MICHELE CAMEROTA
GALILEO, LUCREZIO E L’ATOMISMO
Una disamina delle posizioni assunte da Galileo in merito alla questione
dell’atomismo – e, più in generale, della struttura della materia – non può prescindere dal rilevare preliminarmente come, nell’ambito della sua lunga milizia intellettuale, l’autore del Dialogo sopra i due massimi sistemi non si sia mai
soffermato ad illustrare in modo specifico ed analitico la propria concezione
sull’argomento.
Sollecitata dalle occasioni e, pertanto, sovente caratterizzata da accenti polemici debitamente mirati (argomentazioni ad hoc quando non ad hominem),
l’illustrazione del tema ha accompagnato come un filo rosso l’intera vicenda
scientifica del grande Pisano, senza trovare però mai una sede di apposito,
dettagliato, approfondimento.
Nonostante la disorganicità ed il connotato rapsodico degli spunti sul tema, è tuttavia indubbio che la teoria della materia galileiana sia caratterizzata
da una complessiva, marcata ispirazione atomistica. Certamente, nelle varie
sedi in cui Galileo ha espresso le proprie idee non mancano differenze (anche
consistenti) di tipo concettuale e lessicale, ma, a ben vedere, tutte le oscillazioni sull’argomento sono in qualche modo riportabili nell’alveo di una direttrice
teorica decisamente in linea con la prospettiva dell’atomismo classico piuttosto che con le tesi della tradizione aristotelica.
Non a caso, fin dai primi studi di dinamica, i cosiddetti scritti De motu
antiquiora – risalenti, con ogni probabilità, al periodo in cui tenne la cattedra
di matematica a Pisa, tra il 1589 e il 1592 – Galileo polemizzava duramente
con lo Stagirita, responsabile di aver ingiustamente e a torto («inmerito») criticato, nel quarto libro del De caelo, gli antiquiores philosophi, sostenitori di
una materia unica, comune a tutti gli elementi («totam elementorum communem materiam»), le cui particulae tendono a costituire corpi di diverso peso e
densità mediante una differente distribuzione spaziale:
Cum enim, ut antiquioribus philosophis placuit, una omnium corporum sit materia, et illa quidem graviora sint quae in angustiori spatio plures illius materiae par-
— 141 —
MICHELE CAMEROTA
ticulas includerent, ut iidem philosophi, inmerito fortasse ab Aristotele 4 Caeli confutati, asserebant; rationi profecto consentaneum fuit, ut quae in angustiori loco plus
materiae concluderent, angustiora etiam loca, qualia sunt quae centro magis accedunt, occuparent.1
Lo spunto galileiano concerne il giudizio polemico dato da Aristotele sulla
concezione della ‘‘pesantezza’’ dei corpi sostenuta da Platone e dagli atomisti
(cf. De caelo, 308b – 309b), una concezione che escludeva l’esistenza del «pesante e leggero assoluti» (aJplw"~ baruv kai; kouf~ on), fondamentali nell’assetto del
mondo peripatetico. Contro tale dottrina il giovane Galileo si pronunciava
con nettezza, destinando un intero capitolo 2 a confutare l’opinione aristotelica
e a proclamare la propria adesione all’insegnamento dei pensatori ‘‘antichi’’
(«Nos autem, antiquorum in hoc opinionem secuturi [...]»).3
Per quanto il lessico dei De motu non implichi, in senso stretto, l’adesione
ad una concezione atomista (vi si parla sempre di particolae, mai di atomi),
tuttavia l’idea di una materia a costituzione particellare comune a tutte le cose
lascerebbe intendere che Galileo avesse maturato tesi congeneri a quelle degli
antiquiores philosophi, da lui, come abbiamo visto, tenacemente difesi dagli
strali del Filosofo.
Inoltre, la stessa critica galileiana della tesi peripatetica che affermava la
realtà di una ‘‘leggerezza’’ positiva e ‘‘assoluta’’ (levitas absoluta), richiama
una concezione della materia unitaria e strettamente connessa all’attributo
della gravitas, configurando una concezione in cui le distinzioni qualitative
tendono a non giocare più un ruolo privilegiato. In tal senso, il paradigma dinamico dei De motu segna un primo passo in direzione di una rigorosa meccanizzazione del movimento, un’operazione scientemente condotta contra Aristotelem, nel segno di una decisa contestazione dell’impianto teleologico della
fisica peripatetica.
