UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE
FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA
XXII CICLO DEL DOTTORATO DI RICERCA IN SCIENZE UMANISTICHE
INDIRIZZO ITALIANISTICO
Settore scientifico-disciplinare L-FIL-LET/10
CALVINO E LA RISCRITTURA DEI GENERI
DOTTORANDO
GIANNI CIMADOR
COORDINATORE INDIRIZZO ITALIANISTICO
PROF. MARINA PALADINI MUSITELLI
RELATORE
PROF. ELVIO GUAGNINI (UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI TRIESTE)
ANNO ACCADEMICO 2008/2009
1
2
«Davanti a noi, si apre il campo infinito dei possibili; e se, per
avventura, ci si presentasse davanti il reale, esso sarebbe talmente
fuori dai possibili che noi, presi da improvviso stordimento,
cozzando contro il muro sorto d‟improvviso, cadremmo riversi».
(Marcel Proust, La prigioniera)
3
4
INDICE
INTRODUZIONE: IL RITORNO DEL RACCONTO ………… P. 7
CAPITOLO PRIMO: FORME DI RISCRITTURA
I.1)
Ariosto rivisitato …………………………………………... p. 33
I.2)
Il ritmo dell‟avventura …………………………………….. p. 58
I.3)
Una infinita molteplicità di storie …………………………. p. 94
I.4)
La riscrittura intertestuale …………………………………. P. 137
CAPITOLO SECONDO: FORME ALLOTROPICHE DEI GENERI
II.1) Fantascientifico all‟incontrario …………………………… p. 169
II. 2) La libertà della struttura …………………………………... p. 208
II. 3) Il richiamo di un destino ………………………………….. p. 256
CAPITOLO TERZO: FORME DI SAGGISMO
III. 1) L‟utopia del saggio ………………………………………...p. 304
III. 2) La scienza del possibile ……………………………………p. 332
III. 3) La descrizione dello sguardo ………………………………p. 365
CAPITOLO QUARTO: FORME DI NARRAZIONE VISUALE
IV. 1) Il racconto cartografico ……………………………………p. 400
IV. 2) La tensione del disegno …………………………………… p. 429
IV. 3) L‟invidia ecfrastica ………………………………………... p. 468
IV. 4) L‟architettura zodiacale …………………………………… p. 514
CONCLUSIONI: IL ROMANZO DEL PUBBLICO ………….P. 547
5
6
Introduzione
IL RITORNO DEL RACCONTO
Calvino è un caso esemplare nella ridefinizione dei generi letterari
che caratterizza il postmoderno con il suo superamento del carattere
antiestetico dell‟avanguardia, la quale nasce dalla scoperta dell‟arte di non
potersi più costituire in racconto: al principio della narrazione che ha
costituito la modernità, fondato su un io-che-narra e che assume con ciò il
controllo della realtà, l‟avanguardia oppone una volontà di smascherare
l‟inganno di questa soggettività forte e violenta, espressione di una umanità
in perenne progresso, di una civiltà tecnologica che conquista il mondo.
L‟avanguardia è un‟esperienza spartiacque, con la quale entriamo
nell‟ambito di quella che Adorno avrebbe chiamato “industria culturale”1,
destinata a sopprimere le peculiarità delle diverse tradizioni culturali, per
entrare nei processi dell‟economia politica: cambia anche la fenomenologia
della soggettività e si apre una fase di sperimentazione in cui sono coinvolti
i nuovi media che puntano a una ricezione di massa, determinando un nuovo
tipo di produzione e di messaggio.
L‟oggetto d‟avanguardia vuole diventare comunicazione sociale e di
massa, integrarsi nel sistema di comunicazione globale: come dimostra
Duchamp, a esso corrisponde un‟estetica della ricezione che, privilegiando
l‟utente rispetto al produttore, inverte il rapporto produzione-consumo,
ponendo il godimento al centro dell‟esperienza estetica, per cui la
problematicità e lo spessore storico delle opere si annullano in un “effetto
edonistico” 2.
Viene in questo modo messo in atto un fenomeno generale di
“esplosione”
dell‟estetica
attraverso
1
l‟abolizione
dei
limiti
stessi
Cfr. Max Horkheimer e Theodor W. Adorno, Dialettica dell‟illuminismo (1947), tr.it.,
Einaudi, Torino 1966.
2
Cfr. Guido Guglielmi, L‟autore come consumatore, in Filippo Bettini et al. (a cura di),
Avanguardia vs. postmodernità (Atti del Convegno, Roma 10-11 aprile 1997), Bulzoni,
Roma 1998, p. 93.
7
dell‟estetico: si tratta di un processo nel quale Bürger individua la
retrocessione della categoria di opera d‟arte da uno statuto di totalità unitaria
a quello di “opera d‟arte non organica”3, risultato della composizione di
unità di livelli contraddittori, ovvero di elementi eterogenei che esibiscono
il principio della propria costruzione e rendono evidente una norma nel
gesto che la trasgredisce.
La logica dell‟innovazione e del progresso dei mezzi artistici insita
nella stessa eterogeneità dell‟opera d‟arte d‟avanguardia ne determina
tuttavia il rapido invecchiamento, dal momento che l‟allargamento delle
innovazioni artistiche finisce per incrementare anche il numero di
procedimenti convenzionali: è un fenomeno che Adorno ha definito “canone
dell‟interdetto” e che consiste in un meccanismo di censura attivato dalla
letteratura stessa rispetto a materiali considerati troppo usati e banalizzati.
Come afferma Alain Touraine, “le avanguardie divengono sempre
più effimere e tutta la produzione culturale […] diventa avanguardia
mediante un consumo sempre più rapido di linguaggio e di segni. La
modernità cancella se stessa”4.
Proprio l‟impasse proveniente dal “canone dell‟interdetto” e dal suo
risolversi in una esiziale afasia nominalistica del linguaggio, sperimentata
da Beckett, spinge Calvino a recuperare e a riscrivere i generi letterari,
analogamente a quanto avviene nella narrativa postmoderna e con
l‟obiettivo di ricucire la frattura creatasi nell‟Ottocento tra scrittore d‟élite e
scrittore di massa, due figure che coincidevano in un modello come Poe, nel
quale “la nascente cultura di massa e le punte avanzate della cultura
borghese aspirano a svolgere il medesimo compito”5: «Poe, Balzac, Dickens
piacciono ancora sia a Baudelaire che al suo doppio filisteo. Ma dopo di
loro la sintesi cede, e in Francia e Inghilterra (sempre lì) un manipolo di
nuove forme narrative - melodramma, gotico, feuilleton, poliziesco,
fantascienza - cattura milioni di lettori, preparando il terreno all‟industria
3
Cfr. Peter Bürger, Teoria dell‟avanguardia (1974), tr.it., Bollati Boringhieri, Torino 1990,
pp. 83-93.
4
Cfr. Alain Touraine, Critica della modernità (1992), tr.it., Il Saggiatore, Milano 1993, p.
226.
5
Cfr. l‟introduzione di Giuseppe Linati a Calibano 2. Il nuovo e il sempre-uguale. Sulle
forme letterarie di massa, Savelli, Roma 1978, p. 19.
8
del suono e dell‟immagine. È un tradimento della letteratura, come ha per
molto tempo sostenuto la critica colta? Ma no, è piuttosto che
l‟immaginazione realistica mostra qui i suoi limiti: a suo agio in un mondo
solido e ben regolato, che contribuisce a rendere ancora più tale, essa non sa
come affrontare le situazioni estreme, e le semplificazioni terribili, che a
volte la storia impone. È incapace di rappresentare l‟Altro dell‟Europa e cosa più grave - l‟Altro nell‟Europa: e allora ci pensa la letteratura di massa.
Lotta di classe e morte di Dio, ambiguità del linguaggio e seconda
rivoluzione industriale: è perché parla di tutte queste cose che la letteratura
di massa ha successo. È perché sa parlarne in cifra, naturalmente: con figure
retoriche e artifici d‟intreccio che ne velano i significati profondi, e operano
nella sostanziale inconsapevolezza di chi legge. Ma in letteratura ciò è in
una certa misura sempre vero, e la vecchia scomunica contro la letteratura di
massa appartiene ormai davvero al passato»6.
Calvino, consapevole di esporsi inevitabilmente al rischio del
convenzionale e della banalizzazione, aggira l‟ostacolo de-ideologizzando la
letteratura di consumo e la sua “fame di ridondanza”, intrinsecamente più
ideologiche della controparte elitaria e modernista, nella misura in cui
contribuiscono alla produzione di una “falsa coscienza” o a ciò che gli
autori di “Calibano” chiamano “coscienza inconsapevole”7: le conclusioni a
cui approda Calvino sono perciò sostanzialmente identiche a quelle di
Ullrich Schulz-Buschhaus, per il quale, nel contesto postmoderno,
“l‟autentico è in fondo tanto irraggiungibile quanto il convenzionale è
inevitabile (altrimenti non vi sarebbe comunicazione)”8.
La realtà della mercificazione dell‟opera d‟arte, decisamente rifiutata
dal modernismo, è un dato con il quale ogni scrittore deve ormai
confrontarsi, dal momento che l‟autonomia estetica è solo un‟illusione che
produce emarginazione: all‟esasperata fuga in avanti di tale processo nella
contemporaneità non ha più potuto corrispondere la fuga in avanti delle già
spinte posizioni moderniste, la reificazione modernista dell‟arte come
6
Franco Moretti, La letteratura europea, in Perry Anderson et al. (a cura di) Storia
d‟Europa. L‟Europa oggi, Einaudi, Torino 1993, vol. I, p. 858.
7
Cfr. l‟introduzione di Giuseppe Linati a Calibano 2. Il nuovo e il sempre-uguale. Sulle
forme letterarie di massa, cit., p. 17.
8
Cfr. Ulrich Schulz-Buschhaus, Critica e recupero dei generi. Considerazioni sul
“moderno” e sul “postmoderno”, in “Problemi”, XXIX, 101, gennaio-aprile 1995, p. 14.
9
feticcio isolato è sostituita dalla reificazione dell‟arte come cosa
meccanicamente riproducibile e scambiabile9.
Chi opera nell‟orizzonte della letteratura di massa deve convivere
con questi presupposti, sviluppandone le potenzialità costruttive e i
connotati ludici, nel senso di una concezione epistemologica della finzione e
di una interattività tra autore e lettore, due cardini della “poetica” calviniana
che ha il suo esito più significativo e contraddittorio nell‟operazione di Se
una notte d‟inverno un viaggiatore, in cui si può individuare anche un
tentativo di conciliare l‟idea avanguardistica dell‟artista come presenza
performativa con quella postmoderna, più legata alla poiesi del prodotto:
come per Eco, anche per Calvino il romanzo deve superare la diatriba tra
narrativa d‟élite e narrativa di massa, con il riconoscimento del fatto che
“raggiungere un pubblico vasto e popolare i suoi sogni, significa forse oggi
fare avanguardia”10.
La proliferazione dei racconti messa in scena da Calvino, che ha un
diretto corrispettivo nel recupero ludico e “spazializzato” di tutti gli stili
possibili nell‟ architettura contemporanea, si iscrive nel processo di
saturazione narrativa innescato dalla crisi dei “Grandi Racconti”11, che si
risolve in una sorta di ossessione feticistica per la fiction e per i meccanismi
di produzione testuale, esibiti fino a diventare i principali protagonisti del
racconto, con l‟obiettivo di trarre da essi nuovi significati e di colmare così
una latente consapevolezza epigonica di essere “dopo la fine”12:
contemporaneamente, si acuisce anche la consapevolezza di una pericolosa
tangenza con i parametri del romanzo-merce, schermata spesso dal filtro
dell‟ironia e dalla sottolineatura ironica del linguaggio-spazzatura, come
avviene ne La Poubelle agréée di Calvino.
Come spiega Eco nella “postilla” a Il nome della rosa, con il
postmoderno il consumo assume un primato rispetto alla produzione,
costringendo il passato a una sopravvivenza meramente fantasmatica, come
9
Cfr. Terry Eagleton, Capitalism, Modernism, Postmodernism, in “New Left Review”,
152, July/August 1985, p. 67.
10
Cfr. Umberto Eco, L‟antiporfirio, in Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti (a cura di), Il
pensiero debole, Feltrinelli, Milano 1984, p. 41.
11
Cfr. Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere (1979),
tr.it., Feltrinelli, Milano 1981, in part. pp. 69-76.
12
Cfr. Giulio Ferroni, Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura, Einaudi,
Torino 1997.
10
un simulacro, dal momento che il presente impone la propria forma e la
propria logica consumistica a ogni segno, rendendolo evanescente: «Arriva
il momento che il moderno (l‟avanguardia) non può andare oltre perché ha
ormai prodotto un metalinguaggio che parla dei suoi impossibili testi (l‟arte
concettuale). La risposta postmoderna al moderno consiste nel riconoscere
che il passato, visto che non può essere distrutto, perché la sua distruzione
porta al silenzio, deve essere rivisitato: con ironia, in modo non
innocente»13.
Si afferma così una “ideologia della compatibilità”14, nella quale tutti
i tempi storici, gli stili, i generi possono essere riusati e ricombinati insieme
a discrezione del singolo, a patto di depurarli dei loro tratti più referenziali e
“oppositivi”: in questo senso, l‟eredità dell‟avanguardia viene svuotata e la
convinzione della sua evanescenza o impossibilità diventa la base del
condizionamento postmoderno, con l‟adozione di un‟idea di novità
totalmente antiavanguardistica, che presuppone anzi il recupero del passato
sotto forma di rivisitazione ironica e straniata.
Per alimentare la dialettica propulsiva della propria storia, anche il
mainstream o “grande letteratura” deve ricorrere alla trasgressione delle
proprie regole, ispirandosi alle tipologie e alle tematiche della narrativa
popolare fortemente codificata, e facendo propria quindi un‟idea di novità
in funzione della ripetizione, cioè dell‟auto-riproduzione, secondo una
logica tipica della produzione di merci, che rende la produzione culturale di
massa, sia essa moda o letteratura, omogenea appunto alla produzione di
merci: «Astrazione e individualizzazione esistono in funzione l‟una
dell‟altra, fanno parte dello stesso ciclo produttivo e culturale [...]. E‟ una
spirale continua, da cui si ricava che l‟unico vero scopo della moda consiste
nel
riprodurre
se
stessa.
Di
conseguenza,
nella
dialettica
tra
individualizzazione e astrazione, è quest‟ultima a prevalere: la “novità”
serve solo a innescare il processo di “ripetibilità” che fa della moda una
potenza sociale»15.
13
Umberto Eco, Postille a Il nome della rosa, in “Alfabeta”, VI, 49, maggio 1983, pp. 1922, poi in appendice a Id., Il nome della rosa, Bompiani, Milano 1984², p. 528.
14
Cfr. l‟introduzione a Filippo Bettini et al., op. cit., p. 25.
15
Cfr. l‟introduzione di Giuseppe Linati a Calibano 2. Il nuovo e il sempre-uguale. Sulle
forme letterarie di massa, cit., p. 17.
11
La “grande” letteratura è costretta ad
assimilare i modi di
produzione e riproduzione intrinseci alla letteratura di massa, che consistono
nel perpetuare il sempreuguale nel nuovo, una prospettiva che può essere
tuttavia utilizzata per rilanciare la propria funzione: come il Baudelaire di
Benjamin faceva “apparire il nuovo nel sempreuguale e il sempreuguale nel
nuovo”, ponendo l‟accento, in definitiva, “sul nuovo, strappato con eroico
sforzo al sempre uguale”16, così sembrerebbe fare tanta narrativa
contemporanea, uniformandosi al modello baudelairiano.
L‟uguale, lo standard collaudato, deve essere sconvolto, estraniato,
in modo da veicolare il diverso, il nuovo che possa contraddire
l‟omologazione: in termini marxiani, potremmo dire che si cede al valore di
scambio (forma facile, alla moda) nel tentativo di rimettere in circolo il
valore d‟uso (la “verità”, i contenuti concreti, la complessità reale della
vita), rimettendo in gioco il problema della “verità” e della consapevolezza
critica nell‟inevitabile orizzonte mercantile e rivendicando con Baudelaire
“un valore di mercato”, cioè attirando eccentricamente su di sé l‟interesse di
una possibile platea.
Come Schulz-Buschhaus, anche Ferry collega la fine dell‟esperienza
delle avanguardie all‟esaurimento della modernità in quanto movimento
dialettico della negazione ed estetica dell‟ innovatio, stabilendo una
soluzione di continuità con il postmoderno: «Con le loro mostre senza
quadri e con i loro concerti di silenzio, le avanguardie hanno fatto dell‟arte
una derisione e a loro insaputa hanno preparato l‟eclettismo postmoderno.
Con il pretesto di scioccare e di sovvertire, le opere d‟arte sono diventate
modeste. Le colonne di Buren non sconvolgono più, esse divertono
suscitando i sentimenti d‟irritazione oppure di acquiescenza tanto fuggitivi
che confinano nell‟indifferenza»17.
Soprattutto in forza dell‟accentuazione del momento performativo e
partecipativo dell‟opera d‟arte, in Calvino possiamo individuare una
16
Cfr. Walter Benjamin, Angelus Novus (1955), tr.it., Einaudi, Torino 1962, p. 251.
Luc Ferry, Homo Aestheticus. L‟invention du goût à l‟âge démocratique, Grasset, Paris
1990, pp. 255-256.
17
12
consonanza di vedute con Lyotard18, il quale sottolinea che in ogni epoca si
produce una riscrittura della modernità, alla quale partecipano attivamente
anche le avanguardie: è una posizione analoga a quella di critici italiani
come Poggioli19 o Petronio20, che contestano la ricezione aproblematica del
concetto di postmoderno rispetto alla modernità, tipica di molti critici
americani, presupponendo un processo ciclico e rivendicando la storicità
dell‟esperienza, come una fase di sviluppo della società borghese
capitalistica21.
Anche per Vattimo il postmoderno è uno sviluppo interno alla
modernità, che si pone in rapporto a essa nei termini di una “linea
autoconfutativa”22 , mentre l‟avanguardia storica, come utopia incentrata
sulla progressività del nuovo che può essere riletta come „eterotopia‟, non è
altro che l‟anticipazione di un‟arte postmoderna della contaminazione: viene
riformulato il concetto heideggeriano di Verwindung, che caratterizza la
relazione tra moderno e postmoderno non nell‟ottica di un superamento
dialettico, ma di una ripresa distorta della tradizione modernista.
Nel caso di Calvino, è l‟esperienza della neoavanguardia italiana a
determinare una riflessione sulla necessità di praticare una via alternativa sia
rispetto a questa ala radicale che proponeva una “letteratura della
negazione”, ovvero una rottura violenta nel linguaggio per demistificarne le
illusioni e la tendenza consolatoria, sia rispetto alla crisi del romanzo
neorealista che si stava esaurendo in una produzione neoverista di natura
populistica: «Accanto a questi due fronti d‟attacco ne devo considerare un
terzo e non meno importante: il retroterra culturale della letteratura italiana
si andava rinnovando completamente […]. Io credo che in quel momento la
letteratura si sia trovata in una situazione più che mai promettente. Il terreno
18
Cfr. Jean-François Lyotard , Il postmodernismo spiegato ai fanciulli (1986), tr. it.,
Feltrinelli, Milano 1987, e Id., L‟inumano. Divagazioni sul tempo, Lanfranchi, Milano
2001.
19
Cfr. Renato Poggioli, Teoria dell‟arte di avanguardia, Il Mulino, Bologna 1962.
20
Cfr. soprattutto Giuseppe Petronio, Postmoderno?, in “Problemi”, XXXII, 122, ottobredicembre 1998, pp. 211-222.
21
Sulle posizioni della critica in Italia si può vedere Monica Jansen, Il dibattito sul
postmoderno in Italia. In bilico tra dialettica e ambiguità, Franco Cesati Editore, Firenze
2002, in part. pp. 167-242, ma anche Matteo Di Gesù, La tradizione del postmoderno. Studi
di letteratura italiana, Franco Angeli, Milano 2003, in part. pp. 9-24.
22
Cfr. Odo Marquard, Il postmoderno come parte del moderno, in “Aut Aut”, XLIII, 256,
luglio-agosto1993, pp. 3-6.
13
veniva sgombrato dai grossi equivoci che avevano pesato sui dibattiti del
dopoguerra. La destrutturazione dell‟opera letteraria poteva aprire la via a
una nuova valutazione e a una nuova strutturazione»23.
Pur richiamandosi ai movimenti della prima metà del Novecento con
l‟obiettivo di “andare avanti, perfezionare il loro progetto, estenderlo,
potenziarlo”24, il Gruppo 63 dimostra una consapevolezza del fatto che nel
contesto neocapitalistico ogni gesto artistico rivoluzionario sia condannato a
concludersi “con la mercificazione dell‟opera stessa e dunque con il
progressivo esaurimento della carica rivoluzionaria di quel gesto”25: in linea
con le posizioni di Barthes, che mette in discussione la possibilità stessa
dell‟avanguardia nella società borghese capitalistica26, Curi sottolinea che
tra l‟arte di avanguardia e la società dei consumi c‟è ormai una reciproca
accettazione, con una “ordinata progettazione del disordine” che è
“inconcepibile senza l‟esistenza di una cultura ricchissima, articolata e
lucidamente organizzata”, per cui “l‟arte d‟avanguardia dei nostri giorni si
configura come passaggio da un‟autonomia monadica, irrelata e inclusiva a
un‟autonomia relazionale, integrabile e integrativa; come transizione dalla
scelta dell‟estetico, o dal rifiuto dell‟estetico, all‟integrazione autonoma
dell‟estetico”27.
Pur essendo ancora “moderna” nel suo proporsi come movimento
d‟avanguardia, la neoavanguardia italiana finisce così per essere una pratica
letteraria
tipicamente
postmoderna,
come
dimostrano
anche
la
contaminazione tra cultura “alta” e cultura “bassa”, la commistione dei
generi, la scelta dei registri linguistici impuri, il ricorso al metaromanzo e al
romanzo self-conscious, tutti strumenti che rivelano l‟aggiornamento
metodologico di cui anche Calvino esprime la necessità di fronte a una
realtà fatta di forme eterogenee e di messaggi complessi28.
23
Italo Calvino, Usi politici giusti e sbagliati della letteratura (1976), in Una pietra sopra.
Discorsi di letteratura e società, Einaudi, Torino 1980, p. 351.
24
Cfr. Renato Barilli, La neoavanguardia italiana. Dalla nascita del “Verri” alla fine di
“Quindici”, Il Mulino, Bologna 1995, p. 114.
25
Cfr. Fausto Curi, Sulla giovane poesia, in Ordine e disordine, Feltrinelli, Milano 1965, p.
90.
26
Cfr. Roland Barthes, All‟avanguardia di quale teatro, in Saggi critici (1966), tr.it.,
Einaudi, Torino 1972, pp. 34-37.
27
Cfr. Fausto Curi, Tesi per una storia delle avanguardie, in Ordine e disordine, cit., p. 27.
28
Cfr. Fabio Gambaro, Invito a conoscere la neoavanguardia, Mursia, Milano 1993, pp.
120-121.
14
Lo scrittore si dimostra molto scettico riguardo alla “certezza propria
dell‟avanguardia nella rivoluzione permanente delle forme, basata su una
fede storicistica”29: «Viviamo in un tempo di stratificazione culturale tale da
rendere giustificato il rilancio del concetto d‟ “avanguardia” ma anche da
rendere più vistose le ragioni della sua crisi. E‟ difficile ormai sceverare un
prima e un dopo nella morfologia letteraria e tracciare una linea netta tra
“tradizione” e “avanguardia”. Invidio la sicurezza di Umberto Eco nel
credere che le “forme aperte” siano più nuove delle “forme chiuse”, quando
anche le forme metriche, la rima (la rima!), da un anno all‟altro possono
tornare ad avere un significato nuovo»30.
Facendo i conti con i romanzi di Pynchon, di Barth e di RobbeGrillet, la neoavanguardia perde la sua spinta propulsiva, dal momento che
la sperimentazione non si rivela più incompatibile con il ritorno alla trama,
ovvero l‟elemento più soggetto allo scambio e al “consumo” sul mercato
letterario:
«[…]
l‟avanguardia stava diventando tradizione [...].
L‟inaccettabilità del messaggio non era più criterio principe per una
narrativa (e per qualsiasi arte) sperimentale, visto che l‟inaccettabile era
ormai codificato come piacevole»31.
Per dimostrare che il nesso repetitio-inventio non coincide con la
opposizione tradizione-avanguardia, Ferretti porta come esempio il
“fenomeno del cosiddetto postmoderno in letteratura, nella prospettiva di un
superamento del distacco tra romanzo di consumo e romanzo di ricerca,
attraverso l‟uso spregiudicato e ironico della citazione”32.
Calvino sembra ereditare dalla prosa della neoavanguardia la sintassi
fortemente informale e sperimentale, con un originale abbassamento del
linguaggio, che richiama la “sottocomunicazione” della Serraute o di
Sanguineti, a ulteriore conferma del coincidenza tra l‟esperienza italiana e
quella
postmoderna,
che
passa
attraverso
il
procedimento
dell‟autoriflessività.
29
Cfr. Italo Calvino, La sfida al labirinto (1962), in Una pietra sopra. Discorsi di
letteratura e società, cit., p. 110.
30
Ibidem.
31
Umberto Eco, Postille a Il nome della rosa, cit., p. 527.
32
Cfr. Gian Carlo Ferretti, Ricerca e consumo, in “Alfabeta”, VI, 57, aprile 1984, p. 7.
15
Sempre nel segno della continuità, Schulz-Buschhaus propone di
sostituire il termine “postmoderno” con il termine “post-avanguardia”,
fissando il discrimine nell‟uso dei materiali di genere: «Potremmo tracciare
la linea di demarcazione fra letteratura di avanguardia e letteratura di postavanguardia come fra una letteratura che, mirando a un radicale
nominalismo del testo unico, cerca di abolire i generi e l‟idea stessa di un
genere e un‟altra letteratura che – delle volte anche ironicamente – non
disprezza il riuso di materiali generici, e anzi se ne serve per elaborare,
partendo da questi materiali, dei giochi combinatori e intertestuali che
raggiungono delle volte un alto grado di complessità»33.
L‟ “impossibilità dell‟avanguardia”34 rivela la saturazione della
modernità e la sua conseguente museificazione: come osserva Sanguineti,
bisogna continuare a esercitare una contestazione come “comunicazione
della negazione della comunicazione esistente”, ma con la consapevolezza
che “tutto finisce non già in barricata, ma in un museo, e nel museo
borghese, o, nel caso, nella biblioteca borghese”35.
Il carattere evolutivo del movimento postmoderno, estraneo a rotture
rivoluzionarie, è un motivo che ritorna nel discorso architettonico di Jencks
a favore di un postmoderno metastorico che si distingue da quello storico
per la sua critica a „doppio-codice‟, che implica un rapporto di continuità,
intesa non in senso lineare verso il futuro o verso il recupero e la
restaurazione del passato, ma piuttosto nel senso di una simultaneità e
disponibilità di tutte le esperienze sullo stesso livello, senza gerarchie:
analogamente, nella letteratura americana, Claudio Gorlier descrive il
fenomeno come “una ripresa di interesse per il Modern, spostata all‟indietro
di alcuni decenni, accanto a una marcata noncuranza o diffidenza per lo
sperimentalismo”36.
Sempre sulla base del modello architettonico, Hutcheon pensa alla
parodia postmoderna nei termini di una ripetizione delle forme del passato,
33
Ulrich Schulz-Buschhaus, Postmodernismo o post-avanguardia?, in Giuseppe Petronio e
Massimiliano Spanu (a cura di), Postmoderno?, Gamberetti, Roma 2000, pp. 43-44.
34
Cfr. Giulio Ferroni, Dopo la fine. Sulla condizione postuma della letteratura, cit., p. 127.
35
Cfr. Edoardo Sanguineti, Avanguardia, società, impegno, in Ideologia e linguaggio,
Feltrinelli, Milano 1965, p. 73.
36
Cfr. Claudio Gorlier, Il cerchio magico della nuova narrativa americana, in “Alfabeta”,
I, 2, giugno 1979, pp. 7-9.
16
con una distanza critica che ne segnala ironicamente la differenza nella
similarità: è la stessa logica che anima l‟apocrifo calviniano che esprime
“una chiara coscienza del fatto di venire „dopo‟ tante altre avventure”, per
cui diventa possibile “mantenere rispetto a ciascuna di esse una distanza,
una riserva di leggerezza ironica, onirica, mentale”37.
Lo sforzo che, secondo Vattimo, il postmoderno compie per sottrarsi
alla logica del superamento, dello sviluppo e dell‟innovazione, si traduce
nella centralità che il „collezionismo‟ assume nell‟esperienza estetica:
«[…]la mobilità delle mode, il museo anche; e alla fine, lo stesso mercato,
come luogo di circolazione di oggetti che hanno demitizzato il riferimento al
valore d‟uso e sono puri valori di scambio: non necessariamente di scambio
monetario, ma di scambio simbolico, sono status symbols, tessere di
riconoscimento di gruppi»38.
Prima di Vattimo, Calvino aveva enunciato una vera e propria
estetica del collezionismo in Collezione di sabbia e ne Lo sguardo
dell‟archeologo, proponendo di assegnare allo scrittore il compito di
“indicare e descrivere più che di spiegare” attraverso lo sguardo
dell‟archeologo, ovvero di raccogliere reperti vietandosi di “intestare
l‟inventario […] ancora a un soggetto ridefinito Uomo, con la prospettiva
riduttiva che gli antropocentrismi portano con sé”39.
La stessa metodologia indiziaria, che contesta lo storicismo a favore
della storicità dei fenomeni nella loro materialità e simultaneità, caratterizza
l‟approccio di Manganelli e quello di Celati ne Il bazar archeologico, uno
dei primi contributi teorici del postmoderno italiano, destinato al progetto
della mai realizzata rivista “Alì Babà” che avrebbe dovuto riunire, oltre a
Celati, Calvino, Guido Neri, Carlo Ginzburg: «La storia, sia come
storiografia sia come adattamento letterario, epica o romanzo, tende sempre
a risolvere il senso di grandi insiemi di fatti attraverso l‟artificio
dell‟agnizione […] In questo senso storia e letteratura si danno la mano, non
potendo l‟una e l‟altra in alcun modo giustificarsi ove non intervenga questa
trasfigurazione anagogica dei fatti, degli oggetti, a segni di un‟altra verità
37
Cfr. Renato Barilli et al., Incontro con il postmoderno, Mazzotta, Milano 1984, p. 43.
Cfr. Gianni Vattimo, La società trasparente, Garzanti, Milano 1989, p. 96.
39
Cfr. Italo Calvino, Lo sguardo dell‟archeologo (1972), in Una pietra sopra. Discorsi di
letteratura e società, cit., p. 319.
38
17
più vasta e inclusiva, che sarebbe poi il soggetto denominato Uomo:
soggetto di tutti i predicati e di tutte le metafore, il soggetto-padrone della
coscienza, colui che compie consapevolmente tutte le scelte. L‟archeologia
al contrario ha una vocazione discenditiva, o catagogica: non fornisce
all‟insieme molare degli avvenimenti alcun punto di agnizione; lavora
sempre su insiemi locali e molecolari, non riuscendo a compiere il salto
dalla quantità alla qualità, a scegliersi una assiomatica astratta che renda
conto della totalità degli avvenimenti attraverso un punto focale. Essa mima
o compie una regressione, e perciò le manca la veduta d‟insieme. […]Se è
la visione prospettica la metafora propria dello storicismo, l‟eidetismo è
quella propria dell‟archeologia»40.
Nell‟ossessione
collezionistica
si
riflette
la
dichiarazione
postmoderna della fine del soggetto e delle sue possibilità conoscitive e
creative: la sola fonte di significazione è riconosciuta nei meccanismi
autonomi e incontrollabili del codice linguistico, per cui il soggetto non è
solo destinato a non poter evadere dalla prigione della lingua, ma non potrà
mai accedere alle realtà immediate e obiettive del mondo.
Nello stesso tempo, tuttavia, il postmodernismo ripropone la
centralità del soggetto narrante, sia pure dichiarandolo “laterale” e
convenzionale: esso pertanto riabilita una visione neutra e omologante, aproblematica ed edonistica, del ruolo dell‟artista come grande affabulatore,
al quale non resta che giocare, restaurando il principio della narrazione
mentre ne finge il superamento.
Ogni atto verbale diventa una finzione, un groviglio di significanti
che si disseminano in giochi infiniti e arbitrari che la lingua fa con se stessa:
la consapevolezza di questa precarietà è presente in Calvino sin dalla
trilogia de I nostri antenati e caratterizza in particolare i racconti di Ti con
zero e le descrizioni di Palomar.
All‟idea modernista di autore l‟estetica postmoderna sostituisce la
categoria derridiana di testualità, per cui nel flusso infinito dei testi viene
annullata ogni distinzione tra segno e referente oggettivo: anche Eco,
ispirandosi a Peirce, parla di “semiosi illimitata”, dalla quale deriva un
40
Gianni Celati, Finzioni occidentali. Fabulazioni, comicità e scrittura, Einaudi, Torino
1975, p. 209.
18
processo senza limiti che si realizza nella circolazione sociale dei segni sotto
forma di flusso testuale.
Per descrivere questo universo culturale non-finito, rappresentabile
come una “enciclopedia” totale, caratterizzata da correzioni e integrazioni
continue, Eco formula il “modello n-dimensionale Q”, ovvero un modello di
creatività linguistica che “dovrebbe apparire come una sorta di rete
polidimensionale, dotata di proprietà topologiche, dove i percorsi si
accorciano e si allungano e ogni termine acquista vicinanze con altri,
attraverso scorciatoie e contatti immediati, rimanendo nel contempo legato a
tutti gli altri secondo relazioni sempre mutevoli”41: si tratta di un “Universo
Semantico Globale”, sempre aperto e instabile, nel quale l‟enciclopedia
risulta “un postulato semiotico […] l‟insieme registrato di tutte le
interpretazioni, concepibile oggettivamente come la libreria delle librerie”,
anche se “deve rimanere un postulato perché di fatto non è descrivibile nella
sua totalità”42.
Il modello formale a cui pensa Eco è quello del rizoma, regolato
dalla norma delle interconnessioni illimitate degli atti semiotici di
conoscenza: viene così abolito ogni criterio gerarchico e si impone una
visione del mondo complessa, riscontrabile anche in Borges e Gadda oltre
che in Calvino, e riconducibile all‟immagine di una “rete” logicamente
complessa e totalmente correlata, di cui è possibile soltanto una conoscenza
problematica e dialettica, frammentata a seconda delle diverse ottiche o
visuali possibili.
Dalla negazione della conoscibilità dei referente, deriva che la
cultura è un processo semiotico non solo illimitato, ma anche
autoreferenziale: per Segre si è aperta l‟era della “plurivocità”43, nella quale
i linguaggi sono accostati e giustapposti, diversamente da quanto accade
nella polifonia, senza alcun rispetto della loro storicità.
La coscienza del carattere artificiale della letteratura si traduce in un
gioco ironico che mette a nudo i meccanismi strutturali del racconto: nello
stesso Calvino, soprattutto a partire da Il castello dei destini incrociati, la
41
Cfr. Umberto Eco, Trattato di semiotica generale, Bompiani, Milano 1975, pp. 176-177.
Cfr. Id., Semiotica e filosofia del linguaggio, Einaudi, Torino 1984, p. 109.
43
Cfr. Cesare Segre, Intrecci di voci, Einaudi, Torino 1993.
42
19
scrittura rifiuta la prospettiva “ingenua” della rappresentazione della realtà e
si coniuga scopertamente con la funzione retorica e con il gioco.
In questa inedita forma di autoconsapevolezza, che vuole anche
essere critica delle facili mistificazioni consolatorie e interrompere così la
cattiva infinità del moderno, si manifesta tutta la paradossalità del
postmoderno, in quanto arte che non può più produrre il nuovo e non può
nemmeno proclamarsi come il nuovo che supera il moderno, anche se per
Carla Benedetti è proprio in questa “inattualità” che va individuata una
ricerca di nuovi stili o modi letterari, e quindi un atteggiamento
sostanzialmente positivo, nonostante la consapevolezza della sua condizione
“postuma”, che la porta ad affermare una finta autonomia, come possiamo
verificare anche in Palomar e ne Le lezioni americane: «Il postmoderno non
va cercato in procedimenti e tecniche specifiche; non consiste in una nuova
arte, quanto in un mutato atteggiamento nei confronti dell‟arte. Il
postmoderno è una descrizione che l‟arte dà di se stessa: un‟autodescrizione
che contempla la morte dell‟arte come mezzo per rilanciare l‟arte oltre
l‟impasse della modernità»44.
Alla
morte
dell‟arte
corrisponde
un
diffuso
processo
di
estetizzazione della vita e di ogni forma di relazione attraverso il dominio
dei mass media, che è la riproposta, di segno invertito, della tensione
utopica delle avanguardie a inglobare tutte le forme di comunicazione per
riscattare l‟esistenza: Enzensberger ha parlato di “effetto Alka Seltzer”, un
processo di polverizzazione in cui la dissoluzione della letteratura nel fluido
dell‟estetico ha provocato una “effervescenza” della soluzione45.
L‟affermazione dei media comporta anche la presa di parola di
modelli diversi di valore e un indebolimento del reale per cui l‟esperienza
dell‟ambiguità diventa di fatto costitutiva dell‟arte: l‟esperienza estetica
deve essere così pensata al plurale, come eterotopia, e non come utopia, che
implica invece sempre una unificazione complessiva di significato estetico e
significato esistenziale.
44
Carla Benedetti, Pasolini contro Calvino. Per una letteratura impura, Bollati
Boringhieri, Milano 1998, p. 193.
45
Cfr. Hans Magnus Enzensberger, La letteratura come istituzione ovvero l‟effetto AlkaSeltzer (1974), in Mediocrità e follia. Considerazioni sparse, Garzanti, Milano 1991, pp.
35-41.
20
Calvino, similmente a Vattimo46, non interpreta la “mancanza di
realtà” dei mass media in senso distopico, come mercificazione (in
Sanguineti) o come l‟esortazione a testimoniare l‟impresentabile (in
Lyotard),
né
in
senso
utopico,
come
„restaurazione‟
dell‟unità
dell‟esperienza estetica (in Luperini e in Habermas), ma in senso
eterotopico, come la pluralità dell‟esperienza estetica vissuta esplicitamente
come tale: in questo senso, possiamo ricordare anche la posizione di
Raimondi che vede nei mass media l‟occasione di una radicale
trasformazione della comunicazione, contrariamente a Ferroni che segnala il
ritorno a un “consenso omologante”, nell‟ottica negativa del controllo totale
da parte del potere.
Le relazioni tra le varie espressioni artistiche e il mondo delle
immagini dei mass media si rivelano di carattere „distorto‟, verwindend,
ossia si tratta di “relazioni ironico-iconiche, che duplicano e insieme
sfondano le immagini e le parole della cultura massificata”47.
Dall‟innesto di relazioni incongrue tra elementi eterogenei deriva
una forma che Calabrese chiama “neobarocco”, che consiste in una “ricerca
di forme – e nella loro valorizzazione – in cui assistiamo alla perdita
dell‟interezza, della globalità, della sistematicità ordinata in cambio
dell‟instabilità, della polidimensionalità, della mutevolezza”48: in essa
confluiscono scienza e comunicazione di massa, arte e vita quotidiana,
determinando anche la dissoluzione della dialettica tra opera e lettore nella
forma di flussi interpretativi che riguardano non opere singole ma la totalità
dei messaggi che circolano nell‟area della comunicazione.
Come evidenzia Vassalli, il lemma “citazionismo neobarocco”
indica “un non-stile che aveva come regola l‟eccesso e come trasgressione
la „citazione implicita‟”49, che rimane sospesa per la sua “indecidibilità” e si
inserisce in un‟idea di testualità come intertestualità, aprendo una
prospettiva di recupero delle forme del passato, ma anche di riqualificazione
46
Cfr. Gianni Vattimo, La società trasparente, Garzanti, Milano 1989, in part. pp. 92-98.
Cfr. Gianni Vattimo, La fine della modernità. Nichilismo ed ermeneutica nella cultura
postmoderna, Garzanti, Milano 1985, p. 66.
48
Omar Calabrese, L‟età neobarocca, Laterza, Milano 1987, p. VI.
49
Sebastiano Vassalli, Il neoitaliano. Le parole degli anni Ottanta, Zanichelli, Bologna
1989, p. 23.
47
21
di esse, come vuole essere la testualità “minuta” ed esplosa della “ricerca
intraverbale” di cui parla Barilli50.
Secondo Belpoliti, Manganelli è un caso emblematico del fatto che
in Italia il manierismo coincide con il postmoderno che quindi non avrebbe
determinato nessuna rottura radicale rispetto al passato, trovando anzi un
terreno fertile, in cui, paradossalmente, si saldano tradizione e avanguardia:
«Ma cos‟è dunque questo manierismo che, detto così, rischia di essere una
chiave interpretativa adatta a tutti gli usi? Sul piano letterario è il pastiche, il
rifacimento più o meno dotto, il riuso, la citazione, la letteratura di secondo
grado; ed è quello che gli anglosassoni chiamano il “postmoderno”. Ma,
come si sa, anche i grandi scrittori del secolo, a partire dallo stesso Gadda,
sono manieristi; e manierista è un poeta come Montale, quello di Satura,
senza dubbio, ma forse anche quello di Ossi di seppia, tesi più azzardata ma
certo non indimostrabile. Tuttavia il manierismo non è solo un codice
letterario o artistico; è un modo di essere che ha a che fare con stati
patologici dell‟anima umana»51.
Nel
pluralismo
senza
centro
e
senza
egemonie
della
contemporaneità, in cui lo stesso concetto di avanguardia rivela ormai la sua
inutilità in quanto espressione della modernità e, nello stesso tempo,
scompare “quel centro ideale fatto di lingua media, valori medi, prodotti
medi”52, a prevalere sono la „velocità‟, ovvero l‟accelerazione della cultura,
e l‟ „orizzontalità‟, ovvero il “connettere letture e visioni non più
verticalmente […] ma trasversalmente con l‟analogo, il contemporaneo, il
già visto”53.
Pur essendo convinto che l‟orizzontalità colga meglio la complessità
odierna, Sinibaldi rimane però indeciso se i risultati narrativi di questo
contesto possano garantire una dimensione critica, ipotizzando o la nascita,
attraverso la lettura, di una nuova forma di consapevolezza, o la prevalenza
della logica spettacolare dell‟anestetizzazione, rischio che, per Calvino,
corre anche la letteratura di massa se non viene sottoposta a un processo di
50
Cfr. Renato Barilli, Viaggio al termine della parola. La ricerca intraverbale, Feltrinelli,
Milano 1981.
51
Cfr. Marco Belpoliti, Settanta, Einaudi, Torino 2001, pp. 176-177.
52
Cfr. Marino Sinibaldi, Pulp. La letteratura nell‟era della simultaneità, Donzelli, Roma
1997, p. 35.
53
Ibidem, p. 21.
22
deideologizzazione: «Un altro modo di definire il romanzo è quello (storico
o sociologico) di considerarlo legato all‟apparire del libro come merce,
quindi d‟una letteratura commerciale, d‟una – come ora si dice – “industria
culturale”. Difatti i primi romanzi che meritino d‟essere detti tali, quelli di
Defoe, uscirono senza il nome dell‟autore, sulle bancarelle, con l‟intento di
rispondere ai gusti del popolino, avido di storie “vere” di personaggi
avventurosi. Nobile origine; io non sono tra coloro che credono che
l‟intelligenza umana stia per morire uccisa dalla televisione; l‟industria
culturale c‟è sempre stata, col suo pericolo di scadimento generale
dell‟intelligenza, ma da essa è sempre nato un qualcos‟altro nuovo e
positivo; direi che non c‟è terreno migliore per la nascita di veri valori che
quello graveolente delle esigenze pratiche, della richiesta di mercato, della
produzione di consumo: è di lì che nascono le tragedie di Shakespeare, i
feuilletons di Dostoevskij e le comiche di Chaplin. Il processo di
sublimazione dal romanzo come prodotto mercantile al romanzo come
sistema di valori poetici è avvenuto ampiamente e in più fasi nel corso di
due secoli. Ma adesso pare che non si possa più rinnovare: non c‟è stata una
rinascita del romanzo attraverso i “gialli” né attraverso la “fantascienza”:
pochi gli esempi positivi nel primo caso, pochissimi nel secondo»54.
L‟estetica della ripetizione è un risultato dell‟epoca delle
comunicazioni di massa nella quale “la condizione di ascolto […] è quella
per cui tutto è già stato detto e tutto è già stato scritto […]. Come nel teatro
Kabuki, sarà allora la più minuscola variante quella che produrrà piacere del
testo, o la forma della ripetizione esplicita di ciò che già si conosce” 55: in
questa condizione della comunicazione generalizzata la ripetizione e il
serialismo non possono più essere considerati come gli opposti
dell‟originalità e dell‟artisticità avanguardistica.
A
partire
dall‟esperienza
della
neoavanguardia,
meno
metafisicamente segnata rispetto alle avanguardie storiche e più alla portata
dell‟esperienza concreta (si pensi alla body art o al teatro o al teatro di
strada), lo statuto dell‟opera diventa costituzionalmente ambiguo: l‟opera
54
Italo Calvino, Risposte a 9 domande sul romanzo, in “Nuovi argomenti”, 38-39, maggioagosto 1959; ora è in Id., Saggi 1945-85, tomo I, cit., p. 1521-22.
55
Cfr. Umberto Eco, L‟innovazione nel seriale, in Sugli specchi e altri saggi, Bompiani,
Milano 1985, p. 141.
23
d‟arte, invece di inserirsi in un determinato ambito di valori, comincia a
valorizzare la capacità di mettere in questione il proprio statuto.
Questo succede in modo diretto, ma anche in modi indiretti, come
dimostrano l‟ironizzazione dei generi letterari, la riscrittura, la poetica della
citazione, e l‟uso della fotografia inteso nel suo puro e semplice significato
di duplicazione: per Vattimo in tutti questi casi non si tratta solo di
autoriferimento, caratteristica non specificamente postmoderna, ma di una
autoironizzazione legata alla consapevolezza della morte dell‟arte e quindi a
un‟esplorazione dell‟estetico.
Per quanto riguarda i generi, secondo Guglielmi è la loro stessa
decadenza ad aprire nuovi spazi per la letteratura, in quanto non sono più
legati alle esigenze di un mondo fortemente ritualizzato e autoreferenziale,
come era quello del rinascimento italiano, ma esprimono, soprattutto a
partire dal Settecento, la nascita di un nuovo pubblico borghese e
degerarchizzato, che mette in discussione tutti i sistemi di regole: «Sono
questi processi storici qui richiamati sommariamente che danno luogo alla
nozione di letteratura. E sono tutti processi extraletterari, connessi con le
tendenze razionalizzatrici e gli sviluppi capitalistico-industriali della
moderna società borghese. Decadono i generi, si costituisce per così dire la
letteratura come archigenere, come luogo di indifferenza di tutte le opere
esteticamente rilevanti: mentre una norma estetica – una norma di gusto –
non può essere stabilita. (Nuovi generi si formano solo nella letteratura di
consumo)»56.
