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GIOVANNI FONTANA, IL FILO ODOROSO DELLA MEMORIA

2021, LA POESIA VISIVA COME ARTE POLISENSORIALE

Suoni, colori, profumi si intrecciano nella realtà naturale in maniera così stretta da favorire una sorprendente e illuminante contaminazione delle sfere sensoriali. Ma se suoni, colori, profumi, sensazioni tattili e gustative si fondono in modo tanto inestricabile, la gamma di corrispondenze che ne risulta è tanto ricca e vibrante da favorire sempre nuove prospettive linguistiche. E se nell’esperienza quotidiana le possibili relazioni analogiche possono essere afferrate solo intuitivamente, è proprio sul piano dell’espressione artistica che l’ambiguità delle soluzioni linguistiche esalta la capacità di penetrare l’essenza della realtà.

Pubblicato in: LA POESIA VISIVA COME ARTE PLURISENSORIALE – L’OLFATTO Collana Pratiche sinestetiche Ed. Fondazione Berardelli, Brescia, 2021 – pp. 78-95 QUEL FILO ODOROSO DELLA MEMORIA Le corrispondenze olfattive nel Libro dei labirinti di Giovanni Fontana Nel 2012 alla Pinacoteca De Nittis di Barletta fu allestita un’interessante esposizione dedicata alla pittura italiana tra Ottocento e Novecento intitolata «L’odore della luce». Scelta geniale per un titolo che raccoglie in un nodo sinestetico due elementi cardine nel gioco percettivo, che sembrerebbe impossibile collegare. La luce non ha odore! Ma, in realtà, il collegamento tra i due elementi è frutto di inspiegabili folgorazioni dovute alla qualità del colore e all’uso che ne fanno i pittori macchiaioli e divisionisti quando organizzano texture vibranti e materiche. Si tratta di una di quelle magie che si realizzano nella sfera percettiva di chi si affaccia sul mondo dell’arte con allenata e affinata sensibilità. Fin dall’antichità l’ambiguità della percezione, la sua complessità e multiformità hanno svolto un ruolo fondamentale nelle arti, mettendo alla prova la perizia tecnica dell’artista e sorprendendo il committente illuminato. Ma certamente uno dei momenti fondamentali per la presa di coscienza della complessità dell’universo dei sensi, e anche per la loro straordinaria importanza nei processi di connessione legati alla ricerca di nuovi linguaggi, è la pubblicazione da parte di Charles Baudelaire del suo Correspondances [1857]. È proprio là che i profumi, i colori e i suoni si rispondono aprendo, in ambito letterario e non solo, nuove prospettive di senso. […] II est des parfums frais comme des chairs d'enfants, Doux comme les hautbois, verts comme les prairies, — Et d'autres, corrompus, riches et triomphants, Ayant l'expansion des choses infinies, Comme l'ambre, le musc, le benjoin et l'encens, Qui chantent les transports de l'esprit et des sens.1 Suoni, colori, profumi si intrecciano nella realtà naturale in maniera così stretta da favorire una sorprendente e illuminante contaminazione delle sfere sensoriali. Ma se suoni, colori, profumi, sensazioni tattili e gustative si fondono in modo tanto inestricabile, la gamma di corrispondenze che ne risulta è tanto ricca e vibrante da favorire sempre nuove prospettive linguistiche. E se nell’esperienza quotidiana le possibili relazioni analogiche possono essere afferrate solo intuitivamente, è proprio sul piano dell’espressione artistica che l’ambiguità delle soluzioni linguistiche esalta la capacità di penetrare l’essenza della realtà. Nei versi di Baudelaire appena citati è offerto un legame tra la sensazione olfattiva e quella tattile, tra una sensazione uditiva e una visiva, ma in Tout entière il poeta è immerso in una metamorfosi mistica dove tutti i sensi sono fusi in uno: c’è contemporaneità percettiva di fronte ad un unico vortice di sensazioni. […] Ô métamorphose mystique De tous mes sens fondus en un ! Son haleine fait la musique, Comme sa voix fait le parfum !2 1 Questa equivalenza tra voce e profumo impegna vertiginosamente la sensualità; esalta l’immagine del corpo, ne valorizza l’apparenza, che paradossalmente offre tutta la sua tangibilità attraverso elementi tanto evanescenti. Ma l’olfatto è anche il senso dell’immaginazione. Un dato, questo, che è stato rilevato da molti. Ce lo ricorda in particolare Jean-Jacques Rousseau3, ma il caso forse più volte richiamato a tal proposito