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Pietro Citati, La saggezza dei padri sgorga dal deserto

Nell'Egitto del IV e del V secolo, i monaci del deserto conducevano una vita semieremitica: una forma di eremitismo temperato, che prevedeva una misura di vita comune. Avevano le celle a una certa distanza: nessuno poteva riconoscerli da lontano, o vederli facilmente, o udire la loro voce. Vivevano in una quiete profonda. Ognuno passava il tempo nascosto tra i muri della sua cella: seduto su uno sgabello, teneva le mani occupate con un lavoro manuale, come quello di intessere corde, o ceste. La sua vita era interiore: meditava versetti dei Salmi, e sopratutto recitava brevi preghiere, come «Signore, abbi pietà di me» o «Signore, aiutami». Queste preghiere avevano un doppio scopo: fare il vuoto nella loro mente e combattere contro i pensieri e le tentazioni demoniache, che li minacciavano. Quando il vuoto perfetto era raggiunto, il pensiero di Dio scendeva dentro di loro e li occupava. Con i monaci vicini, intrattenevano rapporti: come con i giovani monaci, che li venivano a trovare, chiedendo loro il segreto della sapienza. Solo durante il sabato e la domenica essi si riunivano nella chiesa. Le risposte alle domande dei giovani vennero riunite in raccolte orali; e poi, via via, in raccolte scritte sempre più vaste, che culminano nella grande collezione sistematica, che comprende 1197 detti, e viene ora tradotta e commentata in modo eccellente da Luigi D'Ajala Valva (I padri del deserto, Detti, Qiqajon, Monastero di Bose, pagine 754, € 50). Oggi trascorriamo con attenzione questi detti, nei quali si concentra una sapienza secolare, non solo cristiana, e cerchiamo sopratutto una traccia dell'insegnamento dei Vangeli. La prima traccia è il ricordo della violenza, contenuta nei Vangeli. Mentre Gesù predicava, la sua voce creava contrasto. «Non crediate -egli disse ai discepoli -che io sia venuto a portare pace sulla terra. Sono venuto a portare non la pace, ma la spada». Portava il fuoco: la violenza: la violenza contro il mondo e contro sé stessi, che i padri del deserto rivelavano nelle loro parole. «Se qualcuno -diceva Gesù -vuol venire dietro di me, rinneghi sé stesso e mi segua! Chi infatti vuol salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita, per amore di Dio e dei Vangeli, la salverà». Chi voleva venire dietro al Cristo, doveva rinunciare a tutto: la famiglia, i parenti, i legami, tutto ciò che si chiamava mondo, specialmente il padre, perché come unico padre aveva Dio. L'amore per Gesù doveva essere assoluto, esclusivo, illimitato. O si era per lui o si era contro di lui. L'amore per Gesù trovava inciampi in lui e si scandalizzava di lui. Non era semplice e confidenziale, come quello insegnato dai maestri comuni: era difficile comprenderlo e farlo proprio. Il cristianesimo, sopratutto quello dei monaci, non era in nessun caso la religione del buon senso e del senso comune: ma era fondata sulla contraddizione e sul paradosso. Solo alla fine dei tempi, tutto ciò che in Gesù era spada, violenza, tensione, paradosso, contraddizione, si sarebbe sciolto in un'onda di purissimo amore. Gesù aveva detto: «Non giudicate affinché non siate giudicati. Infatti col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate vi sarà misurato». Gesù condannava l'atto stesso di giudicare. Qualsiasi valutazione compiamo è già una condanna. Non basta giudicare con misericordia: bisogna evitare in qualsiasi modo l'atto stesso di valutare, considerare, prendere in esame, analizzare, comprendere gli altri, qualsiasi cosa essi facciano. Con straordinaria coerenza, i monaci ereditarono l'insegnamento di Gesù. Non giudicavano mai gli altri. Evitavano qualsiasi psicologia. Con un salto, si rifugiavano nella quiete della mente, nella quale esisteva soltanto il puro, l'indiviso, l'amore di Dio.