Sullo stesso piano di Guglielmi, Benedetti sostiene che, più che i
generi in sé, sono le funzioni attribuite a essi a cambiare, determinando lo
scolorimento della loro specificità, ma anche lo spostamento della
riflessione sull‟area più vasta e articolata della letteratura come genere: «La
scacchiera su cui si svolge la partita ormai non è più quella del genere, con
le sue regole da confermare o da disattendere, ma quella più vasta della
letteratura; la quale non conosce leggi di genere, ma ha tuttavia una sua
dinamica, fatta di poetiche successive (di innovazioni, trasgressioni,
deviazioni dalla norma, pseudo ritorni, recuperi e revival) che attraversano il
56
Guido Guglielmi, Letteratura, storia, canoni, in Sul canone, in “Allegoria”, X, 29-30,
maggio-dicembre 1998, p. 87.
24
sistema dei generi. […] Certamente, non si può negare che la fruizione
abbia bisogno, oggi come in passato, di un orientamento delle attese; solo
che, a differenza di quel che sembra ritenere la teoria della ricezione, questo
orizzonte oggi non è dato dai generi, ma dalla letteratura, diventata ormai
essa stessa una sorta di genere (o macrogenere) con proprie leggi generali
che aspirano a valere in tutte le sue regioni. Queste leggi non sono più dei
codici da variare o da confermare, ma delle dinamiche ordinate in una
storia»57.
Da questo punto di vista, anche Calvino non parla di generi del
discorso (come il romanzo naturalista o il dramma borghese) che hanno
perso la loro presa sul reale e vanno perciò archiviati, ma delle possibilità
del linguaggio in sé, dei limiti ai quali si deve attenere senza tuttavia
rinunciare a comunicare: è uno spostamento determinato dall‟influenza della
semiologia e dello strutturalismo (che Donnarumma, per quanto riguarda il
contesto italiano, identifica con il postmoderno58), che comporta l‟effetto di
astrattezza della scrittura calviniana e la sua insistenza sul motivo
dell‟impossibilità di raccontare.
È stato soprattutto Todorov59 a mettere in discussione l‟idea
dell‟esistenza di un “discorso letterario” coerente a favore di un inserimento
della questione dei generi nell‟orizzonte più ampio della teoria del discorso,
con un conseguente abbandono della centralità delle “poetiche”, forte
soprattutto in Italia per il predominio crociano: Margherita Ganeri ha perciò
parlato di un “ribaltamento epistemologico radicale”, in cui “il postmoderno
si è identificato con la destrutturazione dei generi letterari accompagnata,
per contraddizione più apparente che reale, a un loro programmatico
recupero su larga scala”60.
Si tratta di un riutilizzo che non ha più il carattere prescrittivo
proprio dei generi della modernità e in cui si verifica la dissoluzione di ogni
gerarchia e delle distinzioni tra generi “alti” e “bassi”, con l‟affermarsi della
57
Carla Benedetti, L‟ombra lunga dell‟autore. Saggio su una figura cancellata, Feltrinelli,
Milano 1999, pp. 113-114.
58
Cfr. Raffaelle Donnarumma, Da lontano. Calvino, la semiologia, lo strutturalismo,
Palumbo, Palermo 2008, p. 12.
59
Cfr. Tzvetan Todorov, La nozione di letteratura, in I generi del discorso, La Nuova
Italia, Firenze 1993, pp. 13-26.
60
Cfr. Margherita Ganeri, Postmodernismo, Editrice Bibliografica, Milano 1998, p. 39.
25
paradossalità di un double coding: se da un lato il recupero non può essere
che meramente citatorio e necrofilo, dall‟altro l‟esaurimento apre la
possibilità di forme completamente nuove, con la legittimazione di modelli
narrativi prima emarginati e una ridefinizione totale del “letterario”61.
Da questo punto di vista, Barth62 ha sottolineato l‟emblematicità de
Le cosmicomiche, che, insieme a Cent‟anni di solitudine di Marquez,
rimettono “il modernismo con i piedi per terra”63 e rappresentano quel
“replenishment of literature” cui dà luogo la nascita della letteratura
antiaristocratica del postmodernismo, attraverso l‟incrocio di narrativa
premodernista e narrativa sperimentale, di generi popolari e prosa
sofisticata, di ethos (ricerca di significati) e di mythos (ricerca d‟azione,
anche se spesso straniata).
Su questo terreno, il tipo di letteratura adatta a una società di massa
sembra essere una narrativa affabulatrice che soddisfa il bisogno di leggere
storie e in cui i generi non sono altro che serbatoi di schemi e temi usati con
consapevolezza ma privi della funzione informativa del valore/livello
dell‟opera: «Ci è stato possibile così superare la distinzione corrente tra
“letteratura” e “paraletteratura”; una distinzione fatta passare attraverso i
“generi”, alcuni dei quali considerati naturalmente “di massa e di consumo”
e come tali confinati in un‟area (della “paraletteratura”) definita in modo
assai vago. E ci è stato possibile constatare come alcuni dei caratteri
(soprattutto la “ripetitività”) che venivano considerati tipici della
“paraletteratura”, e quindi di tanta della letteratura di oggi, siano invece
propri di opere di tutti i paesi, di tutte le età, di tutti i generi: anche dei più
alti. Così il termine “letteratura di massa” ha assunto per noi un significato
storico preciso, e si è rivelato equivalente a quello di “letteratura dell‟età o
della società di massa”; una connotazione storica e non assiologica,
61
Cfr. Bruno Pischedda, Modernità del postmoderno, in “Belfagor”, LII, 5, settembre 1997,
pp. 580-581.
62
Cfr. John Barth, The Literature of Replenishment: Postmodernist Fiction, in “The
Atlantic”, vol. 245, January 1980, p. 70.
63
Cfr. Franco Moretti, Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal “Faust” a “Cent‟anni
di solitudine”, Einaudi, Torino 1994, p. 221. Per Moretti il realismo magico di Garcìa
Màrquez sana la “grande frattura” (Adorno) tra modernismo e cultura di massa,
rappresentando il “ritorno della narrazione”: si tratta infatti di un‟opera d‟avanguardia,
capace però di raccontare una storia avvincente.
26
all‟interno della quale vanno poi riproposte tutte le distinzioni
assiologiche»64.
Anche se per Calvino la “scarsa specializzazione” della narrativa
italiana le avrebbe permesso di ritornare alla prosa senza i contraccolpi
verificatisi in altre letterature occidentali65, a essere crocevia dei processi di
ibridazione e contemporanea restaurazione dei generi è soprattutto il
romanzo che ha raggiunto la sua massima debolezza strutturale al culmine
della modernità letteraria, diventando un grande repertorio di forme,
linguaggi, temi e personaggi, a cui la letteratura postmoderna attinge a piene
mani, e rivelando così, nel suo smembramento, la discontinuità irreversibile
rispetto alla modernità66 .
Secondo Asor Rosa, più che Il nome della rosa di Eco sono Le città
invisibili di Calvino a segnare il limite della modernità italiana, con il
paradosso del “più grande narratore della seconda metà del Novecento” che
“non ha scritto romanzi”, dichiarando quindi l‟impossibilità e l‟inattualità
del romanzesco: la struttura modulare de Le città invisibili nasce infatti dal
rifiuto del romanzo e della sua progressione obbligata, alla quale viene
contrapposto un ordine alternativo, ma, nello stesso tempo rifiuta gli eccessi
delle poetiche neoavanguardiste dell‟opera aperta, contrapponendo il rigore
dell‟arte combinatoria che afferma la responsabilità dell‟autore.
Con Se una notte d‟inverno un viaggiatore, attraverso la forma
“apocrifa” e spuria di una metafiction, Calvino tenta invece una
“riabilitazione del romanzesco”67, già intrapreso ne Il conte di Montecristo:
in realtà i vari romanzi-pastiches, nei quali il romanzesco non assume la
forma dell‟entusiasmo narrativo ma quella del rifacimento, sono un pretesto
per porre le questioni di cosa possa oggi essere scritto e riscritto, di quali
modelli romanzeschi siano ancora praticabili, di che cosa sia, più in
generale, scrivibile.
64
Giuseppe Petronio, La critica della società dei consumi e delle masse, in “Problemi”,
XVI, 65, settembre-dicembre 1982, p. 244.
65
Cfr. Italo Calvino, Notizia su Giorgio Manganelli, in “Il menabò di letteratura”, 8, 1965;
ora è in Saggi 1945-85, tomo I, cit., pp. 1153-58.
66
Al riguardo cfr. Stefano Calabrese, Il romanzo, in Ugo M. Olivieri (a cura di), Le
immagini della critica. Conversazioni di teoria letteraria, Bollati Boringhieri,Torino 2003,
pp. 121-134.
67
Cfr. Italo Calvino, Il romanzo come spettacolo (1975), in Una pietra sopra. Discorsi di
letteratura e società, cit., p. 265.
27
Già nel 1965, ne Il romanzo, Manganelli sancisce la crisi del genere,
legata a ragioni oggettive, ovvero ai vincoli usurati della verosimiglianza e
della mimesi, e alla disponibilità a fungere da veicolo di ideologia: di fronte
a una “irreparabile fatiscenza”, il problema è solo quello dello “sgombero
delle macerie, non del loro riadattamento a condizioni abitabili”68.
Anche Manganelli, soprattutto in Pinocchio parallelo e in Centuria,
avrebbe poi adottato, come Calvino e Celati, un approccio “archeologico”,
frugando tra i resti del moribondo genere romanzesco con un furore
antistoricista che ribadisce i presupposti enunciati ne Il romanzo: «Il
romanziere […] ha cercato di far capire che egli si proponeva di interpretare
il mondo per i suoi lettori, invece di rivolgersi a lettori non nati, già morti o
destinati a non nascere mai; ha voluto collocarsi nella storia, che fra tutti gli
abitacoli che la letteratura ha sperimentato si è rivelato il più estraneo e
disagevole»69.
Come sottolinea Matteo Di Gesù, per Calvino “quella di Manganelli
era la strada italiana per lasciarsi alle spalle tanto il romanzo moderno
quanto il suo contrario, l‟antiromanzo”70: è la via della riscrittura/rilettura
che apre anche al lettore nuovi spazi di interazione e di partecipazione attiva
rispetto all‟opera.
Calvino condivide con Manganelli e con le esperienze del Nouveau
Roman e dell‟Oulipo lo sfondo teorico dell‟antimimesi, della volontà di
smascherare la macchina che fa cadere il lettore in uno stato di ipnosi simile
a quello descritto da Brecht: la convinzione nella “sfida al labirinto”, che si
oppone alle due linee dell‟avanguardia (“viscerale” o “razionalistica,
geometrizzante e riduttiva”), si traduce nello sforzo di definire e disegnare
una mappa che tuteli la possibilità di una via d‟uscita, anticipando per certi
versi la prospettiva postmodernista di Jameson71.
Si tratta quindi di affrontare in maniera diversa il problema della
crisi del romanzo, superando l‟abitudine a considerarlo “come qualcosa di
68
Cfr. Giorgio Manganelli, Il romanzo, in Il rumore sottile della prosa, Adelphi, Milano
1974, p. 57.
69
Ibidem, p. 58.
70
Cfr. Matteo Di Gesù, Palinsesti del Moderno. Canoni, generi, forme nella postmodernità
letteraria, Franco Angeli, Milano 2005, p. 77.
71
Cfr. Fredric Jameson, Postmodernismo ovvero la logica culturale del Tardo Capitalismo
(1991), tr.it., Fazi Editore, Roma 2007.
28
stabilmente unitario, unidimensionale”: «Il romanzo non è in crisi. È anzi la
nostra un‟epoca in cui la plurileggibilità della realtà è un dato di fatto fuori
del quale nessuna realtà può essere accostata»72.
Da questa consapevolezza Calvino deriva la necessità di cambiare
approccio rispetto al romanzo neorealista, di “guardare il mondo con
un‟altra ottica, un‟altra logica, altri metodi di conoscenza e di verifica”73 che
saranno sempre instabili e provvisori, ma fedeli alla realtà: «La letteratura è
per me una serie di tentativi di conoscenza e di classificazione delle
informazioni sul mondo, il tutto molto instabile e relativo ma in qualche
modo non inutile”74.
Lo scrittore risponde così alle neoavanguardie, influenzato anche
dallo strutturalismo di Lévi-Strauss, che lo fa approdare, in Se una notte
d‟inverno un viaggiatore, a un‟idea di stile legata ai generi e complicata dal
motivo della serializzazione costante dell‟esperienza: il principio della
costruzione narrativa come chiave di conoscenza e trasformazione del reale
e quello del bricolage come riproposizione della forza del mito e
sacralizzazione dell‟iterazione della narrazione diventano, già a partire da
Cibernetica e fantasmi, i cardini nella strategia letteraria di Calvino.
Anche il progressivo assorbimento della scrittura saggistica nella
prosa d‟invenzione esprime la tensione a risalire alle fonti del romanzo, dal
momento che, con la postmodernità, sono venuti meno i suoi principi
fondamentali, legati all‟elaborazione di un‟idea di verità e alla trasmissione
di modelli di virtù che confermino lo status quo: «Io auspico un tempo di
bei libri pieni d‟intelligenza nuova come le nuove energie e macchine della
produzione, e che influiscano sul rinnovamento che il mondo deve avere.
Ma non penso che saranno romanzi; penso che certi agili generi della
letteratura settecentesca – il saggio, il viaggio, l‟utopia, il racconto filosofico
o satirico, il dialogo, l‟operetta morale – devono riprendere un posto di
72
Italo Calvino, Risposte a 9 domande sul romanzo (1959), in “Nuovi argomenti”, 38-39,
maggio-agosto 1959; ora è in Saggi 1945-85, a cura di Mario Barenghi, tomo I, Mondadori,
Milano 1995, p. 1525.
73
Id., Leggerezza, in Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Garzanti,
Milano 1988, p. 12.
74
Id., Je ne suis pas satisfait de la littérature actuelle en Italie, a cura di Madeleine
Santschi, in “La Gazette littéraire de Lousanne”, 127, 3-4 giugno 1967, p. 30, cit. in Id.,
Romanzi e racconti, vol. II, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Mondadori, Milano
1992, p. 1347.
29
protagonisti della letteratura, dell‟intelligenza storica e della battaglia
sociale. Il racconto o romanzo avrà quest‟atmosfera ideale come
presupposto e come punto d‟arrivo: perché nascerà da questo terreno e
influirà in esso»75.
La rifondazione del romanzo passa quindi per Calvino attraverso il
confronto con i generi non letterari che hanno contribuito a generarlo: è
un‟intuizione che si fa strada chiaramente già nel 1959, quando lo scrittore
rivela la volontà di orientare dalla “letteratura dell‟oggettività” alla
“letteratura della coscienza” una “ingente zona della produzione creativa
d‟oggi”76. Si apre una prospettiva nuova che tuttavia in Italia non ha ancora
espresso tutte le sue potenzialità, pur ispirando opere a loro modo canoniche
come Un weekend postmoderno di Tondelli, in cui il progetto di “romanzo
critico” dà vita a una forma originale di commistione tra giornalismo,
saggistica e narrativa, emblematica della complessità espressiva dell‟opera
letteraria postmoderna, nella quale il principio unificante resta comunque la
fabulazione77.
Come sostiene giustamente Berardinelli, dal ruolo nuovo assunto dal
saggio derivano l‟urgenza di una nuova formulazione dei canoni,
eccessivamente subordinata finora ai generi forti, e la necessità di una
redefinizione dei confini del letterario e del concetto stesso di letterarietà,
perché “la sostanza letteraria non è una sostanza ontologica che abita
stabilmente un testo scritto” e “la saggistica è il genere letterario in cui la
definizione letteraria, la “letterarietà” arriva più tardi”78.
In questo discorso rientra anche l‟esigenza di confrontarsi con i
linguaggi scientifici, sempre nel senso di una razionalità strategica e in
direzione opposta rispetto a Lyotard, per il quale il conflitto tra scienza e
narrazione sta alla base dell‟incredulità postmoderna nei confronti delle
75
Italo Calvino, Le sorti del romanzo, in “Ulisse”, X, vol. IV, 24-25, autunno-inverno
1956-57; ora è in Id., Saggi 1945-85, tomo I, cit., p. 1514.
76
Cfr. Id., Tre correnti del romanzo italiano d‟oggi (1959), in Una pietra sopra. Discorsi
di letteratura e società, cit., p. 45.
77
Cfr. Fulvio Panzeri, Appunti per un romanzo critico, in Pier Vittorio Tondelli, Un
weekend postmoderno, Bompiani, Milano 1990, pp. 597-602.
78
Cfr. Alfonso Berardinelli, La forma del saggio critico: modalità e parabola nel
Novecento, in Sarah Zappulla Muscarà (a cura di), Studi di italianistica per P. M. Sipala,
Siculorum Gymnasium, Facoltà Di Lettere e Filosofia, Università di Catania, 2002, pp.
471-481.
30
metanarrazioni: per il filosofo francese la metanarrazione del sapere si
decompone infatti in una molteplicità di giochi linguistici di cui la scienza
tenta di impadronirsi per trovarvi la sua legittimazione attraverso la “cieca
positività della delegittimazione”79.
L‟esperimento mentale, ripreso dalla scienza contemporanea e visto
come una narrazione creativa in contrapposizione alla “resa” al labirinto, è
un‟altra soluzione a cui Calvino guarda per trovare una via d‟uscita
dall‟impasse dell‟ “esaurimento dell‟esperienza”80.
La centralità della letteratura non si afferma nell‟emarginazione
rispetto agli altri media, ma in un confronto con tutti gli elementi che
costituiscono la “complessità” del mondo, secondo il progetto ambizioso
enunciato ne La sfida al labirinto: «Oggi cominciamo a richiedere dalla
letteratura qualcosa di più di una conoscenza dell‟epoca e d‟una mimesi
degli aspetti esterni degli oggetti o di quelli interni dell‟animo umano.
Vogliamo dalla letteratura un‟immagine cosmica […] cioè al livello dei
piani di conoscenza che lo sviluppo storico ha messo in gioco»81.
Il postmodernismo di Calvino è vicino a quello di Ihab Hassan per la
ricerca di un pragmatismo robusto e insieme flessibile, animato da un‟etica
di negoziazione costante nel contesto complesso e difficile di un
“pluralismo incompiuto”82: come sottolinea Raimondi, si tratta della
“controfigura critica della modernità”, anche per la messa in discussione del
mito dell‟avanguardia, per la tensione a una progettualità congetturale, per
la consapevolezza di doversi rapportare a un ordine decentrato che implica il
riconoscimento di una realtà molteplice, non descrivibile da un‟unica
struttura83.
79
Cfr. Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna (1979), tr.it., Feltrinelli, Milano
1981, p. 6.
80
Cfr. Italo Calvino e Daniele Del Giudice, C‟è ancora possibilità di narrare una storia?,
in “Pace e Guerra”, I, 8, novembre 1980, pp. 24-26.
81
Id., La sfida al labirinto (1962), in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società,
cit., pp. 96-97.
82
Cfr. Ihab Hassan, The dismembrement of Orpheus. Toward a postmodern Literature,
Oxford University Press, New York 1971, p. 27; una traduzione parziale, col titolo
L‟evanescenza della forma, è in Peter Carravetta e Paolo Spedicato (a cura di),
Postmoderno e letteratura. Percorsi e visioni della critica in America, Bompiani, Milano
1984.
83
Cfr. Ezio Raimondi, Le poetiche della modernità in Italia, Garzanti, Milano 1990, pp. 89.
31
Con questi presupposti, anche la definizione di un canone letterario
deve tener conto di un principio pragmatico e insieme etico di descrizione,
nei termini individuati da Frank Kermode84 di una tradizione che, tanto in
un periodo quanto in un ciclo culturale, si istituzionalizza e insieme si
decostruisce, sottoposta alla continua metamorfosi delle forme e a sempre
nuove correlazioni tra esse: «[…] la tradizione non significa più un canone
ma un luogo di confronto, un dialogo pluralistico e perciò antitotalitario, una
norma da inventare di continuo, un valore del tempo e di ciò che è stato,
nascosto, anche quando lo si nega, nel dopo»85.
84
Cfr. Frank Kermode, Forme d‟attenzione. La fortuna delle opere d‟arte, Il Mulino,
Bologna 1989.
85
Ezio Raimondi, Le poetiche della modernità in Italia, cit., p. 10.
32
Capitolo I
FORME DI RISCRITTURA
I. 1) Ariosto rivisitato
In La struttura dell‟Orlando furioso, Calvino assume il poema
ariostesco come paradigma di “una concezione del tempo e dello spazio che
rinnega la chiusa configurazione del cosmo tolemaico, e s‟apre illimitata
verso il passato e il futuro, così come verso una incalcolabile pluralità di
mondi”: a questo ideale, ancora in bilico tra tensioni postmoderniste e
l‟aspirazione a costruire un‟ “opera-mondo”1, si ispira il motivo calviniano
del romanzo “come enciclopedia, come metodo di conoscenza, e soprattutto
come rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo”2,
nel senso di una struttura di relazioni strategicamente più complessa anche
rispetto ai cronotopi lineari, orizzontali o verticali, ereditati dalla tradizione
modernista3, capace di esprimere il “labirinto gnoseologico-culturale” della
contemporaneità4.
La complessità di stratificazioni del labirinto in cui si risolve la realtà
finisce per richiedere un‟opera policentrica, che ponga continuamente in
questione la sua compiutezza in relazione a singoli aspetti di problematicità:
nel Furioso, che segna l‟approdo all‟epica moderna, si afferma lo spessore
enciclopedico a cui guarda Calvino, anzitutto per una specificità interna al
genere stesso, in quanto, come ha sottolineato Corrado Bologna,
“nell‟universo del romanzo cavalleresco l‟enciclopedia prevale sulla
1
Cfr. Franco Moretti, Opere Mondo. Saggio sulla forma epica da “Faust” a “Cent‟anni di
solitudine”, Einaudi, Torino 1994.
2
Cfr. Italo Calvino, Molteplicità, in Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo
millennio, Garzanti, Milano 1988, p. 116.
3
Cfr. Michail Bachtin, Le forme del tempo e del cronotopo nel romanzo. Saggi di poetica
storica (1925), in Estetica e romanzo, Einaudi, Torino 1977, pp. 245 e ss. e p. 302 e ss..
4
Cfr. Italo Calvino, La sfida al labirinto (1962), in Una pietra sopra. Discorsi di
letteratura e società, Einaudi, Torino 1980, p. 115.
33
diegesi, nel senso che il fluire del racconto implica in permanenza una
fittissima, condizionante rete relazionale, non solo interna a ciascuna opera
nella sua relativa autonomia testuale, ma estesa alla sommatoria delle opere
tra loro interconnesse”5.
Nella rifunzionalizzazione cui Ariosto sottopone l‟epica, come
genere per antonomasia totalizzante, Calvino individua la direzione
operativa nella quale inscrivere la sua stessa ansia di conciliare totalità e
molteplicità, in un analogo contesto di ricodificazione dei generi letterari.
Le “devianze” dalla norma epica che gli aristotelici più ortodossi
rimproverarono all‟Ariosto (la scelta dell‟azione molteplice e della continua
digressione, la sospensione e l‟entrelacement, l‟eterogeneità della materia,
la mescolanza di codici e stili differenti, il vincolo inventivo di un testo
precedente) segnarono profondamente l‟evoluzione successiva della formaromanzo nel senso dell‟orizzontalità più che della “verticalità del progetto”6,
fino ai suoi più estremi esiti novecenteschi, rappresentati emblematicamente
da Joyce, Musil, Proust e Gadda.
Come ha sottolineato Mazzacurati, anche se Ariosto ha sviluppato la
“libertà di accumulo, di digressione e di moltiplicazione” che erano già
proprie della tradizione letteraria cavalleresca, egli supera il Boiardo e il suo
Innamorato e trasforma “quella macchina dai sobbalzi irregolari ed
estemporanei in un telaio di trame coniugate e infine ricomposte”, fondando
così “una nuova scienza dell‟organismo narrativo che sarà decisiva, per le
sue fortune, in età moderna”7 e di cui sono conseguenza anche la prassi
autoparodica di relazione con il testo e la sua fonte, e l‟insistenza sulla mise
en abyme dei codici dello stesso genere cavalleresco, che sarebbe culminata,
per un processo progressivo di consunzione interna, nel Don Quijote di
Cervantes, con la sua rappresentazione dell‟attrito fra la retorica dei luoghi
5
Cfr. Corrado Bologna, La macchina del “Furioso”. Lettura dell‟ “Orlando” e delle
“Satire”, Einaudi, Torino 1998, p. 59.
6
Cfr. Corrado Bologna, op. cit., p. 87.
7
Cfr. Giancarlo Mazzacurati, Varietà e digressione. Il laboratorio ariostesco nella
trasmissione dei “generi”, ora in Rinascimenti in transito, Bulzoni, Roma 1996, p. 68.
34
letterari e il “linguaggio del mondo”, dell‟impossibilità dell‟ “eroico” in un
mondo divenuto ormai “comico”8.
Il filo conduttore che intreccia il Furioso e il romanzo novecentesco
è quindi l‟idea di una enciclopedia aperta, sullo sfondo di una totalità che
ormai non è più pensabile in altri modi se non come “potenziale,
congetturale, plurima”9: si riattualizza la crisi della centralità dell‟epica,
concepita in termini lukácsiani come “figura della totalità estensiva ed
obiettiva del mondo”10 e il passaggio da una totalità estensiva a una totalità
intensiva, nella quale non esiste più una “inviolata unità di senso” ma “si
allontana l‟immanenza totale del senso e l‟unità non preesiste in un mito ma
è da ricostruire attraverso il senso di un percorso”11.
Pur ricercando, come fa Lukács, lo schema delle relazioni umane
nello “scheletro” dell‟epica12, Calvino individua nel Furioso un altro tipo di
epos, in cui si accentuano la spazializzazione della conoscenza e
l‟orizzontalizzazione del sapere, oltre a un‟apertura degli orizzonti
geografici e cosmologici verso il plurale e a una pluridiscorsività che deriva
dalla sovrapposizione ironica delle fonti: in questo senso, lo scrittore ligure
adotta come criterio di lettura e di orientamento nel poema quella che
definisce la “funzione Astolfo”, ovvero “la linea della digressione
paesaggistica (vale a dire la strategia di articolare il discorso nei particolari
più minuti, fin quasi a perdersi, per cercare di raccapezzarsi, anziché saltare
alle conclusioni) alla quale è affidato il vettore di costruzione spaziale” e
nella quale “l‟osservatore prende il sopravvento sullo scrittore epico”,
sostituendo al “rito” il “percorso”13.
8
Cfr. Italo Calvino, Nel Paese dell‟ironia, in “la Repubblica”, 28 novembre 1984; col titolo
“Amica ironia” di Guido Almansi, è ora in Saggi 1945-85, a cura di Mario Barenghi, tomo
II, Mondadori, Milano 1995, p. 1687.
9
Cfr. Italo Calvino, Molteplicità, in Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo
millennio, cit., p. 127.
10
Cfr. György Lukács, Teoria del romanzo (1916), in Scritti di sociologia della
letteratura, tr.it., Sugar Editore, Milano 1966, p. 116.
11
Cfr. Eric Köhler, L‟avventura cavalleresca. Ideale e realtà nei poemi della tavola
rotonda, Il Mulino, Bologna 1985, p. 329.
12
Cfr. anche György Lukács, Narrare o descrivere?, in Il marxismo e la critica letteraria
(1948), tr. it., Einaudi, Torino 1964, pp. 269-323 e p. 288.
13
Cfr. Vincenzo Bagnoli, La mappa del labirinto. L‟Ariosto di Calvino, in Lo spazio del
testo. Paesaggio e conoscenza nella modernità letteraria, Pendragon, Bologna 2003, pp.
102-103.
35
Al mutamento epistemico di cui il Furioso è emblema, corrisponde
la centralità che nel poema assume il movimento, che dà un carattere
errante alla scrittura ariostesca: «Dall‟inizio l‟Orlando Furioso si annuncia
come il poema del movimento, o meglio, annuncia il particolare tipo di
movimento che lo percorrerà da cima a fondo, movimento a linee spezzate,
a zig zag. Potremmo tracciare il disegno generale del poema seguendo il
continuo intersecarsi e divergere di queste linee su una mappa d‟Europa e
d‟Africa, ma già basterebbe a definirli il primo canto tutto inseguimenti,
disguidi, fortuiti incontri, smarrimenti, cambiamenti di programma. È con
questo zia zag tracciato dai cavalli al galoppo e dalle intermittenze del cuore
umano che veniamo introdotti nello spirito del poema; il piacere della
rapidità dell‟azione si mescola subito a un senso di larghezza nella
disponibilità dello spazio e del tempo»14.
La mobilità continua, di natura fisica e spaziale, che caratterizza il
Furioso e che lo definisce come un vero e proprio “poema del
movimento”15, testualizza la pazzia di Orlando che si traduce per l‟appunto
in un “movimento a zig-zag”, in una digressione continua che genera un
labirinto di altre, infinite digressioni, replicando e coinvolgendo tutta la
struttura del libro nel suo gesto fondativo, ovvero nel cambiamento di strada
del suo protagonista: «Definire sinteticamente la forma dell‟Orlando
Furioso è dunque impossibile, poiché non siamo di fronte a una geometria
rigida: potremmo ricorrere all‟immagine d‟un campo di forze, che
continuamente genera al suo interno altri campi di forze. Il movimento è
sempre centrifugo; all‟inizio siamo già nel bel mezzo dell‟azione, e questo
vale per il poema come per ogni canto e ogni episodio. […] In realtà, ogni
preambolo si rivela subito superfluo: il Furioso è un libro unico nel suo
genere e può essere letto – quasi direi: deve – senza far riferimento a nessun
altro libro precedente o seguente; è un universo a sé in cui si può viaggiare
in lungo e in largo, entrare, uscire, perdercisi»16.
14
Italo Calvino, L‟Orlando Furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino,
Einaudi, Torino 1970, p. 30.
15
Cfr. Giovanna Barlusconi, L‟Orlando Furioso poema dello spazio, in Enzo Noè Girardi
(a cura di), Studi sull‟ Ariosto, Vita e Pensiero, Milano 1977, p. 81.
16
Italo Calvino, Ariosto: la struttura dell‟ “Orlando furioso” (1975), in Saggi 1945-85,
tomo I, cit., p. 761.
36
Il “metodo di costruzione” di Ariosto consiste in un incessante
processo di espansione diegetica, in una “dilatazione dall‟interno” che fa
“proliferare episodi da episodi, creando nuove simmetrie e nuovi contrasti”:
il risultato è un poema “dalla struttura policentrica e sincronica, le cui
vicende si diramano in ogni direzione e s‟intersecano e biforcano di
continuo”17, riproducendo così, nel suo essere senza conclusione e senza un
vero e proprio inizio (in continuità con L‟Innamorato), la irriducibile
fluidità della vita e una “nozione del tempo che non è se non raramente
quella statica della contemplazione lirica, ma piuttosto quella varia,
accidentata e inesauribile della storia”18.
Il “soggetto” del Furioso è il testo nel suo farsi, il racconto nel suo
divenire, nell‟apertura dovuta a “un principio di rovesciamento che ne rende
costantemente reversibile la lettura e che comunque determina una dinamica
di equilibri sempre spostati, differiti”19.
Questo pluralismo prospettico avvicina il poema ariostesco ai
caratteri distintivi del romanzo postmoderno, rendendolo nuovamente un
testo cruciale, proprio per il suo carattere non catalogabile, mobile,
proteiforme, molteplice, reticolare, policentrico, nei termini in cui ne parla
anche Corrado Bologna: «La contraddizione e la dialettica sono la sua cifra
segreta; la trasformazione e il salto, la norma del suo ritmo»20.
Nel senso della stessa molteplicità policentrica di prospettive, Il
cavaliere inesistente è già un romanzo pienamente ariostesco, che sviluppa
in modo originale il tema della quête, intesa come inchiesta o conquista con
cui si attiva il meccanismo dell‟avventura, oppure come ricerca di un
oggetto perduto di desiderio: su questa struttura portante si innesta la tecnica
dell‟entrelacement, ovvero “il moltiplicarsi dei filoni narrativi in rapporto
con l‟intrecciarsi degli incontri/scontri fra i diversi personaggi, e gli effetti
di variatio e di suspense che derivano dagli imprevedibili abbandoni e
riprese delle diverse storie”21.
17
Ibidem, p. 759.
Cfr. Eduardo Saccone, Il soggetto del “Furioso”, Liguori, Napoli 1974, p. 169.
19
Cfr. Sergio Zatti, Il Furioso tra epos e romanzo, Pacini Fazzi, Lucca 1990, p. 98.
20
Corrado Bologna, op. cit., p. 49.
21
Cfr. Sergio Zatti, op. cit., p. 13.
18
37
La centralità della tecnica dell‟entrelacement all‟interno della
struttura del Cavaliere inesistente si rivela nel momento in cui Suor
Teodora, il narratore che è anche controfigura dell‟autore, esprime la paura
di ingarbugliarsi, non riuscendo più a ordinare le varie storie incominciate e
dando luogo a una specie di “frame-breaking”22, cioè a una trasgressione
della frontiera tra finzione e non-finzione, diffusa in tanta letteratura
postmoderna: «Ma questo filo, invece di scorrermi veloce tra le dita, ecco
che si rilassa, che s‟intoppa, e se penso a quanto ancora ho da mettere sulla
carta d‟itinerari e ostacoli e inseguimenti e inganni e duelli e tornei, mi
sento smarrire»23.
L‟entrelacement espande il racconto lungo molteplici fili digressivi,
rende la struttura acentrica, aperta a continui sviluppi narrativi, sia laterali
sia proiettati nel passato o nel futuro, che rinviano continuamente il
compiersi dell‟opera in forma chiusa, unitaria: anche Calvino porta avanti
contemporaneamente più fili narrativi, li intreccia, per quanto limiti la
varietà movimentata dell‟Ariosto con una trama più lineare, che risponde
meglio all‟ideale settecentesco dell‟ottimismo illuminista e del romanzo di
formazione, e che risente della letteratura didattica nella tensione a costruire
una geometria allegorica attraverso coppie di figure antitetiche (Agilulfo e
Gurdulù, Rambaldo e Torrismondo, Sofronia e Bradamante, i cavalieri del
Graal e i Curvali), interpretandoli non solo come exempla di vizi e di virtù,
ma anche come simboli politici o atteggiamenti filosofici ed esistenziali.
La molteplicità dei punti di vista e delle prospettive di narrazione
crea comunque, come nel Furioso, una “struttura complessa di sottostrutture
vicendevolmente intersecantesi con reiterati interventi di questo o
quell‟elemento in diversi contesti costruttivi”24: è una dialettica in cui si
inseriscono anche il continuo gioco di specchi tra realtà e fictio letteraria, e
lo sdoppiamento dell‟intreccio su due piani, uno narrativo e l‟altro
discorsivo, con l‟ingresso del narratore nel campo della rappresentazione e
con la conseguente esibizione dei meccanismi interni di produzione
22
Cfr. Ulla Musarra-Schroeder, Narrative Discourse in postmodernist Text, in Matei
Calinescu e Douve Wessel Fokkema (a cura di), Exploring Postmodernism, John
Benjamins Publishing Company, Philadelphia-Amsterdam 1987, p. 78.
23
Italo Calvino, Il cavaliere inesistente, Einaudi, Torino 1959, p. 94.
24
Cfr. Jurij Michailovič Lotman, La struttura del testo poetico, Mursia, Milano 1976, p. 98.
38
narrativa, che determina così una messa in questione della loro stessa
legittimità25.
Mentre nel Furioso i molti commenti autonarrativi, seppur ironici,
non mettono mai in dubbio lo statuto extradiegetico del narratore, ne Il
cavaliere inesistente c‟è una oscillazione continua del testo tra il narrato e la
focalizzazione
della
narrazione,
che
viene
tematizzata
fino
all‟autosmascheramento finale: lo sdoppiamento della narratrice, che si
rivela nello stesso tempo guerriera e suora, ognuna con la propria visione
soggettiva e un punto di vista diverso, decreta un‟inevitabile falsificazione
di ogni descrizione del reale.
Con l‟introduzione del problema della relatività degli sguardi sullo
spazio e con l‟apertura allo sguardo del lettore e il conseguente
distanziamento del testo da se stesso, viene scardinato il modello epico
tradizionale e si apre una prospettiva assolutamente moderna: per quanto
riguarda il testo di partenza, non è superfluo rimandare alla concezione del
sistema di rappresentazione teatrale pre-rinascimentale, caratterizzata da
uno spettatore mobile, contrapposto allo spettatore stabile del teatro
moderno, e da un‟idea di spettacolo come percorso-pellegrinaggio26.
L‟insistenza sul gioco autonomo del significante, che deriva dalla
tensione a inglobare tutti i libri reali e tutti quelli possibili, finisce tuttavia
per comportare il rischio dell‟autoreferenzialità, come lo stesso Calvino ha
ammesso nell‟introduzione ai Nuovi antenati: «A un certo punto era solo
questo rapporto a interessarmi, la mia storia diventava soltanto la storia
della penna d‟oca della monaca che correva sul foglio bianco»27.
L‟esplicitazione della natura di fictio del romanzo è esibita attraverso
il confronto con una presunta fonte onnisciente, l‟ “antica cronaca” cui fa
riferimento Suor Toeodora28, che ripropone, parodisticamente, il rapporto di
25
Calvino rielabora in un certo senso anche il topos medioevale dell‟ appello al lettore, che
è proprio dello stile „parlato‟ della letteratura canterina: sull‟argomento si può consultare
Erich Auerbach, Gli appelli di Dante al lettore, in Id., Studi su Dante, Feltrinelli, Milano
1966, pp. 292-304.
26
Cfr. al riguardo Marina Beer, Dentro lo spazio dell‟ “Orlando furioso”, in L‟ozio
onorato. Saggi sulla cultura letteraria italiana del Rinascimento, Bulzoni, Roma 1996, pp.
23-25.
27
Italo Calvino, Introduzione a Nuovi antenati, Einaudi, Torino 1960, p. XIX.
28
Cfr. Italo Calvino, Il cavaliere inesistente, cit., p. 94.
39
Ariosto con l‟ “auctor” Turpino29: in entrambi i casi, l‟enfatizzazione del
livello metadiscorsivo si risolve nell‟affermazione della tecnica digressiva e
della centralità delle scelte dell‟autore rispetto a ogni verosimiglianza del
testo, nell‟analogia tra la “tessitura” testuale e la “gran tela” di avventure,
inganni e tradimenti ordita dai personaggi.
La pratica digressiva, oltre a iscriversi nella serialità del circolo
produzione-consumo della letteratura cavalleresca, traduce un‟idea di
scrittura come movimento, identificato anzitutto con il cavallo che guida,
accomunandole, Angelica nel Furioso e Suor Teodora/Bradamante ne Il
cavaliere inesistente: «[…] il primo personaggio che entra in scena corre,
proviene da un “altrove” che non c‟è più, va verso un “altrove” che non
esiste ancora. Sono il suo cavallo, la sua corsa, a dar vita al tempo e allo
spazio “interni” del nuovo libro, anch‟essi mobilissimi, fulminei, appunto
perché stanno sviluppando un‟energia, uno slancio, un‟accelerazione
impressi in precedenza, in un altro luogo. Lo spazio del Furioso è fin
dall‟inizio in movimento, giacché sta congiungendosi ad un altro spazio in
cui tutto è già avvenuto e spinge quel già da sempre verso un non ancora»30.
Il “passo del cavallo”, che fa imboccare ai personaggi strade e
avventure sempre nuove, ha quindi un carattere erratico, produce uno
spazio
testuale
labirintico,
moltiplicato
da
infinite
digressioni
e
proliferazioni che replicano la pazzia di Orlando e il “va e vieni” dei vari
personaggi, dando vita a un “ricominciamento ininterrotto”31, senza
approdare mai a una conclusione definitiva: lo stesso processo di
geminazione dall‟interno caratterizza le storie de Il castello dei destini
incrociati, un‟opera altrettanto policentrica, polifonica e multispaziale, nella
quale le vicende ispirate dai tarocchi “si diramano in ogni direzione e
s‟intersecano e biforcano di continuo”32, proprio come avviene nella
struttura
del
poema
ariostesco,
costruito
secondo
la
logica
dell‟entrelacement.
29
Cfr. Sergio Zatti, op. cit., p. 174.
Italo Calvino, L‟Orlando Furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, cit.,
p. 3.
31
Cfr. Eduardo Saccone, op. cit., p. 101.
32
Cfr. Italo Calvino, Ariosto: la struttura dell‟ “Orlando Furioso”, in Saggi 1945-85, tomo
I, cit., pp. 759.
30
40
L‟immagine della rete di percorsi molteplici che si intrecciano
affiora dalla spazialità labirintica delle “foreste avventurose” nelle quali si
svolge gran parte delle vicende ariostesche e dove si proiettano spazi e
dimensioni dell‟interiorità dei personaggi: lo spazio del bosco, vera trama
profonda del Furioso, diventa metafora della varietas di articolazioni
interne che connotano il testo, è “un „luogo d‟azione‟, il punto in cui i
labirinti delle azioni dei personaggi possono incontrarsi e conoscono i loro
snodi: una forma d‟intreccio che distingue le „serie universali delle vite‟ in
„piccole faccende private‟ e le raccorda al tempo stesso in un quadro che
non è certo quello dell‟unità antica, né l‟unità del tempo folclorico, ma la
creazione di nuove contiguità attraverso lo „sconfinamento‟ della poesia,
dell‟ironia e della parodia”33.
Già ne Il barone rampante il bosco, con il suo “frastaglio di rami e
foglie, biforcazioni, lobi, spiumii, minuto e senza fine”34, evoca la rete dei
“boscherecci labirinti” di Ariosto, uno spazio poroso e pluridimensionale,
nel quale Cosimo viaggia in lungo e in largo: «Sparì dietro il tronco e
riapparve su un altro ramo più su, risparì dietro il tronco ancora e se ne
videro solamente i piedi sul ramo più in alto»35.
Ne Il cavaliere inesistente la suggestione del testo-foresta ha una
esplicita matrice ariostesca e si traduce in uno spazio fatto di sentieri
intricati e labirintici: la stessa narratrice rivela che “ormai la mia carta è un
intrico di righe tracciate in ogni senso”36.
All‟ambiguità che caratterizza la foresta corrisponde, nel pensiero di
Calvino, una concezione del mondo come “labirinto”, sul duplice piano di
una complessità caotica e irriducibile, e su quello di una “mappa” che riesca
a creare un ordine, risultato di un attraversamento: ciò che presuppone lo
scrittore è “uno sforzo gnoseologico che è anche e soprattutto etico perché
la mappa non pretende di dire la verità del mondo agli uomini, ma deve
33
Cfr. Vincenzo Bagnoli, op. cit., p. 95.
Cfr Italo Calvino, Il barone rampante, Einaudi, Torino 1957, p. 53.
35
Ibidem, p. 61.
36
Cfr. Italo Calvino, Il cavaliere inesistente, cit., p. 78.
34
41
servire ad essi per chiarire il senso della loro posizione, per orientarsi anche
attraverso il disorientamento”37.
Nel
coraggio
e
nell‟intraprendenza
di
un
cavaliere
come
Torrismondo, Calvino condensa tutta la portata etica della tensione tra uomo
e mondo-labirinto, concepita come una sfida che riqualifica sul terreno
dell‟attualità i motivi caratterizzanti dell‟universo epico: «C‟era il bosco,
verde e frondoso, tutto frulli e squittii, dove gli sarebbe piaciuto correre,
districarsi, scovare selvaggina, opporre a quell‟ombra, a quel mistero, a
quella natura estranea, se stesso, la sua forza, la sua fatica, il suo
coraggio»38.
A questa fiducia nella possibilità di una razionalizzazione del caos
del mondo, legata alle posizioni espresse ne La sfida al labirinto, sarebbe
seguito un ripiegamento negli anni de Il castello dei destini incrociati, opera
nella quale la foresta ricompare come luogo di smarrimento, groviglio
inestricabile, vero e proprio Irrweg barocco, dove i personaggi collezionano
scelte sbagliate e prove mancate, perdendosi nel magma dell‟indifferenziato
e nella disintegrazione, in una sorta di epos negativo, lontano dall‟ottimismo
gnoseologico degli anni Cinquanta: «Ora il bosco ti avrà. Il bosco è perdita
di sé, mescolanza. Per unirti a noi devi perderti, strappare gli attributi di te
stesso, smembrarti, trasformarti nell‟indifferenziato, unirti allo stuolo delle
Ménadi che corre urlando nel bosco»39.
Oltre che ne La storia dell‟ingrato punito, le stesse immagini di
smarrimento si ripresentano ne La storia della sposa dannata e nella Storia
dell‟Orlando pazzo per amore, dove l‟eroe ariostesco, dopo essersi
avventurato “nella verde mucillaginosa natura, tra le spire della continuità
vivente”, approda in un luogo dove tutto è dissoluzione, mescolanza,
confusione: «[…] ecco che Orlando era disceso giù nel cuore caotico delle
cose, al centro del quadrato dei tarocchi e del mondo, al punto
d‟intersezione di tutti gli ordini possibili»40.
37
Cfr. Vincenzo Bagnoli, op. cit., p. 92.
Cfr. Italo Calvino, Il cavaliere inesistente, cit., p. 19.
39
Cfr. Italo Calvino, Il castello dei destini incrociati, Einaudi, Torino 1973, p. 13.
40
Ibidem, p. 33.
38
42
Al motivo del bosco-labirinto, come teatro della follia e dell‟erranza,
e a quello della impossibilità della scelta, che tematizza la crisi dell‟unità
dell‟azione epica, si ispira, nella Taverna dei destini incrociati, anche La
storia dell‟indeciso, dove comunque le non-scelte e la follia culminano in
una saggezza al rovescio che ribadisce la validità dell‟attraversamento41.
Nell‟Orlando furioso Calvino individua l‟archetipo di quel iperromanzo che egli tenterà di realizzare anche ne Le città invisibili e in Se una
notte d‟inverno un viaggiatore, sempre nell‟ottica di un “legame tra le scelte
formali della composizione e il bisogno di un modello cosmologico”42: si
tratta di “una struttura sfaccettata in cui ogni breve testo sta vicino agli altri
in una successione che non implica una consequenzialità o una gerarchia”,
di una rete interconnessa, policentrica e multilineare “entro la quale si
possono tracciare molteplici percorsi e ricavare conclusioni plurime e
ramificate”43.
Prendendo Il castello come modello, Calvino ha parlato di una
“macchina per moltiplicare le narrazioni”44, capace di produrre qualsiasi
tipo di testo, un‟idea che evoca le logiche della scrittura elettronica, di cui lo
scrittore scorge già una traccia nell‟Orlando furioso, esempio emblematico
di “libro-mondo”: «Il libro magico, il libro assoluto, i cui arcani superano i
limiti d‟ogni linguaggio, non sarebbe dunque altro che un modello di
cervello elettronico? Come il computer non ha senso senza i programmi,
senza il suo software, così anche il libro che pretenda d‟essere considerato
“il Libro” non ha senso senza il contesto di molti, molti altri libri intorno a
lui»45.