è quello di Marcel Proust4, maestro di raffinati giochi sinestetici, che attraverso il profumo apre le più remote scatole della memoria. È quel che accade con la fragranza delle «madeleine». Del resto è ormai ben noto che il meccanismo della percezione sensoriale, nella sua generalità, afferisce in chiave sinestetica alla memoria, responsabile impalpabile della nostra formazione culturale. In maniera illuminante, a tal proposito, si esprime Agostino di Ippona quando connette memoria e senso: Io posso anche starmene in silenzio, al buio: ma se voglio rimetto a fuoco i colori nella memoria e distinguo il bianco dal nero e da qualunque altro colore: e non accade che i suoni si intromettano disturbandomi nella considerazione di ciò che ho appreso dalla vista. Eppure anch’essi si trovano lì: ma sono come latenti, in disparte. Tanto che se mi aggrada di richiamare anche loro, subito si presentano: e io senza muover la lingua, a gola muta, canto finché ne ho voglia: e a loro volta le immagini di colore, pur essendo ancora lì, non vengono a interferire e a disturbarmi nella mia rassegna di quest'altro tesoro confluito dalle orecchie. E così via, per tutte le altre cose immesse dagli altri sensi e lì ammassate: le richiamo alla memoria a mio piacimento, e senza annusarlo distinguo il profumo dei gigli da quello delle viole, e mi basta il ricordo per continuare a preferire il miele al decotto di mosto e il liscio al ruvido, senza nulla gustare né palpare al momento [Confessioni, libro X, - 13]. Secondo Agostino, l’anima, per sentire, si serve del corpo. Egli intravvede un senso interno «che i sensi del corpo informano sul mondo esterno» [Confessioni, libro VII, 17.23]. Proprio su questa linea si sviluppa il pensiero di Paul Zumthor quando osserva collegamenti sinergici tra differenti piani percettivi. Nelle partiture verbo-visive, per esempio, il confine tra l'elemento visivo e quello sonoro spesso si perde, specialmente quando, sia l'uno che l'altro, vengono organizzati sulla base della loro fisicità. Un esempio in tal senso è offerto secondo Zumthor dagli audiopoemi e dai dattilopoemi di Henri Chopin. Il fruitore è sollecitato da una parte dal suono, dall’altra dalla forma visibile. L'audiopoema rifiuta l'imperativo del linguaggio non accettandone più la fonia come confine, bensì sceglie di articolarsi sulla genesi corporea e corporale del suono, così come il dattilopoema si fonda sulla materialità delle tessiture, nelle quali le lettere si organizzano secondo criteri che nulla hanno a che fare con l'universo della lingua. Lessico, grammatica e sintassi sono al grado zero, mentre la qualità dei rapporti tra gli elementi è controllata visivamente. Osserva allora Paul Zumthor come nel fruitore l'opera riesca a sollecitare un medesimo punto interiore, sia pure passando attraverso diversi canali sensoriali: «...sia attraverso l'orecchio che attraverso l'occhio, non è forse uno stesso luogo dentro di me che viene colpito? Non è forse un medesimo punto nascosto al centro? E da questo punto s'irradia, di ritorno, un richiamo informulabile e tanto più unico»5. Una magia di ordine sinestetico è compiuta: l'occhio e l'orecchio sono stimolati da una voce sui generis che si organizza all'interno. Si tratta di sollecitazioni sensoriali diverse, di stimolazioni apparentemente senza rapporto, tuttavia «in profondità, uniche ... une ... non fosse altro che per il loro carattere comune»6, che è dato dalla loro stessa sensorialità, unica modalità d'esistenza che implica la presenza di un corpo e ne invoca la sua materialità vivente. Si osservino le registrazioni dattilografiche di Henri Chopin con funzione di partitura. Ma tali collegamenti si attuano tanto più efficacemente proprio quando sono coinvolti quelli che vengono definiti «sensi minori», come l’odorato, il gusto e il tatto, obiettivi, nel tempo, di svalutazione da un punto di vista estetico-filosofico, in ragione di un presunto difetto di nobiltà, in quanto più prossimi alla bassa sfera istintuale del corpo. È come se la vista e l’udito si fossero qualificati, al di là degli aspetti pratici, come sensi deputati ad alimentare lo spirito, mentre odorato, gusto e tatto non fossero stati altro che sensi ordinari, connaturati ad esperienze esclusivamente materiali. 