1 [«Poiché infatti, come vollero i filosofi più antichi, la materia è unica, e, come ancora sostenevano gli stessi filosofi, forse a torto confutati da Aristotele nel quarto libro del De caelo, i corpi più
pesanti sono quelli che in uno spazio più ristretto raccolgono un maggior numero di particelle di
quella materia, fu dunque perfettamente conforme alla ragione che le cose che racchiudevano più
materia in uno spazio più ristretto, andassero ad occupare i luoghi più angusti, quali sono quelli
che più si approssimano al centro»]. GALILEO GALILEI, Opere, Edizione Nazionale, a cura di A. Favaro (Firenze: Giunti Barbera, 1890-1909; rist. 1968), I, pp. 252-253 (d’ora in avanti citeremo l’Ed.
Naz. delle Opere, di Galileo semplicemente con la dicitura OG, cui farà seguito, in numero romano,
il riferimento al volume, e, in cifre arabe, alla pagina).
2 Cfr. «Caput... in quo contra Aristotelem concluditur, non esse ponendum simpliciter leve et
simpliciter grave: quae etiam si darentur non erunt terra et ignis, ut ipse credit». OG, I, 289-294.
3 OG, I, 289-290. Cfr. inoltre quanto Galileo afferma nel capitolo, di una ulteriore stesura, intitolato «Gravitatis corpus nullum expers esse, contra Aristotelis opinionem»; OG, I, 355-361.
— 142 —
GALILEO, LUCREZIO E L’ATOMISMO
Di fatto, per il giovane Galileo è la differenza tra pesi specifici del corpo e
del mezzo a determinare direzione e velocità delle traslazioni, senza che si dia
un termine proprio, un locus naturalis, quale esito finalistico del processo. La
rinuncia alla prospettiva teleologica è possibile in quanto, già nei De motu, le
distinzioni qualitative tra materie non definiscono le attitudini cinetiche dei
corpi, se non nel senso che corpi della stessa specie hanno il medesimo peso
specifico,4 e, dunque, anche se di mole diversa, si muovono in un identico
mezzo con eguale velocità.
Non è difficile scorgere in quegli antiquiores philosophi che il giovane Galileo contrappone ad Aristotele l’ombra degli atomisti, in particolare di Democrito, le cui posizioni egli conosceva non solo a partire dai testi aristotelici, ma
anche dalle opere di Galeno, al cui studio si era dedicato negli anni in cui era
appunto studente di medicina a Pisa, negli anni tra il 1580 e il 1585. In tal
senso, ancora nel 1590, Galileo – già docente di matematica nell’Ateneo pisano – chiedeva al padre di inviargli l’opera del medico di Pergamo, che possedeva in un’edizione in sette volumi (forse quella veneziana di Valgrisi del
1562-1563, o la giuntina del 1565).5
Mette altresı̀ conto ricordare come, nell’ambiente filosofico pisano della
seconda metà del Cinquecento e dei primi decenni del Seicento, le dottrine
atomistiche fossero estesamente discusse e costituissero un tema ricorrente
della riflessione dei professori del locale Studio.
Cosı̀, l’aristotelico Francesco Buonamici, docente di filosofia a Pisa nel
lungo torno di tempo compreso tra il 1565 e il 1603, nonché autore di un ponderoso (1011 pagine in folio) trattato De motu (edito nel 1591) – ben noto a
Galileo che lo citerà estesamente nel Discorso intorno alle cose che stanno in su
l’acqua (1612) – concedeva ampio spazio alla esposizione delle dottrine di Democrito ed Epicuro, attingendo alle testimonianze di Aristotele, di Diogene
4 Mette conto notare che non esiste nei De motu un apposito termine cui Galileo assegni la
denotazione del concetto di peso specifico. Lo scienziato pisano continua, infatti, a significare il
peso per unità di volume mediante il generico termine gravitas. Solo più tardi, nell’ambito della
matura analisi del Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua o che in quella si muovono
(1612), egli si servirà, costantemente e consapevolmente, della più appropriata espressione gravità
in specie. Cfr. OG, IV, 67-68. Va anche osservato che Galileo non opera alcuna distinzione tra i
moderni concetti di peso specifico assoluto (rapporto tra il peso e il volume di un corpo omogeneo)
e peso specifico relativo (rapporto tra il peso di un corpo e il peso di un eguale volume di acqua
distillata) equiparando la sua nozione di gravitas ad una sorta di approssimativa misura della densità dei corpi.