L‟inesauribile intreccio di forme e contenuti a cui allude Calvino,
configura un vero e proprio iper-romanzo che si articola con le stesse
modalità di un iper-testo: in esso si ripresenta “il fascino della narrazione a
41
Cfr. Ulla Musarra- Schroeder, Il labirinto e la rete. Percorsi moderni e postmoderni
nell‟opera di Italo Calvino, Bulzoni, Roma 1996, pp. 100-101.
42
Cfr. Italo Calvino, Esattezza, in Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo
millennio, cit., p. 68.
43
Ibidem, p. 70.
44
Cfr. Italo Calvino, Molteplicità, in Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo
millennio, cit., p. 117.
45
Cfr. Italo Calvino, Il Libro, i libri (conferenza tenuta alla Feria del Libro di Buenos
Aires), in “Nuovi quaderni italiani”, 10, Istituto italiano di cultura, Buenos Aires 1984, ora
in Saggi 1945-85, tomo II, cit., p. 1850.
43
labirinto”46 e quella “sottile arte delle transizioni”47, proteiforme e
sincronica, che permea il Furioso e che produce un gioco infinito del
significante.
Nel suo frangersi in un ipnotico e infinito effetto di specchi e di echi,
l‟iper-romanzo di Calvino problematizza inevitabilmente il concetto di
autorità dell‟autore e quello di chiusura, rimane un testo espandibile
all‟infinito, appunto una enciclopedia aperta, come dimostra il finale de Il
castello, quando il mazzo di carte viene rimescolato, cancellando la struttura
a forma di rettangolo, e il Libro si chiude con l‟annuncio da parte del
narratore di testi sempre nuovi: «Allora le sue mani sparpagliano le carte,
mescolano il mazzo, ricominciano da capo»48.
La “variazione innovativa” che risemantizza ogni volta gli stessi
simboli li sottrae alla legge della successione temporale, all‟organizzazione
subordinativa del procedimento logico, attivando tutte le possibilità
espressive insite negli oggetti e moltiplicando continuamente i punti di vista
sulla realtà. viene così affermato il ruolo attivo del lettore, in un processo
che esteriorizza l‟esplorazione del mondo interiore nella concretezza del
cosmo fisico, nell‟evidenza plastico-simbolica del paesaggio e dei
personaggi.
La centralità delle scelte del lettore impone un nuovo concetto di
struttura, che richiama quella in continua modificazione dello spazio
elettronico, in cui, come sottolinea Bolter, i testi vengono concepiti come
“strutture di possibili strutture” invece che come strutture chiuse e unitarie:
«Colui che scrive deve praticare una sorta di scrittura di secondo livello,
creando linee narrative coerenti che il lettore possa scoprire senza escludere
prematuramente e arbitrariamente altre possibilità»49.
In questa prospettiva, lo spazio perde la sua omogeneità e il suo
carattere di “contenitore” delle cose, assumendo invece l‟aspetto di un
“campo” configurato dagli oggetti che lo abitano per relazionismo, proprio
46
Cfr. Daniela Del Corno Branca, L‟Orlando Furioso e il romanzo cavalleresco
medioevale, Olschki, Firenze 1973, p. 16.
47
Cfr. Cesare Segre, La poesia di Ariosto, in Esperienze ariostesche, Nistri-Lischi, Pisa
1966, p. 22.
48
Italo Calvino, Il castello dei destini incrociati, cit., p. 48.
49
Jay David Bolter, Lo spazio dello scrivere. Computer, ipertesti e storia della scrittura
(1991), tr. it., Vita e Pensiero, Milano 1993, p. 183.
44
come avviene ne Il castello dei destini incrociati e ne Le città invisibili: allo
stesso modo, gli ipertesti funzionano secondo criteri di prossimità, di
vicinanza, in base alla topologia del percorso compiuto dall‟utente, per cui
“la rete non è nello spazio”, ma “essa è lo spazio”50.
Il significato del testo non si enuclea quindi nel suo punto di
partenza o nel suo punto di arrivo, ma nello spazio intermedio tra il primo
soggetto scrivente e il soggetto referente, in una realtà che si carica di
molteplici potenzialità di livelli e significati51, nel senso di una immanenza
del significato nei significanti.
Anche lo spazio del Furioso è una macchina generatrice di “trame”
possibili: è uno spazio in movimento, metamorfico, che trasforma se stesso
a seconda di chi vi entra e che si smonta e ricostruisce a ogni interruzione e
ripresa, a ogni nuovo personaggio e sentiero che viene imboccato, a ogni
digressione. Il “contenuto” del poema ariostesco è proprio questo spazio
elastico, dinamico, aperto alle continuazioni altrui: lo definisce bene
Giovanna Barlusconi quando parla di “una memoria che si è calata nelle
cose, che si è connaturata con i luoghi, facendosi dimensione percorribile”52.
L‟organizzazione per nodi semantici è già presente nel ruolo che i
luoghi assumono come nuclei energetici polisemi, “vortici di energia” dai
quali si irraggiano le azioni, anticipando le dinamiche reticolari del Web che
trasforma e ricrea continuamente il proprio spazio: «Ogni personaggio può
sempre ripercorrere se stesso alla ricerca del luogo privilegiato della
memoria, dove si è coagulato il proprio passato. Anzi, più una vicenda si
allontana dal punto di irraggiamento e più tende a ritornarvi, anche se il
cavaliere errante che la guida insegue sempre qualcosa che è proiettato
davanti a sé. Infatti il nucleo focale, man mano che l‟azione avanza, si viene
trasformando secondo l‟itinerario percorso, gli incontri fatti e le
ramificazioni che sviano in tortuose varianti, finché riemerge modificato da
50
Cfr. Pierre Lévy, Le tecnologie dell‟intelligenza (1990), tr.it., Synergon, Bologna 1992,
p. 33.
51
Cfr. Jacques Derrida, Della grammatologia (1967), tr.it., Jaca Book, Milano 1969, in
part. pp. 65-74.
52
Cfr. Giovanna Barlusconi, op. cit., p. 102.
45
una nuova prospettiva d‟accesso: rivive così ogni volta sempre identico e
sempre diverso»53.
Nel Castello troviamo la stessa pluralità prospettica e lo stesso
dinamismo spaziale derivato dallo sviluppo simultaneo degli episodi54, che
consentono di accedere a un medesimo luogo, ovvero a uno spazio
esistenziale, da punti di vista sempre diversi: come nel Furioso, ogni
accesso “costituisce insomma un nuovo punto di vista, che permette di
organizzare diversamente la realtà figurativa”55, agendo nello stesso tempo
come una metamnesi, cioè una memoria che congiunge tutte le diverse
prospettive56. Lo stesso principio giustifica la praticabilità libera dei generi
letterari, che vengono così rivisitati e dotati di nuovi sensi in contesti
diversi, come si può desumere dal rapporto di continuità che lega il Furioso
all‟Innamorato: «In principio c‟è solo una fanciulla che fugge per un bosco
in sella al suo palafreno. […]: è la protagonista d‟un poema rimasto
incompiuto, che sta correndo per entrare in un poema appena cominciato»57.
Il testo diventa un “campo di forze” caratterizzato dalla “larghezza
nella disponibilità dello spazio e del tempo”58: la complessità del grande
apparato di “montaggio aperto” che ne deriva supera ogni struttura
gerarchica attraverso il principio di continuità e variazione, attivato dal
movimento “a linee spezzate”, sempre centrifugo, del testo-cavallo,
all‟insegna di quel “piacere della rapidità dell‟azione” affermato anche nella
seconda delle Lezioni americane.
Proprio la centralità del percorso è il principale elemento di contatto
tra la fantasia ariostesca e il modello della rete ipertestuale cui sembra
guardare Calvino, accomunate dagli stessi principi di metamorfosi, di
eterogeneità, di molteplicità e inscatolamento delle scale, di esteriorità, di
53
Ibidem.
Sulla simultaneità degli episodi che, anziché succedersi nel tempo, si manifestano
contemporaneamente nello spazio, valorizzando l‟articolazione policentrica della materia
narrativa, è utile consultare Nino Borsellino, Lettura dell‟Orlando Furioso, Bulzoni, Roma
1972, p. 34.
55
Cfr. Michel Bastiaensen, La ripetizione contrastata nel Furioso, in « La Rassegna della
Letteratura Italiana », s. VII, 74 (1970), p. 122.
56
Cfr. Gaston Bachelard, La poetica della rêverie (1960), tr.it., Dedalo, Bari 1972, p. 123.
57
Italo Calvino, L‟Orlando Furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, cit.,
p. 35.
58
Cfr. Italo Calvino, Ariosto: la struttura dell‟Orlando Furioso, in Saggi 1945-85, tomo I,
cit., p. 762.
54
46
topologia, di mobilità dei centri59: alla struttura della successione logica, in
cui le relazioni sono di tipo subordinativo, si sostituisce un nuovo ordine
fondato sulla associazione e sulla enumerazione. La “funzione Astolfo” si
può così paragonare a quello che De Kerckhove, nel contesto multimediale,
chiama “punto di stato”, ovvero una percezione propriocettiva che non è più
il “punto di vista”, appartenente all‟ambito razionale-simbolico, ma si
incentra sulla posizione del singolo nel flusso di dati in rete, senza alcuna
centralità prospettica60: sul piano della scienza contemporanea, c‟è una
corrispondenza con la frammentazione di ogni linearità in biforcazioni
continue come altrettante rotture di causalità, in quelle che Prygogine e
Stengers definiscono “strutture dissipative”, nelle quali l‟energia che si sta
dissipando in un determinato processo non genera entropia, ma induce alla
formazione di nuovi insiemi, in una compagine che mantiene elevata la
propria instabilità61.
Di questa visione epistemologica è espressione la concezione
calviniana della letteratura come ricerca conoscitiva “pulviscolare”, che non
può limitarsi se non a “problemi di conoscenza minimali”62, individuando
delle piccole “zone d‟ordine” nel mezzo di un antropico disordine generale,
“porzioni d‟esistente che tendono verso una forma, punti privilegiati da cui
sembra di scorgere un disegno, una prospettiva”63: in questo senso, il
labirinto, lungi dall‟essere sinonimo di caos, è spesso in Calvino un modello
di orientamento, una figura che iscrive in una rete visibile e geometrica le
linee di una realtà minacciata di dispersione, sebbene ciò che conta sia
soprattutto il suo attraversamento, piuttosto che la possibilità di uscirne:
«Nel momento in cui una struttura topologica si presenta come struttura
metafisica il gioco perde il suo equilibrio dialettico, e la letteratura si
converte in un mezzo per dimostrare che il mondo è essenzialmente
59
Cfr. Pierre Lévy, op. cit., pp. 32-33.
Cfr. Derrick De Kerckhove, La pelle della cultura. Un‟indagine sulla nuova realtà
elettronica (1994), tr.it., Costa e Nolan, Genova 1996, p. 187.
61
Cfr. Ilya Prygogine e Isabelle Stengers, La nuova alleanza, Einaudi, Torino 1981, p. 187.
Calvino fu un attento lettore del libro, come dimostra l‟articolo No, non saremo soli [su
Prygogine], in “la Repubblica”, 3 maggio 1980, pp. 18-19, ora, col titolo Ilya Prygogine e
Isabelle Stengers, “La nuova alleanza”, in Saggi 1945-85, tomo II, cit., pp. 2038-2044.
62
Cfr. Italo Calvino, Esattezza, in Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo
millennio, cit., p. 73.
63
Ibidem, p. 68.
60
47
impenetrabile, che qualsiasi comunicazione è impossibile. Il labirinto cessa
così di essere una sfida all‟intelligenza umana e s‟instaura come facsimile
del mondo e della società»64.
L‟aspetto del romanzo enciclopedico è perciò quello di un labirinto,
di un testo potenzialmente infinito, di una rete che si sviluppa in tutte le
direzioni, in cui i percorsi possono portare verso l‟interno, girando su se
stessi come in un gomitolo, ma anche condurre verso i bordi, verso una
periferia aperta che rimanda, a sua volta, ad altre e nuove periferie: è una
visione rintracciabile già nel “ritmo armoniosamente circolare”65 del mondo
ariostesco e dà vita non a un modello riduttivo e semplificatore del caos del
mondo, come i modelli strutturalisti, ma a una prospettiva inclusiva e
totalizzante.
Ne Il castello dei destini incrociati e ne Le città invisibili, Calvino
porta quindi in primo piano il labirinto ciclomatico e reticolare, nel quale
ogni punto può essere connesso con ogni altro punto e ogni percorso è
possibile: «Può essere finito o […] infinito. In entrambi i casi, poiché ogni
suo punto può essere connesso con qualsiasi altro punto, e il processo di
connessione è anche un processo continuo di correzione delle connessioni,
sarebbe sempre illimitato, perché la sua struttura sarebbe sempre diversa da
quella che era un istante prima e ogni volta si potrebbe percorrerlo secondo
linee diverse. Quindi chi vi viaggia deve anche imparare a correggere di
continuo l‟immagine che si fa di esso, sia essa una concreta immagine di
una sua sezione (locale), sia essa l‟immagine regolatrice e ipotetica che
concerne la sua struttura globale (inconoscibile, e per ragioni sincroniche e
per ragioni diacroniche)»66.
Il carattere metamorfico e connettivo del labirinto reticolare, capace
di estendersi all‟infinito, smontabile, reversibile, senza dentro né fuori
definitivi, richiama non solo l‟ipertesto, ma anche la struttura a rete del
64
Il passo, tratto dal saggio Strutture topologiche nella letteratura moderna di Hans
Magnus Enzensberger, pubblicato sul n. 300, maggio-giugno 1966, della rivista “Sur” di
Buenos Aires, è citato in Italo Calvino, Cibernetica e fantasmi (Appunti sulla narrativa
come processo combinatorio) (1967), in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società,
cit., p. 218.
65
Cfr. Giovanna Barlusconi, op. cit., p. 101.
66
Cfr. Umberto Eco, L‟antiporfirio, in Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti (a cura di), Il
pensiero debole, cit., p. 77.
48
rizoma, così come è definita da Deleuze e Guattari: «[…] il rizoma non si
lascia riportare né all‟Uno né al molteplice […] non è fatto di unicità, ma di
dimensioni o piuttosto di direzioni in movimento. Non ha inizio né fine, ma
sempre un mezzo per cui cresce e straripa […] Una tale molteplicità non
varia le sue dimensioni senza cambiare natura in se stessa e metamorfosarsi
[…] Il rizoma è antigenealogia. E‟ una memoria corta o un‟antimemoria. Il
rizoma procede per variazione, espansione, conquista, cattura, iniezione. Al
contrario del grafismo, del disegno o della fotografia, al contrario dei calchi,
il rizoma si riferisce a una carta che deve essere prodotta, costruita, sempre
smontabile, connettibile, rovesciabile, modificabile, con molteplici entrate e
uscite, con le sue linee di fuga […] Contro i sistemi centrati (anche
policentrati), a comunicazione gerarchica e collegamenti prestabiliti, il
rizoma è un sistema accentrato non gerarchico e non significante, senza
generale, senza memoria organizzatrice o automa centrale, unicamente
definito da una circolazione di stati»67.
Come il rizoma, l‟ipertesto ha molti ingressi e molte uscite e incarna
qualcosa di più vicino all‟anarchia che alla gerarchia, collegando ogni punto
a ogni altro punto, unendo spesso informazioni di tipo radicalmente diverso
e mescolando quelli che siamo abituati a considerare come testi a stampa
diversi, e generi, modi di espressione e di comunicazione diversi,
multimediali, multi-modali, analogici, digitali: «[…] a differenza degli
alberi e delle loro radici, il rizoma connette un punto qualunque con un altro
punto qualunque e ognuno dei suoi tratti non rinvia necessariamente a tratti
della stessa natura, mette in gioco regimi di segni molto differenti e anche
stati di non segni»68.
I rizomi connettono su uno stesso piano di consistenza strati
dell‟essere totalmente eterogenei, radicalizzando il protomaterialismo
empedocleo delle mescolanze e soprattutto il pluralismo infinitista di
Leibniz, cui fa riferimento anche Calvino nella lezione sulla Leggerezza.
Barthes parla di una testualità ideale che corrisponde perfettamente
con ciò che, in seguito, è stato chiamato “ipertesto”, una testualità che si
67
Gilles Deleuze e Felix Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia (1980), tr.it.,
Castelvecchi, Firenze 1997, p. 24.
68
Ibidem, p. 42.
49
manifesta tramite percorsi molteplici, aperta e sempre incompiuta, descritta
con termini quali “collegamento”, “nodo”, “rete”, “tela” e “percorso”: «In
questo testo ideale le reti sono multiple e giocano fra loro senza che nessuna
possa ricoprire le altre; questo testo è una galassia di significanti, non una
struttura di significati; non ha inizio: è reversibile; vi si accede da più entrate
di cui nessuna può essere decretata con certezza la principale; i codici che
mobilita si profilano a perdita d‟occhio, sono indecidibili […] All‟interno
possono esistere per così dire dei sistemi di senso dominanti. Essi possono
certo impadronirsi del testo stesso, ma il loro numero non è mai chiuso,
misurandosi sull‟infinità del linguaggio»69.
Anche Foucault pensa al testo come a un insieme di reti e
collegamenti, mostrando che “i confini di un libro non sono mai netti né
rigorosamente limitati” perché “esso si trova preso in un sistema di rimandi
ad altri libri, ad altri testi, ad altre frasi”: è “il nodo di un reticolo”, un
“meccanismo di rimandi”70.
Al livello della struttura profonda, mutuando l‟espressione di
Barthes, l‟ipertesto si qualifica come un “testo costellato”, differenziandosi
da altre tecnologie informatiche come la computer graphic o la realtà
virtuale: la sua struttura visibile si risolve in una sequenza di “finestre” che,
proprio nella loro limitatezza, rinviano a un modello di testo, quello
elettronico appunto, che si configura come atomizzato, segmentato in
blocchi di significazione o “lessie”, e reticolare, sia nel rapporto tra le
diverse unità informative o “nodi”, sia in senso intertestuale.
I tradizionali confini dell‟oggetto-testo si dissolvono e lo spazio
sintattico è uno spazio mobile, nel quale ciascun elemento ridefinisce il
proprio statuto e la propria collocazione in funzione del percorso di lettura
dell‟utente: si affermano le idee di apertura dell‟opera, di interattività o
libertà
di
agire
nel/con
l‟opera,
di
associazione/connessione
e
multisequenzialità opposta a linearità, strettamente collegate ai concetti di
itinerario, come viaggio, navigazione su cui basare il modo di accesso e
69
Roland Barthes, S/Z (1970), tr.it., Einaudi, Torino 1973, p. 11.
Cfr. Michael Foucault, L‟archeologia del sapere (1969), tr.it., Rizzoli, Milano 1980, p.
32.
70
50
uso, e di processo, opposto a creazione, in corso, continuo, senza
opposizioni tra diverse sfere sensoriali.
Mentre nel testo convenzionale il lettore è vincolato dalla
sequenzialità lineare, nell‟ipertesto può muoversi da una unità testuale a
un'altra costruendosi ogni volta il proprio testo, che scaturisce dalla
selezione di alcuni legami piuttosto che altri: diventa un navigatore o
esploratore di rete, secondo una metafora che ricorre anche in Calvino, nelle
cui opere combinatorie il personaggio è o un viaggiatore testuale, come in
Se una notte d‟inverno un viaggiatore, o un gruppo di viandanti, come ne Il
castello dei destini incrociati, o appunto un navigatore o esploratore, come
il Marco Polo de Le città invisibili.
Proponendo molteplici percorsi, una narrativa ipertestuale offre
un‟immagine più complessa e “plurale” del mondo narrato, demandando al
lettore, reso parte attiva nel processo creativo, il compito di collegare e
ricostruire il disegno, o uno dei disegni possibili, dell‟autore: «Il navigatore
partecipa […] alla redazione o quantomeno all‟edizione del testo che
“legge” poiché è lui a determinare la sua organizzazione finale (la dispositio
della retorica antica) […]. Con l‟ipertesto ciascuna lettura è un atto di
scrittura»71.
La lettura diventa scrittura: si passa da testi “leggibili” a testi
“scrivibili”, dove il lettore svolge anche il ruolo di produttore, non solo di
consumatore72. Landow usa spesso il termine wreaders (da “writers”, autori,
e “readers”, lettori) per identificare la nuova figura di autore-lettore,
associata anche da Calvino all‟immaginario informatico73.
Se per la narratologia tradizionale la linearità è qualcosa di intrinseco
al racconto e determina una buona trama in senso aristotelico, nell‟ipertesto
“la linearità […] diventa una caratteristica dell‟esperienza del singolo lettore
all‟interno di un singolo testo e lungo un particolare percorso”74; come
afferma Coover, la linearità della lettura non va completamente perduta, ma
71
Pierre Lévy, Il virtuale (1995), tr.it., Raffaello Cortina Editore, Milano 1997, p. 35.
Cfr. Roland Barthes, S/Z, cit., p. 10.
73
Cfr. John Usher, Calvino and the computer as writer/reader, in “Modern Language
Review”, XC, 1, gennaio 1995, pp. 41-54.
74
Cfr. George P. Landow, L‟ipertesto. Tecnologie digitali e critica letteraria (1994), tr.it.,
Bruno Mondadori, Milano 1998, p. 23.
72
51
si organizza diversamente, tenuto conto che “lo spazio ipertestuale della
storia è ora multidimensionale e teoricamente illimitato”75.
L‟ annullamento delle distanze e, di conseguenza, dei tempi
necessari per percorrerle riattualizza nel mondo digitale una sorta di
“funzione Astolfo”: a differenza della navigazione reale, quella elettronica è
caratterizzata dall‟istantaneità, dallo spostamento pressoché subitaneo tra
una tappa e l‟altra, realizzando quell‟ “alleggerimento del linguaggio per cui
i significati vengono convogliati su un tessuto verbale come senza peso, fino
ad assumere la stessa rarefatta consistenza”, cui accenna Calvino in
Leggerezza76.
Similmente a una logica labirintica, nella navigazione ipertestuale
l‟individualità di ogni percorso relativizza l‟ordine di manifestazione dei
nodi e la loro successione: il fatto che ponga spesso di fronte a scelte
alternative mette in dubbio la fattibilità di una conoscenza esaustiva del
testo, producendo una reversibilità topologica e una incertezza che
sperimentano anche i narratori-lettori de Il castello dei destini incrociati.
I tarocchi sono segni polivalenti, aperti e flessibili, danno vita a una
specie di “quadrato magico” in cui tutti i percorsi di lettura si incrociano,
lasciando grande spazio all‟interpretazione e all‟immaginazione dei
commensali: perciò “le storie raccontate da sinistra a destra o dal basso in
alto possono pure essere lette da destra a sinistra o dall‟alto in basso, e
viceversa, tenendo conto che le stesse carte presentandosi in un diverso
ordine spesso cambiano significato, e il medesimo tarocco serve nello stesso
tempo a narratori che partono dai quattro punti cardinali”77.
Marco Polo e Kublai Kan, ne Le città invisibili, sperimentano la
stessa arbitrarietà dei significati, dal momento che, nelle pedine degli
scacchi, viene perduto completamente il legame diretto tra segno e cosa: «A
ogni pezzo si poteva volta a volta attribuire un significato appropriato: un
cavallo poteva rappresentare tanto un vero cavallo quanto un corteo di
carrozze, un esercito in marcia, un monumento equestre; e una regina poteva
75
Ibidem, p. 231.
Cfr. Italo Calvino, Leggerezza, in Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo
millennio, cit., pp. 20-21.
77
Cfr. Italo Calvino, Il castello dei destini incrociati, cit., p. 41.
76
52
essere una dama affacciata al balcone, una fontana, una chiesa dalla cupola
cuspidata, una pianta di mele cotogne»78.
Alla correlazione strutturale di tipo saussuriano tra segno e
contenuto, arbitraria e convenzionale, si sostituisce l‟inferenza associativa e
congetturale, nel senso della “semiosi infinita” peirceana, caratteristica,
secondo Eco, della logica rizomatica e del pensiero enciclopedico79: il
significato diventa così per Marco Polo un processo che rinvia ogni segno a
tutta una serie di soggetti interpretanti diversi o di possibili significati nuovi,
alla infinita “quantità di cose che si potevano leggere in un pezzetto di legno
liscio e vuoto”80.
Oltre al venir meno di un unico senso, contropartita inevitabile della
ricchezza di sensi possibili che caratterizza il testo plurale, un‟altra
conseguenza della natura topologica, parziale, dello spazio è l‟assenza di un
centro unico, la proliferazione dei centri che si localizzano nei punti in cui,
di volta in volta, si trova il soggetto, diventando, così, mobili.
Anche ne Le città invisibili il soggetto porta con sé il centro nel suo
spostamento fittizio: è il centro in cui si deve penetrare, il luogo del
compimento della ricerca, una dimensione immaginaria più che reale,
soprattutto nel caso di Marco Polo, che, nel suo viaggio, ha cercato ovunque
le tracce di Venezia, città che non si identifica in nessun luogo fisico
determinato ma che attiva sempre nuovi nodi e connessioni.
Analogamente, nella rete ipertestuale il “decentramento” dello
spazio, che produce un soggetto desomatizzato fisicamente nello slittamento
verso l‟esterno e risomatizzato nei “personaggi” e nei luoghi virtuali con cui
interagisce in modo multidirezionale, corrisponde alla relativizzazione della
conoscenza del testo, legata non tanto all‟esplorazione della globalità,
quanto piuttosto al raggiungimento dello scopo che ha guidato la lettura,
sempre nei termini di una costruzione attiva del significato, di un fare che
serve a sapere.
78
Italo Calvino, Le città invisibili, cit., pp. 127-128.
Cfr. Umberto Eco, Dizionario versus Enciclopedia, in Semiotica e filosofia del
linguaggio, Einaudi, Torino 1984, pp. 107-108.
80
Cfr. Italo Calvino, Le città invisibili, cit., p. 140.
79
53
All‟idea di un agire conoscitivo rimanda l‟immagine della
scacchiera, che ne Le città invisibili orizzontalizza il viaggio di Marco Polo
e risemantizza ancora una volta il Furioso, letto da Calvino come
“un‟immensa partita a scacchi che si gioca sulla carta geografica del mondo,
una partita smisurata che si dirama in tante partite simultanee”, pur con la
consapevolezza che “le mosse d‟ogni personaggio si susseguono secondo
regole fisse come per i pezzi degli scacchi”81.
Gli scacchi, indicati già da Sklovskij come metafora del congegno
della letteratura avventurosa82, comportano una formalizzazione dello
spazio, dei personaggi e delle loro avventure, vissute come partite: il
rapporto tra la realtà e il soggetto si risolve in una fruizione tattica, in una
“metafisica dei luoghi” che non è più astratta, verticale, ma orizzontale,
“non più di essenza, ma di posizione”83, nella quale i personaggi vengono
identificati dai loro percorsi, facendo coincidere la soggettività con un
valore topologico, con la posizione costruita linguisticamente attraverso
l‟intreccio84.
Le città invisibili si configurano come un vero e proprio “testo
spaziale”, caratterizzato da un tempo plurimo e ramificato, simile a quello
del Web, e nel quale “la finzione delusa delle epopee è divenuta il potere
rappresentativo del linguaggio”85: all‟idea calviniana di una totalità
“potenziale, congetturale, plurima” si somma la volontà di “tessere una rete
che leghi l‟esperienza custodita nei libri durante i secoli a quel pulviscolo
d‟esperienza che attraversiamo giorno per giorno nelle nostre vite e che ci
risulta sempre più inafferrabile e indefinibile”86.
Se, da un lato, nella semantizzazione dello spazio possiamo
individuare l‟eco della semiotica topologica di Greimas, dall‟altro
ritroviamo l‟eredità ariostesca nella tensione a trasferire “a livello di
81
Cfr. Italo Calvino, L‟Orlando Furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino,
cit., p. 87.
82
Cfr. Viktor Borisovic Sklovskij, Una teoria della prosa: l‟arte come artificio, la
costruzione del racconto e del romanzo (1925), tr. it., De Donato, Bari 1966, p. 67.
83
Cfr. Tzvetan Todorov, Critica della critica. Un romanzo di apprendistato (1984), tr.it.,
Einaudi, Torino 1986, p. 98.
84
Cfr. anche Walter Binni, Metodo e poesia di Ludovico Ariosto e altri studi ariosteschi,
La Nuova Italia, Firenze 1996.
85
Cfr. Michael Foucault, Le parole e le cose. Un‟archeologia delle scienze umane (1966),
tr.it., Rizzoli, Milano 1998 (nuova ed.), p. 63.
86
Cfr. Italo Calvino, Il libro, i libri, in Saggi 1945-85, tomo II, cit., p. 1852.
54
organizzazione fantastica della materia l‟accostamento percettivo della
realtà, nel quale la successione delle manifestazioni accentua la presenza
degli oggetti, che si mostrano in tutte le loro facce”87.
L‟accento posto sul nominalismo, su una poetica dei segni invece
che dei referenti, che porta a descrivere lo spazio per visibilia, mette tuttavia
in rilievo l‟impossibilità di un rapporto trasparente tra il linguaggio
letterario e la realtà e quindi la precarietà costitutiva del linguaggio, a cui
allude il tassello vuoto nel quale approda la “partita a scacchi” tra Marco
Polo e Kublai Kan: in modo analogo, l‟articolata macchina del Furioso
sembra incepparsi nel Palazzo incantato del mago Atlante, il “vortice di
nulla” che si trova al centro del poema, come un trabocchetto, che attira e
inghiotte i suoi personaggi principali, rifrangendone tutte le immagini88.
È inevitabile pensare a questo nucleo vuoto quando Marco Polo
confessa a Kublai Kan che “è delle città come dei sogni: tutto
l‟immaginabile può essere sognato ma anche il sogno più inatteso è un rebus
che nasconde un desiderio, oppure il suo rovescio, una paura. Le città come
i sogni sono costruite di desideri e di paure, anche se il filo del loro discorso
è segreto, le loro regole assurde, le prospettive ingannevoli, e ogni cosa ne
nasconde un‟altra”89: città come Zobeide, Ersilia, Smeraldina o Ottavia
esprimono articolazioni precarie di rapporti intricati che cercano una forma,
sono una “ragnatela di sogni e desideri e invidie” che, a ogni “contatto”, si
attivano e si dissolvono nel nulla, per poi “ritornare a celarsi nelle nostre
menti, nel labirinto dei pensieri”90, proprio come avviene nel castello di
Atlante, immagine perfetta anche per descrivere il fitto reticolo
dell‟universo ipertestuale, attivato dai desideri e dalle esperienze soggettive
di chi lo percorre, e perciò in qualche modo sempre precario e centrato fuori
di sé, nella vita dei suoi “utenti”.
L‟ “iperlabirinto” del castello di Atlante, così come quello de Le
città invisibili, nei quali spazio “interno” e spazio “esterno” sono annodati
l‟uno nell‟altro inestricabilmente, ripropongono l‟ossessione del labirinto
87
Cfr. Giovanna Barlusconi, op. cit., pp. 101-102.
Cfr. Italo Calvino, L‟Orlando Furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino,
cit., p. 167.
89
Cfr. Italo Calvino, Le città invisibili, cit., p. 50.
90
Cfr. Italo Calvino, Ariosto: la struttura dell‟Orlando Furioso, in Saggi 1945-85, tomo I,
cit., p. 767.
88
55
gnoseologico che assilla Calvino, ma anche il rilievo dell‟ Erlebnis, di una
contingenza dei vissuti che scardina e mette continuamente in discussione le
“forme dell‟illusione”, rivelando il dramma di una ricerca perennemente
inappagata, di un‟azione condannata a ripetersi all‟infinito, senza avere mai
esito: in questo modo, emerge tuttavia “la struttura dei destini umani, per la
prima volta in narrato, iuxta propria principia”91, rivissuti nella prospettiva
orizzontale del percorso della memoria, in un movimento digressivo che
traduce la natura sempre sfuggente del desiderio.
Ponendosi il problema “se ciò che veramente conta sia il lontano
punto d‟arrivo, il traguardo finale fissato dalle stelle, oppure siano il
labirinto interminabile, gli ostacoli, gli errori, le peripezie che danno forma
all‟esistenza”, Calvino individua nel castello di Atlante il fulcro del discorso
ariostesco, nel quale il “ritmo dei possibili” e la ripetizione variata degli
eventi rivelano “la coscienza della volubilità della vita e dei suoi possibili
esiti”92, motivo conduttore di tutto il Furioso e della sua struttura digressiva,
come ha sottolineato anche Giovanna Barlusconi: «La legge sottesa al
Furioso è l‟esigenza di recuperare una pienezza originariamente perduta,
una ricerca che, procedendo secondo una struttura regressiva ed avvolgente,
anche nel momento in cui ritrova il termine del desiderio, l‟ha modificato, in
una quête, che è continua metamorfosi del reale e quindi intrinseca
impossibilità di ritrovamento del „già accaduto‟, di per sé inafferrabile.
Questa legge non è solo oggettivata nelle inchieste amorose dei singoli
cavalieri, non è quindi solo rappresentata, ma costituisce, come si vuole
mostrare, la stessa modalità ordinatrice dell‟opera, il ritmo secondo cui la
materia poetica si scandisce e si coagula»93.
La rifunzionalizzazione calviniana del poema cavalleresco è
strettamente legata alla volontà di definire un “atlante della natura umana”,
attraverso una letteratura che sappia “rimettere in gioco tutto quel che
91
Cfr. Italo Calvino, L‟Orlando Furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino,
cit., p. 61.
92
Cfr. Giorgio De Blasi, L‟Orlando Furioso e le passioni (studio sul motivo poetico
fondamentale dell‟ “Orlando Furioso”), in “Giornale Storico della Letteratura Italiana”,
129 (1952), 3-4, p. 340.
93
Giovanna Barlusconi, op. cit., p. 65.
56
abbiamo dentro e tutto quel che abbiamo fuori”94 e che quindi non si
riconosce più in una dimensione astrattamente allegorica, sostituendo alla
95
“illusione cavalleresca” la “verità del romanzo”: la totalità dell‟unità epica
si frantuma in una “Labirintic plenitude”96, in una forma più complessa di
totalità che deriva non più dall‟unità di una Bildung che si compie nel
romanzo, ma da una molteplicità di percorsi che si intrecciano, nei quali lo
scrittore ricerca l‟imparzialità di punti di vista diversi, e quindi l‟integralità
dell‟esistenza stessa.
In questa prospettiva, la logica ipertestuale, innestata sul modello
ariostesco, si rivela densa di potenzialità espressive e congeniale a una
visione dell‟opera letteraria come “destino”, spazio dell‟esperienza in cui si
realizza la lukácsiana “utopia del momento storico”, in quanto rifiuta un
unico ordine narrativo “verticale”, fondandosi invece sulla molteplicità
“orizzontale” degli ordini narrativi possibili, sulla consapevolezza che ogni
narrazione è soltanto una tra le infinite narrazioni possibili che nascono dai
continui e imprevedibili intrecci delle “vite degli individui della specie
umana”97.
94
Cfr. Mario Lavagetto, Introduzione a Italo Calvino, Sulla fiaba, Einaudi, Torino 1988, p.
XXVI.
95
Cfr. Edoardo Sanguineti, La macchina narrativa dell‟Ariosto (1974), in Il chierico
organico. Scritture e intellettuali, Feltrinelli, Milano 2000, p. 70.
96
Cfr. Michael Shapiro, The poetics of Ariosto, Wayne University Press, Detroit 1988, p.
43.
97
Cfr. Pieter De Mejer, La prosa narrativa moderna, in Alberto Asor Rosa (a cura di),
Letteratura italiana, vol. III, Einaudi, Torino 1984, p. 820.
57
I. 2) Il ritmo dell’avventura
L‟
“avventura
globale
del
mondo
cortese-cavalleresco”98
rappresentato da Ariosto è all‟origine anche della passione di Calvino per il
romanzo d‟avventura come forma romanzesca per eccellenza, attraverso la
quale passa inevitabilmente la possibilità di raccontare ancora il presente e il
senso dell‟azione dell‟uomo nella storia, come strumento per ritrovare la
propria essenza in un universo che ha smarrito il senso della vita come
totalità: «Il romanzo è la forma dell‟avventura, il valore proprio
dell‟interiorità, il suo contenuto è la storia dell‟anima che si mette in
cammino per conoscere se stessa, che cerca l‟avventura per mettersi,
attraverso questa, alla prova e, dopo essersi verificata in essa, ritrovarvi la
propria essenza”99.
La matrice dei romanzi d‟avventura è costituita dalle “fiabe di
prova”, incentrate sul tema della realizzazione di sé attraverso la figura della
maturazione raggiunta affrontando un‟avventura che svela al personaggio la
sua verità essenziale attraverso la riduzione della realtà, in senso galileiano,
a una serie di “cimenti”: protagonista di queste fiabe è spesso un bambino,
emblema dell‟essere umano incompiuto, così come i personaggi calviniani
rappresentano tutti casi esemplari di incompiutezza, combattuti tra il
tentativo di affermazione della propria presenza nel mondo e la
rassegnazione all‟omologazione e all‟eteronomia.
Oltre a essere “vere” per il fatto di rappresentare il “destino” di un
uomo o di una donna, le fiabe diventano un modello di realismo per la loro
capacità di sintetizzare azione, moralità, giudizio, intelligenza: il racconto
perfetto è quindi quello in cui si incarna “lo stampo delle favole più remote:
il bambino abbandonato nel bosco o il cavaliere che deve superare incontri
con belve e incantesimi, resta lo schema insostituibile di tutte le storie
umane, resta il disegno dei grandi romanzi esemplari in cui una personalità
morale si realizza muovendosi in una natura e in una società spietate”100.
98
Cfr. Sergio Zatti, Il Furioso tra epos e romanzo, cit., p.14.
György Lukács, Teoria del romanzo, cit., p. 118.
100
Cfr. Italo Calvino, Introduzione a Fiabe italiane, Einaudi, Torino 1956, p. XVI.
99
58
I personaggi di Calvino non sono quasi mai interamente umani, ma
sono “esseri umani smascherati, il cui aspetto esteriore riproduce
emblematicamente una determinata condizione storico-esistenziale”101: si
tratta spesso di una condizione di mancanza, di incompiutezza o di
privazione
a
cui
bisogna
porre
rimedio,
come
nel
caso
del
“danneggiamento” che, secondo Propp, è l‟unica funzione comune a tutte le
fiabe di magia e che stimola l‟eroe ad affrontare l‟infinita varietà di
incredibili avventure che costituisce l‟intreccio della favola.
A questa tipologia si possono far risalire il visconte Medardo, colpito
da una palla di cannone che ha separato la sua metà buona da quella cattiva,
il giovane Cosimo, che rifiuta di vivere in società per rifugiarsi sugli alberi,
riuscendo anche a vivere una storia d‟amore e a incontrare Napoleone, il
cavaliere Agilulfo, che non c‟è ma sa di esserci, sempre accompagnato dallo
scudiero Gurdulù, che invece c‟è ma non lo sa, fino all‟estremo del Qfwfq
cosmicomico, un‟identità astratta, perennemente mutante e desiderante, che
riduce il personaggio a una funzione.
Non si tratta tuttavia di un repertorio di iniziazioni riuscite, visto che
è più facile incontrare stati di sospensione, di dubbio, per cui l‟asse del
racconto si sposta verso un futuro incerto, fino ad assottigliare sempre di più
quella speranza, ormai disincantata, che rimane come principio etico
irrinunciabile e dalla quale riparte la necessità di un atteggiamento di
continua ricerca, di disponibilità a mettere alla prova i propri valori e le
proprie conoscenze, sempre nella consapevolezza della loro imperfezione e
inadeguatezza: è la condizione dell‟eroe novecentesco dopo l‟Ulysses di
Joyce, che non ha più un‟Itaca a cui tornare, per cui il racconto si risolve
nell‟epopea problematica della sua identità, nella mancanza di un altrove
reale a cui tendere.
Nello stesso tempo, viene messa in discussione la circolarità
finalistica del romanzo di formazione, che vede nella quest dell‟eroe una
101
Cfr.Mario Barenghi, Il fiabesco nella narrativa di Calvino, in Dante Frigessi (a cura di),
Inchiesta sulle fate. Italo Calvino e la fiaba, Lubrina, Bergamo 1988, p. 65.
59
esperienza iniziatica che lo trasforma102 e lo porta a una “epifania del senso”
con il conseguente “superamento dell‟alienazione”103: non è più possibile
delimitare un processo esaustivo, tipico di una cultura dinamica moderna,
ma, in termini gadameriani, “il risultato della Bildung […] sussiste come
permanente processo di sviluppo e formazione ulteriore”104, come dimostra
il finale sospeso del Il barone rampante.
Il modello narrativo della fiaba come racconto di un destino si
riflette in Calvino nella predilezione per un tratto determinato di una
singolare esperienza umana, senza indugiare sull‟introspezione psicologica
o sulla connotazione sociologica del suo personaggio, ma valorizzando i
punti cruciali delle prove e delle scelte che meglio evidenziano la tensione
tra il protagonista e il mondo esterno, secondo un‟impostazione che per lo
scrittore rappresenta “un atto di moralità letteraria” e che si identifica
essenzialmente con la giovinezza, momento delle scelte per eccellenza: «Ma
il personaggio del ragazzo era entrato nella letteratura dell‟Ottocento per il
bisogno di continuare a proporre all‟uomo un atteggiamento di scoperta e di
prova, una possibilità di trasformare ogni esperienza in vittoria, come è
possibile solo al fanciullo»105.
Nell‟affermazione dell‟invenzione singola come strumento di
conoscenza della realtà che svela rapporti sempre inattesi e nuove gerarchie
e in cui l‟immaginazione non è mai puramente decorativa e fine a se stessa,
ma si accompagna sempre a una vigile e serrata sorveglianza critica e
razionale, Calvino rilancia il ruolo insostituibile della letteratura e la
necessità che essa tragga conoscenza da tutti i rami del sapere e
dell‟esperienza umana, anche dai discorsi scientifici, trasformando lo
straniamento in momento conoscitivo: «Mi interessa della fiaba il disegno
lineare della narrazione, il ritmo, l‟essenzialità,il modo in cui il senso di una
vita è contenuto in una sintesi di fatti, di prove da superare, di momenti
supremi. Così mi sono interessato al rapporto tra la fiaba e le più antiche
102
Cfr. Paola Cabibbo e Annalisa Goldoni, Per una tipologia del romanzo d‟iniziazione, in
Paola Cabibbo (a cura di), Sigfrido nel nuovo mondo. Studi sulla narrativa d‟iniziazione, La
Goliardica, Roma 1983, pp. 13-14.
103
Cfr. Franco Moretti, Il romanzo di formazione, Garzanti, Milano 1986, pp. 102-103.
104
Cfr. Hans-Georg Gadamer, Verità e metodo (1960), tr. it., Fabbri, Milano 1972, pp. 3142.
105
Italo Calvino, Natura e storia nel romanzo (1958), in Una pietra sopra. Discorsi di
letteratura e società, cit., p. 36.
60
forme di romanzo, come il romanzo cavalleresco del Medioevo e i grandi
poemi del nostro Rinascimento»106.
Quest‟affermazione testimonia la molteplicità di riferimenti con cui
Calvino lavora, che si estendono dal poema cavalleresco al romanzo
picaresco e d‟avventura, dalla novella al conte-philosophique: si tratta di
diverse forme narrative accomunate dal loro essere indipendenti o
periferiche rispetto alla tradizione del realismo romanzesco dell‟Ottocento,
ormai inadeguato al nuovo contesto epistemologico novecentesco.
Il rifiuto del linguaggio narrativo realistico ottocentesco e la
riluttanza a tracciare un quadro globale della vita della collettività sociale,
sono dunque il punto di partenza della strategia narrativa unilineare che
accomuna l‟opera calviniana al genere fiabesco, determinando la centralità
di un unico protagonista che si muove in un contesto spazio-temporale
vaghissimo. L‟essenza dell‟essere umano si rivela così nel suo confrontarsi
con l‟oggettività delle cose: ne deriva un senso di isolamento e di estraneità
curiosamente legato a un atteggiamento decisamente esplorativo di forte
apertura verso la realtà, che si realizza tramite l‟azione e la riflessione107.
Oltre a rifiutare soluzioni avanguardistiche, che
avrebbero
necessariamente comportato una restrizione del pubblico, Calvino
ricontestualizza i materiali della tradizione letteraria nell‟opera concreta,
subordinandoli al suo progetto originale di scrittore: in questo modo la
tensione verso la leggerezza come “reazione al peso del vivere”108
determina la scoperta di una connessione tra l‟immaginario popolare orale
su cui si fonda la fiaba, e la funzione esistenziale della letteratura.
Lo schema antropologico originario del bambino abbandonato nel
bosco da solo che deve affrontare il mondo, è anche quello alla base de Il
sentiero dei nidi di ragno, in cui Pavese, già nel 1947, individuò un tono
fiabesco-naturale, caratteristico anche degli altri racconti ispirati alla
Resistenza: «Stimolato da una materia spessa e opaca, caotica e tragica,
106
Italo Calvino, Tre correnti del romanzo italiano d‟oggi (1959), in Una pietra sopra.
Discorsi di letteratura e società, cit., p. 67.
107
Cfr. Michail Bachtin, Il romanzo di educazione e il suo significato nella storia del
realismo, in L‟autore e l‟eroe. Teoria letteraria e scienze umane (1979), tr. it., Einaudi,
Torino 1988, pp. 195-211.
108
Cfr. Italo Calvino, Leggerezza, in Lezioni americane. Se proposte per il prossimo
millennio, cit., p. 37.
61
passionale e totale, - la guerra civile, la vita partigiana, da lui vissuta sulla
soglia dell‟adolescenza, - Italo Calvino ha risolto il problema di trasfigurarla
e farne racconto calandola in una forma fiabesca e avventurosa, di
quell‟avventuroso che si dà come esperienza fantastica di tutti i ragazzi»109.
In questa prima fase, l‟aspirazione sthendaliana a scrivere romanzi
d‟azione in cui “ciò che ci interessa sopra ogni altra cosa sono le prove che
l‟uomo attraversa e il modo in cui le supera”110, trova nelle vicende della
Resistenza la sua cornice ideale e ribadisce la feconda contaminazione del
genere fiabesco con altri apporti riconducibili a una sequenza HemingwaySthendal-Ariosto, che rimarrà sempre per Calvino il riferimento della
felicità del narrare e della pienezza dell‟ispirazione: «Senza volerlo, mi
accadde fin dagli inizi, mentre mi ponevo come maestri i romanzieri
dell‟appassionata e razionale partecipazione attiva alla Storia, da Sthendal a
Hemingway e a Malraux, di trovarmi verso di loro nell‟atteggiamento (non
parlo si capisce di valori poetici ma solo d‟atteggiamento storico e
psicologico) in cui Ariosto si trovava verso i poemi cavallereschi: Ariosto
che può vedere tutto soltanto attraverso l‟ironia e la deformazione
fantastica»111.
