassetto conoscitivo. Parti inesplorate di una relazione
emergono immediatamente in superficie per ordinare in modo inatteso ma fecondo un intero
orizzonte conoscitivo.
Dopo aver in parte esplorato la storia, alcuni dei protagonisti e delle opere della scuola chirurgica
del piccolo paesino di Preci, occorre tornare all’interrogativo, collocato all’inizio di tale saggio, che
uno studioso quale Giovanni Maria Giuliani, si è posto relativamente alle origini di una tale
tradizione chirurgica: “Come mai i chirurghi preciani e norcini hanno potuto costituire una Scuola
che per ben quattro secoli – dal 1200 al 1600 – ha irradiato i suoi allievi per le città d’Italia e per
quasi tutte le contrade d’Europa?”34. Perché Preci, un borgo lontano dai grandi centri universitari, ha
sviluppato un’arte chirurgica così raffinata per alcuni aspetti, precisa, in grado di formare abilità da
esportare nei vari centri europei?
Come ha sottolineato Merleau-Ponty, “ad aver provocato il cambiamento dell’idea di Natura non
sono state le scoperte scientifiche. È invece il cambiamento dell’idea di Natura ad aver permesso tali
scoperte”35. Per analogia, dunque, dei solidi presupposti teorici hanno permesso all’arte chirurgica di
svilupparsi a Preci e poi di sopravvivere ed espandersi in tutta Europa.
Essendo giunti a tale punto del lavoro, risulta in parte evidente l’influenza del nuovo orizzonte e
della nuova visione della natura inaugurata dal movimento francescano e benedettino, sulla nascita e
sul successivo sviluppo della scuola chirurgica preciana. Anche se molti aspetti di tale tradizione
vanno ancora analizzati, in parte svelati e chiariti, risulta ragionevolmente ipotizzabile che il
francescanesimo, unitamente al movimento benedettino, abbiano avuto un ruolo di primaria
importanza nei suoi primi svolgimenti36. Ansano Fabbi sottolinea che la chirurgia a Preci è sempre
GIULIANI G.M., I chirurghi preciani e norcini (Rapporti con la Scuola di Salerno e l’Ordine di S. Benedetto),p. 169, in «Archivio
italiano di chirurgia», vol. LXXII, fasc. III, 1949, pp. 169-190;
35
MERLAU-PONTY M., La natura. Lezioni al Collège de France 1956-1960, trad. it., Raffaello Cortina editore, Milano 1996, p.
9;
36
Lino Conti ben argomenta tale tesi nel suo saggio: CONTI L., La portata della rivoluzione francescana e la scienza moderna, in
CONTI L., (a cura di) Natura e scienza nella rivoluzione francescana, Edizioni Centro Stampa, Città di Castello 2013, pp. 89150. “Più in generale: non è stata la scienza moderna a provocare il cambiamento dell’idea di natura, ma è stata piuttosto
la formazione di una nuova idea di natura a provocare la nascita della moderna scienza sperimentale. La tesi che
sinteticamente intendo qui ribadire è che il cristianesimo, e in modo particolare l’interpretazione trinitaria della creazione
del mondo – sedimentata in una metaforica del “libro della natura” – sono state delle poderose forze di cambiamento
che, assimilando la natura ad uno stupendo prodotto d’arte, ad un artefatto, hanno predisposto le condizioni di possibilità
per lo sviluppo della tecnica e del moderno paradigma sperimentale” [CONTI L., La portata della rivoluzione francescana e la
34
12
stata una “disposizione naturale degli abitanti della valle” in quanto abituati “al mestiere di «norcino»,
alla sezione delle carni suine e alla castrazione a scopo di ingrasso. […] Da alcuni calcoli e cisti
osservati nei suini, applicarono per analogia le osservazioni su alcuni malati, come dalla castrazione dei
suini e degli asini, pensarono a poterla compiere impunemente in clienti che la richiedessero”37.
All’argomentazione del Fabbi c’è da ribadire il fatto che l’applicazione «per analogia» ha bisogno di
un cambiamento concettuale. Tutte le trasformazioni subite dalla scienza e nella scienza nel corso
dei secoli, hanno presupposto un cambiamento teorico prima di ogni cambiamento pratico. Non a
caso l’utilizzo da parte dei primi uomini, ma soprattutto la creazione, il perfezionamento ed il
potenziamento di utensili è stato uno dei primi aspetti che ha portato gli studiosi a classificare tali
creature nel genere Homo: non tanto per il fatto di utilizzare e migliorare i propri strumenti ma per il
fatto che nei loro encefali c’era stato un cambiamento strutturale, quantitativo o/e qualitativo –
ancora non ci è dato saperlo – che ha dato l’avvio all’evoluzione umana. Per analogia dunque, la
nascita della scienza chirurgica a Preci, deve essere stata preceduta da un cambiamento di
prospettiva. Agire sugli uomini come fino ad allora si era agito sugli animali, presuppone un’apertura
di visioni e di orizzonti prima di ogni applicazione empirica. Probabilmente tale apertura ha
promosso l’attuazione di osservazioni, «per analogia», dagli animali all’uomo e solo dopo si è rivelata
l’urgenza di costruire una letteratura che fissasse in teorie un apparato empirico. Nulla vieta una
nascita empirica, come sembrano sostenere le poche fonti a nostra disposizione; ma si
commetterebbe a mio avviso un errore se si escludesse come data di nascita dell’arte chirurgica
preciana il cambiamento gnoseologico e ontologico avvenuto grazie ai movimenti francescano e
benedettino.
Da tali inizi la Scuola Chirurgica di Preci si afferma nei maggiori centri universitari e ospedalieri
attraverso importanti operazioni: nota è Elisabetta I d’Inghilterra che si sottopone alle esperte mani
di Cesare Scacchi – autore del Sussidio di Medicina precedentemente citato e preso in esame in un altro
saggio38 - nell’intervento della cataratta. Molti altri chirurghi diventano lettori e Professori in
prestigiose Università non solo italiane ma anche europee.
Per esprimersi con le parole di Eugenio Garin; “finalmente la nascita di nuove concezioni del
mondo permise il costituirsi di quadri mentali nuovi e di prospettive capaci di promuovere indagini e
scoperte”39.
Se dunque il cristianesimo rappresenta la base teorica per lo sviluppo del pensiero scientifico, il
movimento francescano e benedettino, come precedentemente si è accennato, hanno svolto il ruolo
scienza moderna,p. 95, in CONTI L., (a cura di) Natura e scienza nella rivoluzione francescana, Edizioni Centro Stampa, Città di
Castello 2013, pp. 89-150.