5 «Ho hauto in questo punto una vostra, con la quale ditemi di mandarmi i Galeni et il vestito
et la Sfera, le quali cose non ho ancora ricuperate: me le harò ancora stasera. I Galeni non hanno ad
essere altro che 7 tomi, sı̀ che staranno bene». Galileo a Vincenzo Galilei, 15 novembre 1590, in
OG, X, 44.
— 143 —
MICHELE CAMEROTA
Laerzio, di Cicerone, e, soprattutto, di Lucrezio, i cui versi ricorrono frequentemente in molte parti dell’enorme volume del Buonamici.6
Pur nell’ambito di una orgogliosamente rivendicata fedeltà all’aristotelismo, nel decimo libro della sua voluminosa opera sul movimento, Buonamici
delineava una concezione dell’essere divino come ente del tutto alieno da ogni
attenzione alle vicende umane e mondane, apparentando esplicitamente questa immagine della divinità (che identificava con quella di Aristotele) alla ‘‘predicazione’’ di Epicuro.7 In tale prospettiva egli procedeva, inoltre, a censurare
la superstizione di coloro che, con le più varie intraprese, tentano di accattivarsi il favore divino, e ricordava in proposito il sacrificio di Ifigenia, citando i
versi del primo libro del poema lucreziano e la loro drastica conclusione: Tantum religio potuit suadere malorum.8
Nella discussione delle questioni dinamiche – tema centrale del suo De
motu – Buonamici evidenziava, peraltro, un indefettibile attaccamento alla fisica peripatetica, difendendone le fondamentali dottrine, sovente in polemica
con il punto di vista degli atomisti. Al fine di meglio illustrare le opinioni di
questi ultimi, il filosofo fiorentino si serviva non di rado dei versi del poema di
Lucrezio, come nel caso dell’esame di quella teoria della gravità discussa anche da Galileo nei suoi scritti giovanili sul moto:
Alij vero Platone quidem vetustiores, attamen novis modis nec unquam excogitatis, de ipsorum [sc. gravium et levium] natura decrevere. Illa enim conficiebant
ex pleno et vacuo, plenum gravitatis, vacuum vero levitatis caussam dicentes. Cum
igitur corpus quoddam plus in se plenum contineret, grave ipsum esse testabantur,
6 Cfr., per es., FRANCESCO BUONAMICI , De Motu Libri X (Florentiae: apud B. Semartellium,
1591), part. Libro I, capp. 25-28 (pp. 108-120). Per una articolata disamina del pensiero del Buonamici, cfr. MARIO OTTO HELBING, La filosofia di Francesco Buonamici professore di Galileo a Pisa (Pisa:
Nistri-Lischi, 1989).
7 «Ideque Peripateticorum schola sensisse videtur, quod praedicabat Epicurus. Quod aeternum beatumque sit, id nec habere ipsum negotii quicquam, nec exhibere alteri». BUONAMICI, De
motu (cit. n. 6), p. 972. In proposito cfr. HELBING, La filosofia di Francesco Buonamici (cit. n. 6),
pp. 331-342; SERGIO LANDUCCI, I filosofi e Dio (Roma-Bari: Laterza, 2005), pp. 72-73.
Anche il collega e rivale del Buonamici, l’aretino Girolamo Borro (1512-1592) – professore di
filosofia allo Studio di Pisa negli anni tra il 1533 e il 1559 e, ancora, nel periodo 1575-1586 – affermava, in stretto riferimento al dettato del dodicesimo libro della Metafisica di Aristotele (cfr. Metaph.