L‟ “imperativo” del romanzo sulla Resistenza, che avrebbe dovuto
concentrarsi su un eroe positivo e rifondare “una letteratura come epica,
carica d‟un‟energia che fosse insieme razionale e vitale, sociale ed
esistenziale, collettiva e autobiografica”112, ovvero un‟epica fattiva, sul
modello di Defoe, Melville e Whitman, si salda con la tradizione del
romanzo picaresco, non solo ribadendo la tendenza ariostesca alla
contaminazione ma riconoscendo, implicitamente, l‟impossibilità di
un‟epica nel senso classico: «Le deformazioni della lente espressionistica si
proiettano in questo libro sui volti che erano stati di miei cari compagni. Mi
studiavo di renderli contraffatti, irriconoscibili, „negativi‟, perché solo nella
„negatività‟ trovavo un senso poetico. E nello stesso tempo provavo
109
Cesare Pavese, “Il sentiero dei nidi di ragno”, in “L‟Unità”, ed. romana, 26 ottobre
1947, ora in Id., La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino 1962, p. 123.
110
Cfr. Italo Calvino, Il midollo del leone (1955), in Una pietra sopra. Discorsi di
letteratura e società, cit., p. 19.
111
Cfr. Italo Calvino, Tre correnti del romanzo italiano d‟oggi (1959), in Una pietra sopra.
Discorsi di letteratura e società, cit., p. 68.
112
Ibidem, p. 67.
62
rimorso, verso la realtà tanto più variegata e calda e indefinibile, verso le
persone vere, che conoscevo come tanto umanamente più ricche e migliori,
un rimorso che mi sarei portato dietro per anni»113.
Come aveva già notato Hegel, nello spazio narrativo del romanzo,
moderna epopea borghese, viene meno la condizione di un mondo
originariamente poetico propria dell‟epos, perché la realtà si risolve in
prosa, nella quale l‟universalità è sostituita da fini particolari e le avventure
sono mere accidentalità nel regno dell‟illusorio e dell‟arbitrario: «Questa
relatività dei fini in un ambiente relativo, la cui determinazione e
complicazione non si trova nel soggetto, ma si determina esteriormente e
accidentalmente, introducendo collisioni accidentali e ramificazioni
intrecciantisi reciprocamente in modo fuori dell‟ordinario, costituisce,
dunque, l‟avventuroso, che per la forma degli eventi e delle azioni offre il
tipo fondamentale del romantico»114.
Ariosto e Cervantes sono per Hegel gli autori nei quali si compie
l‟eclissi del mondo cavalleresco, dove “tutta questa avventurosità si mostra
[…] tanto nelle sue azioni ed avvenimenti, quanto nelle sue conseguenze,
come un mondo che si dissolve in se stesso e quindi come un mondo comico
di eventi e destini”115: se il primo sviluppa soprattutto il lato favoloso
dell‟avventura, che resta in fondo solo un lieve divertimento, il secondo
elabora invece il lato romanzesco, intrecciando in una cornice di esplicita
ironia “una serie di autentiche novelle romantiche, tese a conservare nel suo
vero valore quel che il resto del romanzo dissolve comicamente”116.
Nell‟ Estetica hegeliana l‟avventurosità è quindi ormai espressione
della cattiva infinità priva di scopo, di una deriva nell‟indeterminato: in un
panorama nel quale l‟epos è inattuale, l‟eroe avventuroso moderno,
nostalgico di una totalità perduta, è volto allo scacco e ad approdi mai
definitivi, sancendo l‟inesorabilità di un meccanismo narrativo ripetitivo e,
nello stesso tempo, insensato, nel quale non gli resta altro da fare che “agire
113
Cfr. Italo Calvino, Prefazione 1964 a Il sentiero dei nidi di ragno, cit., p. XII.
Cfr. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Estetica, a cura di Nicolao Merker, Einaudi,
Torino 1967, p. 657.
115
Ibidem, p. 661.
116
Ibidem, p. 662-663.
114
63
per agire”, senza poter scalfire l‟invincibile prosaicità del mondo o
realizzare un‟opera in se stessa fondata.
Il romanzo popolare e d‟avventura riflette quindi la trasposizione di
un problema stereometrico, insolubile in superficie, nello spazio: la tematica
epico-cavalleresca, privata della sua originaria generalità speculativa, è
costretta a trasferirsi nel concreto spazio letterario, a mutare la propria
funzione, assumendo le strutture narrative di un “genere” e le leggi della sua
trasformazione.
Analogamente a quanto afferma Hegel, Calvino attribuisce al
personaggio di Don Chisciotte un ruolo fondativo rispetto all‟epica
moderna, con il quale entra in gioco “una soggettività interna al mondo
scritto”: «Il personaggio di Don Chisciotte rende possibile lo scontro e
l‟incontro tra due linguaggi antitetici, anzi tra due universi letterari senza
alcun punto in comune: il meraviglioso cavalleresco e il comico picaresco, e
apre una dimensione nuova, anzi due: un livello di realtà mentale
estremamente complessa e una rappresentazione ambientale che possiamo
chiamare realistica, ma in un senso del tutto nuovo rispetto al “realismo”
picaresco che era repertorio d‟immagini stereotipe di miseria e
bruttezza»117.
Per Foucault il personaggio di Cervantes traccia il “negativo” del
mondo rinascimentale, perché con esso la scrittura ha cessato di essere
“prosa del mondo”, referenziale, e “i segni del linguaggio non hanno più
come valore che la tenue finzione di ciò che rappresentano”, introducendo
una irreparabile frattura tra parole e cose: «[…] le somiglianze e i segni
hanno sciolto la loro antica intesa; le similitudini deludono, inclinano alla
visione e al delirio; le cose restano ostinatamente nella loro ironica identità:
sono soltanto quello che sono; le parole vagano all‟avventura, prive di
contenuto, prive di somiglianza che le riempia; non contrassegnano più le
cose; dormono tra le pagine dei libri in mezzo alla polvere. La magia, che
consentiva la decifrazione del mondo scoprendo le somiglianze segrete sotto
i segni, non serve più che a spiegare in termini di delirio perché le analogie
sono sempre deluse. […] La realtà di Don Chisciotte non è nel rapporto tra
117
Italo Calvino, I livelli della realtà in letteratura(1978), in Una pietra sopra. Discorsi di
letteratura e società, cit., p. 319.
64
parole e mondo, ma nella tenue e costante relazione che i segni verbali
intrecciano da sé a sé. La finzione delusa delle epopee è divenuta il potere
rappresentativo del linguaggio. Le parole si sono chiuse sulla loro natura di
segni»118.
Il Don Chisciotte è un modello ideale per Calvino, perché in esso si
combinano la concatenazione, ovvero la serialità virtualmente aperta
all‟infinito degli episodi (che può essere considerata un retaggio derivante
dai romanzi picareschi) e la tecnica dell‟inserzione di novelle a incastro, più
propriamente
legata
alla
tradizione
epico-cavalleresca,
con
un‟accentuazione del ruolo dell‟intreccio che comporta la riduzione dei
personaggi a funzioni, come nella fiaba, testimoniando lo svuotamento dei
paradigmi epici: «Don Chisciotte è un personaggio dotato d‟una iconicità
inconfondibile e d‟una ricchezza interiore inesauribile. Ma non è detto che
un personaggio per adempiere alla funzione di protagonista debba avere
necessariamente tanto spessore. La funzione del personaggio può
paragonarsi a quella di un operatore, nel senso che questo termine ha in
matematica. Se la sua funzione è ben definita, egli può limitarsi a essere un
nome, un profilo, un geroglifico, un segno»119.
Nel passaggio dal Gordon Pym di Poe a Conrad lo schema del
romanzo d‟avventure di derivazione robinsoniana120 raggiunge un punto di
non-ritorno, interrompendo la narrazione alle soglie della rivelazione e
spingendo la ragione in spazi non più misurabili: viene così sovvertita la
circolarità tipica della “epistemologia avventurosa”, che prevede il ritorno al
punto di partenza e la ricomposizione dell‟ordine.
Calvino stesso sottolinea come per Conrad sembri irreversibile la
trasformazione dei valori che informano l‟agire sociale, perché “l‟eroe
marinaio e coloniale d‟un tempo, avventuriero leale e cavalleresco”
scompare e cede il passo a una torma di funzionari di compagnie coloniali,
senza moralità o con utopistici ideali, che finiscono “insabbiati nella
118
Marcel Foucault, Le parole e le cose. Un‟archeologia delle scienze umane (1966), tr.it.,
Rizzoli, Milano 1996, pp. 62-63.
119
Italo Calvino, I livelli della realtà in letteratura(1978), in Una pietra sopra. Discorsi di
letteratura e società, cit., p. 385.
120
Cfr. Guido Fink, L‟isola che non c‟era, in “Paragone”, XXX, 350, aprile 1979, pp. 4-21.
65
colonia”121, per cui l‟etichetta di letteratura avventurosa si rivela inadeguata
e sminuisce la narrativa dello scrittore polacco: «Joseph Conrad in Italia è
più nominato che letto. O meglio, i suoi lettori più che nel “pubblico colto”
sono tra i clienti delle bancarelle che ricomprano i suoi romanzi nei rossi
volumi Sonzogno, in mezzo ai libri d‟avventure di Zane Gray o di Curwood.
Ma l‟avventura, in Conrad, è solo la buccia: che egli fu uno scrutatore
d‟anime da stare a petto di Dostoevskij (pur odiato da lui), un felicissimo
inventore di storie e figure e atmosfere, e uno dei principali artefici, con
James e Proust, della rivoluzione (e crisi) nella tecnica narrativa alla fine del
secolo scorso (il romanzo marinaro con lui non ha più il suo centro
d‟interesse nell‟avventura, ma nel commento psicologico e nella sfumata
ricerca della memoria)»122.
Oltre a documentare la ricezione popolare di Conrad e la grande
diffusione del romanzo d‟avventura negli anni della sua formazione,
Calvino tocca indirettamente la questione dei modelli del genere: per
Falcetto l‟anglofilia è una vera e propria “vena carsica” nella produzione
dello scrittore ligure, mai ammessa esplicitamente, seguendo la quale è
possibile esplorare in modo nuovo la sua “percezione del mondo”123.
Quando afferma che “nella nuova idea di letteratura che smaniavo di
fare rivivevano tutti gli universi letterari che m‟avevano incantato dal tempo
dell‟infanzia in poi”124, Calvino pensa probabilmente a Kipling, a Conrad, a
Stevenson e a Hemingway: si tratta di classici che hanno fornito i modelli
per la formalizzazione delle esperienze successive, dei veri e propri “occhi o
libri-occhi”125 aperti sull‟esperienza, che confermano la veridicità di quella
formazione cosmopolita dello scrittore sanremese che darebbe ragione
anche dell‟eccentricità delle sue scelte narrative.
Come conferma Paolo Spriano, che conobbe Calvino dopo il
trasferimento a Torino nell‟autunno del 1945, lo scrittore era “il più colto”
tra i suoi “compagni coetanei” per il fatto che “non si era soltanto nutrito di
121
Italo Calvino, Joseph Conrad scrittore poeta e uomo di mare, in “L‟Unità”, 6 agosto
1949; ora è in Id., Saggi 1945-85, cit., tomo I, p. 812.
122
Ibidem, p. 811.
123
Cfr. Bruno Falcetto, La tensione dell‟esistenza. Vitalismo e razionalità in Calvino dal
Sentiero allo Scrutatore, in Mario Boselli (a cura di), Italo Calvino/1, in “Nuova Corrente”,
XXXIV, 99, gennaio-giugno 1987, p. 55.
124
Italo Calvino, Prefazione 1964 a Il sentiero dei nidi di ragno, cit., p. IX.
125
Ibidem.
66
Hemingway, di Steinbeck, di Faulkner, di Sartre, di Vittorini, come tutti
noi”, ma “conosceva a fondo la letteratura, la grande letteratura russa,
inglese, francese, italiana” e “aveva anche una mentalità scientifica”126.
Calvino stesso ci parla delle sue letture cosmopolite e dei suoi gusti
non sempre propriamente colti, rivelando che “ogni giovane scrittore
italiano del tempo rivolgeva la sua attenzione al panorama delle lettere,
piuttosto che alla tradizione nazionale”127: «[...] allora leggevo una quantità
di autori inglesi. E anche di russi, tradotti in entrambi i casi. Adesso leggo
romanzi inglesi e americani in lingua originale. [...] Lessi libri che sono nei
programmi scolastici e poi una quantità di autori stranieri tradotti. [...] Lo
specialista legge nell‟area che gli è propria mentre un lettore giovane legge
racconti d‟avventura, romanzi umoristici e romanzi gialli. In altre parole,
legge i libri che veramente lo interessano e, prima della guerra, i libri che
suscitavano il maggiore interesse non erano italiani. Così stanno le cose»128.
Il mito americano, la narrativa inglese e russa hanno lo stesso valore
tra i sistemi di riferimento cui guarda Calvino, il quale non si limita ai
modelli canonici usati dai neorealisti e dai romanzieri a lui contemporanei,
spesso accusati di essere imitatori passivi dei romanzieri americani, a
differenza di Calvino che, ne Il sentiero dei nidi di ragno, voleva fondere
Hemingway e Stevenson, come notò già Pavese nel 1947 e come attesta lo
stesso autore nella Prefazione alla terza edizione dell‟opera, nel 1964,
negando la supposta frattura tra produzione neorealista e vena allegoricofantastica proprio nella constatazione di una continuità dei modelli ispiratori
a cui si richiamano le sue prime opere: «Scrissi Il Visconte dimezzato nel
1951 e mi richiamavo a Robert Louis Stevenson, che ebbe sempre su di me
una forte influenza. Ma pure nel Sentiero dei nidi di ragno, ora mi pare di
ricordare, affermavo di voler riscrivere Per chi suona la campana e L‟isola
del tesoro come unico libro»129.
126
Cfr. Paolo Spriano, Le passioni di un decennio (1946-56), Garzanti, Milano 1986, p. 15.
Cfr. Guido Almansi, Intervista a Italo Calvino, in Mario Boselli (a cura di), Italo
Calvino/2, in “Nuova Corrente”, XXXIV, 100, luglio-dicembre 1987, p. 391.
128
Ibidem, p. 392.
129
Ibidem, p. 393.
127
67
Per Calvino il romanzo realista, come genere letterario tout court, è
“un‟importazione dall‟estero”130: si tratta di un‟affermazione importante che
precisa anche il significato tutto particolare che per lo scrittore assume il
“realismo”, sempre in bilico tra “realismo a carica fiabesca” e “fiaba a
carica realistica”131, due polarità che oscillano continuamente nelle sue
opere e che creano una continuità tra Il sentiero e la trilogia de I nostri
antenati, alla quale segue la sterzata realistica rappresentata da La
speculazione edilizia e da La nuvola di smog, caratterizzate tuttavia dalla
stessa “carica epica e avventurosa, di energia fisica e morale” individuabile
nelle opere fino al 1959132.
Oltre a Stevenson e a Hemingway e più che a Verne o a Salgari, ne Il
sentiero Calvino si rivolge a Il primo libro della Giungla di Rudyard
Kipling, il primo libro che ha letto e che colloca i suoi esordi già sotto il
segno dell‟anglofilia letteraria e di un superamento di qualsiasi pregiudizio
della letteratura colta nei confronti della narrativa “per ragazzi”: «Il primo
vero piacere della lettura d‟un vero libro lo provai abbastanza tardi: avevo
già dodici o tredici anni, e fu con Kipling, il primo e (soprattutto) il secondo
libro della Giungla. [...] Da allora in poi avevo qualcosa da cercare nei libri:
vedere se si ripeteva quel piacere della lettura provato con Kipling»133.
Pavese riconosce subito la matrice kiplinghiana de Il sentiero,
evidenziando che nel libro la vita partigiana viene descritta come “una
favola di bosco, clamorosa, variopinta, „diversa‟”, e che l‟ “astuzia” di
Calvino, “scoiattolo della penna” è stata quella di trasfigurare le vicende
personali sotto il filtro dell‟inverosimiglianza134, come del resto indica
chiaramente il punto di vista straniato di Pin: «Abbiamo ancora la testa
piena di miracoli e di magie, pensa Kim. Ogni tanto gli sembra di
130
Ibidem.
Il celebre giudizio di Vittorini compare nel risvolto alla prima edizione de Il visconte
dimezzato, Einaudi, Torino 1952; viene poi riportato in Natalino Sapegno, Introduzione a
Italo Calvino, in Giorgio Bertone (a cura di), Italo Calvino: la letteratura, la scienza, le
città, Marietti, Genova 1988, p. 18.
132
Cfr. Mario Lavagetto, Little is left to tell, in Dovuto a Calvino, Bollati Boringhieri,
Milano 2001, p. 101.
133
Si tratta della testimonianza presente in un manoscritto inedito, citato da Jean
Starobinski nella prefazione a Italo Calvino, Romanzi e racconti, vol. I, a cura di Mario
Barenghi e Bruno Falcetto, Mondadori, Milano 1993, p. LXV.
134
Cfr. Cesare Pavese, “Il sentiero dei nidi di ragno”, in “L‟Unità”, ed. romana, 26 ottobre
1947, ora in Id., La letteratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino 1962, p. 124.
131
68
camminare in un mondo di simboli, come il piccolo Kim in mezzo all‟India,
nel libro di Kipling tante volte riletto da ragazzo»135.
Nello stesso tempo, già nel primo romanzo si profila la centralità
della funzione mitopoietica “come energetica del desiderio, come
prefigurazione del desiderio realizzato, come aggressione alla dimensione
infernale in cui si vive”136, con una funzione indirettamente politica: «La
Resistenza fece credere possibile una letteratura come epica, carica
d‟un‟energia che fosse insieme razionale e vitale, sociale ed esistenziale,
collettiva e autobiografica»137.
Calvino stesso definisce Il sentiero “composito” e “spurio” e
sottolinea l‟originalità della sua operazione nella rilettura critica fatta nella
Prefazione del 1964, quando è ormai venuta meno la polemica sulla
“rispettabilità” della Resistenza e sulla verosimiglianza della sua
rappresentazione
storica:
«Direi
che
volevo
combattere
contemporaneamente su due fronti, lanciare una sfida ai detrattori della
Resistenza e nello stesso tempo ai sacerdoti d‟una Resistenza agiografica ed
edulcorata»138.
L‟intento di Calvino viene esplicitato anche ne La letteratura
italiana sulla Resistenza, in cui lo scrittore coglie un altro nodo
fondamentale che sta alla base del Sentiero, ovvero la rifondazione di un
romanzo d‟avventura italiano, che possa esprimere la stessa sintesi tra
esigenze di consumo, tradizione colta e dimensione orale, presente nel
romanzo d‟avventure anglosassone, sempre nell‟ottica gramsciana della
creazione di una letteratura nazional-popolare: «Il racconto partigiano forse
un giorno avrà posto in un capitolo della nostra storia letteraria, come le
cronache garibaldine del secolo scorso: ma più ancora che in quelle si può
ravvisare in esso un interessante fenomeno di “letteratura di massa” quale
l‟Italia non ne conosceva forse (esclusa la tradizione poetica dialettale)
dall‟epoca dei poemi cavallereschi e della novellistica classici. Spesso
135
Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 116.
Cfr. Gianni Celati, Protocollo d‟una riunione tenuta a Bologna nel dicembre 1968, in
Mario Barenghi e Marco Belpoliti (a cura di), “Alì Babà”. Progetto di una rivista, 19681972, in “Riga”, 14, Marcos y Marcos, Milano 1998, p. 58.
137
Italo Calvino, Tre correnti del romanzo italiano d‟oggi (1959), in Una pietra sopra.
Discorsi di letteratura e società, cit., p. 51.
138
Id., Prefazione 1964 a Il sentiero dei nidi di ragno, cit., p. XIII.
136
69
patetico e insieme truculento, il racconto partigiano nasce da una tradizione
orale (l‟episodio vissuto e raccontato che fa a poco a poco il giro d‟ogni
vallata e d‟ogni formazione) e ha avuto come trascrittori un numero
stragrande di giovani sparsi in tutta Italia, che talvolta non avevano alcuna
velleità né astuzia letteraria, e talvolta ne avevano fin troppa, ma sia gli uni
sia gli altri sono riusciti a far la parte del poeta anonimo»139.
Inevitabilmente Calvino si deve confrontare con il Pinocchio di
Collodi, un vero e proprio classico “maggiore” che colma due fondamentali
lacune della letteratura italiana, a cui sono mancati sia il romanzo picaresco
sia il romanticismo fantastico e “nero”: «[…] alla letteratura italiana è
mancato il romanzo picaresco (forse solo la vita del Cellini potrebbe esser
chiamata a riempire la casella; oltre beninteso un eletto manipolo di novelle
del Decamerone), e Pinocchio libro di vagabondaggio e di fame, di locande
mal frequentate e sbirri e forche, impone il clima e il ritmo dell‟avventura
picaresca italiana con un‟autorità e una nettezza come se questa dimensione
fosse sempre esistita e dovesse esistere sempre»140.
Il libro di Collodi, nel quale Calvino riconosce il proprio bisogno di
“continuare a proporre all‟uomo un atteggiamento di scoperta e di prova,
una possibilità di trasformare ogni esperienza in vittoria, come è possibile
fare solo al fanciullo”141, è stato l‟unico vero romanzo di massa
dell‟Ottocento, capace di unificare in qualche modo il pubblico e di creare
un‟identità nazionale, come vorrebbe fare anche Calvino con Il sentiero, sul
modello dei grandi romanzi d‟avventura anglossassoni: «Il segreto di questo
libro, in cui sembra che nulla sia calcolato, che la trama sia decisa volta per
volta a ogni puntata di quel settimanale (con varie interruzioni, una volta
come se fosse finito con la morte del burattino impiccato; ma com‟era
possibile fermarsi lì?), sta nella necessità interna del suo ritmo, della sua
sintassi d‟immagini e metamorfosi, che fa sì che un episodio debba seguire
un altro in una concatenazione propulsiva. […] Da ciò nasce il potere
139
Italo Calvino, La letteratura italiana sulla Resistenza, in “Il movimento di liberazione in
Italia”, I; 1, luglio 1949; ora è in Id., Saggi 1945-85, tomo I, cit., p. 1495.
140
Id., Ma Collodi non esiste, in “la Repubblica”, 19-20 aprile 1981; col titolo Carlo
Collodi,“Pinocchio”, è ora in Id., Saggi 1945-85, tomo I, cit., p. 802.
141
Cfr. Id., Natura e storia nel romanzo (1958), in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura
e società, cit., p. 36.
70
genetico del Pinocchio, almeno a mia esperienza, perché da quando ho
cominciato a scrivere l‟ho considerato un modello di narrazione
d‟avventura; ma credo che la sua influenza, cosciente o più spesso
inconscia, andrebbe studiata su ogni scrivente della nostra lingua, dato che
questo è il primo libro che tutti incontrano dopo l‟ “abecedario” (o
prima)»142.
Nell‟ottica
di
un‟interpretazione
esistenziale
dell‟archetipo
romanzesco come “avventura e solitudine d‟un individuo sperduto nella
vastità
del
mondo,
verso
una
iniziazione
e
autocostruzione
interiore”143Pinocchio è anche il testo che più di ogni altro rappresenta il
romanzo di formazione: nel Sentiero, Pin “dà unità narrativa al racconto
camminando sullo stesso itinerario di formazione di Pinocchio, dal legno al
bambino, dalla natura alla coscienza storica”144.
Nel confronto con il modello collodiano emerge la stessa esigenza di
sperimentare il senso del mondo e restituirlo nelle sue dinamiche essenziali,
rendendo conto anche della trama immaginaria che anima le azioni, parte
vitale che mette in moto la narrazione e veicolo di esperienza, dal momento
che attraverso la favola nasce la storicità determinata dei personaggi e degli
eventi, producendo un effetto di distanziamento dall‟immediatezza del
vissuto che è la condizione fondamentale perché ci sia il racconto: «Nella
sospensione dell‟esperienza vissuta, proiettata nell‟atemporalità della fiaba,
è possibile scorgere ciò che non è soltanto cronaca senza orizzonte, ma il
piano unitario di senso che dalla favola conduce alla storia, incorporando il
senso originario e ontologico dell‟uomo. Il bambino diventa la radice della
storia e di ciò che nella storia rimane come fondo e fondamento, non
rimuovibile o cancellabile pena la distruzione stessa della possibilità
dell‟uomo di essere e fare storia. Il simbolo più originario diventa l‟origine e
il pegno, il fine dell‟avventura e della storia. Nella radicalità simbolica della
favola, perciò, si prendono le distanze non soltanto dal proprio vissuto, da
una confusa identità di autobiografia e storia, dalla pretesa di rappresentare
142
Id., Carlo Collodi,“Pinocchio”,cit., p. 803.
Cfr. Italo Calvino, Intervista di Maria Corti, II, 6, ottobre 1985, p. 48; ora è anche in Id.,
Saggi 1945-85, tomo II, cit., p. 2921.
144
Cfr. Antonio Gagliardi, Pin e il suo doppio, in Giorgio Barberi Squarotti (a cura di), Lo
specchio che deforma: le immagini della parodia, Tirrenia Stampatori, Torino 1988, p. 335.
143
71
immediatamente la storia, si prendono le distanze anche dall‟architesto
letterario rovesciandone i fantasmi interni in possibilità reale di cogliere il
senso del proprio tempo»145.
In queste acute parole di Gagliardi è racchiuso il nocciolo del
realismo calviniano che ricorre al fiabesco non soltanto perché riconosce la
irriducibile prosaicità del reale e l‟impossibilità contemporanea dell‟epos,
ma anche, e soprattutto, per superare un‟ottica che potrebbe essere troppo
legata alla propria autobiografia e interpretare meglio un punto di vista
collettivo, nel quale possa identificarsi un‟intera generazione e quindi, di
conseguenza, un largo pubblico di lettori: «[…] sapevo bene che tanti grandi
avvenimenti storici sono passati senza ispirare nessun grande romanzo, e
questo anche durante il “secolo del romanzo” per eccellenza; sapevo che il
grande romanzo del Risorgimento non è mai stato scritto… Sapevamo tutto,
non eravamo ingenui a tal punto: ma credo che ogni volta che si è stati
testimoni o attori d‟un‟epoca storica ci si sente presi da una responsabilità
speciale…/A me, questa responsabilità finiva per farmi sentire il tema come
troppo impegnativo e solenne per le mie forze. E allora, proprio per non
lasciarmi mettere in soggezione dal tema, decisi che l‟avrei affrontato non di
petto ma di scorcio. Tutto doveva essere visto dagli occhi d‟un bambino, in
un ambiente di monelli e vagabondi. Inventai una storia che restasse in
margine alla guerra partigiana, ai suoi eroismi e sacrifici, ma nello stesso
tempo ne rendesse il colore, l‟aspro sapore, il ritmo…»146.
La stessa esigenza di sdoppiamento, che motiva il ricorso al fiabesco
senza tuttavia allontanare l‟opera dalla sua storicità situazionale147,
caratterizza il passaggio dal Sentiero a Il barone rampante, dove la
concezione calviniana di realismo è ancora quella assimilata dalla narrativa
avventurosa di Stevenson e consiste in una capacità di vedere il mondo con
lo sguardo di chi vede le cose per la prima volta, cosicché il volo
dell‟immaginazione non sia frenato dalla constatazione di una negatività del
reale che conduce alla produzione di una “letteratura del negativo”: di fronte
145
Ibidem, p. 334.
Italo Calvino, Prefazione 1964 a Il sentiero dei nidi di ragno, cit., p. XIII.
147
Cfr. Luciano Anceschi, Dei generi letterari, in Progetto di una sistematica dell‟arte,
Mursia, Milano 1968, pp. 65-73.
146
72
alla formula protettiva148 di un genere ipercodificato e usurato, lo scrittore
inglese riattinge alla salute profonda dell‟infanzia e, grazie alla sua inesausta
immaginazione, non si lascia imbrigliare nelle secche del manierismo.
Nella narrativa stevensoniana la levità della prosa acquista spessore
etico proprio attraverso la poetica del daydream, del sogno a occhi aperti,
nel quale il testo si riempie di immagini fortemente emblematiche che
inducono il lettore a una sosta, generando un processo di agnizione, un
cortocircuito della memoria che innesca, a sua volta, una sequenza di
immagini appartenenti al vissuto del lettore, ripensato così in una nuova
prospettiva: «[…] uno scrittore […] non farà altro che mostrarci l‟apoteosi e
la sublimazione dei sogni ad occhi aperti dell‟uomo comune. I suoi racconti
possono essere alimentati dalla realtà della vita, ma il loro scopo e la loro
caratteristica più vera consisteranno nella vocazione a rispondere ai desideri
inconfessati e indistinti del lettore, a seguire la logica ideale del sogno. […]
Le sparse fila della vicenda, di tanto in tanto, arrivano a intrecciarsi, a
coagularsi in un‟immagine che si disegna sulla tela; i personaggi assumono
qua e là un atteggiamento [...] che sigilla il racconto e lo imprime nella
nostra mente con la ferma immutabilità di un‟illustrazione riuscita»149.
La potenza sprigionata dal daydream è legata strettamente alla natura
universale delle figurazioni utilizzate che si iscrivono nel patrimonio mitico
dell‟immaginario collettivo, evocando situazioni di immediata “leggibilità”
e alta densità simbolica che contraddistinguono anche il funzionamento dei
testi delle forme di comunicazione di massa: «Crusoe che si ritrae di fronte
all‟impronta di un piede, Achille che inveisce contro i Troiani [...] queste
scene assolute, che impongono il sigillo definitivo della verità sulla vicenda
e soddisfano in un sol colpo tutte le nostre capacità di piacere e di
partecipazione, le adottiamo subito dentro di noi»150.
Il rischio che le immagini emblematiche si identifichino con
“ingredienti narrativi logori” viene evitato dalla penna leggerissima di
Stevenson che, con una scossa narrativa, infonde nuova vita ai suoi eroi
148
Cfr. Ludwig Binswanger, Tre forme di esistenza mancata. Esaltazione fissata,
stramberia, manierismo (1956), tr.it., Garzanti, Milano 1978, p. 203.
149
Robert Louis Stevenson, A proposito del “romance”, in L‟isola del romanzo, a cura di
Guido Almansi, Sellerio, Palermo 1987, pp. 29-30.
150
Ibidem, p. 30.
73
ogni volta che “Hawkins, il ragazzo, diventa come tutti i protagonisti di
romanzi per l‟infanzia un troppo facile collezionista d‟imprese eroiche
quanto fortunate”151, cioè nel momento in cui il racconto sta per scivolare
nel romanzo d‟appendice: «[…] il libro, privo di quel fondo d‟esperienza
vera, paesistica, che lo sosteneva al principio, rischia spesso la caduta nel
romanzo d‟appendice vero e proprio, e sempre si salva per la sua
meravigliosa leggerezza, per la grazia con cui i colori della scena, lo scorrer
via delle frasi, lo scattare dei sentimenti riempiono l‟attenzione del lettore di
qualcosa che va al di là del prevedibile interesse per l‟intreccio./ L‟ironia di
Stevenson accompagna la storia senza mai far sentire il suo peso, e ogni
tanto sbotta in trovate caricaturali nutrite d‟una esperta tipizzazione
inglese»152.
Rispetto al romanzo d‟avventure l‟atteggiamento di Stevenson è
analogo a quello che Ariosto e Cervantes avevano preso nei confronti della
letteratura cavalleresca: non essendo più possibile credere ai valori eroici
dell‟epica, l‟adozione di una “tensione fantastica infantile” è l‟unico modo
per non cadere nello stereotipo, nelle tautologie della letteratura
commerciale ed è, insieme, l‟unica alternativa alla “letteratura del
negativo”, ovvero al decadentismo.
L‟inserimento nel contenuto “ingenuo” della vicenda di una
componente ironica e di una disposizione pensosa è dovuto alla necessità di
mantenere una distanza critica senza la quale verrebbe meno lo spessore
etico e l‟efficacia cognitiva del daydream: è lo stesso meccanismo che opera
nella trilogia de I nostri antenati, dove Calvino proietta la sua coscienza in
un protagonista altro o “doppio” che osservi il mondo con lo sguardo
sognante di un ragazzo per comprendere a fondo il funzionamento del sogno
a occhi aperti, il suo valore di scarto rispetto alla realtà.
Nel caso di Calvino, l‟attivazione del daydream è legata a una
circostanza molto concreta della sua infanzia, ovvero il trasporto delle ceste
dal podere paterno a Sanremo, narrato ne La strada di San Giovanni,
durante il quale lo scrittore sentiva il bisogno di evadere, di trovarsi altrove:
151
Italo Calvino, L‟isola del tesoro ha il suo segreto, in “L‟Unità”, 1 aprile 1955; ora è in
Id., Saggi 1945-85, tomo I, cit., p. 969.
152
Ibidem.
74
«E io? Io credevo di pensare ad altro. Cos‟era la natura? Erbe, piante,
luoghi verdi, animali. Ci vivevo in mezzo e volevo essere altrove. Di fronte
alla natura restavo indifferente, riservato, a tratti ostile. E non sapevo che
stavo anch‟io cercando un rapporto, forse più fortunato di quello di mio
padre, un rapporto che sarebbe stata la letteratura a darmi, restituendo
significato a tutto, e d‟un tratto ogni cosa sarebbe divenuta vera e tangibile e
possedibile e perfetta, ogni cosa di quel mondo ormai perduto»153.
Oltre che con la letteratura, l‟altrove viene identificato con il mare e
il
cinema,
due
spazi
analoghi
che
rappresentano
il
“viaggio”
dell‟immaginazione, rispettivamente in senso fisico e mentale, e che
richiamano una dimensione simbiotica, simile al ventre materno, in cui
spazio e tempo sono fusi, incorporati: «Spazio-tempo: è questa la
dimensione totale e unica di un universo fluido [...] un oceano liquido [dove]
gli oggetti sorgono, saltano, scompaiono, sbocciano, si ritraggono»154.
Nel periodo in cui Calvino scopre il cinema, tra il 1936 e il 1940,
diventa sempre più urgente nello scrittore il bisogno di evasione, di trovare
un “altrove” dal Fascismo e dalla quotidianità, corrispondente alle grandi
energie e alla voglia di avventura della giovinezza: «[…] certo a me il
cinema allora serviva a quello, a soddisfare un bisogno di spaesamento, di
proiezione della mia attenzione in uno spazio diverso, un bisogno che credo
corrisponda ad una funzione primaria dell‟inserimento nel mondo, una tappa
indispensabile d‟ogni formazione. Certo per crearsi uno spazio diverso ci
sono anche altri modi, più sostanziosi e personali: il cinema era il modo più
facile e a portata di mano, ma anche quello che istantaneamente mi portava
più lontano»155.
Durante l‟adolescenza il cinema, soprattutto quello americano,
rappresenta per Calvino “il mondo”: «Un altro mondo da quello che mi
circondava, ma per me solo ciò che vedevo sullo schermo possedeva la
proprietà d‟un mondo, la pienezza, la necessità, la coerenza, mentre fuori
dello schermo s‟ammucchiavano elementi eterogenei che sembravano messi
153
Italo Calvino, La strada di San Giovanni, in La strada di San Giovanni, Mondadori,
Milano 1990, p. 32.
154
Edgar Morin, Il cinema o l‟uomo immaginario (1956), tr.it, Silva, Milano 1962, pp. 7778.
155
Ibidem.
75
insieme per caso, i materiali della mia vita che mi parevano privi di
qualsiasi forma»156.
Quella di Calvino è una seduzione che Blanchot definisce
“fascinazione”. Il suo momento privilegiato è l‟infanzia, età dell‟oro che
sembra immersa in una luce splendida perché non rivelata: «[…] essa è
estranea alla rivelazione, non ha niente da rivelare, è puro riflesso, raggio
che non è ancora altro che l‟irradiarsi di un‟immagine. Forse la potenza
della figura materna trae il suo splendore dalla potenza stessa della
fascinazione, e si potrebbe dire che se la madre esercita questa attrazione
affascinante è perché apparendo quando il fanciullo vive completamente
sotto lo sguardo della fascinazione, essa concentra in sé tutti i poteri
dell‟incantesimo. Il fanciullo è affascinato, e per questo la madre è
affascinante, e per questo tutte le impressioni della prima età hanno qualche
cosa di fisso che dipende dalla fascinazione»157.
La fascinazione è “passione dell‟immagine”, è la condizione in cui
l‟immagine ci parla ed esprime l‟inaccessibile, avvincendoci non con la
chiarezza di un discorso razionale, ma con la forza di un desiderio
inesauribile: «Ciò che ci affascina ci toglie il potere di dare un senso,
abbandona la sua natura “sensibile”, abbandona il mondo, si ritrae al di qua
del mondo, attirandoci, non si rivela più a noi e tuttavia si afferma in una
presenza estranea al presente del tempo e alla presenza nello spazio»158.
L‟immaginario è “l‟area assoluta, là dove la cosa ridiventa
immagine, dove l‟immagine, da allusione a una figura, diventa allusione a
ciò che è senza figura, e, da forma disegnata sull‟assenza, diventa l‟informe
presenza di quest‟assenza, l‟apertura opaca e vuota su ciò che c‟è quando
non c‟è più mondo, quando non c‟è ancora mondo”159. E‟ il momento in cui
regna “l‟interminabile, l‟incessante”, nel “tempo dell‟assenza di tempo”,
dove tutto ricomincia a ogni istante e non ha mai fine.
L‟immagine non è un oggetto che possiamo possedere, ma ci
possiede, né può essere in nessun modo riassorbita nel mondo: pur nella
156
Italo Calvino, Autobiografia di uno spettatore, in La strada di San Giovanni, cit., p. 41.
Maurice Blanchot, Lo spazio letterario (1955), tr.it., Einaudi, Torino 1967, p. 18.
158
Ibidem, p. 17.
159
Ibidem, p. 19.
157
76
somiglianza in rapporto al mondo, essa invoca un altrove inafferrabile,
irrecuperabile, e “non ha niente a che vedere col significato, col senso, come
lo implicano l‟esistenza del mondo e lo sforzo della verità, la legge e la
chiarezza del giorno”160.
La stessa fascinazione dell‟immagine caratterizza la “preistoria”
cinematografica di Calvino. Il cinema della sua infanzia è una forma di
spettacolo che comunica essenzialmente per immagini, attraverso presenze e
rapporti di presenza: è quello che Tom Gunning e altri hanno definito “il
cinema delle attrazioni”161.
Anche nella letteratura il linguaggio diventa completamente
immagine: è la sua propria immagine, si parla a partire dalla propria
assenza, come l‟immagine appare sull‟essenza della cosa.
Le parole sono immagini, immagini di parole e parole in cui le cose
si fanno immagini: «Scrivere è disporre il linguaggio sotto la fascinazione,
e, per mezzo di esso, restare in contatto con l‟area assoluta, là dove la cosa
ridiventa immagine, dove l‟immagine, da allusione ad una figura, diventa
allusione a ciò che è senza figura, e, da forma disegnata sull‟assenza,
diventa l‟informe presenza di questa assenza, l‟apertura opaca e vuota su ciò
che è quando non c‟è più mondo, quando non c‟è ancora mondo»162.
Dal cinema e dai romanzi di Stevenson Calvino impara a
narrativizzare la sua ansia di un altrove, attraverso la creazione di un
personaggio che è un “altro da sé”, nel quale vengono spostati e condensati i
tratti del soggetto creatore: si tratta di un processo di sdoppiamento che
spiega anche le modalità del processo di fruizione dell‟opera, perché è la
predisposizione al doppio a consentirci l‟immedesimazione nel personaggio
letterario o cinematografico che diventa quindi un nostro alter ego, nel
quale proiettiamo il sogno di vivere altre vite in altri luoghi.
Al pericolo che l‟immedesimazione si risolva in un‟estetica del
rispecchiamento, conducendo il lettore all‟immobilismo e alla stasi, ovvero
al pensiero tragico che “le cose vanno avanti da sole”, Calvino oppone il
160
Ibidem, p. 228.
Cfr. Tom Gunning, D. W. Griffith and the origin of American narrative film: the early
years at Biograph, University of Illinois Press, Urbana 1991, ma anche André Gaudreault,
Il cinema delle origini, o della cinematografia-attrazione, Il Castoro, Milano 2004.
162
Maurice Blanchot, op. cit., p. 19.
161
77
modello estetico di Stevenson, il quale, pur scrivendo romanzi d‟avventura,
non ha mai rinunciato a una consapevolezza critica sul proprio lavoro,
indicando la strada da percorrere attraverso la metafora del salire sugli
alberi: «Perché osservare l‟uomo è lo stesso che corteggiare l‟inganno.
Vedremo il tronco dal quale egli trae nutrimento; ma lui stesso è più su e
fuori tra la cupola verde delle foglie, percorso dai venti e abitato dagli
usignoli. E il vero realismo sarebbe quello dei poeti, salirgli dietro come uno
scoiattolo e cogliere qualche sprazzo del paradiso che gli dà vita»163.
La “sospensione” di cui parla Stevenson è la stessa condizione scelta
da Cosimo ne Il barone rampante, una figura attraverso la quale Calvino
esplicita la sua idea di realismo in letteratura, marcando le distanze sia dal
descrittivismo pseudo-scientifico di Zola sia dall‟estetismo di Wilde e
affermando un orientamento autonomo, individuato già da Pavese
nell‟articolo per “L‟Unità” del 1947.
Oltre che in Stevenson, Calvino ritrova la sua tensione alla
sospensione in Conrad, tematizzando nei suoi personaggi la difficoltà a
rappresentarsi
come
altro
dell‟uomo
novecentesco,
rappresentato
emblematicamente da Lord Jim che è “sospeso tra due immagini del caos;
quella della natura, o del cosmo, un universo buio e senza senso; e quella
del fondo oscuro dell‟uomo, del suo inconscio, del suo senso del
peccato”164.
L‟esplorazione del mare dei capitani conradiani è molto lontana dalla
carica vitalistica dei romanzi di Stevenson: il viaggio non evoca più il
daydream, ma fantasmi di dissoluzione che rivelano lo scollamento, ormai
inevitabile, tra la volontà e l‟eccesso contemplativo, tra la dimensione dello
specchio, della proiezione “avventurosa”, e quella del presente che reclama
rapidità di pensiero e di azione, affinché la volontà si realizzi.
Con Conrad si è consumata la scissione dell‟eroe, la crisi della
progettualità
della
sua
immaginazione
e
quindi
l‟impossibilità
dell‟identificazione, come emerge, per esempio, nella descrizione del
163
Robert Louis Stevenson, I lanternai, in Romanzi, Racconti e Saggi, a cura di Attilio
Brilli, Mondadori, Milano 1982, p. 1925.
164
Cfr. Italo Calvino, Natura e storia nel romanzo (1958), in Una pietra sopra. Discorsi di
letteratura e società, cit., p. 34.
78
marinaio che adempie alle sue funzioni: «Il suo posto era sulla coffa di
trinchetto, e spesso da lì, con lo sprezzo dell‟uomo destinato a brillare in
mezzo ai pericoli, abbassava lo sguardo sulla pacifica ressa dei tetti tagliata
in due dal corso scuro del fiume [...] e in lontananza aveva lo splendore
indistinto del mare e la speranza di una vita movimentata nel mondo
dell‟avventura»165.
Al sogno a occhi aperti di Stevenson, che conferisce spessore alla
narrazione e porta a uno stato di consapevolezza rispetto alla realtà, si
sostituisce una sorta di ipnosi allucinata della coscienza, nella quale Calvino
vede l‟altro polo della sua esperienza di intellettuale, l‟incapacità di
rappresentarsi e giustificare il proprio operato, che si traduce in un
meccanismo di identificazione imperfetta, simile a quello di cui Morin parla
sempre in relazione al cinema: «[…] siamo presi dal sentimento profondo,
contraddittorio, della nostra somiglianza e della nostra dissomiglianza. Ci
sembriamo contemporaneamente esterni e identici a noi stessi, io e non io,
cioè in fin dei conti ego alter. O in meglio o in peggio il cinematografo,
nella registrazione e nella riproduzione di un soggetto, sempre lo trasforma,
lo ricrea in una seconda personalità, il cui aspetto può turbare la coscienza al
punto da condurla a chiedersi: Chi sono? Dov‟è la mia vera identità? […]Il
primo segno dello sdoppiamento è infatti quello di reagire, fosse anche
impercettibilmente, dinanzi a noi stessi. Più spesso noi ridiamo e il riso
indica più della sorpresa. È la reazione polivalente dell‟emozione. [...] Noi
reagiamo sovente come se l‟obiettivo potesse strapparci la nostra maschera
sociale e rivelare ai nostri occhi e agli altrui la nostra anima non
confessata»166.
Anche per Calvino l‟umorismo è una reazione all‟impossibilità di
una identificazione perfetta (e quindi romanzesca) con il proprio doppio
sullo schermo della finzione, un‟ altra modalità della sua strategia narrativa
per mantenere la distanza critica che fa evitare l‟immedesimazione
sclerotizzante del lettore, come si poteva individuare già nello straniamento
in senso umoristico del paradigma picaresco ne Il sentiero dei nidi di ragno:
165
166
Joseph Conrad, Lord Jim (1900), tr. it., Garzanti, Milano 1989, p. 11.
Edgar Morin, op. cit., pp. 34-35.
79
«Quel che cerco nella trasfigurazione comica o ironica o grottesca o
fumistica è la via d‟uscire dalla limitatezza e univocità d‟ogni
rappresentazione e ogni giudizio. Una cosa si può dirla almeno in due modi:
un modo per cui chi la dice vuol dire quella cosa e solo quella; e un modo
per cui si vuol dire sì quella cosa, ma nello stesso tempo ricordare che il
mondo è molto più complicato e vasto e contraddittorio»167.
Contro l‟ipotesi lukácsiana di un‟estetica del rispecchiamento,
Calvino sembra condividere piuttosto l‟estetica di Brecht, sottolineando che
“un Brecht della narrativa non c‟è, purtroppo, e questo suo modo di
intendere il teatro si è continuamente tentati di trasporlo, di tradurlo in altri
termini per la narrativa”168: ne Il barone rampante, avviene questo
trasferimento, favorito anche dalla contemporanea presa di coscienza dei
meccanismi combinatori delle fiabe e della natura essenzialmente seriale e
ripetitiva della creazione artistica.
Brecht ha reso consapevole Calvino della necessità di un
coinvolgimento attivo del lettore nel testo, una prospettiva che consente di
uscire sia dall‟impasse del rispecchiamento, e quindi di una fittizia verità
unica e inconfondibile, sia da quello del relativismo e dell‟identitificazione
mistificante del punto di vista del lettore con quello dello scrittore: «Anche
se la narrazione non si propone altro fine che di creare un‟atmosfera lirica, è
solo con la collaborazione del lettore che questa nasce, perché l‟autore può
solo limitarsi a suggerirla; anche se non si propone altro che un gioco, lo
stare al gioco presuppone sempre un atto critico»169.
Sempre nell‟ottica di una rappresentazione del proprio tempo, la
“chiusura” dell‟epica tradizionale si rivela inadeguata, perché il soggetto è
immerso in un mondo più stratificato e complesso, che impone allo scrittore
di rappresentare nuove situazioni esistenziali: «Adesso per convincerci di
una intramontabile signoria del romanzo abbiamo bisogno di leggere
Lukács, lasciarci prendere dalla sua classicistica fede nei generi, dal suo
167
Italo Calvino, Definizioni di territori: il comico (1967), in Una pietra sopra. Discorsi di
letteratura e società, cit., pp. 191-192.
168
Cfr. Italo Calvino, Le sorti del romanzo, in “Ulisse”, X, vol. IV, 24-25, autunno-inverno
1956-57; ora è in Id., Saggi 1945-85, tomo I, cit., p. 1514.