37
A. FABBI, La scuola chirurgica di Preci, Arti grafiche Panetto e Petrelli, Spoleto 1974, p. 55;
38
PELLICCIA A., La Scuola Chirurgica Preciana, in CONTI L., (a cura di) Natura e scienza nella rivoluzione francescana, Edizioni
Centro Stampa, Città di Castello 2013, pp. 151-185;
39
GARIN E., La cultura del Rinascimento, Il Saggiatore, Milano 1996, p. 131;
13
di coordinate epistemologiche ed ontologiche della nuova scienza. La genesi di molte scuole
scientifiche – tra cui la Scuola Chirurgica di Preci, oggetto del presente studio – si spiega attraverso il
dialogo tra sapere religioso e sapere laico.
Pierre Duhem (1861-1916) in Le système du monde (1906-1959, 10 voll.) sostiene l’idea che il passaggio
dalla scienza aristotelica a quella moderna, trova nel Medioevo uno degli snodi principali. Il sorgere
delle scienze e la teologia cristiana hanno per Duhem delle implicazioni e delle interdipendenze
necessarie ed assolute. Secondo Eric L. Mascall (1905-1993), “vi è una relazione molto stretta fra la
fede cristiana in un Dio, soggetto insieme razionale e libero, e il metodo delle scienze empiriche. Un
mondo creato dal Dio cristiano sarà simultaneamente contingente e ordinato. Presenterà regolarità e
forme stabili, perché il suo Creatore è razionale, ma le regolarità e le forme che esso contiene non
possono essere predette a priori, perché Egli è libero: possono essere scoperte solo mediante un
esame sperimentale. Il mondo, come concepito dal teismo cristiano, è un campo ideale per
l’applicazione del metodo scientifico, con la sua duplice tecnica di osservazione ed esperimento”40.
Nell’ottica cristiana dunque, il mondo diviene “leggibile” dall’intelletto umano in quanto creato e
prodotto da Dio. Lo studio della natura diventa possibile nella misura in cui Dio ha conferito al
mondo la razionalità e l’intelligibilità. Lo sviluppo della scienza naturale risulta possibile solo alla luce
della tradizione giudaico-cristiana, dove Dio crea un ordine razionale che l’umanità può indagare
secondo l’intelletto e la ragione che le sono state conferite dalla divinità stessa. In questo senso,
evidenti e puntuali risultano le parole di Alfred N. Whitehead quando ribadisce “il grande contributo
dato dal Medioevo alla formazione del movimento scientifico. Intendo parlare della fede
inespugnabile che ogni evento particolare può essere correlato, in modo perfettamente definito, ai
suoi antecedenti e fungere da esempio di princìpi generali. Senza questa fede l’enorme lavoro degli
scienziati sarebbe disperato. A questa fede istintiva, vivamente sostenuta dall’immaginazione, che
costituisce il principio motore della ricerca: v’è un segreto, e questo segreto può essere svelato.
Come si è insediata così saldamente nello spirito europeo questa convinzione? Se paragoniamo il
“tono” del pensiero europeo con l’atteggiamento di altre civiltà abbiamo la sicura impressione che il
primo sia originato da una sola fonte. Non può infatti provenire che dalla concezione medioevale,
che insisteva sulla razionalità di Dio, al quale veniva attribuita l’energia personale di Yahwèh e la
razionalità di un filosofo greco. Ogni particolare era collocato e ordinato: le ricerche sulla natura non
potevano sfociare che nella giustificazione della fede nella razionalità. […] Ciò che ho in mente è
l’impronta lasciata nello spirito europeo da una fede secolare e incontestata. […] In Asia i concetti
di Dio riguardavano un essere troppo arbitrario o troppo impersonale perché tali idee di esso
riuscissero a determinare abitudini istintive della mente. Qualunque evento determinato poteva
essere attribuito al fiat di un despota irrazionale o scaturire da qualche “origine delle cose”
40
MASCALL E.L., Christian Theology and The Natural Sciences, London 1956, p. 132;
14
impersonale e imperscrutabile. Mancava quella fiducia che proviene dall’idea della razionalità
intelligibile di un essere personale. Non intendo sostenere che la fede europea nella possibilità di
perscrutare la natura fosse logicamente giustificata dalla sua stessa teologia. Cerco solo di capire
come essa sia sorta. La mia tesi è che la fede nelle possibilità della scienza, nata prima dello sviluppo
della teoria scientifica moderna, è un derivato inconsapevole della teologia medievale”41. Ho scelto di
trascrivere per intero il passo perché è di fondamentale importanza nella storia del pensiero
scientifico e perché attesta bene il ruolo sostanziale del Medioevo per lo sviluppo della scienza ed in
particolare la consapevolezza della possibilità di “leggere” la realtà in quanto creata da «una
razionalità intelligibile di un essere personale».
“Il fatto che i teologi medievali riunissero una formazione vasta per ampiezza e spessore sia nella
filosofia naturale sia nella teologia, e fossero portatori di diritti esclusivi a porre in correlazione
queste due culture, può fornire la chiave per spiegare l’assenza di uno scontro tra scienza e teologia
nell’ampia letteratura costituita dai commenti medievali alle Sententiae e ai libri sacri. Per quanto
riguarda la gran messe di questioni sulle quali si trovarono a confronto, i teologi-filosofi naturali del
Medioevo erano ben consci di come mettere l’una disciplina al servizio dell’altra e di come evitare
conflitti e confronti tra le due. In effetti, costoro si trovavano nella condizione migliore per
ricondurre a concordia le due discipline, indagando al contempo ogni sorta di circostanza e
possibilità ipotetica e controfattuale. In confronto alla situazione esistente nella tarda antichità,
allorché il cristianesimo lottava per sopravvivere, e nei tempi duri a venire, il tardo Medioevo –
eccezion fatta per gli anni sessanta e settanta del XIII secolo -, fu un periodo relativamente
tranquillo nella lunga interrelazione tra scienza e teologia.”42
41
WHITEHEAD A.N., La scienza e il mondo moderno, trad. it. di A. Banfi, Bollati Boringhieri, Torino 1979, p. 33;
GRANT E., Scienza e teologia nel Medioevo, pp. 72-73, in a cura di LINDBERG D. C., NUMBERS R. L., Dio e Natura , trad. it.