2 In realtà, tali facoltà percettive hanno, invece, una tale forza d’impatto da rendere immediata chiarezza della tipologia e della qualità dell’esperienza (estetica e non), tanto da condizionare le sensazioni visive ed acustiche perfino nel linguaggio. Si tratta, infatti, di sensi che stabiliscono immediate coordinate di riferimento con effetti sul piano pratico ed estetico. Perciò riferendosi alla sfera cosiddetta minore, si dirà che un suono è aspro, pungente, secco o asciutto, si dirà che un ritmo è carezzevole, una sequenza di note è tagliente, che un accordo è morbido o crudo, che un timbro è caldo o freddo, che una melodia è fresca, sottile oppure che una vista è disgustosa, che un paesaggio è dolce o che un colore è acido e così via. Ma è ancora Agostino di Ippona che, addirittura riferendosi all’amore divino, assegna a tutti i sensi la medesima dignità: «Eppure amo una sorta di luce, una sorta di voce e di profumo e di cibo e una sorta di abbraccio, quando amo il mio Dio: luce, voce, profumo, cibo e abbraccio dell'uomo interiore, dove ogni cosa splende e risuona e profuma per l'anima, e da lei sola si fa assaporare e stringere. Dove c'è luce non diffusa nello spazio e musica non rapita dal tempo e profumo che il vento non disperde e sapore che la nausea non scema – e un abbraccio che la sazietà non scioglie». [Confessioni, libro X, 6.8]. In alcuni momenti, nella storia della filosofia e delle arti il primato della vista ha dominato ampiamente. Tra ‘700 e ‘800 si è assistito a un articolato dibattito sul carattere della visione: da una parte le teorie di Newton, che nel 1672 lesse alla Royal Society la sua relazione sulla Nuova teoria della luce e dei colori, e, sul versante opposto, con toni polemici, talvolta molto aspri nei confronti delle posizioni dello scienziato, la teoria dei colori messa a punto da Goethe [1810]7, che si batte per una fisica qualitativa, contro quella quantitativa di Newton. Una svolta fu segnata grazie alle posizioni di Samuel Taylor Coleridge, che pose al centro dell’attenzione addirittura il tatto, primo a rivelarsi nel neonato, intorno al quale dovevano ruotare gli altri sensi con armonica equidistanza. Secondo Coleridge8 l’esperienza estetica dipende essenzialmente dalle modalità della percezione e l’attenzione costante per i fenomeni percettivi è un requisito basilare per lo spirito poetico. Il carattere unificante dell’immaginazione, definita come potere «esemplastico», è un presupposto basilare per quella forma di pensiero in termini sintetici che, molto più tardi, offrirà a Dick Higgins lo spunto per la sua teoria dell’intermedialità9. Certamente, nelle arti, fenomeni di interferenza e di interrelazione di sfere percettive, o addirittura vere e proprie sinestesie, erano già stati ampiamente osservati in tempi remoti, ma la consapevolezza reale delle infinite possibilità espressive, che possono essere ottenute mettendo in relazione l'intera gamma dei tipi di comunicazione estetica, ha svolto senza dubbio un ruolo fondamentale nelle avanguardie novecentesche: terreno particolarmente fertile per lo scambio di sensi e per lo sviluppo dell’«opera plurale»10. I testi escono dai libri, subiscono gli effetti dei codici gestuali, spaziali, musicali, si offrono a sensazioni tattili, olfattive, gustative, assumono connotazioni nuove in situazioni spettacolari. Tutti i linguaggi artistici risentono del clima di sconvolgimento percettivo. Nell’avanguardia futurista l’atteggiamento sinestetico irrompeva anche nel circoscritto campo della pittura, nel quale l’artista doveva porsi come «vortice di sensazioni»: Carlo Carrà parlava di «pittura totale», di «cooperazione attiva di tutti i sensi» e concludeva il suo manifesto del 1913, La pittura dei suoni, rumori e odori, affermando che «bisogna dipingere, come gli ubbriachi (sic) cantano e vomitano, suoni, rumori e odori!»11. Numerosi sono gli esempi di sinestesia possibili in ambiente futurista, ma una particolare sensibilità è quella di Anton Giulio Bragaglia, che di sinestesia e sinopsia [1919] si occupa anche sul piano teorico e divulgativo. “È comunemente accettato – egli scrive – il principio che mette in relazione il tatto e l’udito donde le note musicali son dette morbide o