La saggezza dei padri sgorga dal deserto di Pietro Citati in “Corriere della Sera” del 31 dicembre 2013 Nell’Egitto del IV e del V secolo, i monaci del deserto conducevano una vita semieremitica: una forma di eremitismo temperato, che prevedeva una misura di vita comune. Avevano le celle a una certa distanza: nessuno poteva riconoscerli da lontano, o vederli facilmente, o udire la loro voce. Vivevano in una quiete profonda. Ognuno passava il tempo nascosto tra i muri della sua cella: seduto su uno sgabello, teneva le mani occupate con un lavoro manuale, come quello di intessere corde, o ceste. La sua vita era interiore: meditava versetti dei Salmi, e sopratutto recitava brevi preghiere, come «Signore, abbi pietà di me» o «Signore, aiutami». Queste preghiere avevano un doppio scopo: fare il vuoto nella loro mente e combattere contro i pensieri e le tentazioni demoniache, che li minacciavano. Quando il vuoto perfetto era raggiunto, il pensiero di Dio scendeva dentro di loro e li occupava. Con i monaci vicini, intrattenevano rapporti: come con i giovani monaci, che li venivano a trovare, chiedendo loro il segreto della sapienza. Solo durante il sabato e la domenica essi si riunivano nella chiesa. Le risposte alle domande dei giovani vennero riunite in raccolte orali; e poi, via via, in raccolte scritte sempre più vaste, che culminano nella grande collezione sistematica, che comprende 1197 detti, e viene ora tradotta e commentata in modo eccellente da Luigi D’Ajala Valva (I padri del deserto, Detti, Qiqajon, Monastero di Bose, pagine 754, € 50). Oggi trascorriamo con attenzione questi detti, nei quali si concentra una sapienza secolare, non solo cristiana, e cerchiamo sopratutto una traccia dell’insegnamento dei Vangeli. La prima traccia è il ricordo della violenza, contenuta nei Vangeli. Mentre Gesù predicava, la sua voce creava contrasto. «Non crediate — egli disse ai discepoli — che io sia venuto a portare pace sulla terra. Sono venuto a portare non la pace, ma la spada». Portava il fuoco: la violenza: la violenza contro il mondo e contro sé stessi, che i padri del deserto rivelavano nelle loro parole. «Se qualcuno — diceva Gesù — vuol venire dietro di me, rinneghi sé stesso e mi segua! Chi infatti vuol salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita, per amore di Dio e dei Vangeli, la salverà». Chi voleva venire dietro al Cristo, doveva rinunciare a tutto: la famiglia, i parenti, i legami, tutto ciò che si chiamava mondo, specialmente il padre, perché come unico padre aveva Dio. L’amore per Gesù doveva essere assoluto, esclusivo, illimitato. O si era per lui o si era contro di lui. L’amore per Gesù trovava inciampi in lui e si scandalizzava di lui. Non era semplice e confidenziale, come quello insegnato dai maestri comuni: era difficile comprenderlo e farlo proprio. Il cristianesimo, sopratutto quello dei monaci, non era in nessun caso la religione del buon senso e del senso comune: ma era fondata sulla contraddizione e sul paradosso. Solo alla fine dei tempi, tutto ciò che in Gesù era spada, violenza, tensione, paradosso, contraddizione, si sarebbe sciolto in un’onda di purissimo amore. Gesù aveva detto: «Non giudicate affinché non siate giudicati. Infatti col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate vi sarà misurato». Gesù condannava l’atto stesso di giudicare. Qualsiasi valutazione compiamo è già una condanna. Non basta giudicare con misericordia: bisogna evitare in qualsiasi modo l’atto stesso di valutare, considerare, prendere in esame, analizzare, comprendere gli altri, qualsiasi cosa essi facciano. Con straordinaria coerenza, i monaci ereditarono l’insegnamento di Gesù. Non giudicavano mai gli altri. Evitavano qualsiasi psicologia. Con un salto, si rifugiavano nella quiete della mente, nella quale esisteva soltanto il puro, l’indiviso, l’amore di Dio.