La Nuova Italia, Firenze 1994, pp. 39-73. “Poiché ai professori di arti veniva proibito di impiegare la loro scienza in
ambito teologico, la sola classe intellettuale medievale a impiegare la scienza in tale campo, e la teologia in ambito
scientifico, restava quella dei teologi. Non solo costoro ricevevano una formazione completa in fatto di filosofia naturale
e di teologia, ma alcuni di loro dettero contributi rilevanti alla scienza e alla matematica, come dimostrano i nomi di
Alberto Magno, di Giovanni Pecham, di Teodorico di Freiberg, di Tommaso Bradwardine, di Nicola Oresme e di Enrico
di Langenstein. Giacché avevano una solida cultura tanto in filosofia naturale quanto in teologia, i teologi medievali
erano in grado di correlare conoscenze scientifiche e teologiche con relativa facilità e confidenza, sia che si trattasse di
impiegare la scienza in questioni di ermeneutica, di applicare la potenza assoluta di Dio a possibilità alternative all’interno
del mondo naturale, o ancora di richiamare con una certa frequenza testi biblici all’interno di trattati scientifici allo scopo
di rafforzare teorie o idee scientifiche. I teologi godevano di un grado notevole di libertà intellettuale e la maggior parte
di loro non permetteva che il loro sapere teologico fosse di ostacolo alle ricerche relative all’organizzazione e ai processi
del mondo fisico. Se mai vi fu qualche tentazione verso la costruzione di una «scienza cristiana», essi ebbero buon gioco
nel resisterle. I passi scritturali non venivano impiegati per «dimostrare» verità scientifiche grazie a un appello cieco
all’autorità divina. […] Ironicamente, invece di ostacolare il dibattito scientifico, i teologi ben poterono inconsciamente
produrre il risultato opposto, come indica la previa descrizione dell’influsso della dottrina relativa alla potenza assoluta di
Dio. I divieti teologici che presero corpo nella condanna del 1277 acuirono forse il rilievo dato ad alternative probabili e
improbabili e a possibilità ben al di là di quelle che altrimenti i filosofi naturali aristotelici avrebbero preso in esame, se
fossero stati lasciati ai loro soli procedimenti. Mentre queste ipotesi speculative non condussero all’abbandono della
concezione aristotelica del mondo, esse contribuirono ad alimentare il più audace ed elettrizzante dibattito scientifico del
Medioevo” [GRANT E., Scienza e teologia nel Medioevo, pp. 71-72, in a cura di LINDBERG D. C., NUMBERS R. L., Dio e
Natura, trad. it. La Nuova Italia, Firenze 1994, pp. 39-73];
42
15
La scienza e la cultura moderne debbono molto al Medioevo: metodi, impostazioni, idee, intuizioni.
Secondo Amos Funkenstein “l’immaginazione teologica preparò la strada a quella scientifica”43.
SAN FRANCESCO E LE ORIGINI DELLA SCIENZA MODERNA
Se poniamo la nostra attenzione allo sviluppo della scienza medica e chirurgica nel passaggio tra
Medioevo ed età moderna, si aprono una serie di questioni, interrogativi, ricerche e vie da esplorare
di indubbia rilevanza.
Come sottolinea lo storico della medicina Giorgio Cosmacini, “era dal Medioevo non pagano, ma
cristiano che venivano emergendo concetti e valori di grande rilevanza per la medicina. Già il
cristianesimo delle origini aveva influito positivamente sulla pratica del curare. Lo stesso evangelista
Luca, al dire del suo contemporaneo san Paolo (Saulo di Tarso, I secolo d.C.) era un «diletto
medico», emulo di Cristo nel risanare il fisico quanto lo spirito. Luca, nel terzo Vangelo, dà risalto
all’operato di Gesù guaritore, come nel caso di «una donna che già da dodici anni soffriva di un
flusso di sangue e che aveva speso tutto il suo avere nei medici» (8, 43-44). Inoltre sottolinea la
necessità di assistere i malati e i feriti, come nel celebre passo: «Un uomo scendeva da Gerusalemme
a Gerico e si imbatté nei briganti, i quali, spogliatolo e battutolo a sangue, se ne andarono
lasciandolo mezzo morto. […] Un samaritano, che era in viaggio, arrivò presso di lui, gli fasciò le
ferite, cospargendole d’olio e di vino; poi, fattolo salire sul proprio giumento, lo portò all’albergo e si
prese cura di lui» (10, 30-34)”44. Con i Vangeli, ma ancor più con il cristianesimo medievale, si
ribadisce il concetto che la malattia corporale è anche malattia dell’anima e che il malato – come
nella predicazione francescana – deve essere accolto, assistito e curato. “Era il Medioevo cristiano a
dare fondamento etico alla hospitalitas: questo stesso nome, conosciuto sì dagli antichi ma solo come
attitudine od opzione individuale e come obbligo giuridico nei confronti dell’ospite, si affermava
nella bassa latinità come comandamento condiviso, come servizio reso al bisognoso e al sofferente
nell’ambito di un cristianesimo che si proclamava religione dei poveri”45.