vellutate, o quello che collega l’olfatto e la vista, per cui i colori si definiscono profumati in quanto sollecitano la nostalgia di un profumo. La critica d’arte pittorica più raffinata, oggi ostentatamente si basa su tante espressioni sinestetiche. Ma volgarmente diciamo «tinte calde» o «tinte fredde» contaminando una sensazione auditiva con una ritmica, e comuni espressioni sono «le voci bianche» o gli «squilli d’argento», combinazioni nelle quali l’espressione fa appello alle sensazioni più squisite per dare un esempio di sensibilità universale 3 che tutti intenderanno, perché ognuno conosce l’argento di certi squilli e il caldo velluto di certi sassofoni”12. Da allora le esperienze artistiche multisensoriali, e nella fattispecie quelle legate all’olfatto, si sono moltiplicate, sia in chiave reale, sia in modalità allegorica. Potremmo ricordare soprattutto per la sua forte connotazione simbolica La Belle Haleine di Marcel Duchamp, opera realizzata con la collaborazione di Man Ray nel 1920-21, modificando una bottiglia di profumo Rigaud con l’inserimento in etichetta dell’immagine di Rrose Sélavy, ritratto fotografico en travesti, vero e proprio alter-ego femminile dell’artista. Lo scatto era di Man Ray. Il gioco di parole era fondato sull’assonanza tra La Belle Élène e La Belle Haleine (La bella Elena – Il buon alito), con un’ulteriore implicazione di senso dovuta al fatto che in francese haleine significa anche respiro. Invece che Eau de Toilette, sull’etichetta era scritto Eau de Voilette. Anche qui c’è un gioco di rimandi ulteriori: velo, veletta, vela e perfino sipario, senza considerare, poi, che il suono riporta alla mente Les voyelles di Arthur Rimbaud. Ma Duchamp già nel 1919 aveva offerto a Walter Arensberg, suo amico e mecenate, un’ampolla sigillata contenente l’Aria di Parigi. Da quel momento anche ciò che si respira poteva legittimamente far parte dell’universo artistico. Il fatto di chiudere l’aria in un’ampolla la rendeva talmente preziosa, da rendere quell’operazione simile a una sacralizzazione. L’oggetto artistico assumeva valore di reliquia. Che il mondo dell’arte abbia sempre avuto un rapporto con gli odori non è una novità. Basti pensare che Egizi, Greci e Romani facevano largo uso di balsami profumati per il trattamento delle statue delle divinità e degli oggetti di culto, in quanto l’effluvio di fragranze diverse era considerato un mezzo che favoriva il rapporto con il sacro. Del resto tracce di quei rituali giungono fino ai nostri giorni, sia pure con significati differenti, anche se, sul piano semantico, è ancora possibile verificare la persistenza di codici che sono frutto di stratificazioni antichissime. Il profumo dell’incenso ha valore di preghiera, di ordine, di pulizia, mentre l’odore di zolfo viene immediatamente ricondotto a un’immagine demoniaca, al disordine, alla laidità. Insomma, molto spesso nella letteratura e nell’arte è tutta questione di naso! Come quello che il barbiere Ivàn Jakovlèvic, ubriacone e trasandato, una mattina trova nel panino che la moglie gli ha appena preparato. Proprio un bel naso! Che riconosce immediatamente come quello del suo cliente Kovalèv, che, durante la rasatura, lo rimproverava sempre perché gli puzzavano le mani. Il naso fa parte della raccolta I racconti di Pietroburgo di Nikolaj Gogol’ e sta a dimostrare come le sensazioni odorose siano talora essenziali, addirittura strabilianti ed effettistiche, in tante ambientazioni letterarie, dove i personaggi vivono nei loro odori, relazionandosi proprio attraverso di questi. Accade in Balzac, che costruisce con gli odori ambienti e personaggi, o in Flaubert, dove gli odori rendono tangibile la vena realistica, o in Oscar Wilde, dove i profumi definiscono gli stati d’animo, suscitano passioni, alimentano l’immaginazione e la memoria, o in Italo Calvino, che organizza storie su strutture costruite sul senso dell’olfatto in Il nome, il naso13, per arrivare al romanzo Il profumo di Patrik Suskind, dove un complesso intreccio di sensazioni olfattive innerva l’intera vicenda, con sorprendenti effetti narrativi e risvolti drammatici a sorpresa. Ma tra gli innumerevoli esempi che si possono fare, non si può dimenticare il caso di Carlo Emilio Gadda, quando registra sul