169
Id., Risposte a 9 domande sul romanzo, in “Nuovi Argomenti”, 38-39, maggio-agosto
1959, pp. 6-12; ora è in Id., Saggi 1945-85, tomo I, cit., p. 1523.
80
nitido senso dell‟epica. Ma, usciti dall‟Ottocento, il suo ideale estetico
s‟appanna d‟una soffice patina di noia: non vi ritroviamo il nervosismo, la
fretta del nostro vivere, cui hanno risposto non più il romanzo costruito, ma
il taglio lirico del romanzo breve, o la novella giornalistica e cruda in cui
Hemingway eccelse, come la perfetta misura della nuova epica»170.
L‟esigenza di una nuova epica viene espressa anche ne Il midollo del
leone, con una sottolineatura della necessità di tematiche nuove che
affrontino i nodi del presente e della quotidianità: «Alle ricerche d‟un dio
ignoto nel confuso ritmo delle città nuove e antiche, preferiamo la ricerca di
qualche avaro seme di verità nel ritmo ben più scandito e lineare d‟una
esistenza, d‟una avventura, d‟un amore, su uno sfondo che resti dietro ai
personaggi, non si sovrapponga a loro, e che proprio per questo suo esser
dietro, essere in margine, esser di pochi segni, acquisti verità e evidenza»171.
In Hemingway stesso, come in Conrad, il motivo tipico dell‟epica e
del romanzesco in generale, ovvero il confronto dell‟uomo con la natura
circostante, pur iscrivendosi ancora nel mito della giovinezza e del
pragmatismo del mondo americano, rivela la scissione del protagonista che
non è più in grado di riconoscersi nella totalità dell‟eroe classico, in cui la
volontà si traduceva direttamente in azione: «Anche per Hemingway ciò che
conta è il confronto con la natura, il coraggio, il saper essere all‟altezza della
situazione, come per Conrad, ma sotto tutto questo c‟è il vuoto. L‟eroe di
Hemingway vuole identificarsi con le azioni che compie, essere se stesso
nella somma dei suoi gesti, nell‟adesione a una tecnica manuale o
comunque pratica; cerca di non aver altro problema, altro impegno che il
saper fare bene la cosa che sta facendo: pescare, cacciare, far saltare un
ponte, fare bene l‟amore. Ma intorno, sempre, ha qualcosa cui vuole
sfuggire, un senso di vanità del tutto, di disperazione, di sconfitta, di morte.
Si concentra nella precisa osservanza del suo codice, di quelle regole
sportive che in qualsiasi situazione egli sente il bisogno di porsi con un
impegno che le fa identificare a regole morali, sia che si trovi a lottare con
170
Italo Calvino, Le sorti del romanzo, in “Ulisse”, X, vol. IV, 24-25, autunno-inverno
1956-57;ora è in Id., Saggi 1945-85, tomo I, cit., pp. 1512-13.
171
Italo Calvino, Il midollo del leone (1955), in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e
società, cit., p. 15.
81
uno squalo, sia che resista a un assalto di falangisti su un‟altura
spagnola»172.
Lo sdoppiamento evasivo (che ha un‟evidenza icastica soprattutto ne
Il visconte dimezzato e che ne Il cavaliere inesistente si esprime per
sottrazione) diventa nucleo tematico ed elemento strutturale del racconto:
«L‟unità epica del soggetto e dell‟oggetto nell‟essere-nel- mondo-deglialberi deve continuamente affermare la propria autonomia, e siccome questa
autonomia è, in ultima istanza, impossibile, si crea una continua tensione tra
il pericolo di distruggerla e la possibilità di ribadirla»173.
Da questo punto di vista, è necessario quindi correggere quella
“limitazione di giudizio critico” in base alla quale “si usa comunemente
pensare che il rapporto uomo-natura continui ad essere il tema di una
produzione minore, la narrativa d‟avventura”174: il termine „natura‟, che “è
sempre presente in ogni grande narratore”175, deve essere integrato
marxianamente con il termine „storia‟, anche se è ormai irraggiungibile una
“innocenza omerica” in cui si realizzi l‟ “intrinseca unità di individuo e
cosmo”176.
Il modello della fiaba, che serve a mettere a fuoco i momenti decisivi
della vita dei personaggi e a farne affiorare la verità esistenziale attraverso
le “prove” a cui sono sottoposti, conferisce una forte valenza simbolica agli
avvenimenti narrati, filtrati attraverso la razionalità lucida e geometrizzante
di un conte philosophique, ma non si “chiude” mai nella forma di un
Bildungsroman, dal momento che la quête non riesce a risolversi in
un‟acquisizione di significato stabile.
Oltre a essere debitrice di Hemingway, l‟idea calviniana di una
letteratura come epica fattiva discende direttamente dal teatro epico di
Brecht, nel quale la dialettica del reale mette in evidenza la scelta costruttiva
attraverso una intelligenza del negativo che considera anche le impurità e le
172
Id., Natura e storia nel romanzo, in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società,
cit., p. 43.
173
Cesare Cases, Calvino e il “pathos” della distanza, in “Città aperta”, II, 7-8, 1958; ora
è in Id., Patrie lettere, Einaudi, Torino 1987, p. 163.
174
Cfr. Italo Calvino, Natura e storia nel romanzo, in Una pietra sopra. Discorsi di
letteratura e società, cit., p. 24.
175
Ibidem.
176
Cesare Cases, Calvino e il “pathos” della distanza, cit., pp. 161-162.
82
contraddizioni e consolida nello spettatore-lettore la fiducia nella propria
capacità di influire sul reale, rappresentando la realtà non come “dato”, ma
come punto di arrivo di un processo di scelta.
Il protagonista de Il barone rampante (che coincide con il punto di
vista di Calvino), si comporta infatti come un attore del teatro epico che
strania l‟imperativo “non così-ma così” per sottolineare le ragioni delle
proprie scelte senza definirle una volta per tutte: l‟altrove, nel quale si
potrebbero sperimentare gli effetti dell‟altrimenti, è letteralmente sottoposto
al giudizio di Cosimo, così come a quello del lettore.
Lo scrittore rivela i suoi travestimenti e suscita la meraviglia dei suoi
lettori trasognati mostrando i meccanismi di funzionamento dell‟opera, fino
alla dissoluzione della materia stessa dell‟avventura nella scomparsa finale
di Cosimo e del suo mondo: oltre a Brecht, Calvino risale a Sterne che nel
Tristram Shandy ha operato una sorta di “rivoluzione copernicana” nella
letteratura occidentale, dando rilievo all‟Io come “motivo essenziale e forma
della realtà”177.
Il ricorso all‟estetica brechtiana dello straniamento passa quindi
attraverso la prima codificazione settecentesca di questo processo eversivo,
nel quale si stabilisce un “rapporto di reciproca interrogazione” tra natura
del testo e storia del fruitore con il venir meno della successione
evenemenziale dell‟intreccio narrativo, che mette in evidenza la teatralità
della storia e impedisce l‟immedesimazione acritica del lettore nel punto di
vista espresso dal libro.
La quête del cavaliere dal naso spropositato della Novella di
Slawckenbergius di Sterne suscita gli stessi effetti provocati dalla scelta di
Cosimo di vivere sugli alberi: in entrambi i casi i discorsi sul “caso-limite”
diventano momenti di riflessione sullo statuto di realtà dell‟opera letteraria,
con un ventaglio di ipotesi la cui attendibilità non viene garantita mai in
modo definitivo dal narratore umorista.
Lo stratagemma del “caso-limite”, intorno al quale lo scrittore
costruisce una sorta di rappresentazione teatrale, rientra sempre nell‟ottica
177
Carlo Levi, Prefazione a Laurence Sterne, Tristram Shandy, Garzanti, Milano 1983, p.
X.
83
di una progettualità “antirealistica” e antilukácsiana, che trova conferma
nell‟avversione di Calvino verso le narrazioni tarate sull‟ “uomo medio”:
«Questo culto dell‟uomo qualsiasi, medio, mi comincia a dar proprio ai
nervi, non dice nulla di nuovo, perché ha già una storia letteraria fin troppo
lunga, e non documenta niente, perché i documenti veri sulla gente qualsiasi
si sono sempre fatti parlando dei non qualsiasi, dei casi-limite, dei migliori o
dei peggiori, che sono anche sempre gente più interessante e divertente»178.
Con il “caso-limite” di Cosimo, in particolare, Calvino realizza “il
sogno sterniano di una soggettività e di una libertà creatrice inesauribile,
dominante sulla scena del testo come un re assoluto e sfrenato nei propri
domini”179:
anche
in
Sterne
le
digressioni
dell‟io
antepongono
continuamente il racconto della vita delle idee a quello della vita dei
personaggi, diversamente da quanto avviene nei romanzi cosiddetti
“realistici”, dove è forte il condizionamento ideologico sotto la pretesa di
un‟intenzionalità meramente documentaria.
Con la stessa onestà intellettuale di Sterne, Calvino propone un
personaggio autobiografico che mette in discussione i principi della poetica
neorealista, dal momento che la nascita dell‟eroe, schiacciato dal peso delle
opinioni, viene continuamente rinviata, consentendogli tuttavia di vivere più
vite: «E, se non fosse che le mie opinioni saranno la mia morte, m‟accorgo
che sarà un bel divertimento a vivere questa mia vita, perché, insomma, ne
vivrò non una, ma due contemporaneamente»180.
In Sterne, come in Calvino, il narratore si dichiara apertamente non
degno di fede, in quanto la verità è sempre frutto di una “conversazione”
con il lettore, non è mai assoluta e non produce una proiezione perfetta e
acritica, come avveniva nel romanzo d‟avventure più tradizionale e nel
mondo dell‟epos: in questo senso è significativo il finale del Barone, in cui
il “tutto” osservato da Cosimo (non a caso uno spazio boschivo come quelli
di Kipling e Ariosto, con un ennesimo ammicco agli spazi dell‟avventura) si
rivela un “ricamo fatto sul nulla”, evidenziando che la visione soggettiva
178
Italo Calvino, I libri degli altri. Lettere 1947-81, a cura di Giovanni Tesio, Einaudi,
Torino 1991, p. 160.
179
Cfr. Giancarlo Mazzacurati, Il fantasma di Yorick, in Laurence Sterne, Un viaggio
sentimentale, a cura di Giancarlo Mazzacurati, tomo II, Cronopio, Napoli 1991, p. 162.
180
Laurence Sterne, Tristram Shandy, cit., p. 264.
84
delle cose può capovolgersi in assenza di visione o significato qualora non
vi sia un punto di vista esterno che confermi la loro veridicità.
Pur ammettendo di non essere un cultore della divagazione, nella
lezione Rapidità Calvino definisce la fioritura delle digressioni “la grande
invenzione di Laurence Sterne”: si tratta essenzialmente di “una strategia
per rinviare la conclusione, una moltiplicazione del tempo all‟interno
dell‟opera, una fuga perpetua”, ovvero di un modo per sfuggire la morte, per
non fossilizzarsi sul “dato” della realtà e sull‟immedesimazione del
rispecchiamento, per tenere sempre vivo e staccato dalle cose il “ritmo”
dell‟avventura, nel quale si traducono l‟istantaneità del pensiero e la velocità
mentale, la quale “vale per sé, per il piacere che provoca in chi è sensibile a
questo piacere, non per l‟utilità pratica che si possa ricavarne”181.
In realtà nella narrativa di Calvino opera lo stesso principio
digressivo, anche se trasferito nella dimensione delle immagini e vincolato
alla ricerca di un‟icasticità che dia spessore al “volo” dell‟immaginazione e
che fa riaffiorare l‟eredità stevensoniana e il mondo dell‟adolescenza con la
sua ricerca fantastica di un altrove, che poi si è espressa nella scrittura: «Il
mio lavoro di scrittore è stato teso fin dagli inizi a inseguire il fulmineo
percorso dei circuiti mentali che catturano e collegano punti lontani dello
spazio e del tempo. Nella mia predilezione per l‟avventura e la fiaba
cercavo sempre l‟equivalente d‟un‟energia interiore, d‟un movimento della
mente. Ho puntato sull‟immagine, e sul movimento che dall‟immagine
scaturisce naturalmente, pur sempre sapendo che non si può parlare d‟un
risultato letterario finché questa corrente dell‟immaginazione non è
diventata parola. Come per il poeta in versi così per lo scrittore in prosa, la
riuscita sta nella felicità dell‟espressione verbale, che in qualche caso potrà
realizzarsi per folgorazione improvvisa, ma che di regola vuol dire una
paziente ricerca del “mot juste”, della frase in cui ogni parola è
insostituibile, dell‟accostamento di suoni e di concetti più efficace e denso
di significato. Sono convinto che scrivere prosa non dovrebbe essere diverso
181
Cfr. Italo Calvino, Rapidità, in Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo
millennio, cit., p. 53.
85
dallo scrivere poesia; in entrambi i casi è ricerca d‟un‟espressione
necessaria, unica, densa, memorabile»182.
Nella lettura si realizza la fusione della parola con l‟immagine, ed è
questa fusione che costituisce la vera “iconicità del senso”: «Come l‟icona
del culto bizantino, l‟icona verbale consiste in questa fusione del senso e
del sensibile; anch‟essa assume l‟aspetto di un oggetto solido, simile ad una
scultura che diventa linguaggio una volta spogliata della sua funzione di
referenza e ridotta al suo apparire opaco, essa presenta un‟esperienza che le
è interamente immanente»183.
La metafora veicola la direzione del senso, produce un moto
sinergico tra mondo soggettivo e mondo oggettivo, costringendoli a
misurarsi l‟uno con l‟altro: «Quando “udiamo” la lettura di un mythos o di
una storia, oppure la leggiamo noi stessi in una sequenza temporale, ne
compiamo una gestalt, o percezione simultanea che viene solitamente
descritta in una metafora visiva come atto del “vedere”»184.
La metafora e l‟analogia sono figure tipiche del “pensiero visivo”,
legate a un momento sensibile definito dal suo potere di mettere davanti agli
occhi, dal “potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire
colori e forme dall‟allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina
bianca, di pensare per immagini”185: è un potere “pittorico”, costituito a
metà da un processo del pensiero e a metà da un‟esperienza.
La figura e le immagini cui rinvia fanno apparire il discorso
rendendolo “invisibile” e “inesistente” in quanto “pensiero”: la mente
osserva ciò che immagina; l‟oggettivo e il soggettivo, il superficiale e il
profondo si risolvono nell‟atto immaginario.
Lo spazio del linguaggio è uno spazio “connotato, manifestato
piuttosto che designato, parlante piuttosto che parlato, che si tradisce nella
182
Ibidem, pp. 55-56.
Paul Ricoeur, La metafora viva. Dalla retorica alla poetica: per un linguaggio della
rivelazione (1975), tr.it., Jaca Book, Milano 1991. p. 277.
184
Northrop Frye, Mito, metafora, simbolo (1974), tr.it., Editori Riuniti, Roma 1989, p. 21.
185
Italo Calvino, Visibilità, in Lezioni americane, cit., p. 91.
183
86
metafora come l‟inconscio si lascia sorprendere in un sogno o in un
lapsus”186.
L‟interconnessione che si crea tra velocità fisica e velocità mentale e
la sintesi di esse attraverso lo spazio fornisce quindi una concreta
incarnazione della forma del pensiero, di quel processo di successione
mentale che è solo vagamente percepito.
Il segreto dell‟efficacia icastica del racconto, come nella fiaba, è una
questione di ritmo e di economia espressiva, riguarda cioè quegli effetti che
tengono vivo il desiderio di ascoltare il seguito e di cui anche Boccaccio, in
una novella dedicata all‟arte del racconto orale, sottolineava l‟importanza:
«La tecnica della narrazione orale nella tradizione popolare risponde a
criteri di funzionalità: trascura i dettagli che non servono ma insiste sulle
ripetizioni, per esempio quando la fiaba consiste in una serie di ostacoli da
superare. Il piacere infantile d‟ascoltare storie sta anche nell‟attesa di ciò
che si ripete: situazioni, frasi, formule. Come nelle poesie e nelle canzoni le
rime scandiscono il ritmo, così nelle narrazioni in prosa ci sono avvenimenti
che rimano tra loro»187.
Il forte legame con la rapidità della dimensione orale e folclorica,
depurata dagli elementi più ingenui e storicamente inattuali e fusa con i
meccanismi dell‟allegoria, viene ribadito nelle Lezioni americane, con
l‟aspirazione a iscrivere il “ritmo interiore picaresco e avventuroso”188 entro
le coordinate di uno schema geometrico e lineare: «Se in un‟epoca della mia
attività letteraria sono stato attratto dai folktales, dai fairytales, non è stato
per fedeltà a una tradizione etnica (dato che le mie radici sono in un‟Italia
del tutto moderna e cosmopolita) né per nostalgia delle letture infantili
(nella mia famiglia un bambino doveva leggere solo libri istruttivi e con
qualche fondamento scientifico), ma per interesse stilistico e strutturale, per
l‟economia, il ritmo, la logica essenziale con cui sono raccontate»189.
186
Cfr. Gérard Genette, Figure. Retorica e strutturalismo (1969), tr.it., Einaudi 1969, cit.,
p. 94.
187
Italo Calvino, Rapidità, in Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio,
cit., p. 37.
188
Cfr. Id., Leggerezza, in Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, cit.,
p. 4.
189
Id., Rapidità, in Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, cit., p. 37.
87
Queste peculiarità della narrazione orale ritornano anche nella
struttura dell‟ottava ariostesca che si fonda su una “discontinuità di ritmo”
ed è espressione di una rapidità che non è dunque in contrasto con una
poetica dell‟iterazione e della digressione, purché esse rispondano a una
strategia agile e disinvolta, che permetta di saltare da un argomento all‟altro,
procrastinando all‟infinito il momento della fine, come in alcune delle Fiabe
italiane e nelle Mille e una notte: «Naturalmente con questi risvolti della
strofa Ariosto gioca da par suo, ma il gioco potrebbe diventare monotono,
senza l‟agilità del poeta nel movimentare l‟ottava, introducendo le pause,
adattando diverse andature sintattiche allo schema metrico, alternando
periodi lunghi a periodi brevi, spezzando la strofa e in qualche cosa
allacciandone una all‟altra, cambiando di continuo i tempi della narrazione,
saltando dal passato remoto all‟imperfetto al presente al futuro, creando
insomma una successione di piani, di prospettive del racconto./Questa
libertà, questo agio di movimenti che abbiamo riscontrato nella
versificazione, dominano ancor più a livello delle strutture narrative, della
composizione dell‟intreccio»190.
Sottolineando che “la prima regola del poema è la „mobilità‟, cioè la
qualità del movimento, che è anch‟essa di natura fisica e spaziale”191,
Calvino rivela un modo diverso di “fare” letteratura, che è di natura fisica e
in cui si verifica una perfetta aderenza tra vissuto e narrato: « Cercavo di
cogliere una sintonia tra il movimentato spettacolo del mondo, ora
drammatico ora grottesco, e il ritmo interiore picaresco e avventuroso che
mi spingeva a scrivere. /Presto mi sono accorto che tra i fatti della vita che
avrebbero dovuto essere la mia materia prima e l‟agilità scattante e tagliente
che volevo animasse la mia scrittura c‟era un divario che mi costava sempre
più sforzo superare. Forse stavo scoprendo solo allora la pesantezza,
l‟inerzia, l‟opacità del mondo: qualità che s‟attaccano subito alla scrittura,
se non si trova il modo di sfuggirle»192.
Come in Ariosto “la corposità dei ritratti individuali” è posta in
secondo piano rispetto alla legge della successione variata degli avvenimenti
190
Italo Calvino, Ariosto: la struttura dell‟ “Orlando Furioso”, cit., p. 764.
Ibidem.
192
Id., Leggerezza, in Lezioni americane, cit., p. 8.
191
88
e rispetto al “vario movimento delle energie vitali”193, allo stesso modo
nella sua narrativa Calvino vuole riprodurre il “segreto di ritmo” della
poetica ariostesca, ovvero “un certo slancio, un certo piglio” che si traduca
in “storie avventurose, tutte movimento”194: in quest‟ottica, come direbbe
Sklovskij, “l‟intreccio e la composizione dell‟intreccio sono una forma,
proprio come la rima”195.
Già Huet, nel suo Trattato sull‟origine dei romanzi, del 1670,
delineava una “fenomenologia” del lector affascinato dalla fabula, la stessa
che esercita un forte fascino su Calvino e nella quale per lo scrittore consiste
l‟essenza del piacere romanzesco: «Le anime semplici vedono dunque delle
finzioni, che sono racconti veri in apparenza e in realtà falsi, solo la scorza,
contentandosi e compiacendosi di questa apparenza di verità: ma di questa
falsità si disgusta facilmente chi penetra oltre , e va al sodo. Cosicché i
primi amano la falsità, a causa dell‟apparente verità che la cela; e ai secondi
ripugna quest‟immagine di verità, per l‟effettiva falsità che nasconde; a
meno che questa falsità non sia ingegnosa, misteriosa e istruttiva, e
sostenuta dall‟eccellenza dell‟invenzione e dell‟arte»196.
E‟ stato il racconto di De Quincey The English mail-coach a
introdurre nella letteratura l‟esperienza delle “grandi velocità”, diventata
fondamentale nella vita umana e nei mezzi di comunicazione di massa,
anche se in esso l‟emblema non è l‟automobile, ma il cavallo197.
Curiosamente, il primo esperimento di Muybridge, agli albori della
rivoluzione tecnologica e percettiva innescata dal cinema, riguardava
proprio la ripresa della traiettoria di un cavallo in corsa: il movimento,
concepito come il fenomeno di base per cui lo spazio è delineato attraverso
il tempo, è costitutivo della forma cinematografica.
Al fascino della velocità è stato sensibile anche Leopardi, e certo
Calvino sposa le sue riflessioni sullo stile: «La rapidità e la concisione dello
stile piace perché presenta all‟anima una folla d‟idee simultanee, così
193
Id., Presentazione, in Orlando Furioso raccontato da Italo Calvino, cit., p. XXIV e p.
XIX.
194
Cfr. Italo Calvino, Prefazione a I nostri antenati, cit., p. XVI.
195
Cfr. Viktor Borisovic Sklovskij, Una teoria della prosa: l‟arte come artificio, la
costruzione del racconto e del romanzo, cit., p. 71.
196
Pierre Daniel Huet, Trattato sull‟origine dei romanzi (1670), a cura di Ruggero
Campagnoli e Yves Hersant, Einaudi, Torino 1977, p. 62.
197
Cfr. Italo Calvino, Rapidità, in Lezioni americane, cit., pp. 40-43.
89
rapidamente succedentisi, che paiono simultanee, e fanno ondeggiar l‟anima
in una tale abbondanza di pensieri, o d‟immagini e sensazioni spirituali,
ch‟ella o non è capace di abbracciarle tutte, e pienamente ciascuna, o non ha
tempo di restare in ozio, e priva di sensazioni. La forza dello stile poetico,
che in gran parte è tutt‟uno colla rapidità, non è piacevole per altro che per
questi effetti, e non consiste in altro. L‟eccitamento d‟idee simultanee, può
derivare e da ciascuna parola isolata, o propria o metaforica, e dalla loro
collocazione, e dal giro della frase, e dalla soppressione stessa di altre parole
o frasi ec.»198.
Al senso di movimento si associa quello di una leggerezza
immateriale, la stessa che Calvino riscontra nel Candide voltairiano: «Con
velocità e leggerezza, un susseguirsi di disgrazie supplizi massacri corre
sulla pagina, rimbalza di capitolo in capitolo, si ramifica e moltiplica senza
provocare nell‟emotività del lettore altro effetto che d‟una vitalità esilarante
e primordiale»199.
Oltre a voler riprodurre il “ritmo” dei romanzi d‟avventura e a
identificare il “lieto procedere” del romanzo d‟avventura con l‟idea di una
letteratura che è presenza attiva nella storia, Calvino pensa alla narrazione in
termini cinematografici, come a un‟operazione sulla continuità e
discontinuità del tempo, a una battaglia contro il tempo, contro gli ostacoli
che impediscono o ritardano il compimento di un desiderio o il
ristabilimento di un bene perduto: «[…] l‟arte che permette a Sherazade di
salvarsi la vita ogni notte sta nel saper incatenare una storia all‟altra e nel
sapersi interrompere al momento giusto […] E‟ un segreto di ritmo, una
cattura del tempo che possiamo riconoscere dalle origini: nell‟epica per
effetto della metrica del verso, nella narrazione in prosa per gli effetti che
tengono vivo il desiderio di ascoltare il seguito»200.
Anche in Ariosto la complessità polimorfa del labirinto richiede un
montaggio e lo scavalcamento delle strutture paratestuali gerarchiche,
198
E‟ un brano delle note dello Zibaldone del 3 Novembre 1821 citato in Italo Calvino,
Rapidità, in Lezioni americane, cit., p. 42.
199
Id., “Candide” o la velocità, compreso come Prefazione in Voltaire, Candido ovvero
l‟ottimismo, Rizzoli, Milano 1974, p. 5; col titolo Il “Candide” di Voltaire, ora è in Saggi
1945-85, tomo I, cit., p. 999.
200
Ibidem, p. 39.
90
violando quindi la divisione in canti con interruzioni, cambi di scena,
dissolvenze improvvise, attraverso un modulo seriale di continuità e
variazione messo in atto dal movimento del cavallo, trasferito sulla pagina
con l‟uso peculiare dell‟ottava201.
Il movimento conferisce un più profondo senso di corporalità agli
oggetti, li fa apparire delineati in lieve, anche se illusorio, rilievo; non è però
semplice trasferirne l‟effetto nello spazio bidimensionale della scrittura,
come ammette lo stesso Calvino ne Il cavaliere inesistente: «Possiamo dire
che l‟unico che certamente compie uno spostamento qua in mezzo è
Agilulfo, non dico il suo cavallo, non dico la sua armatura, ma quel
qualcosa di solo, di preoccupato di sé, d‟impaziente, che sta viaggiando a
cavallo dentro l‟armatura. Intorno a lui le pigne cadono dal ramo, i rii
scorrono tra i ciottoli, i pesci nuotano nei rii, i bruchi rodono le foglie, le
tartarughe arrancano col duro ventre al suolo, ma è soltanto un‟illusione di
movimento, un perpetuo volgersi e rivolgersi come l‟acqua delle onde. […]
Quanto mi riesce più difficile segnare su questa carta la corsa di
Bradamante, o quella di Rambaldo, o del cupo Torrismondo! Bisognerebbe
che ci fosse sulla superficie uniforme un leggerissimo affiorare, come si può
ottenere rigando dal di sotto il foglio con uno spillo, e quest‟affiorare,
questo tendere fosse però sempre carico e intriso della generale pasta del
mondo e proprio lì fosse il senso e la bellezza e il dolore, e lì il vero attrito e
movimento»202.
Il cinema esteriorizza il processo di interiorizzazione con cui la
mente elabora i dati dell‟esperienza, rintracciato da Calvino anche nel
Purgatorio dantesco: «[…] si presentano a Dante delle scene che sono come
citazioni e rappresentazioni di esempi di peccati e di virtù: prima sotto
forma di bassorilievi che sembrano muoversi e parlare, poi come visioni
proiettate davanti ai suoi occhi, come voci che giungono al suo orecchio, e
infine come immagini puramente mentali. Queste visioni insomma si vanno
progressivamente interiorizzando, come se Dante si rendesse conto che è
201
Per le analogie tra i moduli narrativi di Ariosto e il cinema cfr. Anton Giulio Bragaglia,
L‟Ariosto come cineasta, in L‟ottava d‟oro: la vita e l‟opera di Ludovico Ariosto,
Mondadori, Milano 1933, pp. 639-666.
202
Italo Calvino, Il cavaliere inesistente, cit., p. 125.
91
inutile inventare a ogni girone una nuova forma di metarappresentazione, e
tanto vale situare le visioni nella mente, senza farle passare attraverso i
sensi»203.
Sul confronto tra visioni dantesche e proiezioni cinematografiche
insiste anche Garboli, con una serie di paralleli in bilico tra Wölfflin e
Bazin: «Dante scopre, come Giotto, più di Giotto, i valori tattili; inventa il
montaggio e l‟inquadratura; elimina il maxischermo; e ci immette in
quell‟illusoria tridimensionalità grazie alla quale si vive nei romanzi come
nella vita reale»204.
Nel viaggio estetico della percezione cinematografica e in quello
avventuroso alla Robinson Crusoe, che è sogno a occhi aperti di tutti i
traguardi possibili, l‟esperienza è governata da uno schiacciamento della
nozione di spazio-tempo vigente nella percezione comune: la scansione
arbitraria e convenzionale del tempo cede il passo alla dimensione della
durata che equivale a un trionfo dell‟immaginario e della fantasticheria.
La complementarietà dinamica tra la mobilità dello sguardo e la
quasi simultanea narrazione di ciò che viene visto rinvia alla fenomenologia,
alla teoria dell‟ “esserci” come rivelazione ontica che presuppone un
soggetto che percepisce, per il quale solamente può esistere qualcosa. Il
mondo è “visivo” in quanto risposta alla nostra capacità visuale: l‟occhio si
sposta nel mondo visibile, i fenomeni non possono farne a meno per
rivelarsi; lo spazio è vissuto come propaggine di se stessi.
Lo scrittore ha ammesso l‟apporto importante dell‟ “approccio
fenomenologico” , il quale “ci spinge a rompere lo schermo di parole e
concetti e a vedere il mondo come se si presentasse per la prima volta ai
nostri occhi”205, consentendo quindi un‟aderenza al vissuto in termini
stevensoniani.
Questo “vedere il mondo come se si presentasse per la prima volta”,
senza il peso di nessuna esperienza, cercando di riprodurlo con la massima
203
Italo Calvino., Visibilità, in Lezioni americane, cit., p. 81.
Cesare Garboli, Pianura proibita, Adelphi, Milano 2002, p. 159.
205
Cfr. Italo Calvino, Mondo scritto e mondo non scritto (conferenza letta alla New York
University come “James Lecture” all‟Institute for the Humanities il 30 marzo 1983: The
Written and tha Unwritten World, “The New York Review of Books”, May 12, 1983), in
“Lettera internazionale”, II, 4-5, primavera-estate 1985; ora è in Saggi 1945-85, tomo II,
cit., p. 1865.
204
92
precisione, configura una modalità di conoscenza di superficie, nel senso di
trascrizione luminosa: il mondo si compone nella scrittura come le
immagini si formano sulla superficie della retina, secondo il modello della
camera obscura (di cui, tra l‟altro, Leonardo fu uno dei primi a proporre
l‟uso) e secondo la formula kepleriana “ut pictura ita visio”, colorandosi
cioè dello stesso colore delle cose; scrivere per Calvino significa
illuminare206.
La scrittura deve assumere quindi la duplice funzione di dispositivo
di proiezione e di schermo: come nel cinema lo schermo è il luogo di una
apparizione, così nella scrittura il mondo appare sotto forma di oggetti,
comportamenti, azioni, nel loro sviluppo generativo, ed è sempre il prodotto
di uno sguardo.
L‟occhio mobile ed eminentemente variabile del cinema è
l‟equivalente più stretto dello sguardo: Calvino pensa probabilmente a esso
quando teorizza una scrittura come senso attivo, che assecondi il duplice
movimento dello sguardo e della realtà in divenire, inseguendo “il fulmineo
percorso dei circuiti mentali che catturano e collegano punti lontani dello
spazio e del tempo”207.
È una concezione della scrittura che ridefinisce tutta la teoria del
linguaggio in termini di “ritmo”, nel senso indicato da Meschonnic, sempre
rivolto a ricostituire metonimicamente nel discorso la dimensione originaria
del primo sguardo sulla realtà, ovvero della parola orale e, con essa, della
pregnanza del vissuto, dell‟empirico di ognuno e di ogni istante, assente
dalla definizione del linguaggio attraverso il segno e dalla stessa definizione
di ritmo attraverso l‟alternanza formale metricizzata: «Contro la riduzione
corrente del „senso‟ al lessicale, la significanza appartiene a tutto il discorso,
essa è in ogni consonante, in ogni vocale che, in quanto paradigmatica e
sintagmatica, produce delle serie. Così i significanti sono tanto sintattici
quanto prosodici. Il „senso‟ non è più nelle parole, lessicalmente. Nella sua
accezione ristretta, il ritmo è l‟accentuale, distinto dalla prosodiaorganizzazione vocale, consonantica. Nella sua accezione larga, quella che
206
Cfr. Ruggero Pierantoni, Calvino e l‟ottica, in Giovanni Falaschi (a cura di ), Italo
Calvino. Atti del convegno internazionale, cit., p. 279.
207
Ibidem.
93
io implico qui più spesso, il ritmo ingloba la prosodia. E, oralmente,
l‟intonazione. Organizzando insieme la significanza e la significazione del
discorso, il ritmo è l‟organizzazione stessa del senso nel discorso. E il senso
essendo l‟attività del soggetto dell‟enunciazione, il ritmo è l‟organizzazione
del soggetto come discorso nel e attraverso il suo discorso»208.
Anche Calvino, come Meschonnic, tenta di raggiungere una
“coerenza concettuale del continuo” con “la trasformazione di una forma di
vita attraverso una forma di linguaggio, e di una forma di linguaggio
attraverso una forma di vita”209, ovvero ridando al continuo “un‟esistenza
teorica corrispondente alla sua esistenza empirica”, per cui il “ritmo” non si
configura più semplicemente su un piano fonico, come l‟alternanza di un
tempo forte e di un tempo debole, ma in questo modo il soggetto diventa
“l‟invenzione della sua storicità”, finalmente protagonista della sua
avventura.
I. 3) Una infinita molteplicità di storie
Le mille e una notte è un altro testo fondamentale nella biblioteca
ideale di Calvino, l‟opera che rappresenta l‟emblema di ogni forma di
narrazione e in cui lo scrittore ritrova la suggestione del racconto orale
interminabile e di una struttura senza autore tipica della spontaneità
popolare, della continua frammentazione e disgregazione che diventa
tuttavia “chance affabulatoria garante di sopravvivenza”210.
Si tratta di caratteristiche che accomunano la novellistica orientale
con la tradizione fiabesca occidentale e sulle quali Calvino ha costruito
l‟impianto di Se una notte d‟inverno un viaggiatore, opera che diventa
l‟occasione
per
una
riflessione
208
sui
meccanismi
testuali
e
sulla
Henri Meschonnic, Critique du rythme. Anthropologie historique du langage, Lagrasse,
Verdier 1982, pp. 216-217.
209
Id., Se la teoria del ritmo cambia tutta la teoria del linguaggio cambia, in “Studi di
estetica”, XXVIII, 21, gennaio-giugno 2000, p. 19.
210
Cfr. Marina Paino, Calvino alle porte di Bagdad, in L‟ombra di Sheherazade.
Suggestioni delle “Mille e una notte” nel Novecento italiano, Avagliano Editore, Cava dei
Tirreni 2004, p. 78.
94
riformulazione del modello di narrazione della fiaba all‟interno della
narrativa contemporanea e della letteratura di massa: «Trent‟anni fa mi sono
gettato nella foresta del racconto popolare […]. Questa esperienza ha
rafforzato in me l‟attenzione per alcuni aspetti, la proliferazione di storie
l‟una dall‟altra, le strutture più semplici ed efficaci che sono riconoscibili
come scheletro delle vicende più complicate, l‟origine orale dell‟arte del
raccontare, origine di cui restano le tracce anche quando quest‟arte si
concreta in opere scritte, l‟interesse per le raccolte di novelle indiane, arabe,
persiane, la cui influenza è stata sensibile nello sviluppo della novellistica
italiana ed europea. Spesso nella letteratura scritta, questa molteplicità
infinita di storie tramandate di bocca in bocca è resa attraverso una cornice,
una storia in cui si inseriscono altre storie»211.
Già nell‟operazione delle Fiabe italiane Calvino aveva riconosciuto
il forte debito nei confronti de Le mille e una notte e dell‟edizione
settecentesca di Galland che, alla fine degli anni Quaranta, era stata
rivisitata da Francesco Gabrieli, generando anche nello scrittore un interesse
più scientifico verso la tradizione italiana, rintracciabile a partire dalla
recensione a Propp del 1949212.
Nella raccolta fiabistica del 1956 il racconto Il pappagallo213
riprende esplicitamente la struttura dilatoria delle storie raccontate da
Sheherazade, documentando in modo perfetto il modo di procedere dei
narratori popolari, attraverso una sorta di parodica mise en abîme: con il
pretesto di salvare la verginità di una ragazza dalle brame di un Re
corteggiatore, la storia viene continuamente ripresa, la macchina del
racconto si rimette in moto nel momento in cui comincia a spegnersi, fino a
un classico lieto fine, nel quale il pappagallo-affabulatore, scopre di essere
anche lui un Re e di essersi nel frattempo innamorato della sua ascoltatrice
che chiede in sposa al padre.
211
Italo Calvino, Il libro, i libri (1984), in Saggi 1945-85, vol. II, cit., pp. 1855-1856.
Cfr. Italo Calvino, Sono solo fantasia i racconti di fate?, in “l‟Unità”, 6 luglio 1949; con
il titolo Vladimir Ja. Propp, “Le radici storiche dei racconti di fate”, è ora in Id., Saggi
1945-85, vol. II, cit., pp. 1541-1543.
213
Cfr. Italo Calvino, Fiabe italiane (1956), a cura di Mario Lavagetto, Mondadori, Milano
1993, pp. 121-125.
212
95
L‟affermazione di una autorialità indefinibile, connaturata ai
processi orali di nascita e diffusione delle fiabe, è la cifra che
contraddistingue anche le Fiabe del focolare dei fratelli Grimm, il cui
intento era “fare un libro anonimo, un libro il cui autore fosse il popolo”214,
capace cioè di coinvolgere in un processo di cooperazione ogni singolo
lettore e di essere, nello stesso tempo, sintesi di tutte le letture precedenti e
momento di apertura verso nuove e potenziali letture future: «Gli autori di
questo libro di fiabe […] non sono solo i fratelli Grimm, ma anche le
narratrici e i narratori dalla cui voce i Grimm le ascoltarono, e pure coloro
da cui essi le avevano ascoltate, e così via tutti gli uomini e le donne che
hanno trasmesso questi racconti di bocca in bocca per chissà quanti
secoli»215.
Quello a cui pensano i fratelli Grimm non è solo un‟opera
suggestivamente priva di un autore individuabile, ma un testo costantemente
in potenza più che in atto, un‟ opera aperta, dinamica, che ha già in sé quella
“vocazione
enciclopedica”
216
romanzesca
che
Calvino
riconosce
alla
narrativa
e che la colloca a pieno titolo tra quei “libri tutti da leggere e
da ricordare, libri che aprono: verso altri libri e verso il mondo”217.
Il pappagallo è già un modello di narrazione a cornice come sarà Se
una notte d‟inverno un viaggiatore, con un narratore che non si limita a
rientrare negli schemi prestabiliti ma si sottrae a essi con “istintiva
furberia”, come farà lo stesso Calvino soprattutto nelle opere di carattere più
marcatamente combinatorio: «[…] nella stessa costruzione narrativa del
Pappagallo s‟esprime qualcosa di più profondo: l‟intelligenza tecnica di cui
fa sfoggio il narratore, che qui è oggettivata in senso umoristico, nella
parodia delle fiabe “che non finiscono mai”. Ed è là per noi la sua morale
vera: alla mancanza di libertà della tradizione popolare, a questa legge non
scritta per cui al popolo è concesso solo di ripetere triti motivi, senza vera
“creazione”, il narratore di fiabe sfugge con una sorta d‟istintiva furberia:
214
Cfr. Italo Calvino, Presentazione a Jacob e Wilhelm Grimm, Le fiabe del focolare, a
cura di Italo Calvino, Einaudi, Torino 1970, ora in Id., Saggi 1945-85, vol. II, cit., p. 1566.
215
Ibidem.
216
Cfr. Italo Calvino, Il libro, i libri, in Saggi 1945-85, tomo II, cit., p. 1852.
217
Cfr. Italo Calvino, La “Einaudi Biblioteca Giovani”, in “Libri Nuovi”, VIII, 1, gennaio
1976, ora in Saggi 1945-85, vol. II, cit., p. 1722.
96
lui stesso crede forse di far solo delle variazioni su un tema; ma in realtà
finisce per parlarci di quel che gli sta a cuore»218.
Il regime anonimo e collettivo della narrazione viene evocato,
insieme ai temi del mito e del destino, anche nella prefazione del 1955 per
una raccolta di fiabe africane219, dove lo statuto precario del narratore
individuale e la pluralità delle voci che sono alla base del racconto ricordano
l‟analoga tecnica in atto nei racconti della Resistenza, presentata dalla
prefazione al Sentiero dei nidi di ragno: «Chi cominciò a scrivere allora si
trovò così a trattare la medesima materia dell‟anonimo narratore orale: alle
storie che avevamo vissuto di persona o di cui eravamo stati spettatori
s‟aggiungevano quelle che ci erano arrivate già come racconti, con una
voce, una cadenza, un‟espressione mimica. Durante la guerra partigiana le
storie appena vissute si trasformavano e trasfiguravano in storie raccontate
la notte attorno al fuoco, acquistavano già uno stile, un linguaggio, un
umore come di bravata, una ricerca d‟effetti angosciosi o truculenti. Alcuni
miei racconti, alcune pagine di questo romanzo hanno all‟origine questa
tradizione orale appena nata, nei fatti, nel linguaggio»220.
All‟originaria e inesauribile dimensione orale del raccontare
rimanda, in Se una notte d‟inverno un viaggiatore, il “Padre dei racconti”,
metafora di tutto ciò che viene prima della scrittura e che è potenzialmente
pronto per una nuova reincarnazione, contrapposto alla figura di Ermes
Marana, il falsario, simbolo di tutte le contraffazioni operate dalla scrittura
ai danni dell‟oralità: in quest‟ottica, oltre a profilarsi una distinzione tra
cultura “egemone” e cultura “subalterna”, tra spontaneità orale anonima e
produzione letteraria, non è fuori luogo l‟identificazione di Zumthor tra
l‟oralità e la vocalità preesistente al senso, perché la prima prepara il luogo
in cui il senso può dirsi221.
Il confronto con Le mille e una notte e con le fiabe rappresenta per
Calvino un‟occasione di autochiarimento, che, se da un lato specifica quell‟
218
Italo Calvino, Introduzione a Fiabe italiane, cit., p. L.
Cfr. Italo Calvino, Prefazione a Fiabe africane, a cura di Paul Radin, Einaudi, Torino
1955, ora in Id., Sulla fiaba, a cura di Mario Lavagetto, Einaudi, Torino 1988, pp. 3-10.
220
Italo Calvino, Prefazione 1964 a Il Sentiero dei nidi di ragno, cit., p. VIII.
221
Cfr. Paul Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale, Il Mulino,
Bologna 1984, p. 6.
219
97
“elemento fiabesco” che Pavese e Vittorini avevano individuato come
peculiare della sua scrittura, dall‟altro gli consente di rapportarsi alla
tradizione
con
assoluta
libertà
e
autonomia,
utilizzando
e
ricontestualizzando nell‟opera concreta i materiali “di genere”, inseriti
quindi in un progetto originale, secondo il modo di procedere di un vero
poeta orale.
Facendola uscire dal territorio ristretto degli studi etnologici e
antropologici, Calvino inserisce la fiaba nel mainstream e la considera il
genere letterario esemplare per affrontare il tema della circolazione delle
forme letterarie dall‟oralità alla scrittura, e viceversa, cogliendo la
connessione profonda tra l‟immaginario popolare su cui si fonda la fiaba e
la funzione esistenziale della letteratura, con la sua “ricerca della leggerezza
come reazione al peso di vivere”222.
Al narratore popolare e a quella che potremmo definire “funzione
Sheherazade” rimanda anche il motivo della procrastinazione delle scadenze
di chiusura del racconto, del mantenimento della “suspension of disbelief”,
ovvero del principio di piacere che si esprime nella stessa tensione alla
serialità della letteratura di consumo223.
Come confessa nella prefazione alle Fiabe italiane, Calvino si
immedesima completamente con la concezione dell‟originalità tipica delle
culture orali, in cui la creatività non consiste nel creare qualcosa di nuovo
dal nulla, ma nel saper adattare i materiali tradizionali in maniera efficace a
ogni individuo, situazione e pubblico, recependone l‟ “orizzonte d‟attesa”: «
In tutto questo mi facevo forte del proverbio toscano caro al Nerucci: “La
novella nun è bella, se sopra nun ci si rappella”, la novella vale per quel che
su di essa tesse e ritesse ogni volta chi la racconta, per quel tanto di nuovo
che ci s‟aggiunge passando di bocca in bocca»224.
Nella sua traduzione delle fiabe, Calvino conserva molte peculiarità
del discorso orale, come l‟andamento prevalentemente paratattico e
ridondante del discorso, l‟uso di formule mnemoniche e di motivi ricorrenti
222
Cfr. Italo Calvino, Leggerezza in Lezioni americane, cit., p. 7.
Cfr. Mario Lavagetto, “Una scala che affonda nelle viscere della Terra”. Freud e la
fiaba, in Alberto Maria Cirese (a cura di), Tutto è fiaba. Atti del convegno internazionale di
studi sulla fiaba (Parma), Emme, Milano 1980, pp. 123-139.
224
Italo Calvino, Presentazione a Fiabe italiane, cit., p. XXIV.
223
98
organizzati in scansioni ritmiche, l‟assemblaggio di blocchi mobili e
intercambiabili con un procedimento combinatorio, che generano l‟effetto
patchwork di una serialità potenzialmente infinita: si tratta di elementi che
poi ritorneranno nelle opere narrative di Calvino, insieme alla preferenza per
tutto ciò che è concreto piuttosto che astratto, al ricorso a figure
eccessivamente eroiche o bizzarre, più funzionali alla persistenza
mnemonica, alla tendenza alla schematizzazione caratteriale contro ogni
psicologismo.
Come sottolinea Giovanna Cerina, “anche la fiaba nata direttamente
come fiaba scritta esige di essere collocata in una situazione di oralità,
seppure di oralità simulata”225: il fatto di introdurre un narratore che finge di
rivolgersi direttamente ai lettori-ascoltatori, cosa che avviene anche ne Il
castello dei destini incrociati e soprattutto in Se una notte d‟inverno un
viaggiatore, è motivato dall‟esigenza della scrittura di recuperare
l‟esperienza della narrazione orale, perché “il codice fiabesco è la risultante
di un‟operazione sincretica dove oralità e scrittura s‟incrociano e si
enfatizzano”226.
L‟oralità è uno dei tratti distintivi del codice fiabesco e permane
anche dopo l‟attualizzazione in un testo scritto, insieme alla sua potenziale
“duttilità” e “trasmutabilità”.
Calvino amplifica inoltre il ritmo e l‟economia espressiva della
fiaba, ovvero quelle caratteristiche della narrazione orale in cui egli
riconosce il segreto per mantenere viva l‟attenzione dell‟ascoltatore-lettore e
il suo desiderio di ascoltare il seguito della storia: la sua operazione non è
quindi una semplice traduzione-riscrittura, ma “una felice produzione di
fiabe nelle quali sono evidenti il gusto e lo stile dell‟artista: Calvino finisce
così per „creare‟ le fiabe italiane, riconducendo all‟unità della propria cifra
stilistica le diverse fiabe dialettali assunte come punto di partenza”227.