Se l’attenzione agli indigenti e ai miseri è elemento portante del messaggio cristiano, con la
predicazione ma soprattutto con l’azione e le opere di san Francesco, essa viene condotta verso
FUNKENSTEIN A., Teologia e immaginazione scientifica dal Medioevo al Seicento, trad. it., Einaudi, Torino 1996, p. 13. “La
scienza per fiorire ha bisogno della teologia naturale” [ JAKI S.L., La strada della scienza e le vie verso Dio, trad. it., Jaca Book,
Milano 1988, p. 24;
44
COSMACINI G., L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità a oggi, Laterza, Roma-Bari 2001, p.117;
45
COSMACINI G., L’arte lunga. Storia della medicina dall’antichità a oggi, Laterza, Roma-Bari 2001, p.118. “Caritas e infirmitas
sono concetti e valori centrali nella spiritualità cristiana; i modi in cui si rapportano a vari livelli (dottrinario,
religioso/pastorale, sociale) danno luogo, nel corso del Medioevo, a comportamenti peculiari del singolo fedele e a
istituzioni assistenziali fondamentali nell’assetto della società. Il nuovo valore e concetto di carità, nelle sue varie e
molteplici accezioni, quale si esprime nei Vangeli e come viene elaborato nella patristica, segna lo stacco più evidente tra
gli orientamenti di ‘filantropia’ tardo antichi e i precetti assistenziali ebraici rispetto alla nuova tradizione cristiana”
[AGRIMI J., CRISCIANI C., Carità e assistenza nella civiltà cristiana medievale, p. 217, in GRMEK M.D., (a cura di) Storia del
pensiero medico occidentale, vol.1, Editori Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 217-259];
43
16
straordinarie ed inattese strade. Proprio il rapporto con i lebbrosi è ciò che rende vivo, inatteso e
rivoluzionario il percorso francescano. La vicinanza, l’accoglienza, la caritas nei confronti dei
lebbrosi, è uno dei tratti distintivi dell’azione del santo di Assisi che si fa umile come gli umili,
oppresso come gli oppressi, povero come i poveri. “Questo atteggiamento verso i lebbrosi
costituisce, per Francesco, un nuovo modo di leggere il mondo, la vita e la stessa creazione,
risultando il momento fondante della sua nuova consapevolezza. Egli ha scelto di vivere nel mondo
pur rifiutandone le logiche e i criteri; si è opposto a una società caratterizzata dall’esclusione […] per
affermare la presenza divina in tutte le creature. Francesco è così riuscito a superare quella
tentazione neoplatonica e gnostica, presente anche nel cristianesimo, volta a sottovalutare l’uomo, il
corporeo, il mondo, che non vengono più vissuti come occasioni di deviazioni e fonti di peccato, ma
come depositari di una significazione sacrale. Ed è per questo che egli non può rinnegare la propria
cultura giovanile fortemente mondana; anzi le sue stesse aspirazioni cavalleresche non sono
d’ostacolo alla conversione e al raggiungimento della santità ma ne diventano paradossalmente il
tramite”46.
Si può a ragione sostenere che la persona, il pensiero e l’azione di S. Francesco hanno mutato
profondamente la relazione tra umanità e Creato. Sullo sfondo storico-culturale di un contemptus
mundi, l’idea che la natura - bella, preziosa, utile, forte – sia «specchio» della bontà divina, di un
Creatore da ringraziare e lodare per un tale casto splendore, assume una portata rivoluzionaria.47 “Il
laudario francescano costituisce un vero e proprio cambiamento di paradigma: un salto ontologico in
cui il disprezzo del mondo si capovolge in amore per il creato. Il Cantico, dopo la Genesi mosaica e il
Prologo del Vangelo di san Giovanni, è una delle più alte esaltazioni della creazione. E si tratta di
un’esaltazione talmente innovativa da segnare una profonda frattura con il passato: un irreversibile
cambiamento di rotta rispetto agli orientamenti pessimistici delle tradizionali visioni del creato.
Quanto più risuonava il canto delle laudes creaturarum nelle piazze antistanti le chiese medievali, tanto
46
MENESTÒ E., Francesco e il francescanesimo, p. 60, in SANTUCCI F., (a cura di) Assisi, Elio Sellino Editore, 1997, pp. 57-68.
“La riflessione filosofico-teologica è venuta introducendo nei rapporti tra natura, Dio e uomo forme di mediazione e
articolazione che rendono i fenomeni naturali meno immediatisticamente dipendenti dal puntuale atto di volontà divino,
e consentono, anzi obbligano l’uomo a servirsi di quella razionalità che Dio ha infuso in lui come nella natura stessa, per
studiarli e comprenderne la regolare struttura. Il che significa […] che salute, guarigione, malattia non sono più viste solo
come esiti immediati di interventi divini, o espressione diretta solo di vicende dell’anima, ma come fenomeni che
dipendono da regolarità naturali che specificamente il medico può e deve indagare. La medicina, in questa nuova
prospettiva, viene vista essa stessa come un dono di Dio, che non incombe più imperscrutabilmente solo col miracolo di
guarigione o l’intervento correttivo, ma appunto dona all’uomo la capacità di conoscere l’organismo, infonde nelle erbe
virtù curative che il medico deve studiare” [AGRIMI J., CRISCIANI C., Carità e assistenza nella civiltà cristiana medievale, pp.
230-231, in GRMEK M.D., (a cura di) Storia del pensiero medico occidentale, vol.1, Editori Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 217259];
47
CONTI L., La portata della rivoluzione francescana e la scienza moderna, p. 118, in CONTI L., (a cura di) Natura e scienza nella
rivoluzione francescana, Edizioni Centro Stampa, Città di Castello 2013, pp. 89-150. “Lo sviluppo della scienza non risultò
come il prolungamento del sapere classico. Fu la naturale conseguenza della dottrina cristiana: la natura esiste perché è
stata creata da Dio. Per amare e onorare Dio, è necessario apprezzare a fondo le meraviglie del suo operato. Essendo
Dio perfetto, il suo creato funziona secondo principi immutabili, principi che dovrebbe essere possibile scoprire
utilizzando appieno i poteri della ragione e dell’osservazione che Dio ci ha donato. Queste furono le idee fondamentali
che spiegano il motivo per cui la scienza nacque nell’Europa cristiana e in nessun altro luogo” [STARK R., La vittoria della
ragione. Come il cristianesimo ha prodotto libertà, progresso e ricchezza, trad. it. di Gabriella Tonoli, Lindau, Torino 2006, p. 49];
17
più si dissolvevano le cupe foschie del disprezzo e della svalutazione del mondo. […]” San
Francesco, “contro il pessimismo dualistico, che faceva del mondo il male assoluto, il prodotto di
una divinità malvagia, riaffermava la bontà del creato. Contro l’ottimismo panteistico ribadiva che il
mondo, proprio perché possiede una realtà propria diversa da quella di Dio, non poteva essere il
bene assoluto. […] L’inno francescano, a mio avviso, può essere considerato come uno dei più
rilevanti casi di promozione inintenzionale dello sviluppo scientifico da parte di un testo non
scientifico. […] Il Cantico delle creature è il manifesto di una creaturalità che aprirà la strada alla
leggibilità sperimentale del libro della natura”48. Le interessanti riflessioni dello studioso Lino Conti,
mostrano la portata della rivoluzione attuata dal movimento francescano attraverso uno dei testi
emblematici del francescanesimo stesso; il Cantico delle creature. L’importanza di tale poderoso
cambiamento, si riflette direttamente sulla concezione della natura e con essa dell’uomo, della
razionalità e del sapere scientifico. Come sottolinea Lino Conti, il Cantico delle Creature, “porta a
scoprire che la natura, proprio perché creata, è meravigliosa opera d’arte: è un prodotto ‘artificiale’, plasmato
dall’azione coscientemente intenzionale e deliberata del Sommo Artefice, portando così all’assioma
dell’artificialità della naturalezza, vale a dire, dell’artificialità insita nella naturalezza o dell’inscrizione della
naturalezza in un orizzonte di artificialità.”49 Il Creato dunque non è più un male da disprezzare, da cui
astrarsi, esso diventa materia plasmata da Dio, speculum della Somma Razionalità, bontà essa stessa. Il
mutamento di prospettiva ontologica e gnoseologica si traduce in un ribaltamento dei rapporti
relazionali ed epistemologici tra Dio, mondo e uomo. Come sottolinea Amos Funkenstein, “il
«nuovo» spesso non consiste nell’invenzione di nuove categorie o di nuove figure di pensiero, ma in
un impiego insolito e sorprendente di quelle già esistenti”50.