filo della memoria sequenze di odori repellenti che, nella narrazione, si pongono come dati fortemente caratterizzanti, o la simultaneità delle percezioni visive e olfattive nel D’Arrigo di Horcynus Orca. Insomma, l’olfatto è un importante strumento di analisi che ha il gran pregio di alimentare la creatività poetica. In arte, sul versante dell’autoesaltazione talentuosa, della genialità iperbolica, si pone Salvator Dalì, che nel 1983, prefigurando vortici estatici, crea con Jean Pierre Grivory un profumo in linea con le sue prospettive visionarie: un mix dei più rari oli essenziali raccolto in un contenitore a forma di labbra con un naso a mo’ di tappo. La creazione fu messa in produzione su vasta scala ed inaugurò una linea di prodotti che conquistarono il mercato, tanto che, a più di trent’anni dalla scomparsa dell’artista, ancora sono oggetto di grande attenzione da parte del pubblico. Il gesto artistico, però, si 4 è trasformato in un’operazione di consumo su larga scala, che ancora oggi persiste con una produzione ampiamente moltiplicata. In un’ottica completamente diversa, secondo una direttrice politica e ideologica, il profumo offre collegamenti diretti con il mondo naturale e con le funzioni ecosistemiche, come nel ciclo degli interventi in difesa della natura di Joseph Beuys. L’odore di essenze naturali, di prodotti agricoli, di vino e olio hanno svolto un ruolo fondamentale nel suo lavoro, così come l’odore del grasso o del burro. Un segnale forte è dato dal profumo dell’olio d’oliva proveniente dalle cinque vasche d'arenaria dell’opera Olivestone (1984), realizzata dall’artista per i coniugi Lucrezia De Domizio e Giuseppe Buby Durini e conservata oggi alla Kunsthaus di Zurigo. Proprio con il titolo La Belle Haleine fu organizzata nel 2015 una grande mostra al museo Tinguely di Basilea con numerosi esempi di creatività basata sull’olfatto; si passava dalle opere dello stesso Jean Tinguely a Daniel Spoerri, fino alla famosa merda d’artista, impeccabilmente inscatolata da Piero Manzoni, vero è proprio oggetto cult per gli amanti del concettuale, che ancora conserva il suo mistero, nonostante il tentativo di violazione di Bernard Bazile del 2008. La scatoletta fu aperta, ma all’interno ne fu trovata un’altra, come in un gioco di scatole cinesi, e il dissacratore non ebbe la forza di procedere nell’indagine. Non si può associare, pertanto, all’opera di Manzoni, altro che un odore fantasmatico, tutto di testa: un concetto olfattivo! Nello specifico della ricerca poetica l’odorato è coinvolto in progetti di ampio respiro, generalmente organizzati in un’ottica totalizzante. Lamberto Pignotti, che da anni teorizza il fenomeno della percezione multipla, dell'intersezione percettiva, dello scambio di sensi, ha realizzato opere e performance che coinvolgono i cinque sensi, come nelle poesie visive realizzate con piccole immagini profumate, quelle che una volta i barbieri davano in omaggio ai loro clienti, oppure come nei drinkpoem, offerti come cocktail di versi, o nelle poesie da mangiare, dove gusto e olfatto la fanno da padroni; ma Pignotti è anche il poeta che può offrire al pubblico i suoi chewing-poems, poesie da masticare che sprigionano un buon profumo di anice o di menta. Quello dell'arte edule è un tema che ha affascinato e continua ad affascinare molti artisti. Vale la pena ricordare, a questo proposito, le cene futuriste14, a cui si sono ispirati i pappapoemi di Arrigo Lora Totino e le sue cene-performance apparecchiate con Sergio Cena (L'ora di Cena da Totino) o le pagine d'artista in forma e sostanza di poemi commestibili offerte al pubblico da Carlo Belloli. In un’intervista del 1987, rilasciata ai redattori de La Taverna di Auerbach, Eugenio Miccini ricorda: «[…] ho preparato uno spettacolo in cui uso simultaneamente immagini (quattro schermi in cui compaiono rispettivamente: consonanti su fiori, strumenti musicali, fumetti, schermi colorati), suoni (musiche e parole), profumi (cinque aromi) e bon-bon (cinque sapori corrispondenti ai cinque aromi) e invito il pubblico a toccarsi con le mani o con la testa in determinati momenti. È uno spettacolo totale dal punto di vista della sinestesia, ma non da quello dei media. Ma quello che più mi interessa è tendere non