Una fiaba come La sorella del Conte, che Calvino considera la più
bella fiaba d‟amore italiana, è emblematica anche per capire la posizione
225
Cfr. Giovanna Cerina, La fiaba tra oralità e scrittura: aspetti semiotici, in Giovanna
Cerina, Cristina Lavinio, Luisa Mulas (a cura di), Oralità e scrittura nel sistema letterario,
Atti del Convegno. Cagliari, 14-16 aprile 1980, Bulzoni, Roma 1982, p. 116.
226
Ibidem.
227
Cfr. Cristina Lavinio, La magia della fiaba: tra oralità e scrittura, La Nuova Italia,
Scandicci 1993, p. 156.
99
dello scrittore riguardo alla dialettica di recupero/trasgressione dei generi
avviata dalla reazione all‟arte d‟avanguardia: l‟incontro tra i due
protagonisti, il Reuzzo e la Contessina si svolge ogni sera con le stesse
modalità, ma l‟effetto fastidioso di ridondanza viene evitato grazie
all‟allegra musicalità dei dialoghi tra i due e al “sospiro di malinconica
gioia sensuale”228.
Ci sono poi fiabe in cui Calvino si prende qualche libertà, per
esempio I tre racconti dei tre figli dei tre mercanti, dove la struttura “a
cornice”, come ne Il pappagallo, unifica tre avventure diverse all‟interno
della vicenda principale e il finale resta sospeso, imitando quelli dei
novellieri letterati.
Oltre all‟accentuazione del dialogato e ai frequenti richiami alla
situazione reale dell‟enunciazione, in cui interagiscono narratori e narratari,
un altro elemento che riproduce il discorso orale è la riproduzione delle
ripetizioni che si accompagnano a una organizzazione mnemonica del
pensiero: la ridondanza deriva dalla necessità di non interrompersi mentre si
pensa a cosa dire dopo ed è intensificata dalla presenza di un uditorio la cui
attenzione deve essere mantenuta viva.
Caratteristiche come l‟uso frequente del “racconto singolativo
anaforico”229 o di ripetizioni reperibili solo a livello di intreccio e non di
fabula, o le descrizioni stereotipe degli attributi dei personaggi, sono
motivate sempre dall‟esigenza mnemonica e contraddistinguono la fiaba
come genere intrinsecamente orale, svincolato dai criteri di originalità e
unicità imposti dal Romanticismo in poi e invece vicino alle forme di
comunicazione di massa: «La letteratura orale è infatti governata da un altro
tipo di estetica, quella della ripetizione e della fruizione ripetitiva. È
un‟estetica „rassicurante‟, che forse corrisponde a un bisogno più diffuso di
quanto pensiamo, se sta alla base tanto del fatto che i bambini amano
sentirsi raccontare spesso le fiabe che già conoscono, quanto del grande
successo popolare di serials o telenovelas, dalla struttura estremamente
scontata e ripetitiva. Né si tratta di un tipo di estetica valido solo a livello
228
229
Cfr. Italo Calvino, La sorella del Conte, in Fiabe italiane, cit., p. 87.
Cfr. Cristina Lavinio, op. cit., p. 130.
100
infantile e popolare; c‟è anzi un intero ambito artistico, quello musicale, in
cui la funzione ripetitiva è di regola, dato che tutti amiamo ascoltare spesso i
nostri brani preferiti»230.
Anche nelle formule dell‟epica è presente lo stesso modello narrativo
mnemonico che informa le fiabe, paragonabile, in senso saussuriano, alla
langue, rispetto alla quale i racconti fiabeschi sarebbero atti di parole231: la
varietà della fiaba e la sua tendenza alla contaminazione creativa e
intertestuale sono legate alla sua natura di testo orale, che solo la scrittura
può fissare in una forma definitiva.
In Calvino i procedimenti dell‟oralità, tipici della fiaba in generale,
entrano spesso nelle stesse forme scritte: nelle fiabe, infatti, “si può trovare
addirittura un‟esasperazione degli elementi che caratterizzano il genere, con
triplicazioni sistematiche, reiterazione quasi ossessiva dei versicoli di
scansione e sottolineatura dei momenti cruciali, e così via”232.
Calvino vuole porsi “come anello dell‟anonima catena senza fine per
cui le fiabe si tramandano”233, con la consapevolezza di rinnovare una
tradizione che altrimenti scomparirebbe: la compresenza ambivalente dei
canoni di uniformità e di ripetibilità (in cui Propp aveva individuato la
ragione del fascino della fiaba) e di una sorprendente varietà, è sicuramente
alla base dell‟interesse per il gioco combinatorio.
L‟esaurimento della tradizione orale come modalità narrativa non
provoca necessariamente la scomparsa delle qualità stilistiche e dei valori
che essa incarna, che sono trasferibili anche alla narrativa, con una scrittura
capace di riprodurre la precarietà e l‟apertura del discorso orale e di
superare la resistenza del testo facendosi fluida, molteplice, frammentaria,
come la voce.
L‟idea di letteratura che sottende Se una notte d‟inverno un
viaggiatore, come spazio della “mitopoiesi, luogo dei narrabili, repertorio o
combinatoria degli archetipi, crocevia e termine di paragone degli usi del
230
Ibidem, pp. 113-114.
Cfr. Roman Jakobson e Pëtr Bogatyrëv, Il folklore come forma di creazione autonoma,
in “Strumenti critici”, II, 1, giugno 1967, pp. 223-238.
232
Cfr. Cristina Lavinio, op. cit., p. 108.
233
Cfr. Italo Calvino, Presentazione, in Fiabe italiane, p. XXIV.
231
101
linguaggio e delle narrazioni non linguistiche”234, è sicuramente motivata
dall‟obiettivo di inglobare nelle strutture narrative le forme della narrazione
orale: partendo dalla consapevolezza che “l‟insolubilità di ciò che resta
sempre aperto è infinita al pari della sua possibile soluzione”235 e che “il
libro unico non esiste, [e] la totalità non può essere contenuta nel
linguaggio, e il problema è non solo il „non-scritto‟ ma anche il „nonscrivibile‟”236, non resta da fare altro che scrivere tutti i libri di tutti gli
autori possibili, trasformando così il romanzo nel luogo dei possibili
narrativi.
Il mito di un‟archifiaba o archiracconto, perfetto, compiuto e
onnicomprensivo, da cui sarebbero deducibili tutte le fiabe e tutti i racconti,
richiede la messa in discussione della figura dell‟autore e va al di là dei
limiti della parola scritta o di qualsiasi sua grammatica, nei termini enunciati
anche da Celati e riconducibili sempre al primato della mitopoiesi237: «La
fabulazione è in se stessa l‟illimitato divenire e tutte le metamorfosi a cui
soggiacciamo: come tale non fissabile, sempre inaugurale e sempre subito
perduta. La scrittura la chiama, la cerca con le proprie mosse. Per trovarla
deve uscire da se stessa, se riesce a farcela. Il problema dello scrivere oggi è
tutto qui»238.
Le fiabe popolari sono per essenza apocrife e sembrano obbedire ai
principi elaborati da Ermes Marana nei suoi “sogni”, nei quali regna una
incertezza sistematica sull‟identità di chi racconta le storie o le ripete o le
contamina o le deforma, introducendo in ognuna di esse “nuovi strumenti”,
proprio come avviene nella rielaborazione della tradizione popolare.
Anche in Se una notte d‟inverno un viaggiatore, come in The figure
in the carpet di Henry James, dove la lettura viene paragonata a una partita
di scacchi, chi legge si trova davanti, dall‟altra parte del tavolo, “a ghostler
form”, una figura sfuggente e nascosta: allo stesso modo, nelle fiabe,
234
Cfr. Mario Barenghi, Congetture su un dissenso, in Marco Barenghi e Marco Belpoliti (a
cura di), “Alì Babà”. Progetto di una rivista, cit., p. 16.
235
Cfr. Ezio Raimondi, Scienza e letteratura, Einaudi, Torino 1978, pp. 14-15.
236
Cfr. Mario Lavagetto, Per l‟identità di uno scrittore di apocrifi, in Dovuto a Calvino,
cit., p. 30.
237
Cfr. Italo Calvino, Cibernetica e fantasmi (Appunti sulla letteratura come processo
combinatorio), in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, cit., p. 172-173.
238
Marco Belpoliti, Settanta, Einaudi, Torino 2001, p. 139.
102
dall‟altra parte del testo, non c‟è una sola figura, ma ce ne sono molte, il
fantasma si è moltiplicato e continua a moltiplicarsi.
Gli autori degli incipit sono nomi o voci anonime, non esistono come
personaggi, fanno perdere le loro tracce nella rete intertestuale, dove tutto
appare già letto e non riferibile ad alcun io autoriale ben definito,
irreperibile nella sua origine: «L‟intertestualità nella quale è situato ogni
testo, dal momento che è a sua volta l‟infratesto di un altro testo, non può
essere confusa con una qualche origine del testo stesso: ricercare le “fonti”,
gli “influssi” di un‟opera significa rispettare il mito della filiazione; le
citazioni di cui è fatto un testo sono anonime, irripetibili e tuttavia già lette:
sono citazioni senza virgolette»239.
Già in Cibernetica e fantasmi Calvino aveva dato un‟impostazione
teorica al tema della scomparsa dell‟Autore, in anticipo rispetto alla cultura
letteraria italiana: in Se una notte d‟inverno un viaggiatore ne fornisce una
lettura narrativa, creando uno spazio a più dimensioni, in cui si intrecciano e
si sovrappongono diverse scritture, nessuna delle quali è originale, visto che
i dieci incipit sono tutti apocrifi, e “l‟autore di ciascun libro è un
personaggio fittizio che l‟autore esistente inventa per farne l‟autore delle sue
finzioni”240, includendo nell‟opera anche il lettore che diventa “lo spazio in
cui si iscrivono, senza che nessuna vada perduta, tutte le citazioni di cui è
fatta la scrittura”241.
I romanzi intercalari imitano un gesto sempre anteriore, mai
originale: di fronte alla distinzione barthesiana fra “leggibile” e “scrivibile”,
in cui “ogni testo classico (leggibile) è implicitamente un‟arte di Piena
Letteratura: letteratura che è piena” e “non è più scrivibile”242, Calvino si
pone con assoluta libertà, dal momento che l‟iperromanzo, appunto come
un testo moderno, si costituisce fuori dell‟ordine della verità (per il suo
gioco continuo di menzogne, falsificazioni, apocrifi) e della realtà (per il suo
carattere esibitamene romanzesco e iperletterario), anche se persiste la
tensione a una classicità che lo sperimentalismo non sopisce, ma che si
239
Roland Barthes, Il brusio della lingua. Saggi critici IV (1984), tr. it., Einaudi, Torino
1988, p. 61.
240
Cfr. Italo Calvino, Se una notte d‟inverno un viaggiatore, cit., p. 217.
241
Roland Barthes, Il brusio della lingua. Saggi critici IV, cit., p. 56.
242
Cfr. Roland Barthes, S/Z (1970), tr. it., Einaudi, Torino 1973, pp. 10-11.
103
risolve in un tono manierista e prende la forma della ripetizione, del
rimpianto, di una “epigonalità introiettata”243.
La rarefazione dell‟autore è legata alla presenza di una “retorica
della fiction”, nella quale, come direbbe Booth, l‟autore non è altro che
“un‟impalcatura della nostra mente, fatta con l‟aiuto di elementi della storia
narrata”244, generata per via negativa a partire da ogni testo narrativo per
sostenere la distinzione tra autore e narratore: su questo terreno, Calvino si
confronta anche con Bachtin, per il quale la parola romanzesca è sempre
“indiretta” e non esprime direttamente le intenzioni dell‟autore ma le
frammenta tra un autore convenzionale, un narratore rappresentato, i
personaggi e altri soggetti non personificati nella finzione, ma le cui lingue
risuonano comunque come lingue altrui245.
Bachtin elabora quella che è stata con precisione definita
“l‟esperienza specifica del carattere sempre altrui della parola: non solo nel
senso che il romanzo metterebbe in scena, per così dire, un teatro della
parola dialogata”, ma soprattutto nel senso che questa si presenta sempre
come “parola che porta le tracce dell‟altro (degli altri che l‟hanno già usata e
riempita di senso)”246: analoga è l‟esigenza di Calvino di mettere in
questione il senso dello scrivere come ricerca e raggiungimento dell‟altro,
come contatto con ciò che si trova al di là della pagina.
In Se una notte d‟inverno un viaggiatore, la tradizione romanzesca,
come in Bachtin, è la storia di una parola che si scopre come parola
originariamente altrui: «Il romanzo come totalità è un fenomeno
pluristilistico, pluridiscorsivo, plurivoco, scindendosi, tale unità, in diverse
unità stilistico-compositive: 1) la narrazione artistico-letteraria diretta
dell‟autore […]; 2) la stilizzazione delle varie forme della narrazione orale o
discorso diretto; 3) la stilizzazione delle varie forme della narrazione
243
Cfr. Carla Benedetti, L‟ombra lunga dell‟autore. Indagine su una figura cancellata,
Feltrinelli, Milano 1999, pp. 197-198.
244
Cfr. Wayne C. Booth, Distance et point de vue: Essai de classification, in “Poétique”, 4,
1970, ora in Roland Barthes et al. (ed.), Poétique du récit, Éditions du Seuil, Paris 1977, p.
108.
245
Cfr. Michail Bachtin, Estetica e romanzo (1934-35), tr. it., Einaudi, Torino 1979, pp.
172-173.
246
Cfr. Pietro Montani, Estetica ed ermeneutica. Senso, contingenza, verità, Laterza, Bari
1996, pp. 127-128.
104
semiletteraria (scritta), privata; 4) le varie forme del discorso letterario, ma
extrartistico dell‟autore (ragionamenti morali, filosofici, scientifici…) […]
La singolarità stilistica del genere romanzesco sta proprio nell‟unione di
queste unità subordinate, ma relativamente autonome […]: lo stile del
romanzo è l‟unione degli stili; la lingua del romanzo è il sistema delle
“lingue” […] Il discorso dell‟autore, i discorsi dei narratori, i generi letterari
intercalati, i discorsi dei protagonisti non sono che le principali unità
compositive, mediante le quali la pluridiscorsività è introdotta nel romanzo;
ognuna di esse ammette una molteplicità di voci sociali e una varietà di
legami e correlazioni (sempre in vario modo dialogizzati) tra queste»247.
Nell‟universo pluridiscorsivo di Calvino, ogni testo scritto può
essere riscritto, si presenta come una “trama senza libro”, è aperto e mai
definitivo: l‟essenza del romanzo è dunque quella pienamente novecentesca
di “un paradossale amalgama di elementi eterogenei e discreti in un
organismo di continuo messo in discussione”248.
La figura del lettore è identica a quella del narratore e l‟universo del
raccontato è anche l‟universo del raccontabile, proprio come nella tradizione
orale delle fiabe, anche se nelle Fiabe italiane c‟è apparentemente un
architesto mitico originario, risultato di molteplici stratificazioni e
contaminazioni, rintracciabile grazie alle puntuali segnalazioni di Calvino
nelle note.
Come ne La biblioteca di Babele, dove è raccolta la sintesi
dell‟infinito possibile249, in Se una notte d‟inverno un viaggiatore, la
scrittura gravita invece su un libro ipotetico e forse irraggiungibile, in cui
sono contenuti tutti i libri possibili, e che costituisce una sorta di costruzione
nata durante la lettura mettendo insieme “un gran numero di variabili”:
anche se l‟idea di pastiche è un problema aperto nella poetica di Calvino, si
fa sentire l‟influenza di Borges, amato dallo scrittore “perché ogni suo testo
contiene un modello dell‟universo o di un attributo dell‟universo: l‟infinito,
l‟innumerabile, il tempo, eterno e compresente o ciclico; perché sono
sempre testi contenuti in poche pagine, con un‟esemplare economia
247
Michail Bachtin, Estetica e romanzo, cit., p. 168.
György Lukács, Teoria del romanzo, cit., p. 111.
249
Cfr. Jorge Louis Borges, Finzioni, cit., p. 75.
248
105
d‟espressione; perché spesso i suoi racconti adottano la forma esteriore di un
qualche genere della letteratura popolare, forme collaudate da un lungo uso,
che ne fa quasi delle strutture mitiche”250.
Oltre a condividere un‟idea della letteratura come ritrovamento, la
cui grande invenzione è quella di “fingere che il libro che voleva scrivere
fosse già scritto, scritto da un altro”, in Borges Calvino rintraccia la sua
stessa passione per gli apocrifi e per Le mille e una notte, esplicitamente
menzionate in L‟accostamento ad Almotasim e ne Il giardino dei sentieri
che si biforcano, in cui ritorna l‟immagine del romanzo-labirinto.
Sempre Borges, richiamando la raccolta orientale, offre lo spunto per
quella che diventerà una delle idee dominanti di Calvino, la rarefazione
della soggettività autoriale che sottragga il testo ai facili psicologismi della
critica letteraria: il “Padre dei racconti” richiama la regione immaginaria di
Tlön, in cui “la nozione di plagio non esiste” perché “s‟è stabilito che tutte
le opere sono opere d‟un solo autore, atemporale e anonimo”251.
Oltre alla suggestione delle “affabulazioni sempre più frenetiche e
imbrigliate” e anticipando le posizioni espresse in Tradurre è il vero modo
di leggere un testo252, nel sesto capitolo di Se una notte d‟inverno un
viaggiatore Calvino mette in questione l‟idea di traduzione come unica
forma possibile di creazione artistica, dal momento che Silas Flannery
scrive un romanzo modellato su Le Mille e una notte e Ermes Marana
richiama i mediatori-traduttori infedeli di cui parla Todorov nel saggio Gli
uomini-racconto: «I molteplici traduttori delle Mille e una notte sembrano
tutti aver subito il potere di questa macchina narrativa: nessuno si è potuto
contentare di una traduzione semplice e fedele all‟originale: ogni traduttore
ha aggiunto e soppresso delle storie (il che è anche un modo di creare nuovi
racconti, il racconto essendo sempre una selezione); il processo reiterato di
enumerazione, la traduzione, rappresenta da solo un nuovo racconto che non
250
Cfr. Alberto Asor Rosa, Stile Calvino, cit., pp. 114-115.
Cfr. Jorge Louis Borges, Tlön, Uqbar, Orbis Tertius, in Tutte le opere, Mondadori,
Milano 1984, vol. I, p. 628.
252
Cfr. Italo Calvino, Tradurre è il vero modo di leggere un testo (Relazione a un convegno
sulla traduzione, Roma, 4 giugno 1982), in “Bollettino di informazioni”, XXXII (Nuova
Serie), 3, settembre-dicembre 1985; ora è in Id., Saggi 1945-85, tomo II, cit., pp. 18251831.
251
106
riguarda più il suo narratore: Borges ne ha raccontato una parte in I
traduttori delle Mille e una notte»253.
L‟infinita regressione analitica delle Magie parziali del Don
Chisciotte254, in cui l‟elastico del tempo allunga indefinitamente la
rappresentazione del mondo cui si fa riferimento, si risolve narrativamente
nella vertiginosa spirale della mise en abîme255: similmente, nella mitica
notte in cui Sheherazade narra a Shahriyaàr la storia di se stessa intenta a
raccontare, il lettore è proiettato in uno spazio illimitato che gli procura
improvviso smarrimento e non sa più distinguere i diversi livelli di
credibilità, confonde la realtà col testo narrato o con il semplice apocrifo,
avverte una terrificante crisi d‟identità, dovuta al fatto che “se i personaggi
di una finzione possono essere lettori o spettatori, noi, loro lettori o
spettatori, possiamo essere fittizi”257.
Il labirinto, come metafora nel contempo spazio-temporale e
psicologica, continua a emergere in Se una notte d‟inverno un viaggiatore,
per esempio ne In una rete di linee che s‟allacciano, dove il protagonista
partecipa metanarrativamente alla struttura del racconto delimitandone lo
spazio e tracciandone l‟intreccio: «L‟ideale sarebbe che il libro cominciasse
dando il senso d‟uno spazio occupato interamente dalla mia presenza,
perché intorno non ci sono che oggetti inerti, compreso il telefono, uno
spazio che sembra non possa contenere altro che me, isolato nel mio tempo
interiore, e per l‟interrompersi della continuità del tempo, lo spazio che non
è più quello di prima perché è occupato dallo squillo, e la mia presenza che
non è più quella di prima perché è condizionata dalla volontà di questo
oggetto che chiama. Bisognerebbe che il libro cominciasse rendendo tutto
questo non una volta sola ma come una disseminazione nello spazio e nel
tempo di questi squilli che strappano la continuità dello spazio e del tempo e
della volontà»258.
253
Tzvetan Todorov, Gli uomini-racconto. Le Mille e una notte, in Poetica della prosa
(1971), tr. it., Theoria, Roma-Napoli 1989, p. 51.
254
Cfr. Jorge-Louis Borges, Magie parziali del Don Chisciotte (1949), in Tutte le opere,
vol. I, cit., p. 952-967.
255
Cfr. Lucien Dällenbach, Il racconto speculare. Saggio sulla mise en abyme (1977), tr.it,
Pratiche, Parma 1994.
257
Cfr. Jorge-Louis Borges, Magie parziali del Don Chisciotte , cit., p. 954.
258
Italo Calvino, Se una notte d‟inverno un viaggiatore, cit., pp. 133-134.
107
Anche in Se una notte d‟inverno un viaggiatore il rapporto tra
narratore e lettore si sovrappone fin dall‟inizio al contenuto delle dieci storie
tronche e crea un continuo gioco di riflessi: chi narra si rivolge a un
ipotetico lettore il quale presto si divide in un “lettore che legge” e in un
“lettore che è letto”, ai quali si affianca una lettrice ugualmente sdoppiata,
accanita divoratrice dei romanzi dello scrittore Silas Flannery, che
osserviamo annotare nel proprio diario un imminente progetto professionale
identico al romanzo di Calvino.
La stessa vertiginosa mise en abîme che decostruisce e sdoppia
continuamente i personaggi si estende al testo che è una serie di
interpolazioni eterogenee, come sottolinea bene: «L‟autore del libro dedica
a un lettore come sempre ignoto una narrazione, che non si identifica col
libro ma vi è contenuta, in cui egli si rivolge col tu al protagonista
definendolo Lettore. Il protagonista non è il lettore di Se una notte d‟inverno
un viaggiatore, ma dei frammenti di romanzi che vi sono inseriti. Così
Calvino involge nell‟atto della finzione dei precedenti atti di finzione (i
romanzi parziali) e la loro fruizione»259.
L‟interposizione di vari narratori tra il lettore e gli avvenimenti
raccontati trasforma la realtà narrativa “nel gioco di specchi delle coscienze
che la riflettono”260: l‟insistenza sul discorso metadiegetico assume un
valore metanarrativo, perché “l‟attenzione si sposta dal fatto al modo di fare,
dal racconto ai suoi antecedenti”, facendo diventare il racconto una
“indagine sulle condizioni del narrare”261.
In questo senso, anche la menzogna ha un carattere essenzialmente
semiotico, connaturato all‟attività simbolica dell‟uomo, mettendo in
evidenza il rapporto presente tra la forma letteraria in senso hjelmsleviano e
la sostanza del contenuto della comunicazione262: si può parlare anzi di una
259
Cesare Segre, Se una notte d‟inverno uno scrittore sognasse un aleph di dieci colori, in
Teatro e romanzo, Einaudi, Torino 1984, pp. 136-137.
260
Cfr. Mario Perniola, Il metaromanzo, Silva, Milano 1966, p. 57.
261
Ibidem, p. 56.
262
Cfr. Thomas Pavel, Sulla definizione linguistica della menzogna, in “Lingua e stile”, II,
1, gennaio-giugno 1967, pp. 19-26.
108
ironia d‟azione tattica, perché chi parla adotta una vera e propria strategia
retorica, usando le figure dell‟ironia come strumenti d‟inganno263.
Anche il procedimento della mise en abîme fa emergere
l‟intelligibilità e la struttura formale dell‟opera, assumendo un valore
chiaramente ironico, dal momento che “una delle tecniche più efficaci per
sconsacrare e ridicolizzare alcunché consiste nel rappresentarne la
genesi”264: il ripiegamento di Calvino sui processi di creazione e di fruizione
finisce in realtà per rivelarne il narcisismo e quindi l‟atteggiamento
essenzialmente ironico che si nasconde dietro le maschere della
menzogna265.
Come ha sottolineato Dällenbach, la mise en abîme è strettamente
legata alla nozione di riflessività266, intesa come un continuo ritorno del
racconto sui propri stati e sui propri atti, che interrompe la diegesi e
introduce un fattore di diversificazione: si tratta di un fenomeno che Genette
chiama metalessi narrativa267 e che consiste nel passaggio da un livello
narrativo a un altro, non solo dovuto a una digressione nell‟ambito della
storia, ma anche all‟intrusione del narratore o del narratario extradiegetico
nell‟universo diegetico o, viceversa, di personaggi diegetici in un livello
metadiegetico, con una intersezione di piani che ha un effetto nuovamente
ironico e trasgressivo.
A tenere insieme i diversi piani del discorso è la narrazione a
cornice, che non rimanda solo alle Mille e una notte ma anche a modelli
come le Metamorfosi di Ovidio, il Decameron o i Canterbury Tales,
sebbene la novellistica orientale, con le sue cornici primarie seriali, abbia
elaborato le tipologie più complesse268: attraverso la digressione è possibile
abbandonare
l‟orizzontalità
del
racconto
per
“ritrovare
il
nesso
nell‟associazione di idee anziché in una concatenazione di eventi
263
Cfr. Heinrich Lausberg, Elementi di retorica, Il Mulino, Bologna 1969, p. 102.
Cfr. Mario Perniola, Il metaromanzo, cit., p. 57.
265
Cfr. anche Linda Hutcheon, Modes et formes du narcissisme littéraire, in “Poetique”,
IV, 29, février 1977, pp. 90-106.
266
Cfr. Lucien Dällenbach, op. cit., p. 60.
267
Cfr. Gérard Genette, Figure III. Discorso del racconto (1972), tr. it., Einaudi, Torino
1976, pp. 282-285.
268
Una analisi delle diverse tipologie di narrazione a cornice è in John Barth, Tales within
tales, in “Antaeus”, 43, autumn 1981, pp. 45-63.
264
109
cronologici”269, garantendo la varietà all‟interno dell‟opera e interrompendo
le sequenze nei momenti critici per introdurre la suspense.
Le mille e una notte sono per Calvino l‟unica opera capace di
conservare il fascino entusiasmante degli inizi dei romanzi, quando la storia
non è stata ancora costretta in una successione definita, ma è ancora aperto
il gioco inesauribile delle possibilità narrative, che è anche quello del
discorso orale: «La fascinazione romanzesca che si dà allo stato puro nelle
prime frasi del primo capitolo di moltissimi romanzi non tarda a perdersi nel
seguito della narrazione: è la promessa di un tempo di lettura che si stende
davanti a noi e che può accogliere tutti gli sviluppi possibili. Vorrei poter
scrivere un libro che fosse solo incipit, che mantenesse per tutta la sua
durata la potenzialità dell‟inizio, l‟attesa ancora senza oggetto. Ma come
potrebb‟essere costruito, un libro simile? S‟interromperebbe dopo il primo
capoverso? Prolungherebbe indefinitamente i preliminari? Incastrerebbe un
inizio di narrazione nell‟altro, come le Mille e una notte?»270.
Dalla moltiplicazione degli inizi (cui corrisponde, in Proust, la
“moltiplicazione
delle
istanze
memoriali”271)
deriva
anche
la
moltiplicazione dell‟intensità vitale, fino a toccare il limite del caos che
rende inevitabili le short stories: «[…] è come [se] nel momento dell‟attacco
il romanzo sentisse il bisogno di manifestare tutta la sua energia. L‟inizio
d‟un romanzo è l‟ingresso in un mondo diverso, con caratteristiche fisiche,
percettive, logiche tutte sue»272.
Dall‟illusione che la narrazione nasca come materia orale, come
dialogo o conversazione, deriva direttamente il motivo del dialogo tra
narratore e lettore, delle continue apostrofi rivolte ai fruitori, che, oltre alla
tradizione delle fiabe, ha degli illustri precedenti nel Roman comique di
Scarron, nel Gil Blas di Lesage, in Sterne e in Jacques il fatalista di Diderot,
che si può inserire nell‟ambito della tradizione francese del roman à tiroirs,
269
Cfr. Loretta Innocenti, L‟incastro a specchio in “Tristram Shandy”, in “Paragone”,
XXVIII, 326, aprile 1977, p. 85.
270
Italo Calvino, Se una notte d‟inverno un viaggiatore, cit., p. 117.
271
Cfr. Gérard Genette, Figure III, cit., pp. 94-95.
272
Italo Calvino, Cominciare e finire, in Saggi 1945-85, tomo I, p. 750.
110
ovvero del romanzo costruito come un canterano nel quale ogni cassetto
contiene un racconto273.
Se una notte d‟inverno un viaggiatore, come L‟accostamento ad
Almotasim, è un caso emblematico di quella che Barth definiva “letteratura
dell‟esaurimento”, cioè di una letteratura che ha esaurito completamente le
possibilità di innovazione e che diventa così letteratura di secondo grado,
pur tentando di recuperare le risorse di narratività della fiaba e di trovare il
“nuovo” nel “sempre uguale” della stilizzazione dei generi: «[…] la
concretezza dell‟opera, la sua fatticità, la sua bellezza sensibile, tutte quelle
cose da cui tradizionalmente derivava il piacere estetico (come anche
etimologicamente la parola “estetico” rivela), possono restare inattive. Al
loro posto subentra una sorta di estratto intellettualizzato dell‟opera, ed è su
di esso che si basa il godimento artistico»274.
L‟identità di rimando dell‟autore, costruita esternamente dal lettore,
nell‟ambito dei processi di comunicazione di massa finisce per essere
qualcosa di ingabbiante e riduttivo, in cui la soggettività piena dell‟io
creatore lascia il posto a un‟istanza fantasmatica e indistinta che ritorna
indietro su di lui intrappolandolo in un‟identità estrenea, non voluta,
pietrificante : «I lettori sono i miei vampiri. Sento una folla di lettori che
sporgono lo sguardo sopra le mie spalle e s‟appropriano delle parole man
mano che si depositano sul foglio. Non sono capace di scrivere se c‟è
qualcuno che mi guarda»275.
Il rapporto tra scrittura e lettura in Calvino è strettissimo fin da Il
cavaliere inesistente, dove la voce della monaca-narratrice coincide alla fine
con l‟avventurosa Bradamante, proiettando la letteratura verso la vita e
verso il futuro: la stessa tensione a condurre il libro fuori da sé si esprime
nel sogno di Silas Flannery di avere un contatto immediato con la Lettrice,
ovvero di uscire da un mondo di carta per tuffarsi in quello dell‟esperienza.
Anche ne Le città invisibili la sovrapposizione dei ruoli non consente
di stabilire con precisione a chi appartenga la voce del narratore: oltre a
273
Cfr. Gian Battista Tommassini, Il racconto nel racconto. Analisi teorica dei
procedimenti di inserzione narrativa, Bulzoni, Roma 1990, pp. 107-110.
274
John Barth, La letteratura dell‟esurimento (1967), in Peter Carravetta e Paolo Spedicato
(a cura di), Postmoderno e letteratura, Bompiani, Milano 1984, p. 54.
275
Italo Calvino, Se una notte d‟inverno un viaggiatore, cit., p. 228.
111
Marco Polo, narratore inventivo e dinamico, e a Kublai Kan, ascoltatore
sedentario e curioso, bisogna presupporre forse una terza figura che è
l‟unione dei due e che si manifesta nella forma “esterna” del racconto, nella
sua organizzazione, nelle cornici, negli schemi, nelle numerazioni, nei titoli,
finendo per coincidere con Calvino stesso, senza però mai identificarsi
completamente con lui.
Con Se una notte d‟inverno un viaggiatore siamo definitivamente
nello spazio della post-testualità, cioè della possibilità di infinite variazioni
affidate all‟iniziativa del lettore-interprete: Calvino prefigura il network
della scrittura ipertestuale, nella quale sembra risorgere la dimensione orale
della fiaba, seppure sotto forma di “oralità seconda”276, e in cui il lettore
interattivo può scegliere il proprio percorso attraverso il metatesto, annotare
testi scritti da altri e creare collegamenti tra essi, vanificando il ruolo
tradizionale dell‟autore, basato su prerogative come l‟autorevolezza,
l‟autonomia dell‟opera e la proprietà intellettuale277.
La persistenza ipertrofica dell‟autore è percepita da Calvino con
disagio, come un epifenomeno prodotto dall‟industria culturale e dal
copyright, tenuto in vita soltanto dal lettore e dal suo “desiderio”: nel
conflitto di ruoli presente tra Silas Flannery ed Ermes Marana viene infatti
tematizzata la distinzione segnalata da Pingaud tra l‟autore come figura
pubblica (compromesso con i media e con le strategie promozionali) e lo
scrittore vero e proprio che si nasconde dietro al testo e che non può uscire
allo scoperto per non diventare l‟ “agente pubblicitario della propria
opera”278.
Come in una prima fase di azzeramento precedente un possibile
“rilancio” dialettico, viene certificata la crisi del concetto specificamente
moderno di autorialismo, in base al quale un‟opera d‟arte non può esistere
se non in quanto prodotto di un autore, cioè di un valore differenziale,
giudicato dall‟apporto di novità e di originalità rispetto alla tradizione: «Si
può immaginare una cultura dove i discorsi circolerebbero e sarebbero
276
Cfr. Walter J. Ong, Interfacce della parola (1977), tr.it., Il Mulino, Bologna 1989, pp.
354-356.
277
Cfr. George P. Landow, Ipertesto. Il futuro della lettura (1992), tr. it., Baskerville,
Bologna 1993, pp. 87-121.
278
Cfr. Bernard Pingaud, La Non-fonction de l‟écrivain, in “L‟Arc”, 70, 1977, p. 78.
112
ricevuti senza che la funzione-autore apparisse mai. Tutti i discorsi,
qualunque fosse il loro statuto, la loro forma, il loro valore o il trattamento
che si fa loro subire, si svolgerebbero nell‟anonimato di un mormorio»279.
L‟accento posto sulla molteplicità del testo e sul ruolo attivo del
lettore preannuncia anche in Calvino la morte dell‟autore, così come viene
auspicata da Barthes, necessaria affinché il testo possa liberare tutte le sue
potenzialità: «[…] un testo è fatto di scritture molteplici, provenienti da
culture diverse e che intrattengono reciprocamente rapporti di dialogo,
parodia o contestazione, esiste però un luogo in cui tale molteplicità si
riunisce, e tale luogo non è l‟autore, come sinora è stato affermato, bensì il
lettore: il lettore è lo spazio in cui si inscrivono, senza che nessuna vada
perduta, tutte le citazioni di cui è fatta la scrittura; l‟unità di un testo non sta
nella sua origine ma nella sua destinazione […] prezzo della nascita del
lettore non può essere che la morte dell‟Autore»280.
La morte dell‟autore andrebbe vista piuttosto come una necessità,
sentita dall‟autore stesso, di ripensarsi, di vedersi nella sua stratificazione
interna, di accettare una sorta di “io multiplo” come quello evocato da
Calvino in Molteplicità: «Qualcuno potrà obiettare che più l‟opera tende alla
moltiplicazione dei possibili più s‟allontana da quell‟unicum che è il self di
chi scrive, la sincerità interiore, la scoperta della propria verità. Al contrario,
rispondo, chi siamo noi, chi è ciascuno di noi se non una combinatoria d‟
esperienze, d‟informazioni, di letture, d‟immaginazioni? Ogni vita è un‟
enciclopedia, una biblioteca, un inventario d‟oggetti, un campionario di stili,
dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi
possibili»281.
Rispetto a Foucault, per il quale la morte dell‟autore produce una
vera e propria euforia, la posizione di Calvino è forse meno entusiastica, più
simile a quella di Barthes che, associando scrittura e fotografia, da un lato
sente la scomparsa come liberatoria, dall‟altro vive in modo angoscioso la
permanenza come immagine costruita dall‟atto di lettura, con il rischio di
279
Michel Foucault, Che cos‟è un autore? (1969), in Scritti letterari, Feltrinelli, Milano
1971, p. 21.
280
Roland Barthes, La morte dell‟autore (1968), in Il brusio della lingua. Saggi critici IV,
cit., p. 56.
281
Italo Calvino, Molteplicità, in Lezioni americane, cit., p. 120.
113
diventare un “Tutto-Immagine, vale a dire la Morte in persona”, in cui “gli
altri – l‟Altro – mi espropriano di me stesso, fanno di me, con ferocia, un
oggetto, mi hanno in loro mano, a loro disposizione, sistemato in uno
schedario”282: non si può non notare una corrispondenza con i “lettorivampiri” di Se una notte d‟inverno un viaggiatore.
Anche se in Il piacere del testo Barthes dice chiaramente che
l‟autore è una “figura” costruita dal lettore e che vale come “un jolly”, come
“il morto del bridge necessario al senso (allo scontro), ma privo in sé di
senso fisso”283, e sembra quindi ridurlo a un goffmanniano “gioco di facce”
costruito nell‟interazione, tuttavia il disagio di chi si sente fotografato nel
proprio testo (o guardato, come nel caso di Calvino) rivela tutta l‟ambiguità
del mito della morte dell‟autore e la volontà di preservare la propria identità
da una dispersione solo apparentemente catartica: «Io vorrei insomma che la
mia immagine, mobile, sballottata secondo le situazioni, le epoche, fra
migliaia di foto mutevoli, coincidesse sempre col mio “io” (che come si sa è
profondo); ma è il contrario che bisogna dire: sono “io” che non coincido
mai con la mia immagine; infatti è l‟immagine che è pesante, immobile,
tenace (ecco perché la società vi si appoggia), e sono “io” che sono leggero,
diviso, disperso e che, come un diavoletto di Cartesio, non sto mai fermo,
mi agito dentro la mia buretta: ah, se la Fotografia potesse darmi almeno un
corpo neutro, anatomico, un corpo che non significasse niente!Invece,
ahimé, sono condannato dalla Fotografia […] ad avere sempre
un‟espressione: il mio corpo non trova mai il suo grado zero»284.
Quando, in Cibernetica e fantasmi, Calvino afferma che “la persona
io, esplicita o implicita, si frammenta in figure diverse, in un io che sta
scrivendo e in un io che è scritto, in un io empirico che sta alle spalle dell‟io
che sta scrivendo e in un io mitico che fa da modello all‟io che è scritto” 285,
sottolineando il ruolo dell‟ “io scrivo” che sta alle spalle dell‟ “io narro”,
esprime già la sua ostilità verso ogni semplificazione narratologica che
282
Cfr. Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia (1980), tr. it., Einaudi,
Torino 1988, p. 16.
283
Cfr. Roland Barthes, Il piacere del testo (1973), tr. it., Einaudi, Torino 1975, p. 27 e p.
34.
284
Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, cit., pp. 13-14.
285
Cfr. Italo Calvino, Cibernetica e fantasmi (Appunti sulla letteratura come processo
combinatorio) (1967), in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, cit., p. 172.
114
tenda a confondere il narratore con l‟autore, negli stessi termini in cui Booth
affronta il problema dell‟ “autore implicito”286.
L‟effetto di apocrifo, che “non è altro che un tentativo di azzerare
entropicamente ogni „valore differenziale‟ dello stile e della poetica, di
vanificare l‟idea stessa di un‟intenzionalità artistica originale – quella che
appunto il fruitore non può fare a meno di supporre all‟origine
dell‟opera”287, fa parte di una serie di tattiche di de-autorializzazione che
mirano
a
limitare
l‟ipertrofia
dell‟autore,
attraverso
l‟esibizione
dell‟inautenticità dello stile e del riuso manipolatorio di materiali
tradizionali in senso ironico o ludico: si tratta di una pratica artistica che si
accompagna sempre a un forte grado di riflessività, in cui viene esibito, oltre
al meccanismo dell‟opera, il processo di deutero-apprendimento288, ovvero
la coazione allo straniamento formale e la valorizzazione del soggetto
autoriale che erano proprie dell‟arte fino ai movimenti d‟avanguardia di
inizio Novecento, quando comincia una paralizzante autocritica della
modernità.
Con l‟estetizzazione di ogni aspetto del mondo della vita, che
produce una dissoluzione dei confini tradizionali dell‟estetico, viene
recuperata paradossalmente la funzione dell‟autore, trasformata anch‟essa in
feticcio come qualsiasi altra merce: in questo modo la letteratura di massa
ha inglobato anche quello che fino a poco prima era il suo contrario e si
proclama quindi “d‟autore” tanto quanto la letteratura “alta”.
Calvino mette in scena questa paradossalità e problematizza
foucaultianamente la sua stessa difficoltà di scegliere tra una logica
avanguardistica di trasgressione, contaminazione e coazione al nuovo,
rischiando tuttavia l‟epigonismo, e una rottura della dialettica della
modernità, con la pratica di un “postmodernismo critico” che prenda atto
della improponibilità del nuovo e riesca in qualche modo a essere critico e
propositivo nei confronti dell‟esistente.
286
Cfr. Wayne C. Booth, Retorica della narrativa (1962), tr. it., La Nuova Italia, Firenze
1996, pp. 161-165.
287
Cfr. Carla Benedetti, L‟ombra lunga dell‟autore. Indagine su una figura cancellata, cit.,
p. 25.
288
Cfr. Gregory Bateson, Verso un‟ecologia della mente (1972), tr. it., Adelphi, Milano
1976, in part. pp. 195-211.
115
Oltre alla suggestione di una rinnovata “mediazione delle poetiche”,
che permette al fruitore di avvicinarsi al testo come oggetto dotato di valore
artistico e che si traduce nel recupero dei generi, non è estraneo a Calvino il
tentativo fatto da Jauss di rifondare l‟esperienza estetica attraverso le tre
categorie di poiesis, aisthesis e katharsis, riqualificando il momento
dell‟identificazione, in quanto possibilità per il lettore di fare “un‟esperienza
del mondo negli occhi degli altri”289.
Contro gli eccessi di una letteratura troppo marcatamente readeroriented sembra andare anche la sottolineatura dello “stile” come “scelta”
dell‟autore, in senso più problematico rispetto all‟impostazione propria della
critica stilistica: «Scrivere presuppone ogni volta la scelta d‟un
atteggiamento psicologico, d‟un rapporto col mondo, d‟un‟impostazione di
voce, d‟un insieme omogeneo di mezzi linguistici e di dati dell‟esperienza e
di fantasmi dell‟immaginazione, insomma di uno stile. L‟autore è autore in
quanto entra in una parte, come un attore, e s‟identifica con quella
proiezione di se stesso nel momento in cui scrive»290.
Se Booth considera lo stile come il “centro di principi normativi e di
scelte da me definito „autore implicito‟, visto che lo stile è una delle fonti
principali „per comprendere le norme a cui si attiene l‟autore”291, Calvino
esprime tuttavia nello stesso tempo l‟intollerabilità di ogni proiezione
ingenua e semplificante in un “secondo io” immerso nell‟opera, come si può
riscontrare nell‟aspirazione a una impossibile e catartica dissoluzione:
«Come scriverei bene se non ci fossi! Se tra il foglio bianco e il ribollire
delle parole e delle storie che prendono forma non si mettesse di mezzo
quello scomodo diaframma che è la mia persona! Lo stile, il gusto, la
filosofia personale, la soggettività, la formazione culturale, l‟esperienza
vissuta, la psicologia, il talento, i trucchi del mestiere: tutti gli elementi che
fanno sì che ciò che scrivo sia riconoscibile come mio»292.
289
Cfr. Hans Robert Jauss, Esperienza estetica ed ermeneutica letteraria (1982), vol. I,
tr.it.,Il Mulino, Bologna 1987, p. 190.
290
Italo Calvino, I livelli della realtà in letteratura (1978), in Una pietera sopra. Discorsi
di letteratura e società, cit., p. 312.
291
Cfr. Wayne C. Booth, Retorica della narrativa, cit., p. 76.
292
Italo Calvino, Se una notte d‟inverno un viaggiatore, cit., p. 229.
116
In questo passaggio si profila un altro motivo tematizzato all‟interno
di Se una notte d‟inverno un viaggiatore, ovvero il rapporto, ancora una
volta tipicamente moderno, tra l‟investimento sulla funzione-autore e la
svalutazione della produzione di genere: come ha sottolineato giustamente
Carla Benedetti, si tratta di “un rapporto che neppure la tendenza tardo
moderna a contaminare la letteratura d‟autore con la letteratura di genere ha
del tutto sovvertito, nella misura in cui essa continua a essere percepita
come una sorta di vertigine, come piacere perverso dell‟arte che rasenta il
suo contrario; il che non vanifica quella distinzione, ma anzi la valorizza,
sfruttandola per un particolare effetto artistico”293.
Nella letteratura classica non c‟era la distinzione tra libri d‟autore e
libri commerciali, come non esisteva la percezione negativa del “genere”,
perché tutte le opere si inserivano in una produzione di genere: con
l‟affermazione del romanzo, momento in cui possiamo fissare anche l‟inizio
della tradizione moderna, cambia radicalmente tutto il sistema letterario e si
verifica quella che Bachtin ha chiamato la “romanzizzazione della
letteratura” che inizia a esibire i suoi meccanismi e a parodiare le sue varietà
canonizzate, operando la contaminazione dei generi.
Il romanzo, prodotto tipico dell‟epoca moderna, rappresenta anche
per Calvino un punto di riferimento privilegiato, perché è l‟unico “genere in
divenire” e non ha la sua forma né uno stile, ma li muta continuamente,
smascherando la rigidità degli altri generi letterari.
Prima della svalutazione moderna dei generi, era possibile separare il
valore artistico di un prodotto dal fatto che esso fosse “d‟autore”,
diversamente da quanto accade nella letteratura del Novecento, nella quale
la funzione-autore ha assunto il compito che un tempo spettava al genere,
consegnando completamente alle “poetiche” il ruolo essenziale della
mediazione nella comunicazione letteraria: per i suoi contemporanei, l‟
Orlando Furioso era un un‟opera letteraria non perché incarnava dei valori
estetici o era scritto da Ariosto, ma perché era un poema cavalleresco e in
293
Cfr. Carla Benedetti, L‟ombra lunga dell‟autore. Indagine su una figura cancellata, cit.,
p. 83.
117
esso poteva riconoscersi un certo tipo di società294, e quindi la letterarietà
del testo derivava dalla appartenenza a dei tratti generici riconoscibili.
Di fronte alla liquidazione dei generi compiuta da Croce295, Calvino
sostiene invece la loro necessità, influenzato non solo dalle teorie storicoermeneutiche e da quelle strutturaliste, ma anche in piena consonanza con le
teorizzazioni di Jauss, nelle quali la nozione di genere riacquista la sua
centralità teorica e critica: «Non è immaginabile un‟opera letteraria che si
collochi in una sorta di vuoto d‟informazione e non dipenda da una
situazione specifica della comprensione. In questo senso ogni opera
letteraria appartiene a un genere, il che equivale ad affermare
semplicemente che ogni opera letteraria presuppone un orizzonte di attesa,
cioè un insieme di regole preesistenti che orientano la comprensione del
lettore (del pubblico) e gli permettono una ricezione apprezzativa»296.