Tra le biografie di San Francesco, nella Vita Seconda di Tommaso da Celano, nella parte relativa a La
contemplazione del creatore nelle creature, Capitolo CXXIV, Amore del Santo per le creature sensibili e insensibili,
si esprime con chiarezza e profondità intellettuale la rivoluzionaria posizione del Santo di Assisi.
“Desiderando questo felice viandante uscire presto dal mondo, come da un esilio di passaggio,
trovava non piccolo aiuto nelle cose che sono nel mondo stesso. Infatti si serviva di esso come di un
campo di battaglia contro le potenze delle tenebre, e nei riguardi di Dio come di uno specchio tersissimo della
sua bontà. In ogni opera loda l’Artefice; tutto ciò che trova nelle creature lo riferisce al Creatore. Esulta
di gioia in tutte le opere delle mani del Signore, e attraverso questa visione letificante intuisce la causa e la
ragione che le vivifica. […] Attraverso le orme, impresse nella natura, segue ovunque il Diletto e si fa
scala di ogni cosa per giungere al suo trono. Abbraccia tutti gli esseri creati con un amore e una
devozione quale non si è mai udita, parlando loro del Signore ed esortandoli alla sua lode. Ha
riguardo per le lucerne, lampade e candele, e non vuole spegnerne con la sua mano lo splendore,
48
CONTI L., La portata della rivoluzione francescana e la scienza moderna, pp. 118-121, in CONTI L., (a cura di) Natura e scienza
nella rivoluzione francescana, Edizioni Centro Stampa, Città di Castello 2013, pp. 89-150;
49
Ivi, p. 121;
50
FUNKENSTEIN A., Teologia e immaginazione scientifica dal Medioevo al Seicento, trad. it., Einaudi, Torino 1996, p. 16;
18
simbolo della Luce eterna. Cammina con riverenza sulle pietre, per riguardo a colui che è detto Pietra.
[…] Quando i frati tagliano legna, proibisce loro di recidere del tutto l’albero, perché possa gettare
nuovi germogli. E ordina che l’ortolano lasci incolti i confini attorno all’orto, affinché a suo tempo
il verde delle erbe e lo splendore dei fiori cantino quanto è bello il Padre di tutto il creato. Vuole
pure che nell’orto un’aiuola sia riservata alle erbe odorose e che producono fiori, perché richiamino
a chi li osserva il ricordo della soavità eterna. Raccoglie perfino dalla strada i piccoli vermi, perché
non siano calpestati, e alle api vuole che si somministri del miele e ottimo vino, affinché non
muoiano di inedia nel rigore dell’inverno. Chiama con il nome di fratello tutti gli animali,
quantunque in ogni specie prediliga quelli mansueti. Ma chi potrebbe esporre ogni cosa? Quella
Bontà «fontale», che un giorno sarà tutto in tutti, a questo santo appariva chiaramente fin d’allora
come il tutto in tutte le cose.”51 A mio avviso, le prime righe della citazione risultano di una pregnanza
ed incisività tale da essere commentate ed esaminate in questo quadro teorico inziale.
Ben consapevole del fatto che la vita terrena rappresenta solo un passaggio verso la “vera” vita, San
Francesco considera la natura come «aiuto», utile non solo per sconfiggere il male ma soprattutto per
comprendere la bontà di Dio in quanto il creato è «specchio» del Creatore. Attraverso la
contemplazione della bellezza, della forza e della potenza del mondo stesso si può di riflesso
ringraziare e lodare Dio. Questi aspetti della riflessione francescana sono di fondamentale
importanza. Non più alcun disprezzo nei confronti di un mondo «patologico», malato, ma profonda
consapevolezza che attraverso l’azione, l’uomo si inserisce attivamente nel cammino di lode verso
Dio52.
Una nuova visione della natura dunque si fa strada con san Francesco, una quadro epistemologico in
cui utilità, bellezza, possibilità e dovere di azione caratterizzano la relazione tra uomo e creato. “E se
da una parte san Francesco con la sua visione ottimistica del mondo, basata sull’amore e sul rispetto
della natura e di tutte le creature, egli supera proprio quella concezione altomedievale del contemptus
mundi che aveva nel De miseria humanae conditionis di Innocenzo III il momento più significativo,
51
TOMMASO DA CELANO, Memoriale nel desiderio dell’anima, Vita Seconda, Capitolo CXXIV, Amore del santo per le creature
sensibili e insensibili, in CAROLI E. (a cura di), Fonti Francescane, Editrici Francescane, Padova 2004;
52
“Alle sottigliezze della dialettica e ai bizantinismi delle raffinatezze esegetiche, del resto, aveva sempre preferito la
predicazione attraverso le opere e l’esempio. In realtà, anche se non è possibile stabilire con esattezza quale opinione
avesse san Francesco del patrimonio conoscitivo del suo tempo, non è difficile scorgere dietro la sua diffidenza verso la
scienza una critica distruttiva di ogni forma di sapere astratto e disancorato da qualsiasi ricaduta operativa e da qualsiasi
utilità pratica. Questa critica, del resto, discendeva direttamente dall’esaltazione francescana del lavoro manuale e dalla
logica francescana della predicazione attraverso le opere, l’esempio e la testimonianza. Nessun sapere astratto avrebbe
potuto passare indenne attraverso le maglie di una logica simile. Quella francescana, infatti, risultava una logica in cui era
l’azione che inverava la parola; una logica in cui il sigillo di verità della predicazione era dato dal suo radicamento
nell’operari, dalla sua traduzione nell’efficacia operativa dell’azione; una logica, insomma, in cui il metro che misurava
l’autenticità della vita contemplativa era la vita attiva” [CONTI L., La portata della rivoluzione francescana e la scienza moderna,
pp. 122-123, in CONTI L., (a cura di) Natura e scienza nella rivoluzione francescana, Edizioni Centro Stampa, Città di Castello
2013, pp. 89-150]. “È tuttavia certo che Francesco privilegiò una cultura di tipo figurale e gestuale; egli infatti non si
preoccupò mai di definire intellettualmente la sua esperienza; con il suo agire contraddisse continuamente gli aspetti