solo alla totalità delle sensazioni, ma anche alla molteplicità e complessità dei concetti e delle emozioni»15. Un caso interessante di arte olfattiva è rappresentato dal lavoro di Guy Bleus, artista belga che utilizza sistematicamente i profumi nelle arti plastiche. Dal 1979 espone quadri profumati. Operando nel circuito della mail art, spedisce oggetti odorosi. Realizza anche installazioni e performance aromatiche. Spesso spruzza nubi di profumo sul pubblico. Per fare ancora qualche esempio vorrei ricordare almeno le poesie olfattive di Luciano Caruso, datate 1974, e le performance di Gianikian, che con Angela Ricci Lucchi bruciò essenze profumate e asperse sostanze balsamiche per definire lo spazio del proprio intervento in termini olfattivi alla «Prima Settimana Internazionale della Performance» a Bologna, nel197816. Nel settore performativo è piuttosto frequente misurarsi con impatti odorosi. C’è perfino un festival dedicato a questo settore specifico: Smell – Festival dell’olfatto; nato nel 2010 a Bologna ha dato spazio all’estetica della fragranza, anche se ora è più orientato sul versante della ricerca scientifica. Ma, senza dubbio, una delle performance più significative, più dure ed incisive, in cui l’odore ha avuto un perso determinante, è stata Balkan Baroque, dove Marina Abramovic, vincitrice del Leone d’oro alla Biennale di Venezia nel 1997, condannava la guerra della ex-Jugoslavia e il terribile 5 genocidio in Bosnia. Seduta su un enorme mucchio di 1500 ossa bovine, l’artista fu impegnata a ripulirle per quattro giorni di seguito, mentre lo spazio veniva pervaso da un insopportabile odore di marcio. La Abramovic continuò impassibile nel tanfo di cadaveri a compiere il suo gesto disperato di condanna nei confronti della pulizia etnica perpetrata dall’Esercito della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina sotto la guida di Ratko Mladić e Radovan Karadžić. L’olfatto, proprio perché costituisce un’infallibile strumento di analisi, ci dà l’immediata possibilità di orientarci nelle situazioni e di afferrarne le specificità. Si dice che ha «buon naso» colui che inquadra lo stato delle cose di primo acchito e individua al volo il nocciolo di ogni questione. Nello stesso tempo, abbiamo visto che l’olfatto si connette facilmente ai meccanismi della memoria, nella quale noi creiamo un nostro repertorio di sensazioni, direttamente connesso alla materia organica del nostro corpo e dell’ambiente, che ci avvolge incessantemente nel suo moto di trasformazione chimica. Probabilmente proprio questa è la ragione per la quale riesce ad alimentare la creatività poetica, con il risultato di caratterizzare fatti e circostanze, forse più di ogni altro senso, estraendone addirittura la quintessenza. Fernando Pessoa scriveva che «L’olfatto è una vista strana. Evoca paesaggi sentimentali attraverso il disegno improvviso del subconscio»17. Nel mio Libro dei labirinti (Il poeta e l’architetto) il gioco sinestetico è elemento costitutivo fondamentale dell’opera, che, tra l’altro, fa proprio leva su «questa vista strana». Si tratta di un lavoro che investe il campo del libro d’artista con l’intenzione di sovvertirne la dimensione percettiva: nasce per essere «usato» in performance, solleticando l’immagine subconscia di un’Arianna che lascia scie profumate a fronte di fili ingarbugliati e parole sibilline, un’Arianna contradittoria, guida ingannatrice, che sfida lo spazio, ma che, in fondo, fa il gioco della poesia. Al primo impatto l’opera si pone come oggetto che materializza la trasversalità dei linguaggi e delle tecniche, che segna il recupero degli aspetti plurisensoriali della comunicazione estetica. C’è un testo, articolato per voci a battuta libera, scomposto e ricomposto in ritagli, arrotolato in piccoli involti, chiuso in buste sigillate; ci sono calligrafie, scritture verbo-visive; ci sono immagini che entrano in rapporto con il testo; ci sono oggetti con funzione simbolica e/o allegorica; ci sono piccoli strumenti musicali (carillon, flauto, campanelli diversi, ecc.). Ma tutto questo non costituisce semplicemente materia del libro come oggetto da guardare, da sfogliare; ma si pone come pre-testo, come partitura d’azione, nel momento in cui si instaura un rapporto con