1074b 15-1075a 10), che la vita della divinità si limitava ad un eterno esercizio di autocontemplazione: «Consistit ergo vita Dei perennis in actu intelligendi et amandi se ipsum; qui intelligendi et
amandi actus est quieti similior quam motui». GIROLAMO BORRO, De motu gravium et levium (Florentiae: G. Marescottus, 1575), p. 59.
8 BUONAMICI , De motu (cit. n. 6), p. 973. Buonamici cita i vv. 95-101 del primo libro del De
rerum natura: sublata virum manibus tremibundaque ad aras / deducta est, non ut sollemni more sacrorum / perfecto posset claro comitari Hymenaeo, / sed casta inceste nubendi tempore in ipso / hostia
concideret mactatu maesta parentis, / exitus ut classi felix faustusque daretur. / Tantum religio potuit
suadere malorum.
— 144 —
GALILEO, LUCREZIO E L’ATOMISMO
cum vero contra plus vacui, leve. Horum caput Democritus, cuius simia fuit Epicurus. Nanque ex ipso Lucretius:
Denique cur alias aliis praestare videmus
pondere res rebus nihilo maiore figura?
Nam si tantundem est in lanae glomere quantum
corporis in plumbo est, tantundem pendere par est,
corporis officium est quoniam premere omnia deorsum,
contra autem natura manet sine pondere inanis.9
Buonamici avrebbe ben potuto continuare nella sua citazione, dal momento che i passaggi immediatamente successivi del testo lucreziano sono quelli
che meglio chiariscono il concetto in questione. Ecco il dettaglio dei seguenti
versi 364-369 del primo libro del De rerum natura:
Ergo quod magnumst aeque leviusque videtur,
ni mirum plus esse sibi declarat inanis;
at contra gravius plus in se corporis esse
dedicat et multo vacui minus intus habere.
Est igitur ni mirum id quod ratione sagaci
quaerimus, admixtum rebus, quod inane vocamus.10
Una simile, esplicita affermazione dell’esistenza del vuoto inter-particellare non si riscontra in alcun luogo dei galileiani De motu antiquiora. Galileo
ritiene bensı̀ che il peso corrisponda ad una maggiore concentrazione di materia, ma non fa mai riferimento ad un vacuum disseminatum (per usare la nomenclatura scolastica) all’interno dei corpi, ma solo ad una più elevata presenza di particolae in un dato spazio. A parere dello scienziato pisano, infatti,
9 [«Altri pensatori, più antichi di Platone e tuttavia con modi nuovi mai prima escogitati, giudicarono in merito alla natura dei corpi gravi e leggeri. Componevano, infatti, i corpi di pieno e di
vuoto, sostenendo che il pieno fosse la causa del peso ed il vuoto la causa della leggerezza. Essi, dunque, dichiaravano un certo corpo pesante in quanto conteneva in sé una maggiore quantità di pieno;
quando invece, al contrario, constava di più vuoto, lo definivano leggero. Il principale esponente di
costoro fu Democrito, imitato da Epicuro. E appunto ispirato da questi, Lucrezio scrive: Infine perché vediamo dei corpi pesare più di altri corpi, sebbene non abbiano forma più grande? Se altrettanta
materia c’è in un globo di lana quanta in uno di piombo, è giusto che pesi altrettanto, perché è proprio
della materia premere ogni cosa al basso, mentre la natura del vuoto è esente da peso»]. BUONAMICI, De
motu (cit. n. 6), p. 464. I versi citati da Buonamici corrispondono ai vv. 358-363 del primo libro del
De rerum natura (la traduzione qui data è quella di Armando Fellin, per cui ved. nota ss.).
10 [«Dunque ciò che egualmente è grande e appare più leggero dichiara per certo d’avere in sé
più vuoto; al contrario l’oggetto più grave rivela che è in lui più materia e che ha dentro molto minor
parte di vuoto. Esiste dunque certo, mescolato nei corpi, quel che cerchiamo con acuto ragionare e
che diciamo il vuoto»]. Trad. di Armando Fellin, in Tito Lucrezio Caro. La Natura (Torino: UTET,
1997; rist. 2005), p. 89.