teorici a favore di un concreto modo di vivere”[ MENESTÒ E., Francesco e il francescanesimo, p. 61, in SANTUCCI F., (a cura
di) Assisi, Elio Sellino Editore, 1997, pp. 57-68];
19
dall’altra, con il suo uscire dal mondo, si fa promotore, contro i valori che costituivano il fulcro della
società mercantile e gli orientamenti e la prassi della stessa istituzione ecclesiastica, di scelte e di
atteggiamenti che si pongono sulla linea della rottura e del mutamento”53. Tale mutazione di
prospettiva gnoseologica e ontologica è una vera e propria rivoluzione che avrà conseguenze
importanti nella storia della cultura e delle idee nei secoli successivi al XIII. Uno degli effetti ed esiti
di questo nuovo orizzonte si riscontra proprio nell’origine e nei primi sviluppi della scienza
moderna. La nuova scienza della natura, presuppone piuttosto – come ben ci ricorda Lino Conti54
citando Scheler – “un nuovo sentimento della natura: una nuova valutazione della natura. Questa
sorgente emozionale ha luogo nei rinascimenti europei, cominciando con il rinascimento, ancora del
tutto cristiano, del movimento francescano e dei suoi numerosi germogli in Europa, movimento che
poi si è sempre più secolarizzato”55. In maniera ancora più specifica si può sostenere che “la
concezione cristiana della natura si rivela come uno dei fondamentali fattori che hanno condotto al
moderno paradigma sperimentale. Ad essa spetta il merito di aver creato le condizioni di possibilità
per la nascita della nuova scienza. È insomma nella concezione cristiana del libro della natura che
affondano le radici del pensiero scientifico, della genealogia della moderna rivoluzione scientifica”56.
La presa di coscienza da parte del francescanesimo di un valore positivo della realtà materiale, attua
forse inconsapevolmente ma necessariamente un rovesciamento se non un cambiamento radicale di
tutte le coordinate epistemologiche. “La realtà nuova che il naturalismo del XII secolo aveva
riscoperto attraverso letture platoniche e stoiche, ermetiche e peripatetiche, si dispiegava così in tutta
la sua ricchezza: la nuova idea di natura non indicava solo la presa di possesso del mondo fisico
attraverso la ricerca della sua ‘legitima causa et ratio’, al di là delle trasposizioni allegoriche e
simboliche, ma era la scoperta del valore di una realtà terrestre e ‘profana’ che veniva a mutare anche
la concezione dell’uomo, la sua posizione nel mondo, il suo impegno ultramondano. Era nata una
philosophia mundi come nuovo capitolo della storia culturale europea”57. L’uomo è così chiamato ad
impegnarsi nel mondo, a proteggerlo, conservarlo, migliorarlo. La rivalutazione della natura diviene
53
MENESTÒ E., Francesco e il francescanesimo, p. 58-60, in SANTUCCI F., (a cura di) Assisi, Elio Sellino Editore, 1997, pp. 5768;
54
CONTI L., La lettura francescana del ‘Liber naturae’ e la nascita della scienza sperimentale, p. 69, in I francescani e la scienza,
«Convivium Assisiense», Atti della giornata di studio, anno X, gennaio-giugno 2008, Cittadella Editrice, Assisi 2008, pp.
65-113;
55
SCHELER M., Sociologia del sapere, Edizioni Abete, Roma 1966, p. 143-144;
56
CONTI L., La portata della rivoluzione francescana e la scienza moderna, p. 99, CONTI L., (a cura di) Natura e scienza nella
rivoluzione francescana, Edizioni Centro Stampa, Città di Castello 2013, pp. 89-150. “Anche se ora molti ‘atei devoti’
sostengono che la scienza attuale renderebbe possibile una ‘creazione senza Dio’, non va mai dimenticato il fatto che,
almeno finora, nei meandri della storia non si è mai assistito ad una nascita della scienza sperimentale fuori dal
creazionismo ebraico-cristiano. Incapperebbe quindi in un errore di categoria chi volesse spiegare la nascita della scienza
moderna senza ricorrere alla rivoluzione teologica avviata dal Cantico delle creature.” [CONTI L., La portata della rivoluzione
francescana e la scienza moderna, p.150, in CONTI L., (a cura di) Natura e scienza nella rivoluzione francescana, Edizioni Centro
Stampa, Città di Castello 2013, pp. 89-150];
57
GREGORY T., L’idea di natura nella filosofia medievale prima dell’ingresso della Fisica di Aristotele, p.65, in La filosofia della natura
nel Medioevo, Atti del Terzo Congresso Internazionale di Filosofia Medievale, Passo della Mendola (Trento) 31 agosto-5
settembre 1964, Società editrice vita e pensiero, Milano 1966, pp. 27-65;
20
quindi aspetto sostanziale proprio perché essa è «voluta» e creata dalla Somma Razionalità. Queste le
parole di Papa Francesco relative all’insegnamento di San Francesco. “Francesco inizia il Cantico
così: «Altissimo, onnipotente, bon Signore… Laudato sie… cun tutte le tue creature» (FF, 1820).
L’amore per tutta la creazione, per la sua armonia! Il Santo d’Assisi testimonia il rispetto per tutto ciò che
Dio ha creato e come Lui lo ha creato, senza sperimentare sul creato per distruggerlo; aiutarlo a
crescere, a essere più bello e più simile a quello che Dio ha creato. E soprattutto san Francesco
testimonia il rispetto per tutto, testimonia che l’uomo è chiamato a custodire l’uomo, che l’uomo sia
al centro della creazione, al posto dove Dio - il Creatore - lo ha voluto.”58
NUOVA VISIONE DELLA NATURA E DEL CORPO NEL
FRANCESCANESIMO
Si è più volte ribadito che con la predicazione e la vita, san Francesco ha plasmato un nuovo modo
di considerare il corpo e l’anima umane; riaffermando più volte che la corporeità e la materialità
hanno un valore intrinseco sostanziale in quanto elementi creati da Dio. Un passo tratto da Vita
Seconda di Tommaso da Celano, mostra il rinnovato orizzonte in cui Francesco si pone collocando e
appoggiando involontariamente l’intera filosofia della natura che apre le porte ad un sapere di
stampo moderno. Il passo seguente dunque, a mio avviso, rappresenta il punto di passaggio e di
raccordo tra una visione altomedievale della natura ed una più prossima a quella della modernità.