la mia volontà performativa. In effetti questo libro d’artista è servito come base per numerose performance organizzate impegnando tecnologie che ne dilatassero l’orizzonte. Posto su un piano orizzontale e ripreso da una telecamera azimutale, che offriva ad un proiettore la possibilità di una riproduzione live su grande schermo, il libro era da me sfogliato, vissuto, letto. Due unità microfoniche appositamente tarate proiettavano suoni di voci e strumenti nell’ambiente. Il mio viaggio nel labirinto avveniva seguendo le orme di una Arianna della quale venivano gradualmente scoperte le tracce, attraverso l’apertura di buste dalle quali fuoriuscivano misteriosi testi odorosi che pervadevano lo spazio di nuvole di talco. Le polveri prendevano corpo sotto i fasci di luce del proiettore, che rilanciava le pagine del libro, il mio corpo, le mie mani che laceravano le buste e le stesse nubi olezzanti che si espandevano nell’ambiente. Il libro d'artista, pertanto, non costituiva solo un’occasione verbo-visiva, ma anche una narrazione in termini plastici e sonori; si poneva come teatro di ombre cromatiche e come spettacolo materico, come scatola magica e come camera delle meraviglie, come palestra di avventure totali e come terreno di giochi, come misuratore di tempi mentali e come diario dei sensi, come labirinto da percorrere e come perimetro da definire, come oggetto rituale o come scandaglio tecnologico, come poema totale, come voce plurale, come partitura da eseguire, come generatore di suoni (per l’offerta dei piccoli strumenti, ma anche per il rumore delle pagine sfogliate, i fogli accartocciati o strappati, le buste lacerate, ecc.), come luogo da abitare, ma anche come macchina della sorpresa trasversale, come congegno intermediale, come oggetto erotico (l’inseguimento di una inafferrabile Arianna olezzante), ma anche come maschera, come travestimento o come mappa da decrittare, perfino come viatico in un intreccio di inestricabili percorsi nella realtà e nella memoria. Quel libro d'artista, perciò, era oggetto da percorrere non solo guardando e leggendo, ma toccandone le pagine, apprezzandone le 6 rugosità, sfogliandolo sonoramente, sentendone il profumo, vivendone tutta la pregnanza. Si poneva come pre-testo o come centro di gravitazione. Il mio Libro dei labirinti è il primo libro d’artista che sfonda nella dimensione performativa. Esposto per la prima volta alla Terza Biennale del Libro d’Artista di Piazza Armerina nel 2006, sollecita questo giudizio di Franca Zoccoli: «[…] i libri e le tavole grafiche di questo artista, oltre a possedere un autonomo statuto di opera, nascono soprattutto come spartiti per azioni multimediali. Fontana, che si definisce poliartista, ha un ricco bagaglio di esperienze in diversi settori. Riesce così a dribblare con disinvoltura fra arti visive, architettura, teatro, musica, letteratura operando una fertile contaminazione dei diversi generi, sempre però assegnando alla voce una funzione portante. Infatti, come lui stesso afferma, “il testo non ha mai giocato partita più grande con l’immagine, con il suono e la voce come in questi anni” contraddistinti da una “nuova oralità”. I suoi poemi elettroacustici, eseguiti sugli spartiti delle “scritture intermediali”, sono stati proposti in Europa, nelle Americhe e in paesi dell’estremo oriente. Opere come Il libro dei labirinti sono “pre-testi”, proprio nei due significati del termine, in quanto spunti o punti di partenza, ma anche matrici che forniscono struttura agli “ipertesti” o testi a più livelli, creati dalla sperimentazione diretta del libro, che viene sfogliato, letto, attivato mettendo in scena gli oggetti, strumenti, plichi che cela dentro di sé in un intrico di fili. Nonostante l’apparente casualità, sono fili-guida che ci conducono lungo i meandri del labirinto in un percorso ricognitivo. Nella performance siciliana, su un grande schermo posto alle spalle dell’artista veniva proiettata, in verticale, l’azione ripresa da una telecamera nascosta. Registrava i riti, un po’ negromantici e un po’ avveniristici di un direttore d’orchestra, “poeta e architetto” (come dice il titolo in copertina) che rivela i segreti di una scatola magica, tra rinascimentale Wunderkammer e attualissimo laboratorio