In questa prospettiva, la “continuità che crea il genere” non afferma
tanto un canone da riprodurre, ma rivela un orizzonte di attese che si è
formato nella tradizione, in cui ogni nuovo testo si inserisce, non
confermando semplicemente le attese di riconoscibilità da parte del
pubblico: essa apporta infatti variazioni, allargamenti, in quanto “la
relazione del singolo testo con la serie di testi che costituiscono il genere
appare come un processo continuo di creazione e di modificazione di un
orizzonte”297.
Contro l‟ “errore intellettualistico” della teoria dei generi, Calvino
sembra assumere la prospettiva “immanente” jaussiana che collega i generi
a una “incessante costituzione di orizzonti e del loro mutamento”, in uno
spazio stratificato e mobile: «Il rapporto del singolo testo con la serie dei
testi costitutiva del genere appare come un processo di continua costituzione
di orizzonti e di mutamento degli stessi. Il nuovo testo evoca per il lettore (o
ascoltatore) l‟orizzonte che gli è familiare in base ai testi precedenti, fatto di
aspettative e di regole del gioco che in seguito potranno essere variate,
294
Cfr. Italo Calvino, Un progetto di pubblico (1974), in Una pietra sopra. Discorsi di
letteratura e società, cit., p. 335-339.
295
Cfr. Benedetto Croce, Estetica (1902), Adelphi, Milano 1990, in part. p. 48.
296
Cfr. Hans Robert Jauss, Teoria dei generi e letteratura del Medioevo, in Id., Alterità e
modernità della letteratura medioevale (1970), tr. it., Bollati Boringhieri, Torino 1989, p.
224.
297
Ibidem, p. 237.
118
ampliate, corrette, ma anche trasformate, incrociate o solamente riprodotte.
Variazione, ampliamento e correzione determinano il margine: da un lato la
rottura con la convenzione e dall‟altro la pura riproduzione individuano i
confini di una struttura di genere»298.
Il genere quindi non viene più considerato rigidamente come un
canone normativo o un catalogo classificatorio, ma come un luogo in cui si
esprimono le relazioni tra un‟opera e il sistema letterario nel suo complesso,
come un particolare tipo di “architestualità”, ovvero di “relazione di
inclusione che unisce un testo ai diversi tipi di discorso a cui appartiene”299,
ridisegnandoli continuamente: a questa continuità sembra alludere il Lettore
quando afferma che non è più possibile “considerare ciò che è scritto come
qualcosa di finito e di definitivo, a cui non c‟è nulla da aggiungere o da
togliere”, dal momento che il libro viene assorbito dal magma delle varianti,
rivelando la sua appartenenza alla narrazione orale e alla fiaba.
Sdoppiando la definizione dei generi in una duplice direzione,
comprendente sia l‟autore sia il lettore, si verifica inevitabilmente una
relativizzazione dell‟identità testuale nel senso di una pluralità di
determinazioni generiche, ovvero di una genericità autoriale e lettoriale300,
per cui la „storicità‟ dell‟opera si risolve nella sua destinazione
transcontestuale, sempre decontestualizzabile e ricontestualizzabile: «In
altri termini, si ripropone la questione del canone o della tradizione, come
possibile spazio delle variazioni di identità testuale e generica delle opere; e
la via per affrontarla sembra suggerita dall‟osservazione che è del tutto
insufficiente considerare i nomi di generi (consolidati) come termini
meramente classificatori, dovendosi tener conto della loro complessità
pragmatica»301.
In virtù del fatto che l‟insieme dei generi costituisce un sistema,
l‟appartenenza di un testo a un determinato genere ne segna anche
l‟appartenenza alla letteratura, la collocazione in un “dentro” e in un
298
Ibidem, pp. 232-233.
Cfr. Gérard Genette, Introduzione all‟architesto (1979), tr.it., Pratiche, Parma 1981, p.
70.
300
Cfr. Paolo Bagni, Genere, La Nuova Italia, Firenze 1997, pp. 78-79.
301
Cfr. Jean-Marie Schaeffer, Che cos‟è un genere letterario? (1989), tr. it., Pratiche,
Parma 1992, pp. 113-114.
299
119
“fuori”: è una funzione che la teoria letteraria moderna ha sempre trascurato
e che Calvino riporta alla ribalta costruendo un vero e proprio catalogo delle
possibilità di declinazione della stessa storia in generi diversi, nel quale è
forte la suggestione della Comédie humaine balzachiana con il suo narratore
che padroneggia “tutti i generi di letteratura e tutte le forme”302.
Anche Schaeffer enuncia questa situazione, notando che la teoria dei
generi “è diventata il luogo in cui si gioca la sorte del campo estensionale e
della definizione intensionale della letteratura”303: il ritorno ai generi di Se
una notte d‟inverno un viaggiatore, per quanto non privo di una certa
ambiguità di fondo, non è in chiave trasgressivo-parodica, come voleva il
gusto modernista, ma seria e nasce dalla consapevolezza, venata di nostalgia
per una fase premoderna, che i generi costituiscono l‟essenza più profonda
della letteratura.
Calvino attesta così il passaggio della letteratura di genere o
“paraletteratura” (classificabile entro categorie ben definite) allo status di
letteratura d‟autore: i generi hanno invertito la loro valenza e il recupero
postmoderno non li riammette nella loro funzione antica ma in quanto
rifiuto della modernità e “sfondo” di convenzioni e regole, rispetto al quale
emergono sia lo scarto del valore differenziale che fa l‟originalità di
un‟opera, sia l‟ironica e inevitabile rinuncia all‟originalità.
Si afferma un‟epigonalità assunta ormai consapevolmente e
metabolizzata: la valorizzazione delle qualità differenziali lascia il posto
all‟accentuazione della loro impossibilità, alla coscienza dell‟insostenibilità
del nuovo.
La letteratura postmoderna nega e nello stesso tempo sfrutta la
distinzione tra letteratura di genere e letteratura d‟autore, che nella
modernità era l‟idea regolativa del giudizio di valore: il genere, dopo aver
acquistato un ruolo negativo in quanto sinonimo di pura convenzionalità,
diventa ora, in senso bachtiniano, una categoria aperta, mobile, contagiando
anche le “poetiche” moderne destinate così a diventare di genere, a subire l‟
302
Cfr. la prefazione di Balzac a Études de Moeurs (1853), cit. in Paolo Bagni, op. cit., p.
54.
303
Cfr. Jean-Marie Schaeffer, Che cos‟è un genere letterario?, cit., p. 10.
120
“astuzia della tradizione” che fa diventare classico anche ciò che
inizialmente sembrava uscire dai canoni riconosciuti304.
Se una notte d‟inverno un viaggiatore, pur recuperando il
romanzesco nei suoi aspetti più convenzionali, con intrighi, avventura e il
classico lieto fine matrimoniale, riapre per i generi narrativi la via alla
letteratura d‟autore: siamo lontani dalla svalutazione operata dalla narrativa
novecentesca, attratta piuttosto dagli antiromanzi, dalle narrazioni senza
intreccio e dalle “opere aperte”.
Si tratta tuttavia di un recupero paradossale e inevitabilmente
“necrofilo”, perché non elimina la svalutazione ma la sfrutta, rovesciando
solo in apparenza il criterio di letterarietà che fonda la tradizione moderna e
mantenendo l‟attribuzione inestetica della modernità, analogamente a
quanto avviene nella conversazione in base alla teoria di Grice, con la
produzione di molte inferenze pragmatiche per sfruttamento delle massime
conversazionali, solo apparentemente trasgressivo305.
I dieci inizi di romanzo di Se una notte d‟inverno un viaggiatore
rappresentano altrettante tipologie di “romanzesco” moderno, da quello
della neoavanguardia a quello realistico-politico, da quello geometricometafisico a quello erotico-orientale e latinoamericano, da quello
esistenziale tipico del neorealismo a quello fantastico-surreale: si tratta di
dieci “stili di storie”, di un repertorio delle diverse possibilità del narrabile,
che conducono a “una vera enciclopedia delle forme narrative fra le quali,
tanto il lettore specialista quanto il lettore non specialista e letterariamente
più ingenuo troveranno degli aspetti vicendevolmente avvincenti”306. Come
nella letteratura di massa, “il genere diventa contemporaneamente lo spazio
del dicibile e la sintassi che ne regola le produzioni”307.
Viene così meno ogni distinzione tra uso letterario e non letterario
del linguaggio, al concetto di letteratura si sostituisce quello di discorso,
304
Cfr. Hans Robert Jauss, Esperienza estetica ed ermeneutica letteraria (1982), vol. I, cit.,
pp. 59-60.
305
Cfr. Paul H. Grice, Logica e conversazione. Saggi su intenzione, significato e
comunicazione (1967), tr.it., Il Mulino, Bologna 1993, pp. 199-219.
306
Cfr. Ulrich Schulz-Buschhaus, Critica e recupero dei generi. Considerazioni sul
“moderno” e sul “postmoderno”, cit., p. 14.
307
Cfr. Giuseppe Gagliozzi, Ipertesti e modelli testuali (Ciclo di seminari febbraio-giugno
1994), Accademia Nazionale dei Lincei, Roma 1997, p. 138.
121
inteso come “corrispettivo strutturale del concetto funzionale di „uso‟ (del
linguaggio)”308, esito della trasformazione notata da McLuhan nella società
dell‟informazione, nella quale il medium diventa il messaggio: con la
scomparsa della contrapposizione tra letterario e non letterario a favore della
molteplicità dei discorsi, la letteratura si risolve inevitabilmente in usi del
linguaggio, come dimostra Se una notte d‟inverno un viaggiatore.
Il fatto inoltre che Calvino si cimenti con generi diversi presuppone
un fenomeno della letteratura moderna per cui un testo non viene più
valutato nell‟orizzonte “locale” del genere ma in quello della letteratura nel
suo complesso: allo stesso modo, in Marcovaldo, l‟operazione di racconto
breve in tono fiabesco, originale nel contesto prevalentemente realista del
tempo, non può essere valutata rispetto alla fiaba o al racconto breve ma alla
tradizione letteraria nel suo complesso, alle forme che sperimenta e che ha
abbandonato.
La selezione e l‟esclusione non sono più i principi costitutivi del
testo letterario che viene invece definito nei termini dell‟inclusione, ovvero
della relazione che “unisce ogni testo ai diversi tipi di discorso ai quali
appartiene”309, cui Calvino allude anche nella lezione incompiuta
Cominciare e finire, facendo proprio uno dei procedimenti più importanti
della
letteratura
postmoderna,
caratterizzata
dall‟eterotopia,
dalla
combinazione di mondi, spazi e visioni molto diversi tra loro: «Come è
possibile isolare una storia singolare se essa implica altre storie che la
attraversano e la „condizionano‟ e queste altre ancora, fino a estendersi
all‟intero universo?»310.
L‟ossessione di Calvino è tutto ciò che resta escluso, il rapporto tra
un determinato argomento e “tutte le sue possibili varianti e alternative, tutti
gli avvenimenti che il tempo e lo spazio possono contenere”311.
In un panorama letterario in cui tutti gli stili, i generi e i
procedimenti formali sono ugualmente e contemporaneamente disponibili e
308
Cfr. Tzvetan Todorov, I generi del discorso, cit., p. 19.
Cfr. Gérard Genette, Introduzione all‟architesto (1979), tr.it., Pratiche, Parma 1981, p.
70.
310
Cfr. Italo Calvino, Cominciare e finire, in Saggi 1945-85, tomo I, cit., p. 751.
311
Cfr. Id., Esattezza, in Lezioni americane, cit., p. 67.
309
122
simultanei nel senso di un romanzo come “totalità stilistica”312, a risultare
significativa è la scelta dell‟artista, con una conseguente perdita della
funzione di orientamento svolta dai generi, che provoca un riassestamento
dei
processi
della comunicazione letteraria, cambiando anche le
caratteristiche della fruizione e spostando sempre più verso di essa il valore
differenziale dell‟opera: in questo senso, è significativo il fenomeno della
variazione, ovvero il “processo di creazione e di modificazione continua di
un orizzonte” di cui parla Jauss313, riconoscibile anche nella funzione
positiva della delusione delle attese in Iser314.
Al valore positivo attribuito dalla modernità alla differenza e allo
straniamento si sostituisce quindi quello della “ripresa”, che ribadisce
comunque l‟autoreferenzialità dei processi artistici e deautomatizza le forme
letterarie, soggette a un continuo logoramento interno cui corrisponde la
necessità di straniare ciò che è diventato norma come nuova forma di
“realismo”315: si tratta di un realismo con un valore relativo e
autoreferenziale, valutato in base al rapporto differenziale dell‟operazione
artistica con operazioni precedenti, espressione dell‟intransitività della
scrittura, per cui “la letteratura è in fondo un‟attività tautologica come
quelle di certe macchine cibernetiche costruite per se stesse (l‟omeostato di
Ashby)”316.
Con l‟esibizione del “vissuto autoriale”, Calvino affronta il problema
dell‟autoreferenzialità che finisce per inglobare in sé tutto il processo della
comunicazione letteraria, in un circuito chiuso nel quale la creazione riflette
i processi della fruizione e viceversa: lo scrittore postmoderno deve
dimostrarsi consapevole di ciò che fa e di come esso viene percepito e
fruito.
312
Cfr. Michail Bachtin, Estetica e romanzo, cit., p. 69.
Cfr. Hans Robert Jauss, Teoria dei generi e letteratura del Medioevo, in Alterità e
modernità della letteratura medioevale, cit., pp. 85-86.
314
Cfr. Wolfgang Iser, L‟atto della lettura. Una teoria della risposta estetica (1978), tr.it.,
Il Mulino, Bologna 1987, p. 58.
315
Cfr. Roman Jakobson, Il realismo nell‟arte (1962), in Tzvetan Todorov (a cura di), I
formalisti russi. Teoria della letteratura e metodo critico (1965), tr.it., Einaudi, Torino
1968, p. 101.
316
Cfr. Roland Barthes, Scrittori e scriventi (1960), in Saggi critici, tr. it., Einaudi, Torino
1972, p. 122.
313
123
L‟ “autotelia”317 in cui si risolve il linguaggio letterario lo allontana
dai referenti reali e lo fa convergere in sé, nella propria materialità318 e
specificità estetica: il vero tema del romanzo è la testualità, nei suoi vari
aspetti, compresi quelli delle dinamiche della destinazione e della
“codificazione eteronoma”319, ovvero delle esigenze esterne del mercato
culturale e massmediologico che sembra trasferire la stratificazione della
produzione letteraria, dei diversi target, all‟interno dell‟opera stessa, per
poter raggiungere contemporaneamente più categorie possibili di lettori.
Ci troviamo di fronte quindi a un‟ “opera aperta” che richiama l‟arte
dello happening per la sua forma indecidibile e deliberatamente “non finita”
che si attualizza pienamente solo nell‟esperienza individuale del fruitore:
possiamo parlare di performance, che Benamou ha giustamente definito “la
modalità unificante del postmoderno”320, nella quale l‟arte si attualizza
soltanto nell‟interazione tra artista e spettatore321.
Come Pynchon e Barthelme, anche Calvino costruisce un testo
dotato della stessa qualità enigmatica e intersemiotica dell‟arte della
performance, fondata su un linguaggio di non assimilazione che, per
attualizzarsi in quanto opera d‟arte, richiede un‟azione creativa da parte del
fruitore, nella quale risiede la vera sostanza dell‟opera: viene così messa in
discussione l‟aura dell‟oggetto esteticamente compiuto, creando le
possibilità di un allargamento del campo di percezione estetica ed
evidenziando una rottura tra le tecniche avanguardistiche e il modernismo
canonizzato che si rivela in realtà un fenomeno plurale e diversificato.
Ma, come la fisica quantistica, anche la scrittura ha il suo principio
di indeterminazione, e i tentativi dell‟osservatore di cogliere il suo fluttuante
oggetto inevitabilmente si scontrano con le leggi che separano e uniscono
l‟irreversibile mondo macroscopico e il reversibile, e invisibile, mondo
317
Cfr. Tzvetan Todorov, Critica della critica (1984), tr.it., Einaudi, Torino 1986, pp. 51-
63.
318
Cfr. Michail Bachtin, Il problema del contenuto, del materiale e della forma nella
creazione letteraria, in Estetica e romanzo, cit., pp. 8-23.
319
Cfr. Marcello Sechi, op. cit., p. 8.
320
Cfr. Michel Benamou, Presence as play, in Michel Benamou e Charles Caramello
(eds.), Performance in Postmodern Culture, Milwaukee Center for Twentieth Century
Studies, 1977, p. 31.
321
Sulle modalità del coinvolgimento del lettore nell‟opera cfr. Agostino Lombardo, Il testo
e la sua performance, Editori Riuniti, Roma 1988, in particolare pp. 32-75.
124
microscopico, di cui possiamo cogliere solo un‟ombra o una traccia: «Il
senso del fuori è sempre stato nel dentro, prigioniero fuori dal fuori, e
reciprocamente»322.
L‟opera letteraria non può quindi farsi carico della comunicazione di
alcun contenuto esterno a quello della propria finzione: la letteratura è
contenitore di sapere solo in ragione della sua traducibilità in letteratura,
della sua capacità di assumere una funzione evocativa o strutturale, della sua
intima disponibilità a essere o a produrre finzione.
L‟affermazione della “significatività autonoma” del linguaggio, che
si manifesta nella sua infinita disponibilità “combinatoria”, è direttamente
proporzionale
alla
consapevolezza
della
precarietà
delle
cose
e
dell‟esistenza, cui la scrittura oppone immagini sostitutive, inglobanti.
In Se una notte d‟inverno un viaggiatore, Calvino crede sempre
meno nelle potenzialità della scrittura e insegue l‟azzeramento del
linguaggio per una via opposta a quella di Beckett, attraverso un accumulo
di codici e l‟eccesso di precisione visiva, che si risolvono in manierismo, in
un‟idea della letteratura come sterminata raccolta di emblemi barocchi,
rappresentata dall‟immagine del caleidoscopio: «Appena accosto l‟occhio a
un caleidoscopio sento che la mia mente, seguendo l‟adunarsi e comporsi di
frammenti eterogenei di colori e di linee in figure regolari, trova
immediatamente il procedimento da seguire: non foss‟altro che la
rivelazione perentoria e labile d‟una costruzione rigorosa che si disfa al
minimo batter d‟unghia sulle pareti del tubo, per essere sostituita da un‟altra
in cui gli stessi elementi convergono in un insieme dissimile»323.
Analogamente, le diverse forme di testualità che incessantemente si
scontrano nel caleidoscopio cangiante che chiamiamo la “cultura di massa”
possono
apparire
insieme
straordinariamente
complesse:
leggibili
dall‟esterno come la reiterazione infinita ed ecolalica di pochi diffusi
stereotipi, appaiono viceversa dense e a volte inesauribili se osservate
dall‟interno.
322
323
Jacques Derrida, Della grammatologia (1967), tr.it., Jaca Book, Milano 1969, p. 58.
Italo Calvino, Se una notte d‟inverno un viaggiatore, cit., p. 161.
125
Al nuovo concetto di “infinità del testo”, per cui questo “assume i
ritmi e i tempi di quella stessa quotidianità entro la quale (e finalizzato alla
quale) si muove”324, corrisponde una nuova nozione di esteticità,
neobarocca, che caratterizza anche il fenomeno della serialità televisiva e
l‟effetto di protrazione325 tipico delle forme letterarie di massa, cui sembra
guardare anche Calvino in Se una notte d‟inverno un viaggiatore, come
automatismo che garantisce il piacere della lettura: «Il romanzo che più
vorrei leggere in questo momento […] dovrebbe avere come forza motrice
solo la voglia di raccontare, l‟accumulare storie su storie, senza pretendere
d‟importi una visione del mondo, ma solo di farti assistere alla propria
crescita, come una pianta, un aggrovigliarsi come di rami e di foglie…»326.
Il contenuto della narrazione rinvia incessantemente alla sua stessa
forma, secondo un meccanismo di reimplicazione: la modalità e il contenuto
dell‟enunciazione si rispecchiano a vicenda, sono oggetti isomorfi.
Il vuoto, l‟invisibile che ogni immagine tende a oltrepassare, ciò che
il linguaggio non può raggiungere, sono lo spazio che contiene l‟opera e
anche il suo impossibile contenuto, presenza silenziosa e disgregante che
non solo non coincide ma sabota l‟intenzionalità comunicativa, il suo
discorso, riconnettendola al proprio azzeramento, al proprio esordio.
Il compimento del linguaggio coincide con la sua sparizione: le
parole hanno “il potere di fare sparire le cose, e di farle apparire in quanto
scomparse, apparenza di una sparizione”327.
Parallelamente, l‟accenno al vuoto apre nell‟opera letteraria altre
dimensioni, problematizza il rapporto tra l‟autoreferenzialità della
rappresentazione e l‟inesauribilità del mondo al di fuori di essa, spalanca
l‟imperfezione della finzione: si accentua così la contrapposizione
perechiana “tra la vita e le istruzioni per l‟uso, tra la regola del gioco che ci
324
Cfr. Umberto Eco, L‟innovazione nel seriale, in Degli specchi e altri saggi, Bompiani,
Milano 1985, p. 140.
325
Cfr. Bruno Brunetti, Romanzo e forme letterarie di massa. Dai “misteri” alla
fantascienza, cit., p. 15.
326
Italo Calvino, Se una notte d‟inverno un viaggiatore, cit., p. 92.
327
Maurice Blanchot, Lo spazio letterario, cit., p. 29.
126
fissiamo e il parossismo della vita reale che sommerge, che distrugge
continuamente questo lavoro di riordinamento”328.
Il quarto racconto di Se una notte d‟inverno un viaggiatore si
autodefinisce “un ponte sul vuoto”, un vuoto che si insinua anche tra le
pieghe della narrazione e in cui è coinvolto il protagonista, consapevole che
“ogni vuoto continua nel vuoto, ogni strapiombo anche minimo dà su un
altro strapiombo, ogni voragine sbocca nell‟abisso infinito»329.
Il vuoto è tuttavia anche luogo della possibilità: come il mihrab di
cui Calvino parla in Collezione di sabbia, la sua qualità è quella di non
esserci come oggetto, di non potersi definire a parole, ma è spazio entro il
quale ribolle una infinità di significati.
Questa vertigine percorre, come un Leitmotiv, tutta l‟opera di
Calvino che, oltre ad avere una forte consapevolezza della scrittura come
unica realtà, è altrettanto consapevole del vuoto situato al centro della sua
funzione di significante, su cui essa si fonda e da cui è costituita, del foglio
bianco che può contenere potenzialmente ogni cosa: «Il punto di partenza
della catena, il vero primo soggetto dello scrivere ci appare sempre più
lontano, più rarefatto, più indistinto: forse è un io-fantasma, un luogo vuoto,
un‟assenza»330.
Come per Derrida, anche per Calvino la scrittura, nel tentativo di
riprodurre la realtà, insegue continuamente i segni della sua sparizione, è
“passione dell‟origine”: «[…] non è l‟assenza al posto della presenza ma
una traccia che sostituisce una presenza che non è mai stata presente, una
origine dalla quale non è cominciato nulla»331.
In Se una notte d‟inverno un viaggiatore, il processo di
moltiplicazione dell‟autore, che vorrebbe “catturare nel libro il mondo
illeggibile” e “”trovare per ogni libro un altro io, un‟altra voce, un altro
nome, rinascere”332, determina una vera e propria de-personalizzazione e decentralizzazione dell‟opera, il cui cuore è una struttura vuota, ricentrata ogni
328
Cfr. Georges Perec, Sono nato (1978), in Andrea Borsari (a cura di), Georges Perec,
“Riga”, 4, Marcos y Marcos, Milano 1993, pp. 76-77
329
Italo Calvino, Se una notte d‟inverno un viaggiatore, cit., p. 82.
330
Id., I livelli della realtà in letteratura, in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e
società, cit., p. 384.
331
Jacques Derrida, La scrittura e la differenza (1969), tr.it., Einaudi, Torino 1971, p. 378.
332
Cfr. Italo Calvino, Se una notte d‟inverno un viaggiatore, cit., p. 211.
127
volta nel linguaggio, un punto qualunque nella rete dei possibili, in cui il
soggetto si riduce a una funzione, similmente a quanto scrive Derrida,
affermando che un centro intellettuale e ideologico sia qualcosa di sbagliato:
«Si è dovuto cominciare a pensare che non c‟era nessun centro, che il centro
(dei sistemi di strutture) non poteva essere pensato nella forma di un esserpresente, che il centro non aveva un luogo naturale, non era un luogo fisso
ma una funzione, una specie di non-luogo in cui entravano in gioco un
numero infinito di sostituzioni di segno»333.
L‟autore finisce così per dissolversi nella scrittura, identificandosi
completamente con il testo: come mostra Barthes parlando del concetto di
“scrittura in collaborazione”, “questo io che si avvicina al testo è già esso
stesso una pluralità di altri testi, di codici infiniti”334.
A partire da Le Cosmicomiche, la ricerca di Calvino si svolge
simultaneamente su più dimensioni, a livello macro- e micro-strutturale,
tentando di conciliare irreversibilità e reversibilità, di dominare la
complessità del reale reintegrando la continuità nella discontinuità:
passando per la scacchiera mnemonica de Le città invisibili e le
combinazioni incrociate e “reversibili” de Il castello, questa ricerca culmina
in Se una notte d‟inverno un viaggiatore, in cui la fuga ipertestuale degli
incipit, di linee che si allacciano e si intersecano, rimanendo
irrimediabilmente aperta, nel verso della complessità, si intreccia con la
serie opposta, quella del Lettore e della Lettrice, che, nel loro inseguimento
perpetuo della conclusione, richiudono la traiettoria irreversibile del libro.
L‟iper-romanzo, mentre lo sfaldarsi degli elementi combinati,
irricomponibili in una lineare sequenza narrativa, sembra spingere nella
direzione opposta di una irreversibile entropia del narrabile, ricomponendo
all‟infinito l‟informazione romanzesca e le sue “falsificazioni virtuali”,
replica le logiche dell‟universo, nel quale, come nel mondo scritto,
coesistono apertura e chiusura: «[…] l‟universo può essere infinito oppure
finito, poco importa; quello che è certo è che è illimitato, cioè non chiuso,
cioè aperto in ogni suo punto e in ogni direzione a tutto il resto di se stesso.
333
334
Jacques Derrida, La scrittura e la differenza, cit., p. 363.
Cfr. Roland Barthes, S/Z, cit., p. 15.
128
L‟informazione può essere solo macroscopica, mai microscopica. E
quest‟ordine strutturato nelle sue grandi linee che corpi celesti, vita
biologica, coscienza lavorano incessantemente a produrre, poggia le sue
fondamenta su
un impalpabile imprevedibile frana d‟avvenimenti
microscopici»335.
Come dimostrano Le città invisibili e Se una notte d‟inverno un
viaggiatore, l‟ “iper-romanzo” calviniano si realizza non solo come
moltiplicazione ed estensione di rinvii intertestuali, ma anche come
concentrazione di molteplici dimensioni all‟interno dei singoli frammenti di
testo, come apertura verso la complessità dell‟eterogeneo, nella quale il
movimento del testo non può essere ridotto a un sistema semplice e
compiuto: «Nell‟opera, l‟essenziale non è vedere, confusamente, l‟unità, ma
distinguere il cambiamento, cioè, ad esempio, la contraddizione, purché non
si riduca questa ultima ad essere un nuovo tipo di unità: la contraddizione
logica, ideale, che si incarna nella sua forma più pura nella logica hegeliana,
distrugge la complessità reale dell‟opera per ridurla alla semplice
manifestazione di un senso (confrontato con se stesso)»336.
Diversamente da Borges, che non è preoccupato di integrare e far
coesistere i suoi paradossali microcosmi in uno schema o entro una cornice
“trascendentale”, una costante di Calvino è la profonda analogia tra
cosmologia e iper-romanzo, tra modelli cosmologici e forme narrative.
Il
tentativo
di
racchiudere
in
un‟opera
“infiniti
universi
contemporanei in cui tutte le possibilità vengono realizzate in tutte le
combinazioni possibili”337, di cui anche Calvino è debitore a Borges, è un
altro punto che fa dello scrittore ligure un anticipatore della tecnologia
ipertestuale, come sistema di configurazione del pensiero, costituito da bit
immateriali, da flussi di informazioni derivanti dallo scambio continuo di
335
Italo Calvino, Ultime notizie sul tempo. Collezionista d‟universi, in “Corriere della
Sera”, 23 gennaio 1976; col titolo Palomar e i modelli cosmologici, è ora in Saggi 194585, tomo II, cit., p. 2011.
336
Pierre Macherey, Per una teoria della produzione letteraria (1966), tr. it., Laterza, Bari
1969, pp. 44-45.
337
Cfr. Italo Calvino, Molteplicità, in Lezioni americane, cit., p. 116.
129
conoscenze immediatamente accessibili all‟interno di un cyberspazio
eterogeneo338.
A questa moltiplicazione spaziale corrispondono, ne Il giardino dei
sentieri che si biforcano, “infinite serie di tempo, in una rete crescente e
vertiginosa di tempi divergenti, convergenti e paralleli”: «Questa trama di
tempi che s‟accostano, si biforcano, si tagliano e s‟ignorano per secoli,
comprende tutte le possibilità»339.
Le lessie di un ipertesto funzionano non solo come “figure” che
rendono visibile la struttura della conoscenza, ma diventano veri e propri
Aleph borgesiani, cioè punti dello spazio che contengono simultaneamente
altri punti e che comportano una moltiplicazione delle dimensioni dello
spazio e del tempo: «In quell‟istante gigantesco, ho visto milioni di atti
gradevoli o atroci; nessuno di essi mi stupì quanto il fatto che tutti
occupassero lo stesso punto, senza sovrapposizione e senza trasparenza.
Quel che videro i miei occhi fu simultaneo: ciò che trascriverò, successivo,
perché tale è il linguaggio. […] Il diametro dell‟ Aleph sarà stato di due o
tre centimetri, ma lo spazio cosmico vi era contenuto, senza che la vastità ne
soffrisse. Ogni cosa […] era infinite cose, perché io la vedevo distintamente
da tutti i punti dell‟universo»340.
Nel venir meno di un asse organizzativo portante del testo, i ruoli di
lettore e di autore si intersecano sempre di più e in modo molto più
profondo di quanto non accadesse prima, nel cyberspazio come nello spazio
letterario.
Nell‟ipertesto si realizza una virtualizzazione non solo del processo
di scrittura ma anche di quello di lettura, nel senso indicato da Nelson di una
rappresentazione della loro “struttura intrinseca”, dove la letteratura esprime
la sua essenza più precipua, rivelandosi “un sistema in evoluzione di
338
Cfr. Pierre Lévy, Cybercultura. Gli usi sociali delle nuove tecnologie (1997), tr.it.,
Feltrinelli, Milano 1999, p. 116.
339
Jorge Louis Borges, Il giardino dei sentieri che si biforcano, in Tutte le opere, vol. I,
Mondadori, Milano 1985, p. 700.
340
Id., L‟Aleph (1945), in Tutte le opere, vol. I, cit., p. 897.
130
documenti interconnessi”, in cui “vi sono interpretazioni e reinterpretazioni
continue”341.
In Se una notte d‟inverno un viaggiatore, l‟informatica sembra
proporre al lettore lo stesso viaggio che Calvino ha fatto compiere ai
personaggi del Lettore e della Lettrice: raddoppiando, triplicando,
moltiplicando l‟istanza dell‟autore, e pluralizzando l‟immagine del lettore,
Calvino mette in scena la crisi dei due ruoli e, così facendo, anche il
processo comunicativo che si snoda tra questi due poli, consentendo al
lettore di saltare da un libro all‟altro, da una storia all‟altra, di scegliere
quale storia leggere.
Al pari di chi legge un ipertesto, la Lettrice di Calvino non attraversa
più
l‟intero
racconto,
ma,
seguendo
un
determinato
tracciato,
paradossalmente rifiuta la ricchezza dell‟offerta dell‟autore, non legge tutto
il testo, ma un suo sottoinsieme delineato dal percorso scelto: il testo assume
un rilievo pragmatico, rivelato dalla lettura.
E‟ inevitabile ricordare il lettore disegnato da Eco nella sua Opera
aperta, che si trova a oscillare tra un testo che più tardi sarà un giallo che si
svolge in una biblioteca e una storia che deve essere decifrata come un testo
allegorico medioevale: «Un‟opera così intesa è indubbiamente un‟opera
dotata di una certa “apertura”; il lettore del testo sa che ogni frase, ogni
figura è aperta su una multiformità di significati che egli deve scoprire; anzi,
a seconda della sua disposizione d‟animo, egli sceglierà la chiave di lettura
che più gli appare esemplare, ed userà l‟opera nel significato voluto
(facendola rivivere, in certo qual modo, diversa da quale poteva essergli
apparsa ad una lettura precedente). Ma in questo caso “apertura” non
significa affatto “indefinitezza” della comunicazione, “infinite” possibilità
della forma, libertà di fruizione; si ha soltanto una rosa di esiti fruitivi
rigidamente prefissati e condizionati, in modo che la reazione interpretativa
del lettore non sfugga mai al controllo dell‟autore»342.
Questo lettore, che assomiglia molto a un lettore di ipertesti che
segue link come se fossero strade o sentieri, si trova a confrontarsi con
341
Cfr. Theodor Holm Nelson, Literary Machines 90. 1. Il progetto Xanadu (1990), tr.it.,
Franco Muzzio Editore, Padova 1992, pp. 2/10-11.
342
Umberto Eco, Opera aperta. Forma e indeterminazione nelle poetiche contemporanee,
Bompiani, Milano 1962, p. 30.
131
un‟opera che “a ogni fruizione non risulta mai uguale a se stessa”, un‟opera
che, “anche se prodotta seguendo una esplicita o implicita poetica della
necessità, è sostanzialmente aperta ad una serie virtualmente infinita di
letture possibili, ciascuna delle quali porta l‟opera a rivivere secondo una
prospettiva, un gusto, una esecuzione personale”343.
Anche se risulta difficile determinare un inizio dell‟ipertesto, sia
perché cambia la nostra concezione del testo, sia perché ci possono essere
molteplici punti di accesso, in teoria tanti quante sono le lessie, bisogna
comunque stabilire una base di partenza che, in tal caso, sarà rappresentata
da quella lessia che, nel testo atomizzato, può produrre un‟intenzione
sviluppata poi nella catena dei collegamenti: sono così disponibili molti
inizi e molte fini344.
L‟inizio è perciò il primo passo nella produzione intenzionale del
significato, il punto in cui, in una data opera, l‟autore si allontana da tutte le
altre opere, di cui anche Calvino rileva l‟importanza: «La fascinazione
romanzesca che si dà allo stato puro nelle prime frasi del primo capitolo di
moltissimi romanzi non tarda a perdersi nel seguito della narrazione: è la
promessa d‟un tempo di lettura che si stende davanti a noi e che può
accogliere tutti gli sviluppi possibili. Vorrei poter scrivere un libro che fosse
solo di incipit, che mantenesse per tutta la sua durata la potenzialità
dell‟inizio, l‟attesa ancora senza oggetto. Ma come potrebb‟essere costruito,
un
libro
simile?
S‟interromperebbe
dopo
il
primo
capoverso?
Prolungherebbe indefinitamente i preliminari? Incastrerebbe un inizio di
narrazione nell‟altro, come le Mille e una notte?»345.
Di conseguenza, anche il concetto di fine risulta labile se non
addirittura inesistente, perché è sempre possibile estendere l‟ipertesto che
terminerà quando il lettore, il solo che abbia la responsabilità della chiusura,
si riterrà soddisfatto dalla lettura di un certo numero di informazioni o
blocchi di racconto: « - Per me invece è la fine che conta, - dice un settimo,
- ma la fine vera, ultima, nascosta nel buio, il punto d‟arrivo a cui il libro
vuole portarti. Anch‟io leggendo cerco degli spiragli, […] ma il mio sguardo
343
Ibidem, p. 51.
Cfr. George P. Landow, op. cit., p. 111.
345
Italo Calvino, Se una notte d‟inverno un viaggiatore, cit., p. 207.
344
132
scava tra le parole per cercare di scorgere cosa si profila in lontananza, negli
spazi che si estendono al di là della parola “fine”»346.
Nella rete ipertestuale, sono i nodi a qualificare la struttura
dell‟informazione come modulare: ciascuno di essi, infatti, segmenta
l‟ideale flusso del discorso, riorganizzato in unità che, da un lato, sono
inserite nella struttura e, dall‟altro, sono autonome e autosufficienti, quindi
ricollocabili e rifunzionalizzabili un numero indefinito di volte.
Quando,
in
Molteplicità,
Calvino
individua
nel
romanzo
contemporaneo la vocazione a porsi “come enciclopedia, come metodo di
conoscenza, e soprattutto come rete di connessione tra i fatti, tra le persone,
tra le cose del mondo”347, in cui sono riconoscibili una tendenza centripeta
che determina il confluire all‟interno della scrittura narrativa di un insieme
di sollecitazioni e spunti, e una tendenza centrifuga che ruota attorno alla
molteplicità delle opportunità attualizzabili tipiche, per esempio, della
narrazione borgesiana, è inevitabile pensare a una somiglianza con il
modello ipertestuale: da un elemento possono scaturire storie diverse così
come da un nodo possono essere attivati più legami.
Silas Flannery vorrebbe essere come l‟io impersonale del computer,
che cattura la potenzialità del narrabile e del conoscibile senza ordinarlo in
strutture fisse e gerarchie: lo scopo della sua attività di scrittore è, come egli
stesso dichiara, “catturare nel libro il mondo illeggibile, senza centro, senza
io”348.
Il diario dell‟autore viene completato dal catalogo delle osservazioni
di dieci lettori dei dieci romanzi di cui è composto il libro, che si incontrano
nell‟ultimo capitolo in una biblioteca: uno di loro modifica l‟idea della
soggettività della lettura mantenuta dagli altri interlocutori, aggiungendo che
“ogni nuovo libro che leggo entra a far parte di quel libro complessivo e
unitario che è la somma delle mie letture”349.
E‟ appunto la tecnologia informatica che rende possibile il
collegamento di un testo alla biblioteca universale dei molti altri libri che lo
precedono, gli stanno accanto e lo seguono: è una testualità del continuo,
346
Italo Calvino, Se una notte d‟inverno un viaggiatore, cit., p. 207.
Cfr. Id., Molteplicità, in Lezioni americane, cit., p. 103.
348
Ibidem, p. 180.
349
Ibidem, pp. 257-258.
347
133
resa possibile attraverso la combinatoria del discreto, che rende la biblioteca
universale uno spazio sincronico.
La centralità del momento della lettura corrisponde spesso al
desiderio di mantenere intatte tutte le potenzialità narrative, all‟idea di iperromanzo, ipotizzata già ne Il conte di Montecristo, come “luogo della
molteplicità delle cose possibili”350.
Il confronto con strumenti e modelli tecnologici che hanno
radicalmente trasformato il concetto e il fine stesso dell‟operare artistico,
conduce anche Calvino verso una visione dell‟opera come operazione o
operatività: «Il suo lavoro procede in questo modo: due aiutanti (Auguste
Maquet e P. A. Fiorentino) sviluppano una per una le varie alternative che si
dipartono da ogni singolo punto, e forniscono a Dumas la trama di tutte le
varianti possibili d‟uno smisurato iper-romanzo; Dumas sceglie, scarta,
ritaglia, incolla, interseca; se una soluzione ha la preferenza per fondati
motivi ma esclude un episodio che gli farebbe comodo d‟inserire, egli cerca
di mettere insieme i tronconi di provenienza disparata, li congiunge con
saldature approssimative, s‟ingegna a stabilire un‟apparente continuità tra
segmenti di futuro che divergono. Il risultato finale sarà il romanzo Il conte
di Montecristo da consegnare alla tipografia»351.
Il concreto oggetto artistico viene costituito non solo dalla sua
immateriale dimensione mentale, come nell‟Arte Concettuale, ma da
qualcosa di altrettanto tangibile, perché sensorialmente esperibile, che
possiamo definire come Ereignis, che vale contemporaneamente per evento
e per esperienza, non una cosa ma un processo il cui significato si dà
nell‟atto stesso del suo farsi.
L‟autore è anche personaggio del racconto-labirinto nel quale sono
catturati, come nel castello di If, l‟abate Faria e Dantès: i loro diagrammi
coincidono con quelli che Dumas verga sulle sue cartelle per fissare
“l‟ordine delle varianti prescelte”.
Faria traccia e percorre tutti i tragitti di ricerca possibili, che sono
anche tutte le diverse possibilità di racconto, di cui Dantés si serve per
350
351
Cfr. Italo Calvino, Il conte di Montecristo, in Ti con zero, cit., p. 159.
Ibidem, p. 162.
134
organizzare cartografie e scenari che si rivelano solo rappresentazioni
arbitrarie, “apparenze interscambiabili”, accumulazioni di “supposizioni su
supposizioni”: l‟evasione, per continuare a esistere come ipotesi ideale, non
deve mai essere effettuabile, come il racconto effettuato non può che essere
una limitazione all‟affermazione pura del raccontare.
Alludendo al carattere seriale del feuilleton e del romanzo
d‟appendice, Il conte di Montecristo è, nello stesso tempo, un vero e proprio
“romanzo del romanzesco” e una rappresentazione eloquente del piacere
della lettura, anche se la predilezione per il “non finito” vuole tradurre
l‟incompiutezza del mondo più che porsi come una scelta poetica: «L‟aver
fatto dell‟interruzione un motivo strutturale del mio libro ha questo senso
preciso e circoscritto e non tocca la problematica del “non finito” in arte e in
letteratura che è un‟altra cosa. Meglio dire che qui non si tratta del “non
finito” ma del “finito interrotto”, del “finito la cui fine è occultata o
illeggibile”, sia in senso letterale sia in senso metaforico»352.
Coerentemente con questo assunto i dieci romanzi si interrompono
prima che si realizzi un fatto drammatico, non solo quindi per “tener vivo il
desiderio di ascoltare”353: come nell‟esorcismo contro la morte che
Sheherazade compie ne Le mille e una notte, anche in questo caso Calvino
vuole preservare la “continuità della vita” che, insieme alla “inevitabilità
della morte”, costituisce il senso ultimo a cui rimandano tutti i racconti,
riproducendo la dinamica del tempo.
Anche nel confronto tra il professor Uzzi-Tuzii e Ludmilla, il
dinamismo della lettura si caratterizza per la tensione tra materiale e
immateriale, tra un oggetto fatto di scrittura e un mondo che, invece, non è
presente, ricreando ogni volta una nuova opera e nuovi contenuti
esistenziali: «Leggere – egli dice - è sempre questo: c‟è una cosa che è lì,
una cosa fatta di scrittura, un oggetto solido, materiale, che non si può
cambiare, e attraverso questa cosa ci si confronta con qualcos‟altro che non
è presente, qualcos‟altro che fa parte del mondo immateriale, invisibile,
perché è solo pensabile, immaginabile, o perché c‟è stato e non c‟è più,
352
Italo Calvino, Se una notte d‟inverno un viaggiatore, cit., p. 10.
Cfr. Id., Rapidità, in Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, cit., p.
39.
353
135
passato, perduto, irraggiungibile, nel paese dei morti…-…O che non è
presente perché non c‟è ancora, qualcosa di desiderato, di temuto, possibile
o impossibile, - dice Ludmilla, - leggere è andare incontro a qualcosa che sta
per essere e ancora nessuno sa cosa sarà…»354.
L‟aspirazione di Ludmilla a leggere “un romanzo in cui si senta la
storia che arriva, come un tuono ancora confuso, la storia quella storica
insieme al destino delle persone, un romanzo che dia il senso di stare
vivendo uno sconvolgimento che ancora non ha nome, non ha preso
forma”355, non è molto diversa da quella di Suor Teodora/Bradamente di
azzerare il confine tra finzione e vita per essere finalmente libera di correre
incontro al futuro che la aspetta fuori dal monastero.
La lettura è un‟esperienza totalizzante che coinvolge tutti i sensi e si
accorda ai ritmi biologici: Calvino vuole intercettare nella scrittura “lo
scorrere dello sguardo e del respiro, ma più ancora il percorso delle parole
attraverso la persona, il loro fluire o arrestarsi, gli slanci, gli indugi, le
pause, l‟attenzione che si concentra o si disperde”356. In questo modo, il
testo diventa una struttura cognitiva: è un oggetto di comunicazione più che
di significazione, riflettendo il processo di estetizzazione diffusa della realtà.
Calvino si propone di scrivere la lettura, di trasformarla in elemento
di creazione e ricreazione dell‟opera, rielaborando ancora una volta le idee
di Barthes, secondo il quale “leggere vuol dire far lavorare il nostro corpo
[…] in corrispondenza al richiamo dei segni del testo, di tutti i linguaggi che
lo attraversano e che formano in un certo senso la profondità cangiante delle
frasi”357.
L‟accumulo di storie che nascono una dall‟altra sembra replicare un
processo generativo biologico e tradurre la complessità della vita nella
scrittura, anche se nei libri è sempre possibile rintracciare un disegno, una
grammatica, mentre la vita respinge ogni tentativo di riduzione unificante:
«[…] d‟una lingua scritta è sempre possibile desumere un vocabolario e una
grammatica, isolare frasi, trascriverle o parafrasarle in un‟altra lingua,
354
Ibidem, p. 71.
Ibidem.
356
Ibidem, p. 169.
357
Cfr. Roland Barthes, Scrivere la lettura (1970), in Il brusio della lingua. Saggi critici
IV, cit., p. 25.
355
136
mentre io sto cercando di leggere nella successione delle cose che mi si
presentano ogni giorno le intenzioni del mondo nei miei riguardi, e vado a
tentoni, sapendo che non può esistere nessun vocabolario che traduca in
parole il peso di oscure allusioni che incombe nelle cose»358.
I. 4) La riscrittura intertestuale
Fin da Il Sentiero dei nidi di ragno il recupero dei generi si verifica
insieme alla loro trasmutazione359, in un processo di trasferimento e
dinamismo
intertestuale
che
coinvolge
dialogicamente
forme
di
comunicazione diverse e che rappresenta il tentativo di dinamizzare la
nozione di testo in senso bachtiniano: «Nel romanzo devono essere
rappresentate tutte le voci ideologico-sociali di un‟epoca, cioè le lingue in
qualche misura essenziali di un‟epoca: il romanzo deve essere il
microcosmo della pluridiscorsività […] Ogni lingua, nel romanzo, è un
punto di vista, un orizzonte ideologico-sociale di reali gruppi sociali e dei
loro incarnati rappresentanti […] Il romanzo è costruito non su divergenze
astrattamente
semantiche,
né
su
collisioni
semplicemente
legate
all‟intreccio, ma su una concreta pluridiscorsività sociale”360.
Nella prefazione al Sentiero del 1964, ricordando le perplessità dei
suoi “primissimi lettori” riguardo all‟ eccesso di teoria del capitolo nono
rispetto alla “rappresentazione immediata, oggettiva, come linguaggio e
come immagini” del resto del libro, Calvino rivendica la sua scelta spuria e
composita rispetto al dogma allora vigente dell‟unità stilistica, e la giustifica
nell‟ottica della molteplicità e dell‟inesauribile ricchezza di stratificazioni
che il romanzo riproduce al proprio interno, per cui, più che di
“neorealismo”, si dovrebbe parlare di “neo-espressionismo”: «Anche l‟altro
grande tema futuro di discussione critica, il tema lingua-dialetto, è presente
358
Italo Calvino, Se una notte d‟inverno un viaggiatore, cit., p. 60.