“210. Francesco […] sebbene privo di forze e con il corpo tutto rovinato, mai ebbe una
pausa nella corsa verso la perfezione, mai permise che si addolcisse il rigore della disciplina.
Tant’è vero che, anche quando il corpo era sfinito, non si sentiva di usargli qualche riguardo
senza rimorso di coscienza.
Dovendo un giorno lenire, sia pure contro volontà, le sofferenze del corpo con vari
medicinali, perché i dolori erano superiori alle sue forze, si rivolse con fiducia a un frate,
perché sapeva che gli avrebbe dato un consiglio saggio.
«Che cosa ne pensi, figlio carissimo, del fatto che la mia coscienza mi rimprovera spesso
della cura che ho per il corpo? Forse teme che io gli sia troppo indulgente perché è
Omelia del Santo Padre Francesco, Piazza San Francesco, Assisi, 4 ottobre 2013, www.vatican.va. “Nel personalismo
trinitario trovano fondamento la comprensione di una creazione non solo ex nihilo, ma anche ex amore Creatoris (Gaudium
et spes, 2), la concezione del mondo come segno, sacramento, dono di Dio, l’appello estetico che la natura è in grado di
produrre e perfino la concezione della creazione come opera d’arte. È per la loro esemplarità trinitaria che «tutte le
creature sensibili significano qualcosa di sacro, cioè la sapienza e la bontà di Dio» (Summa theologiae, III, q.60, a. 2, ad 1um)
e l’uomo è chiamato ad averne una cura responsabile” [TANZELLA-NITTI G., Creazione, in «Dizionario Interdisciplinare di
Scienza e Fede. Cultura scientifica, filosofia e teologia», a cura di Tanzella-Nitti G. e Strumia A., 2 voll, Urbaniana
University Press - Città Nuova Editrice, Roma 2002];
58
21
ammalato, e cerchi di soccorrerlo con medicamenti rari. Non già che il corpo provi diletto in
qualche cosa perché, rovinato com’è da lunga malattia, ha perduto ogni gusto».
211. Il figlio rispose al padre con grande accortezza, conoscendo che il Signore gli suggeriva
le parole: «Dimmi, padre, se credi: non è stato pronto il tuo corpo a obbedire ai tuoi ordini?».
«Gli rendo testimonianza, figlio, che fu obbediente in tutto, in nulla si è risparmiato, ma si
precipitava quasi di corsa a ogni comando. Non ha sfuggito alcuna fatica, non ha rifiutato
alcun sacrificio, purché gli fosse possibile obbedire. In questo, io e lui, siamo stati
perfettamente d’accordo, di servire senza riserva alcuna Cristo Signore».
E il frate: «Dov’è dunque, padre, la tua generosità, dov’è la pietà e la tua somma
discrezione? È questa la riconoscenza che si dimostra agli amici fedeli, ricevere da loro un
beneficio e non ricambiarlo nel tempo della necessità? Quale servizio a Cristo tuo Signore hai
potuto fare sino ad ora senza l’aiuto del corpo? Come tu stesso dici, non ha affrontato per
questo ogni pericolo?».
«Sì, lo ammetto, figlio – rispose il padre -. È verissimo!».
«E allora – proseguì il frate – è ragionevole che tu venga meno in così grande necessità a
un amico tanto fedele, che per te ha esposto se stesso e tutti i suoi beni sino alla morte? Lungi
da te, padre, aiuto e sostegno agli afflitti, lungi da te questo peccato contro il Signore!».
«Benedetto anche tu, figlio mio – concluse il santo – perché sei venuto incontro ai miei
dubbi con rimedi così saggi e salutari!».
E rivolgendosi al corpo, cominciò a dirgli tutto lieto: «Rallegrati, frate corpo, e perdonami:
ecco, ora sono pronto a soddisfare i tuoi desideri, mi accingo volentieri a dare ascolto ai tuoi
lamenti!».59
Se dunque la sofferenza del corpo è indispensabile per condurre una vita di totale adesione a Cristo,
alleviare la sofferenza diviene atto di amore60 nei confronti di «frate corpo» che è un «amico tanto
fedele».
Da quanto discusso nelle pagine precedenti, emerge l’idea che il diverso atteggiamento nei confronti
dell’uomo e del cosmo, inaugurato e promosso dal movimento francescano, che chiama il corpo
fratello, che osserva e ritiene il mondo un libro leggibile dalla ragione umana, proprio perché creato
dalla Somma Razionalità, ha orientato e indirizzato la nuova stagione della scienza e quindi anche
della medicina aperte ad un sapere moderno. Accanto alla dirompente novità ontologica del
francescanesimo, però, non va dimenticato il decisivo apporto del movimento benedettino ai nuovi
TOMMASO DA CELANO, Memoriale nel desiderio dell’anima, Vita Seconda, Capitolo CLX, Colloquio con un frate riguardo al
dovere di curare il corpo, in CAROLI E. (a cura di), Fonti Francescane, Editrici Francescane, Padova 2004;
60
AGRIMI J., CRISCIANI C., Malato, medico e medicina nel Medioevo, Loescher editore, Torino 1980. “Per imitare Cristo
bisogna seguirlo, prendere con gioia la croce ogni giorno, essere povero tra i poveri, vivere con i diseredati, farsi abietto
tra gli abietti, proporsi come oggetto di ribrezzo al pari di questi, condividere sorte, vita, sentimenti di quanti sono
respinti dalla società, primi tra tutti i lebbrosi: servirli in umiltà e letizia, non al fine di prendere coscienza della miseria
della condizione umana, ma per riscoprire l’immagine del Cristo nella pacificata dolcezza dell’anima e del corpo così
conseguita” [AGRIMI J., CRISCIANI C., Malato, medico e medicina nel Medioevo, Loescher editore, Torino 1980, p. 63];
59
22
studi, alle nuove tecniche, a quel sapere empirico e applicativo che ha ricoperto un ruolo rilevante ed
essenziale nella nascita e poi nello sviluppo del pensiero scientifico.