della tecnoscienza. L’artista si appropria trasversalmente, nel tempo e nello spazio, di ogni pratica, utilizza ogni tecnica “senza rinunciare a ricondurre all’ambito creativo il suo stesso corpo” (gesto e voce)»18. Del resto Serge Pey, prefatore del mio Déchets19, scrisse qualche anno dopo: «Je pense à toi comme un poème vivant»20. Nel 2005 scrissi Cinque notti d’amore (ovvero del sentire insensatamente), opera dedicata ai cinque sensi e musicata da Antonio D’Antò21. Il testo sull’olfatto alludeva in termini sfacciati, ai limiti del grottesco, ad un personaggio femminile ambiguo e contradittorio, addirittura sghembo, come l’innominata Arianna de Il libro dei labirinti. Buon naso non mente son tutte smorfie da pupazza pazza i tuoi lazzi odorosi caricature di dama e di mignotta manie da profumiera insulsa e da bigotta olezzi di bambola seduttrice e bice pescivendola rotta saraghina popputa ingenua servetta all'acqua e sapone pupa educanda contromantide blanda pisola molle o piattola secca sottana vecchia vampira vedova satanica checca gatta golosa strega ingegnosa negli sbuffi artificiosi mescidi spezie fini e facezie dozzinali incensi afrori collezioni odori di sante e di pischelle bruci fiori appassiti lecchi le ascelle ne conservi vapori passano ostriche limonate alle tue voglie 7 ma il lezzo delle ciprie non scansa manco i santi e vellica le nari di chi sniffa le code delle tue proposte adescano la frenesia delle papille i tuoi vapori a strascico sandalo muschio ambra tabacco arancia e vongola tanto che sull'incenso arriccio il naso in odor di santità possa l'anima viaggiare se buon naso ha tranquilla e linda ma temo sul bruciaticcio ché ucci ucci sento odor di cristianucci Un testo che è la reazione, in una ghirlanda di insolenze, di chi, cieco e impotente a sbrogliarsela nell’intrico dedalico, s’identifica con l’orco che ne occupa il centro: un Orco-Minotauro. Qualcuno indica per «orco» l’etimo «érgò» : «chiudo», «cingo», «impedisco». Medesima origine per «òrchos»: «luogo chiuso». L’Orco-Minotauro. Specchio dell’immobilità. Specchio dell’incapacità dell’endonauta. Specchio delle paure di chi attraversa quell’architettura, che disegna l’angoscia di non saperne venir fuori: l’angoscia di perdere il prezioso filo odoroso della memoria e della creatività. Correspondances, in C. BAUDELAIRE, Les Fleurs du mal, Auguste Poulet-Malassis et De Broise Éditeurs, Paris 1857. Tout entière, Ivi. 3 J.J. ROUSSEAU, Emilio [1762], trad. it. Ed. La Scuola, Brescia, 1965. 4 M. PROUST, Alla ricerca del tempo perduto [1913], vol. I, Dalla parte di Swann, trad. it. BUR, Milano, 1985. 5 P. ZUMTHOR, I grafemi e i vocemi di Henri Chopin, in «La Taverna di Auerbach», n° 1, 1987. 6 Ivi. 7 J.W. GOETHE, La teoria dei colori, a cura di R. Troncon, Il Saggiatore, Milano, 2008. 8 S. T. COLERIDGE, Biographia Literaria, J. M. Dent & Sons, London,1952. 9 D. HIGGINS, Intermedia, «Something Else Newsletter», n. 1, 1966. 10 Cfr. G. FONTANA, L’opera plurale: intermedialità, drammaturgia delle arti, poesia d’azione, Edizioni Harta Performing, Monza, 2009. 11 C. CARRÀ, La pittura dei suoni, rumori e odori, 1913, in L. DE MARIA, Marinetti e il futurismo, Mondadori, Milano, 1973, p. 128. 12 A.G. BRAGAGLIA, Sinopsie (La scienza e le sinestesie), in Sottopalco, Barulli, Osimo 1937, p. 299. 13 Tre storie costruite sull’olfatto in I. CALVINO, Sotto il sole giaguaro, Garzanti, Milano, 1986. L’opera è dedicata ai sensi. 14 F.T. MARINETTI e FILLIA, La cucina futurista, introduzione di P. Frassica, Viennepierre edizioni, Milano 2007. 15 In Eugenio Miccini nella Taverna di Auerbach, intervista a cura di S. DOCIMO, E. FIORE, G. FONTANA, R. MANICA, T. TARQUINI, in «La Taverna di Auerbach», n° 1, 1987. 16 R. BARILLI, Informale, Oggetto, Comportamento, Milano 1979. 17 F. PESSOA, Il libro dell'inquietudine, Newton Compton, Roma, 2006, p. 191 18 F. ZOCCOLI, La voce e il gesto, in «Territori», n° 15, aprile, 2007, p. 48. 19 G. FONTANA, Déchets, prefazione di S. PEY, Dérnier Télégramme, Limoges, 2014. 20 2005. 21 Opera per pianoforte e voce recitante, eseguita per la prima volta nell’ambito di Concerti e Palazzi, XIII Edizione, “Oggi – Poesia e Musica”, Accademia di Danimarca, Roma 2008 [al pianoforte Michele Francesco Battista]. 1 2 8