Cfr. Marcello Sechi, La deriva dei generi, in Marcello Sechi e Bruno Brunetti, Lessico
novecentesco, Edizioni Graphis, Bari 1996, pp. 8-9.
360
Michail Bachtin, Estetica e romanzo (1934-35), tr. it., Einaudi, Torino 1979, pp. 218219.
359
137
qui nella sua fase ingenua: dialetto aggrumato in macchie di colore (mentre
nelle narrazioni che scriverò in seguito cercherò di assorbirlo tutto nella
lingua, come un plasma vitale ma nascosto); scrittura ineguale che ora quasi
s‟impreziosisce ora corre giù come vien viene badando solo alla resa
immediata; un repertorio documentaristico (modi di dire popolari, canzoni)
che arriva quasi al folklore…»361.
Dall‟esigenza di articolare nel testo la più ampia gamma possibile di
relazioni tra le più varie manifestazioni discorsive della cultura materiale e
orale di una determinata epoca deriva per il romanzo una condizione di
plurilinguismo e pluristilismo, caratterizzata da una presenza “attiva” delle
voci e dei linguaggi che interagiscono e si “inquinano”362 nella rete
intertestuale: non si tratta semplicemente di materiale di riporto, di citazioni,
perché “nell‟ibrido romanzesco voluto non soltanto e non tanto si
mescolano le forme linguistiche, i connotati di due lingue e stili, ma prima
di tutto si scontrano i punti di vista sul mondo riposti in queste forme. Perciò
l‟ibrido artistico voluto è un ibrido semantico, ma non astrattamente
semantico, bensì semantico-sociale-concreto”363.
Al di là del punto di vista fiabesco di Pin, nel Sentiero emerge la
forte caratterizzazione storico-sociale della lingua romanzesca, fondata
sull‟intersezione di diversi piani linguistici, sulla loro interrelazione
dialogizzata e sui dialoghi puri, come presupposti per recuperare il mondo
della vita, la sua immediatezza, e trasformare in opera letteraria “quel
mondo che era per noi il mondo”, includendo la varietà degli “elementi
extraletterari” che “stavano lì tanto massicci e indiscutibili che parevano un
dato di natura”: «Esprimere che cosa? Noi stessi, il sapore aspro della vita
che avevamo appreso allora allora, tante cose che si credeva di sapere o di
essere, e forse veramente in quel momento sapevamo ed eravamo.
Personaggi, paesaggi, spari, didascalie politiche, voci gergali, parolacce,
lirismi, armi ed amplessi non erano che colori della tavolozza, note del
pentagramma, sapevamo fin troppo bene che quel che contava era la musica
361
Italo Calvino, Prefazione 1964 a Il sentiero dei nidi di ragno, cit., p. XII.
Cfr. Cesare Segre, Intertestualità e interdiscorsività nel romanzo e nella poesia, in
Teatro e romanzo, Einaudi, Torino 1984, pp. 103-119.
363
Cfr. Michail Bachtin, Estetica e romanzo, cit., p. 168.
362
138
e non il libretto, mai si videro formalisti così accaniti come quei contenutisti
che eravamo, mai lirici così effusivi come quegli oggettivi che passavamo
per essere»364.
Per Calvino, come per Bachtin, “nel romanzo si attua la scoperta
della propria lingua nella lingua altrui, del proprio orizzonte nell‟orizzonte
altrui”365: «Avevo un paesaggio. Ma per poterlo rappresentare occorreva che
esso diventasse secondario rispetto a qualcos‟altro: a delle persone, a delle
storie. La Resistenza rappresentò la fusione tra paesaggio e persone. Il
romanzo che altrimenti mai sarei riuscito a scrivere, è qui. Lo scenario
quotidiano di tutta la mia vita era diventato interamente straordinario e
romanzesco: una storia sola si sdipanava dai bui archivolti della Città
vecchia fin su ai boschi; era l‟inseguirsi e il nascondersi d‟uomini armati;
anche le ville riuscivo a rappresentare, ora che le avevo viste requisite e
trasformate in corpi di guardia e prigioni; anche i campi di garofani, da
quando erano diventati terreni allo scoperto, pericolosi ad attraversare,
evocanti uno sgranare di raffiche nell‟aria. Fu da questa possibilità di situare
storie umane nei paesaggi che il “neorealismo”…»366.
Per Bachtin nell‟universo dialogico “ogni […] enunciazione trova il
suo oggetto, verso il quale tende, sempre, per così dire, già nominato,
discusso, valutato, avvolto in una foschia che lo oscura oppure, al contrario,
nella luce delle parole già dette su esso. Esso è avviluppato e penetrato da
pensieri generali, da punti di vista, da valutazioni e accenti altrui […].
L‟enunciazione viva, che nasce in un determinato momento storico in un
ambiente socialmente determinato, non può non toccare migliaia di fili
dialogici vivi, intessuti
della coscienza ideologico-sociale
intorno
all‟oggetto dell‟enunciazione, non può non diventare partecipante attiva del
dialogo sociale”367.
In quest‟ottica, oltre al Sentiero dei nidi di ragno e ai primi racconti,
hanno un particolare interesse le canzoni scritte da Calvino tra 1958 e 1959
per Sergio Liberovici e per Fiorenzo Carpi, in particolare Oltre il ponte,
364
Italo Calvino, Prefazione 1964 a Il sentiero dei nidi di ragno, cit., p. IX.
Cfr. Michail Bachtin, Estetica e romanzo, cit., p. 172.
366
Italo Calvino, Prefazione 1964 a Il sentiero dei nidi di ragno, cit., pp. X-XI.
367
Michail Bachtin, Estetica e romanzo, cit., p. 171.
365
139
nella quale vengono intrecciati i motivi della lotta partigiana e della sua
eredità nel presente attraverso un messaggio d‟amore e di rinnovata
consonanza rivolto alla ragazza che ascolta: lo scrittore aderisce al progetto
di “Cantacronache”368, che ha l‟obiettivo di riportare nelle canzoni la vita
quotidiana della gente, utilizzando le stesse caratteristiche della “canzone di
consumo”369 o di evasione, ovvero un linguaggio piano e accessibile a tutti,
con forme metriche tradizionali e una musica melodica a effetto emotivo.
Come ha scritto bene Eco, “Cantacronache” rappresenta il tentativo
di offrire una opzione “colta” al livello di una cultura di massa, attraverso
una educazione del gusto e dell‟intelligenza, che porti a esperienze di
consapevolezza più complesse: «Il fatto che la canzone di consumo possa
attirarmi grazie a una imperiosa agogica del ritmo, che interviene a dosare e
a dirigere i miei riflessi, può costituire un valore indispensabile, che tutte le
società sane hanno perseguito e che costituisce il normale canale di sfogo
per una serie di tensioni»370.
Riscrivendo un folklore partigiano veicolato attraverso le esperienze
e le aspirazioni più comuni, anche Calvino punta su “una canzone che la
gente si raccoglie per ascoltare”, mentre “di solito la canzone di consumo
viene usata facendo altro, come sottofondo”371 e trasforma in norma il
“momento di sosta” che diventa quindi il sostitutivo di ogni altra esperienza
intellettuale e non un “sano esercizio di normalità”: proprio per ottenere
questo effetto di consapevolezza, di novum cognitivo, con forme in cui si
possa riconoscere il pubblico medio, si passa dalla ballata antimilitarista o
anticapitalista (in Dove vola l‟avvoltoio? e in Sul verde fiume Po) alla più
comune tranche de vie (in Canzone triste) fino al divertissement che si
scaglia contro i luoghi comuni (in La tigre).
Anche le canzoni si rivelano così tessuti e variazioni di formule
anonime contenute nel linguaggio, citazioni consce e inconsce, fusioni e
riprese di altri testi: in La letteratura italiana sulla Resistenza, Calvino
368
Cfr. Alessio Lega, Il cantautore dimezzato. Italo Calvino e la canzone, in “Musica
Leggera”, XII, 6, settembre-ottobre 2009, pp. 92-94.
369
Cfr. Umberto Eco, La canzone di consumo, in Apocalittici e integrati. Comunicazioni di
massa e teorie della cultura di massa, Bompiani, Milano 1964, pp. 277-296.
370
Ibidem, p. 285.
371
Ibidem, p. 284.
140
ammette che i migliori risultati raggiunti dalla letteratura della Resistenza
sono state “la canzone partigiana e la storia partigiana raccontata”, ovvero
“due prodotti poetici di tradizione popolare e orale” che, già all‟epoca,
hanno innescato una fitta serie di intrecci intertestuali372.
Nell‟universo delle comunicazioni di massa, non ci sono enunciati
isolati dagli altri enunciati, ogni enunciato indica un “complesso di segni”,
ogni parola non è mai neutra: il dialogismo investe tutte le pratiche
discorsive e genera infinite possibilità di scambio, di mescolanza e di
ibridazione.
Ne deriva un sistema semico osmotico, caratterizzato da un grande
dinamismo, da un incessante lavoro di forze centrifughe e centripete, di
processi di centralizzazione e decentralizzazione che si intersecano
nell‟enunciazione: è un‟idea ripresa da Julia Kristeva, per la quale “ogni
testo si costruisce come un mosaico di citazioni, […] è assorbimento e
trasformazione di un altro testo”373.
La pluridiscorsività operante nel Sentiero è evidente quando Lupo
Rosso descrive ai propri compagni l‟assassinio di Pelle e il racconto sembra
avere la trama di un fumetto di Mandrake o il ritmo serrato di un film giallo,
al quale rinviano anche la forma della spirale, come metafora spaziale
dell‟avvitamento in cui non c‟è più via d‟uscita, e il contrasto luminoso:
«Pelle smiccia in giù, di traverso. Su ogni rampa di scale sotto di lui, sale un
uomo. Pelle continua a salire tenendosi rasente al muro, ma in qualunque
punto della scala si trovi, c‟è sempre un uomo dei gap, una o due o tre o
quattro rampe di scale sotto di lui, che sale rasente i muri tenendolo sotto il
suo tiro. Sei piani, sette piani, la tromba delle scale nella mezzaluce
dell‟oscuramento sembra un gioco di specchi, con quell‟uomo in
impermeabile ripetuto su ogni rampa, che sale lentamente, a spirale»374.
L‟impermeabile che si moltiplica in una sorta di allucinazione
hitchcockiana, fa pensare inevitabilmente a quello di Humphrey Bogart in
Casablanca e all‟ispettore Marlowe di Chandler (Il grande sonno è del
372
Cfr. Italo Calvino, La letteratura italiana sulla Resistenza, in “Il Movimento di
liberazione in Italia”, I, 1, luglio 1949; ora è in Id., Saggi 1945-85, tomo I, cit., p. 1494.
373
Julia Kristeva, Semeiotiché. Ricerche per una semanalisi (1969), tr.it., Feltrinelli,
Milano 1978, p. 121.
374
Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, cit., p. 178.
141
1939, mentre il film di Hawks, sempre con Bogart, è proprio del 1946): il
riferimento cinematografico e quello letterario si intrecciano in uno “stock
di senso”375, un fenomeno che si verifica anche con le canzoni che fanno
spesso da contrappunto alle vicende, come nel caso di Chi bussa alla mia
porta/Chi bussa al mio porton, cantata da Pin prima di un violento incendio
e associata alla figura della Nera.
Nei primi racconti, è frequente la mescolanza tra la vita reale e
l‟immaginario del cinema o del mondo di carta dei fotoromanzi, come ne Il
gatto e il poliziotto, nel quale il poliziotto, durante una perquisizione, capita
sotto il tiro di “una ragazza coi capelli lunghi sulle spalle, dipinta, con le
calze di seta e senza scarpe, che con voce raffreddata compitava alle ultime
luci della sera su di un giornale tutto fatto di figure e di poche frasi in
stampatello”376.
Per quanto riguarda i fotoromanzi, sempre nel 1946 erano iniziate le
pubblicazioni del settimanale “Grand Hôtel”, una novità nel panorama
editoriale italiano, per la presenza di racconti d‟amore fumettati, scanditi in
puntate, un tipo di narrazione ripresa a partire dal 1947 anche da riviste
come “Sogno” o “Bolero Film” con il fotofumetto: l‟originalità del
fumettismo passionale per adulti è dovuto soprattutto a illustratori come
Giulio Bertoletti, per la prevaricazione del linguaggio iconico su quello
scritto e per l‟effettismo cartellonistico delle sue figure.
Nel Sentiero e in Ultimo viene il corvo, l‟accentuazione iconica di
gesti e fisionomie, oltre a riformulare la stilizzazione dei fumetti, rimanda ai
codici del cinema comico, alla sua sovradeterminazione semantica dei
referenti reali.
Racconti come Si dorme come cani, Dollari e vecchie mondane,
Furto in una pasticceria sono, tra i primi, i più vicini alle comiche
cinematografiche, rilette in chiave zavattiniana.
A questi modelli si può aggiungere quello del primo Queneau di
Pierrot mon ami, tradotto da Einaudi nel 1947, recensito dallo stesso
375
Cfr. Francesco Casetti, Il testo di genere, in Indagine su alcune regole del genere
televisivo, Fondazione Angelo Rizzoli, Milano 1977, p. 14.
376
Cfr. Italo Calvino, Il gatto e il poliziotto, in Ultimo viene il corvo, cit., p. 253.
142
Calvino, che riassume diversi tipi di spettacolo, dal circo al teatro al cinema:
«Le sue storie sono popolate di gente colorata e clownesca, domatori e
fachiri, poeti incompresi e prostitute, con disavventure da comica finale,
colpi di scena da pochade, sentimentalismi ingenui da vecchio tango, e
personaggi sballottati da un continente all‟altro che finiscono sempre per
incontrarsi tutti insieme»377.
Lo stesso mondo formicolante e “colorato”, fatto di assembramenti
casuali di corpi, di personaggi “fisici” e nel contempo irreali, di gag e azioni
che hanno un senso puramente coreografico, è descritto in Dollari e vecchie
mondane: «Sui tavoli c‟erano donne che facevano danze. Per quanto si fosse
fatto c‟erano sempre molti più marinai che donne, pure ognuno che
allungasse una mano incontrava una natica o una mammella o una coscia
che sembravano smarrite e non si vedeva di chi fossero. Natiche a mezz‟aria
e mammelle all‟altezza dei ginocchi. E mani vellutate e artigliate
strisciavano in mezzo a quella calca, mani dalle rosse unghie aguzze e dai
vibranti polpastrelli, che s‟intrufolavano sotto le casacche, sbottonavano
asole, carezzavano muscoli, solleticavano anditi. E bocche s‟incontravano
quasi volanti nell‟aria che s‟appiccicavano sotto gli orecchi come ventose e
lingue dolciastre e ruvide che insalivano la pelle corrodendola, e labbra
enormi con le gobbe di carminio che arrivavano fin nelle narici. E gambe si
sentivano scorrere dappertutto interminabili e innumerevoli come i tentacoli
d‟un enorme polipo, gambe che s‟intrufolavano tra le gambe e si
disbisciavano con colpi di coscia e di polpaccio. E poi parve che tutto stesse
dissolvendosi nelle loro mani, e chi si trovava in mano un cappello guarnito
di grappoli d‟uva, chi un paio di mutandine coi pizzi, chi una dentiera, chi
una calza avvoltolata al collo, chi una gala di seta»378.
La sequenza ha il ritmo vertiginoso di una slapstick comedy, in cui
“la struttura del racconto […] è quella di un meccanismo che opera nel
senso di una circolarità viziosa, senza una finalizzazione degli atti, risolta
377
La recensione comparve su “l‟Unità” piemontese del 1° giugno 1947; col titolo
Raymond Queneau, “Pierrot amico mio”, è ora in Italo Calvino, Saggi !945-85, tomo I,
cit., p. 1408.
378
Italo Calvino, Dollari e vecchie mondane, in Ultimo viene il corvo, Einaudi, Torino
1949, p. 203.
143
interamente
nel
suo
funzionamento
interno”379:
l‟iterazione,
la
miniaturizzazione e l‟immediata visività dei gesti escludono ogni indagine
psicologica, decostruiscono lo spazio, impongono un principio ritmico sul
principio di causalità, producendo così effetti corporei.
Una comicità ballettistica delle situazioni paradossali, della
sovrabbondanza gestuale e dell‟eccessivo dispendio energetico, da comica
cinematografica degli anni Venti, ricompare soprattutto ne Il cavaliere
inesistente, quando è in scena Gurdulù, il compagno pasticcione di Agilulfo,
col quale instaura una complementarità basata non solo sul contrasto tra
invisibilità e eccessiva implicazione materiale, ma anche sulla tradizione
della coppia buffa, fatta di segni invertiti, in cui i due personaggi non
potrebbero esistere l‟uno senza l‟altro, come se ci si trovasse di fronte a due
specchi deformanti, e ci fosse un continuo rovesciamento di difetti: «Il sosia
parodico è dato dal riflesso invertito delle qualità di un personaggio
nell‟altro»380.
Questa
specie
di
indissolubilità
semantica,
perennemente
ambivalente, oltre a richiamare famose coppie comiche del cinema come
Keaton e Arbuckle, Laurel e Hardy, Abbott e Costello, nelle quali il “doppio
parodico”
è
riconoscibile
come
struttura
mitica381,
ripropone
la
complementarità tra Don Chisciotte e Sancio nel capolavoro di Cervantes,
riferimento imprescindibile rispetto al tentativo calviniano di fondere il
“meraviglioso cavalleresco” e il “comico picaresco”: la stessa matrice è
riscontrabile nella coppia de Il conte di Montecristo, in cui Edmond Dantès
è un personaggio più contemplativo, mentre l‟Abate Faria rivela subito un
bisogno concreto di azione.
Anche nei racconti di Ultimo viene il corvo è frequente la
mescolanza tra la vita reale e l‟immaginario di altre forme espressive, come
quelli del cinema o del mondo di carta dei fotoromanzi. L‟accentuazione
iconica di gesti e fisionomie, oltre a riformulare la stilizzazione dei fumetti,
379
Cfr. Gianni Celati, Finzioni occidentali. Fabulazione, comicità e scrittura, Einaudi,
Torino 1975, p. 67.
380
Ibidem, p. 171.
381
Cfr. Giorgio Cremonini, Il comico e l‟altro. Il comico nel cinema americano, Cappelli
Editore, Bologna 1984, p. 32.
144
rimanda ai codici del cinema comico, alla sua sovradeterminazione
semantica dei referenti reali.
In Palomar prevale invece il comico più intellettuale, con una forma
più debole di ironia, che deriva dalla distorsione autoriflessiva della finalità
dei moti e degli atteggiamenti, anche se non mancano effetti di slapstick, per
esempio in La contemplazione delle stelle: come ha notato Celati, il signor
Palomar “ha movimenti di pensiero astratti e arbitrari, vagamente comici
nella loro assoluta inconcludenza; credo produca una commozione
paragonabile all‟effetto delle mosse, altrettanto astratte e intime, con cui il
gran filosofo Buster Keaton si aggirava nello spazio”382.
Lo stesso Calvino, nelle Lezioni americane, ha descritto questo
humour come “il comico che ha perso la pesantezza corporea […], e mette
in dubbio l‟io e il mondo e tutta la rete di relazioni che li costituiscono”383.
Se, da un lato, l‟accento posto sulla funzionalità del personaggio
ribadisce la centralità dell‟intreccio e della struttura di genere,
particolarmente efficace nel caso del comico, dall‟altro riproduce i
meccanismi della serializzazione, che innestano la ricorsività del mito anche
nell‟ambito della letteratura di massa, legata a esigenze di riconoscibilità.
I generi sono sottoposti a una continua parodizzazione e a varie
interpolazioni, come dimostra soprattutto Il cavaliere inesistente, che si
presenta come “un travestimento moderno […] non di una singola opera ma
del romanzo cavalleresco in generale, permeato di una fantasia spesso
comica e paradossale, e vicina a quella di Giraudoux”384: per Genette non è
soltanto un brillante esempio di parodia, ma anche un modello del tutto
originale di ipertestualità, visto che nel finale il libro, invitato a leggere se
stesso, svolge per la prima volta il ruolo di pubblico.
Se il passo de Il visconte dimezzato in cui la metà buona di Medardo
insiste nel leggere brani della Gerusalemme liberata alla pastorella Pamela,
sua anonima spasimante, e Pamela incita i propri animali a disturbare la
lettura del poema, è una scena da comica chapliniana con accenti”gotici”, il
382
Cfr. Gianni Celati, Palomar, la prosa del mondo, in “Alfabeta”, VI 59, aprile 1984, p. 7.
Cfr. Italo Calvino, Leggerezza, in Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo
millennio, cit., p. 25.
384
Cfr. Gérard Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado (1982), tr.it., Einaudi,
Torino 1997, p. 232.
383
145
pianto di Cosimo ne Il barone rampante, cui partecipa tutta la natura
antropomorfizzata, ha invece i toni patetici e corali dei film di Walt Disney:
già nel Sentiero, gli uomini si trasformano in animali o in oggetti grotteschi
e caricaturali, come nei cartoons di Paperino e di Topolino.
L‟aspetto comune alla parodia e alla citazione è quello che Hutcheon
ha definito la “ripetizione transcontestualizzata”: si tratta di ripetizioni che
includono sempre uno scarto, una differenza rispetto all‟originale, e
producono effetti ibridi, inediti, risultato dell‟incontro e del processo di
riassestamento dei diversi testi coinvolti385.
Si crea in questo modo un vivace dialogismo di allusioni intertestuali
che agiscono come tropi, distogliendo l‟attenzione da un testo e
indirizzandola verso un altro, una “retorica dell‟imitazione” che
effettivamente allarga i confini del testo, anche oltre la tradizione letteraria
stessa: l‟elemento nuovo è infatti l‟influenza delle forme di comunicazione
di massa.
Il registro comico di Marcovaldo, imperniato su una struttura che
ricalca le “storielle a vignette dei giornalini per l‟infanzia”, facendo il verso
della Family strip americana e, insieme, trasgredendola386, riassume vari
filoni, ricontestualizzati e risemantizzati in un‟atmosfera surreale e
fantastica: al grottesco “gogoliano”, evidenziato dallo stesso Calvino, si
mescolano una comicità svagata alla Buster Keaton e tutta una tradizione
comica che fa del personaggio “l‟ultima incarnazione di una serie di candidi
eroi, poveri-diavoli alla Charlie Chaplin, con questa particolarità: di essere
un „Uomo di Natura‟, un „Buon Selvaggio‟ esiliato nella città
industriale”387.
La disposizione di Calvino nei confronti dei suoi personaggi può
essere interpretata con il concetto di ironia come tongue-in-check elaborato
da Guido Almansi, non nel senso di una figura logica che determina un
ribaltamento di significato, ma come atteggiamento ammiccante, scherzoso,
385
Cfr. Pietro Pucci, Decostruzione e intertestualità, in “Nuova Corrente”, XXXI, 93-94,
gennaio-dicembre 1984, pp. 283-302.
386
Cfr. Ulla Musarra-Shroeder, La funzione del fumetto nella narrativa di Italo Calvino, in
“Civiltà italiana”, Atti dell‟XI Congresso della AIPI (Perugia, 25-27 agosto 1994), XIX, 1,
1995, pp. 183-187.
387
Cfr. la presentazione anonima, scritta probabilmente da Calvino, di Marcovaldo ovvero
Le stagioni in città, Einaudi, Torino 1963, p. 1.
146
irridente, che determina una continua indecidibilità del testo388: in termini
lukácsiani, si tratta di un modo costitutivo dei rapporti tra lo scrittore che
“costruisce” il senso romanzesco e il dio perduto e nuovamente ricercato nel
mondo, che sancisce “la condizione trascendentale dell‟obiettività della
raffigurazione”, trasformando l‟opera in “un paradossale amalgama di
elementi eterogenei e discreti in un organismo di continuo messo in
discussione”389.
Nella prefazione al Marcovaldo del 1966, lo scrittore mette in luce le
componenti del suo punto di vista, nel quale si fondono uno straniamento
kafkiano di fronte all‟imprevedibilità e alle minacce della vita quotidiana,
un candore ingenuo e il fascino dello scenografico e del mimico: «A
contrasto con la semplicità quasi infantile della trama d‟ogni novella,
l‟impostazione stilistica è basata sull‟alternarsi di un tono poetico-rarefatto,
quasi prezioso […] e il contrappunto prosaico-ironico della vita urbana
contemporanea, delle piccole e grandi miserie della vita»390.
La stessa triplice inclinazione si presenta nel racconto mimico La
panchina, musicato da Sergio Liberovici e anticipatore di molti motivi di
Marcovaldo, dove il modello brechtiano si integra con quello diderottiano
del personaggio consapevole della propria recita e del suo distacco391,
mettendo in luce il senso di teatralità che accompagna i personaggi
calviniani e la loro tendenza ai monologhi drammatici e a una parola
performativa, palese soprattutto nel caso di Qfwfq che sembra sempre
parlare a voce alta e rivolgersi a un pubblico di astanti, cercando di
catturarne il consenso e la curiosità, sfidando i pregiudizi e i luoghi
comuni392.
388
Cfr. Guido Almansi, Amica ironia, Garzanti, Milano 1984, in part. pp. 45-67.
György Lukács, Teoria del romanzo, cit., p. 112.
390
Italo Calvino, Marcovaldo, Einaudi, Torino 1966, p. 7.
391
Cfr. Italo Calvino, Il gatto e il topo, in “la Repubblica”, 24-25 giugno 1984; ora, col
titolo Denis Diderot, “Jacques le fataliste”, è in Id., Saggi 1945-85, tomo I, cit., pp. 844852.
392
L‟interesse di Calvino per il teatro è documentato in Italo Calvino, O certosa
“meravigliosa”, in “la Repubblica”, 8 settembre 1982; ora, col titolo Guida alla
“Chartreuse” a uso dei nuovi lettori, è in Id., Perché leggere i classici, Mondadori, Milano
1991, pp. 164-172.
389
147
Non molto diversa è la nozione di “postmodernist sospensive irony”
proposta da Alan Wilde e ripresa da Brian McHale393: si tratta di una
strategia retorica non più modernamente „disgiuntiva‟, che cerca di
dominare la contingenza disordinata del mondo da una posizione al di sopra
e al di fuori di esso, ma che invece riconosce “l‟immanenza dell‟ironista nel
mondo
che
egli
descrive”,
quindi
non
più
dialetticamente
e
schematicamente separata dal proprio referente, ma semmai omogenea a
esso e dal suo interno ambiguamente irridente.
Di questo genere di ironia sono emblematiche Le cosmicomiche,
dove l‟introversione del monologo interiore viene sostituita da un monologo
teatrale estroverso e allocutorio che riprende la sintassi e le incertezze del
parlato: è un terreno sul quale Calvino si confronta inevitabilmente con la
“sottocomunicazione” di Sanguineti e della Serraute394, anche se
l‟immersione nel materico e nel biologico non significa regressione, come
nel caso della neoavanguardia, né il comico vuole approdare a un sostrato
creaturale, mitico e archetipico, ma esso rappresenta sempre un filtro
intellettuale rispetto a “cose troppo grosse”395, rendendo molto più cauto lo
sperimentalismo.
Nei racconti cosmicomici, la parodia si configura in termini
genettiani come un tipo di ipertesto che, similmente al pastiche, agisce sul
registro ludico, ma, diversamente da esso, opera una trasformazione a livello
stilistico, non intervenendo sui contenuti: l‟oscillazione tra riflessività
metatestuale e parodia, che porta al limite le strutture dei generi, determina
una “produzione per dissipazione”396, dalla quale deriva un nuovo
supergenere di ricerca, risultato del riconoscimento dell‟esistenza dei generi
altri, appartenenti alla letteratura di consumo.
Per Calvino il recupero del “romanzesco” nelle forme della
letteratura di massa non inflaziona ma innova realmente i modi della
393
Cfr. Brian McHale, Constructing Postmodernism, Routledge, London 1992, in part. pp.
19-26.
394
Cfr. Edoardo Sanguineti, Il trattamento del materiale verbale nei testi narrativi della
nuova avanguardia, in Renato Barilli e Angelo Guglielmi (a cura di), Gruppo 63. Critica e
teoria, Feltrinelli, Milano 1976, pp. 203-19.
395
Cfr. Alfredo Barberis, Calvino spiega il suo mondo, in “Il Giorno”, 22 dicembre 1965, p.
20.
396
Cfr. Omar Calabrese, L‟età neobarocca, Laterza, Bari 1987, p. 153.
148
letteratura sperimentale, nel senso di una concezione epistemologica della
finzione, di una interattività tra autore e lettore.
Classicismo e avanguardia sono quindi intercambiabili: «[…] non
c‟è più una tradizione e un‟avanguardia, tutto è contemporaneo»397.
Come nota Donnarumma398, il classicismo calviniano ha poco in
comune con l‟idea tradizionale di classicità e si risolve piuttosto in una
forma di manierismo, in un “gioco” di materiali decontestualizzati, non
gratuiti ma rivolti alla responsabilizzazione del lettore: «Il gioco può
funzionare come sfida a comprendere il mondo o come dissuasione a
comprenderlo, la letteratura può lavorare tanto nel senso critico quanto nella
conferma delle cose come stanno e come si sanno. Il confine non è sempre
chiaramente segnato; dirò che a questo punto è l‟atteggiamento della lettura
che diventa decisivo; è al lettore che spetta di far sì che la letteratura
esplichi la sua forza critica, e ciò può avvenire indipendentemente dalla
intenzione dell‟autore»399.
In questo senso, è significativa la sottile ambiguità de L‟origine degli
uccelli, dove il ricorso intertestuale al fumetto come ammiccamento nei
confronti del lettore finisce per riaffermare la superiorità della letteratura,
dal momento che le parole, pur fingendo di confrontarsi con il linguaggio
comune, in realtà ne affermano l‟irrappresentabilità: «È meglio che
cerchiate voi stessi d‟immaginare la serie di vignette con tutte le figurine dei
personaggi al loro posto, su uno sfondo efficacemente tratteggiato, ma
cercando nello stesso tempo di non immaginarvi le figurine e neppure lo
sfondo. Ogni figurina avrà la sua nuvoletta con le parole che dice, o con i
rumori che fa, ma non c‟è bisogno che leggiate lettera per lettera tutto quello
che c‟è scritto, basta che ne abbiate un‟idea generale a seconda di come vi
dirò»400.
397
Cfr.la lettera di Calvino a Umberto Eco del 9 maggio 1962, ora in Italo Calvino, Lettere
1940-85, cit., p. 705.
398
Cfr. Raffaele Donnarumma, Calvino verso il postmoderno: dalla “Sfida al labirinto”
alla “Memoria del mondo”, in “Allegoria”, XIV, 40-41, gennaio-giugno 2002, p. 93.
399
Cfr. Italo Calvino, Cibernetica e fantasmi (Appunti sulla letteratura come processo
combinatorio) (1967), in Una pietra sopra. Discorsi di letteratura e società, cit., p. 180.
400
Italo Calvino, L‟origine degli uccelli, in Ti con zero, Einaudi, Torino 1967, p. 25.
149
La narrativa cosmicomica, rispetto agli sperimentalismi del
“modernismo feticista”401 che si nasconde dietro il caos della pagina
“illeggibile”, vuole mettere insieme estetica “alta” e “bassa” non per un
compromesso livellizzante, ma per creare un ibrido che superi la falsa
dicotomia che ha caratterizzato la letteratura a partire dall‟Ottocento.
Nello stesso tempo, la contaminazione dialogica dei livelli linguistici
è il riflesso dell‟impossibilità, nell‟età contemporanea, del monologismo
epico: in questo contesto, infatti, “la struttura letteraria non è, ma vi si
elabora in rapporto ad un‟altra struttura”, la parola letteraria non è un
punto, un insieme statico, ma “un incrocio di superfici testuali, un dialogo
tra parecchie scritture”402. Al dialogo di un sistema con un altro
corrispondono una intersezione codica, una fusione a livello delle strutture,
una relazione tra “abitanti semiotici” diversi.
Compagnon403 descrive le relazioni intertestuali con la formula della
“interdiscorsività” e si concentra sul concetto di citazione: ogni citazione è
prima di tutto una lettura, e viene accolta, ripetuta, messa in movimento
nella scrittura (il verbo latino citare, frequentativo di ciere, significa proprio
“mettere in movimento”).
Lo scambio dialogico fra i testi è alla base della “semiosfera” di
Lotman: la complessità testuale rappresenta un “sistema dinamico immerso
in uno spazio nel quale sono situati altri sistemi ugualmente dinamici, e
anche frammenti di strutture distrutte, singolari comete di questo spazio”404.
Le varie strutture, disposte a diversi livelli gerarchici, sono collegate
da un “isomorfismo verticale” che produce una “crescita quantitativa di
informazione”, trasformando il testo in una “valanga di testi”: «Come un
oggetto che si riflette in uno specchio produce nei frammenti di questo
centinaia di immagini, l‟informazione introdotta nella struttura semiotica
viene riprodotta più e più volte ai livelli più bassi»405.
401
Cfr. Terry Eagleton, Capitalism, Modernism, Postmodernism, cit., p. 67.
Julia Kristeva, Semeiotiché. Ricerche per una semanalisi (1969), tr.it., Feltrinelli,
Milano 1978, p. 121.
403
Cfr. Antoine Compagnon, La seconde main, ou le travail de la citation, Seuil, Paris
1979.
404
Cfr. Jurij Lotman, La cultura e l‟esplosione (1993), tr.it., Feltrinelli, Milano 1993, p. 87.
405
Id., La semiosfera. L‟asimmetria e il dialogo nelle strutture pensanti (1984), tr.it.,
Marsilio, Venezia 1992, p. 66.
402
150
Non c‟è un semplice atto di trasmissione, ma uno “scambio” che,
oltre alla somiglianza, implica una differenza e una reciprocità, e quindi la
presenza di unità discrete e la possibilità di intervalli nella trasmissione delle
informazioni, secondo una legge generale dei sistemi dialogici.
Il testo si presenta come “un congegno costituito da un sistema di
spazi semiotici eterogenei, all‟interno dei quali circola l‟informazione
trasmessa”: siamo in una “situazione con una grande indeterminatezza
interna, proprio perché il messaggio che entra dall‟esterno è un testo e non
ha un senso nudo, acquista esso stesso nel nuovo sistema indeterminatezza e
si presenta come una costruzione poliglotta, passibile di una serie di
interpretazioni dal punto di vista di linguaggi diversi e capace di rivelare in
un nuovo contesto sensi interamente nuovi”406.
Lotman richiama per la parola “testo” il significato etimologico,
l‟intrecciarsi dei fili della tela, e lo stesso fa Cesare Segre, per il quale il
complesso linguistico del discorso è come un tessuto: «La realizzazione del
testo è in uno stato di continua potenzialità […]. Si definisce un testo
mediante un altro testo, in un processo senza fine»407.
Il testo è passaggio, attraversamento, coesistenza di piani molteplici
ed eterogenei: può essere sé soltanto nella sua differenza, nella pluralità
stereografica dei significanti di cui è intessuto408.
Come Calvino, anche Genette parla di “palinsesti”: ogni testo
rappresenta metaforicamente un palinsesto, una pergamena raschiata da
successive riscritture che emergono “in trasparenza”, e, nella sua singolarità,
comprende un insieme di categorie generali o trascendentali.
Facendo riferimento soprattutto a Bachtin e Kristeva, Genette
propone per questa trascendenza del testo il termine più inclusivo e
articolato di “transtestualità”, indicando con esso “tutto ciò che mette un
testo in relazione, manifesta o segreta, con altri testi”409.
406
Ibidem, p. 128.
Ibidem, p. 128.
408
Cfr. Roland Barthes, Dall‟opera al testo (1971), in Il brusio della lingua. Saggi critici
IV (1984), tr.it., Einaudi, Torino 1988, pp. 60-61.
409
Cfr. Gérard Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado (1982), tr.it., Einaudi,
Torino 1997, p. 3.
407
151
È un processo che si afferma in Se una notte d‟inverno un
viaggiatore, dove gli autori degli incipit sono appena dei nomi perché non
esistono come personaggi e la loro unica traccia, la loro unica esistenza, è
nei loro incipit, presi in una rete intertestuale: «L‟intertestualità nella quale è
situato ogni testo, dal momento che è a sua volta l‟infratesto di un altro
testo, non può essere confusa con una qualche origine del testo stesso:
ricercare le “fonti”, gli “influssi” di un‟opera significa rispettare il mito
della filiazione; le citazioni di cui è fatto un testo sono anonime, irreperibili
e tuttavia già lette: sono citazioni senza virgolette»410.
La prospettiva barthesiana enunciata in Dall‟opera al testo prevede
che l‟autore non sia inscritto nel testo in maniera “privilegiata, paterna,
aletica, bensì ludica”: Ermes Marana sogna una “letteratura tutta d‟apocrifi,
di false attribuzioni, d‟imitazioni e contraffazioni e pastiches”, un testo
come “scambio cangiante di voci multiple”, in cui la totalità tradizionale è
oggetto di una rivisitazione ironica.
A questa condizione sembra alludere il gioco di specchi contrapposti
che si riflettono infinitamente nel racconto In una rete di linee che si
intersecano, dove lo Scrittore vuole assimilarsi a una superficie riflettente
non per narcisismo, ma per la paura di essere “braccato”, consapevole che
tra testo e fuori-testo ma anche tra i testi letterari stessi esiste un continuo
gioco di richiami, che sconvolge l‟idea di originalità: «Se la mia figura parte
in tutte le direzioni e si sdoppia su tutti gli spigoli è per scoraggiare quelli
che vogliono inseguirmi. Sono un uomo con molti nemici a cui devo
continuamente sfuggire. Se credono di raggiungermi colpiranno soltanto una
superficie di vetro su cui appare e si dilegua un riflesso tra i tanti della mia
ubiqua presenza. Sono anche un uomo che perseguita i suoi numerosi
nemici incombendo su di loro e avanzando a falangi inesorabili e tagliando
loro la strada da qualsiasi parte si voltino. In un mondo catoptico anche i
nemici possono credere che mi stanno accerchiando da ogni lato, ma io solo
410
Roland Barthes, Dall‟opera al testo, in Il brusio della lingua. Saggi critici IV (1984),
tr.it., Einaudi, Torino 1988, p. 61.
152
conosco la disposizione degli specchi, e posso rendermi inafferrabile,
mentre loro finiscono per urtarsi e abbrancarsi a vicenda»411.
Oltre a consentire di nascondersi, le superfici riflettenti, come scatole
magiche, aprono un nuovo territorio della conoscenza, facendo coesistere la
riproduzione della figura umana o dell‟oggetto insieme al riflesso di tutto
ciò che gli sta attorno: proprio negli stessi anni in cui Calvino lavorava a Se
una notte, Michelangelo Pistoletto realizzava i suoi allestimenti fatti di
specchi, di contenitori vuoti dove la realtà si specchia, entra, si muove e,
insieme a essa, lo fa anche lo spettatore412.
Attraverso gli specchi è possibile realizzare un‟opera che mantenga
la forza di rimanere continuamente disponibile all‟attualità del mondo e in
cui si verifica contemporaneamente l‟annullamento del tempo nella sua
rappresentazione e la sua permanenza nello scorrere temporale e reciproco
dei riflessi con l‟universo degli eventi reali: «Insieme all‟irradiarsi
centrifugo che proietta la mia immagine lungo tutte le dimensioni dello
spazio, vorrei che queste pagine rendessero anche il movimento opposto con
cui dagli specchi mi arrivano le immagini che la vista diretta non può
abbracciare. Di specchio in specchio – ecco quel che m‟ avviene di sognare
– la totalità delle cose, l‟universo intero, la sapienza divina potrebbero
concentrare i loro raggi luminosi in un unico specchio. O forse la
conoscenza del tutto è seppellita nell‟anima e un sistema di specchi che
moltiplicasse la mia immagine all‟infinito e ne restituisse l‟essenza in
un‟unica immagine, mi rivelerebbe l‟anima del tutto che si nasconde nella
mia»413.
L‟immagine dello specchio, dove si proietta sia la dimensione del
tempo nel suo farsi sia l‟identità come realtà inseparabile dal tempo in cui è
immersa, descrive il sogno dello Scrittore di realizzare un‟opera in cui
confluiscano in un presente perenne tutte le dimensioni dell‟esistenza, i
corpi delle persone e il continuo movimento nel tempo, ciò che persiste
come ciò che fugge, la memoria e il futuro, secondo le idee espresse anche
411
Italo Calvino, Se una notte d‟inverno un viaggiatore, cit., p. 189.
Nel marzo del 1978 si apre a Torino, presso la Galleria Persano, una mostra nella quale
Pistoletto indica nella “divisione e moltiplicazione dello specchio” una delle due direzioni
fondamentali della sua arte, un principio trasferito anche a livello organico e sociale.
413
Ibidem, p. 193.
412
153
da Pistoletto a proposito della sua arte: «Lo specchio per me ha
rappresentato, fin dal principio, il modo per riconoscere la mia identità, per
riconoscere me stesso. […] Insieme all'artista, nel quadro, è apparso tutto il
mondo, sono apparsi tutti gli altri. E' apparso lo spazio e sono apparse le
persone, è apparso il tempo reale in uno spazio virtuale, è apparso il
rapporto tra ciò che non cambia e ciò che cambia sempre, il rapporto tra
individuo e società, uno e tutti. Nello specchio ciò che vediamo davanti a
noi sta anche alle nostre spalle, per cui la prospettiva rinascimentale si
ribalta in una doppia prospettiva che non guarda più solo in avanti, verso la
modernità, verso il futuro, verso il progresso ma porta il progresso a
confronto con ciò che abbiamo dietro di noi, il tempo, il passato; la
responsabilità che sta alle nostre spalle diventa la protagonista per uno
sguardo nel futuro. […]Chiaramente lo specchio mi ha portato a nuove
forme di rapporto con il mondo. Mi ha avviato in un processo di interazione,
di collaborazione, di attività multidisciplinare, all'idea di differenza, di
molteplicità, di incontro plurimo tra persone, spazi, tempi, mondi diversi
che sono nati dalla fluidità dell'immagine specchiante»414.
Già ne Il conte di Montecristo Calvino tematizza il suo bisogno di
scomposizione e ricomposizione delle prospettive testuali, finalizzato a
conquistare uno sguardo spersonalizzato sulle cose attraverso la molteplicità
dei punti di vista su una storia: gli ingredienti romanzeschi di Dumas si
combinano con il discorso metatestuale che trasforma la scrittura in un
gioco di specchi che si riflettono, azzerando le categorie di spazio e tempo e
risolvendo il racconto in un movimento spiraliforme, privo di qualsiasi
concatenazione causale.
Lo specchio è una grande metafora dell‟intertestualità, un tratto
caratterizzante dell‟orizzonte postmoderno415, che ritorna anche in Palomar
414
Cfr. l‟intervista di Ierma Sega, Michelangelo Pistoletto. Lo specchio come forma di
rapporto con il mondo, consultabile nel sito web www. UnDo.net..
415
Sull‟argomento cfr. Andrea Bernardelli, Intertestualità, La Nuova Italia, Milano 2000,
Marina Polacco, L‟intertestualità, Laterza, Bari 1998, Massimo Bonafin (a cura di),
Intertestualità, Il Melangolo, Genova 1986, e inoltre Roland Barthes, Théorie du texte, in
Encyclopaedia universalis, XV, Paris 1975, pp. 1014-15, cit. in Remo Ceserani,
Raccontare il postmoderno, Bollati Boringhieri, Torino 1997, pp. 137-138.
154
(L‟universo come specchio), dove Antonio Costa416 individua il fenomeno
che Genette ha definito “effetto rebound”417, ovvero l‟effetto “di risonanza”
di un medium su un altro, di permeabilità delle loro strutture e “scritture”.
L‟immaginario letterario registra l‟allargamento dell‟esperienza
percettiva dovuto ai nuovi strumenti di comunicazione e le modificazioni
delle relazioni sensoriali con il mondo circostante, del modo di
rappresentarle. C‟è un forte condizionamento dell‟immaginario tecnologico
e dei suoi “linguaggi” su quello visivo, e di conseguenza sull‟immaginario
letterario.
I media si intrecciano, si scambiano forme e contenuti. Il processo
di trasferimento è reciproco: in un primo tempo è stato soprattutto il cinema
a introiettare il dispositivo della narrazione letteraria, a insinuare la scrittura
dentro la continuità dell‟immagine, sviluppandosi verso una forma
“parlata”; in seguito la letteratura è stata influenzata dal linguaggio
cinematografico, risultato di aggregazione e sintesi di svariate tecnologie e
semiosi, organizzate in un unico sistema sintetico e polifonico,
metalinguistico (Gaudreault chiama il cinema delle origini “reticolo
intermediale”: “è talmente intermediale da non essere neppure cinema, da
non essere ancora cinema”418) .
Uno stesso immaginario visivo è diventato comune a pittori, cineasti,
romanzieri: si attivano così continue e transitive “dinamiche di scambio”419.
La letteratura è stata obbligata a oltrepassare i propri limiti per
sintonizzarsi con la nuova visione della narrazione spaziale cinematica,
rielaborandone gli aspetti più dinamici: la configurazione spaziale del flusso
del tempo, l‟intrinseca relatività, il costante spostamento del punto di vista
attraverso il montaggio, la “simultaneità” sono essenzialmente in disaccordo
416
Cfr. Antonio Costa, Palomar: effetto rebound e archeologia della visione, in Immagine
di un‟immagine. Cinema e letteratura, UTET Libreria, Torino 1993, pp. 45-61.
417
Cfr. Gérard Genette, Nuovo discorso del racconto (1983), tr.it., Einaudi, Torino 1987, p.
62.
418
Cfr. André Gaudreault, Il cinema tra intermedialità e letterarietà (postfazione del 1998),
in Dal letterario al filmico. Sistema del racconto (1989), tr.it., Lindau, Torino 2000, p. 183.
419
Cfr. Keith Cohen, Cinema e narrativa. Le dinamiche di scambio (1978), tr.it., Eri,
Torino 1982, in particolare pp. 153-171.
155
con la consecutività e l‟effettualità singola delle parole scritte, ma le
condizionano in una direzione decisamente visiva.
Anche Jakobson sottolinea la stretta relazione tra i diversi sistemi
semiotici, tra le diverse modalità espressive dei fenomeni comunicativi: il
carattere letterario di un testo non è costituito dalla sua singolarità, ma dalla
presenza potenziale di altri testi, dalla sua transtestualità.
Le arti sono tutte più o meno in correlazione, “dialogano” tra di loro:
un‟opera pittorica può riferirsi a un testo letterario, o un testo letterario a
una scultura o a una costruzione architettonica.
Si parla di traduzione intersemiotica, nella quale i segni linguistici
vengono interpretati per mezzo di sistemi di segni non linguistici: «Molti
processi studiati dalla poetica non sono evidentemente circoscritti all‟arte
del linguaggio. Basta pensare che è possibile trasportare Wuthering Heights
(Cime tempestose) in un film, trasferire leggende medievali in aff