PRECI: UNA SCUOLA CHIRURGICA TRA BENEDETTINI E FRANCESCANI
Se il francescanesimo ha modificato e sconvolto la visione dell’uomo e del cosmo a favore della
positività e della «divinità mediata» presente in essi; “non va trascurato il ruolo svolto nell’alto
Medioevo dai monasteri benedettini, sia nel conservare e tramandare frammenti e testi del sapere
medico classico, sia nello sviluppare conoscenze farmacologiche, specie di tipo erboristico”61.
L’abbazia di S. Gallo, come sottolineano le studiose Agrimi e Crisciani, è esemplare per spiegare
l’ospitalità e l’assistenza medica benedettina. “Contigua all’infermeria, con dormitorio e refettorio
per i monaci malati, è la domus medicorum; una stanza è riservata ai malati più gravi e adiacente ve n’è
una per il medico; sono anche previsti locali attrezzati per custodire una piccola farmacia, per i bagni
terapeutici e per il salasso; infine l’orto dei semplici, con le piante medicinali necessarie per preparare
i vari rimedi. È in questo contesto, nel rapporto che lega la biblioteca allo scriptorium e all’infermeria,
che nascono i primi manuali medievali di botanica medica, di patologia e farmacologia (basti pensare
all’Hortulus di Walafrido Strabone, abate di Reichenau, al De innumeris morbis e De innumeris remediorum
utilitatibus attribuiti a Bertario, abate di Montecassino, alle traduzioni e compilazioni messe a punto
presso la stessa abbazia da Costantino Africano, giù fino al Causae et curae di Ildegarda di Bingen,
badessa di Rupertsberg); ed è sempre per una finalità pratica connessa con l’attività di successive
generazioni di infirmarii e monaci-medici che si raccolgono, integrano, correggono ricette per ogni
tipo di malattia.”62 Già dall’XI secolo dunque nelle abbazie benedettine alcuni monaci – esperti ed
abili nell’ospitalità ai pellegrini e nella cura agli infermi – si specializzano in phlebotomi, minutores,
ventosarii, infirmarii, medici et physici. Tuttavia “le deliberazioni conciliari che vietavano ai monaci la
professione chirurgica e la riservavano ai laici” come ad esempio “il Conciclio di Reims, del 1131 (ne
monaci aut regulares canonici leges vel medicinam audiant), il Concilio Romano del 1139, il Concilio
di Tours del 1163 (Ecclesia abhorret a sanguine), il Concilio Lateranense del 1215 (nec ullam
chirurgicam artem subdiaconus vel sacerdos exerceat, qualis ad ustionem vel incisionem inducat)”63
segnano un decisivo e totale accesso da parte del mondo laico al sapere chirurgico depositato, in
ambito ecclesiastico, dai monaci. Inizia dunque una vera e propria «secolarizzazione» della chirurgia
che, diventando accessibile al mondo laicale, può intraprendere e accogliere nuove vie finora
precluse. “Vanno in questa direzione le ripetute delibere conciliari che vietano agli uomini di Chiesa
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AGRIMI J., CRISCIANI C., Malato, medico e medicina nel Medioevo, Loescher editore, Torino 1980, p. 141;
AGRIMI J., CRISCIANI C., Carità e assistenza nella civiltà cristiana medievale, p. 240, in GRMEK M.D., (a cura di) Storia del
pensiero medico occidentale, vol.1, Editori Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 217-259;
63
FABBI A., La scuola chirurgica di Preci, Arti grafiche Panetto e Petrelli, Spoleto 1974, p. 53;
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lo studio e l’esercizio della medicina e di altre discipline profane: con esse non s’intende svilire la
medicina in sé quanto piuttosto favorire l’approfondimento di studi teologici da parte del clero,
potenziarne la preparazione ed evitare sovrapposizioni di compiti”64.
Proprio questo passaggio dal mondo spirituale a quello secolare segna a mio avviso il punto di svolta
della scuola chirurgica di Preci ed in generale di tutto il sapere e la pratica medico-chirurgica.
Per concludere quindi, la scuola chirurgica di Preci è un buon esempio di come il pensiero cristiano
ha influenzato la genesi della scienza moderna e di come la chirurgia empirica ha condizionato e
portato notevoli e decisivi contributi alla chirurgia «aulica», delle Accademie e delle Università.
Ripercorrere il cammino dei medici preciani è stato come esplorare e attraversare a grandi linee il
lungo percorso della nascita della chirurgia, la sua evoluzione ed i suoi sviluppi: dalle prime
“aperture” francescane fino ai progressi della scienza moderna.
Nel saggio si è potuto apprezzare come da una scuola fondata sull’osservazione, sull’abilità, su
Maestri espertissimi, dove l’esperienza vissuta ha lo stesso peso e la stessa validità di un’opera scritta
da Galeno o Avicenna; possano svilupparsi talenti in grado di dialogare con le massime autorità
mediche e chirurgiche del tempo. Una scuola chirurgica, quella di Preci, nata in un piccolo borgo
dell’Appennino umbro che ha più aspetti e caratteri legati alla scienza moderna, che ha prodotto più
innovazioni rispetto alle Università sorte nei grandi centri europei, in cui l’aristocrazia e la classe
medica dirigente è in realtà molto lenta ad accogliere novità e cambiamenti.
Una scuola che vanta umili ed antiche origini ma che si è ben meritata un posto prestigioso
nell’ampio capitolo della storia della chirurgia.
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AGRIMI J., CRISCIANI C., Carità e assistenza nella civiltà cristiana medievale, in Storia del pensiero medico occidentale, a cura di
GRMEK M., Laterza, Roma-Bari 1993, p. 229. “Inoltre, l’intenso impegno nel mondo che caratterizza l’attività dei nuovi
Ordini mendicanti, mentre richiede appunto queste specifiche competenze, rende consapevoli della necessità e del valore
della salute e vigoria fisica, strumenti indispensabili per lo stesso frate per dedicarsi efficientemente alle iniziative – di
studio, di apostolato urbano, di lotta antiereticale, di assistenza – che Francescani e Domenicani intraprendono. Le lodi
di Francesco per ‘frate corpo’, le raccomandazioni di Umberto da Romans ai frati contro mortificazioni fisiche e
trascuratezze ‘sanitarie’ tanto debilitanti quanto superbe, sono indicazioni di come il corpo sia ora un valore, sempre da
usare per fini spirituali ma non solo tramite la sofferenza e la pazienza” [AGRIMI J., CRISCIANI C., Carità e assistenza nella
civiltà cristiana medievale, in Storia del pensiero medico occidentale, a cura di GRMEK M., Laterza, Roma-Bari 1993, p. 230];
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