— 145 —
MICHELE CAMEROTA
debbono stimarsi più densi e pesanti quei corpi che, a parità di dimensioni,
inglobano un più alto numero di particelle.11 La variazione nell’occorrenza
particellare in volumi eguali (condizione che pure lascerebbe pensare ad
una implicita assunzione della presenza di vacua tra le particolae) spiega, dunque, le differenze di peso (specifico) caratteristiche delle diverse sostanze, costituendo cosı̀ il fattore determinante, in ultima analisi, il comportamento dinamico dei gravi.
In sintonia con la dottrina atomista – oltre che con l’ispirazione archimedea che sostanzia l’intera dinamica dei De motu antiquiora – il giovane Galileo
procedeva altresı̀ ad interpretare il motus sursum, il moto naturale verso l’alto,
nei termini di un effetto della estrusione del mezzo nei confronti di un corpo
di peso specifico minore.12 Ogni ente materiale ha, infatti, peso,13 da cui deriva la naturale tendenza a muoversi verso il basso; di conseguenza, non si può
sostenere – come fa Aristotele – che esista qualcosa (nella fattispecie il fuoco)
di assolutamente leggero.14 Il moto ‘‘verso l’alto’’ è quindi prodotto dalla azione del mezzo, in quanto esso è più pesante (in specie) della sostanza che vi si
trova immersa.15
La critica galileiana alla concezione peripatetica del moto naturale sursum
è esplicitamente improntata alla difesa delle posizioni degli antiquores philosophi («Haec Aristoteles contra antiquos, et nos pro antiquis»),16 vale a dire, come già osservato, degli atomisti.
Anche Lucrezio, nei versi 185-205 del secondo libro, aveva riportato il
moto verso l’alto ad una forza esterna, sottolineando come nullam rem posse
sua vi / corpoream sursum ferri sursumque meare. Secondo le sue parole:
11 «Eorum vero quae ex hac materia constituta sunt corpora, densiora illa dicta sunt quae, sub
eadem mole, plures eiusdem materiae particolas coëgere; densiora autem graviora fuere». OG, I, 344.
12 «Motus sursum fit per extrusionem a medio gravi: sicut in lance minus grave sursum violenter a graviori movetur, ita mobile sursum violenter a graviori medio extruditur». OG, I, 414.
13 «non dabitur [...] quicquam gravitate ab omni immune»; «gravitatis nullum corpus expers
esse». OG, I, 359, 360.
14 «Concludamus itaque, gravitatis nullum corpus expers esse, sed gravia esse omnia, haec quidem magis, haec autem minus, prout eorum materia magis constipata et compressa, vel diffusa et
extensa, fuerit: ex quo sequitur, non posse dici ignem esse simpliciter leve, hoc est quod omni careat
gravitate; hoc enim vacui est». OG, I, 360.
15 «Quando, igitur, in medio aliquo corpus aliquod ipso medio minus grave demersum fuerit,
circumflui medii partes, gravitate sua prementes, tentant ex inferiori loco corpus illud expellere, ut
ipsaemet humiliores occupent regiones. Quod si minor fuerit resistentia quam in corpore illo offenderint, quam sit vis qua ipsae premunt, vincunt illudque extrudunt: at minor erit resistentia mobilis
ne attollatur, quotiescunque sua gravitas gravitate medii prementis fuerit minor: ergo tunc extrudetur». OG, I, 363.
16 OG, I, 359.
— 146 —
GALILEO, LUCREZIO E L’ATOMISMO
Nunc locus est, ut opinor, in his illud quoque rebus
confirmare tibi, nullam rem posse sua vi
corpoream sursum ferri sursumque meare;
ne tibi dent in eo flammarum corpora fraudem.
Sursus enim versus gignuntur et augmina sumunt
et sursum nitidae fruges arbustaque crescunt,
pondera, quantum in se est, cum deorsum cuncta ferantur.
Nec cum subsiliunt ignes ad tecta domorum
et celeri flamma degustant tigna trabesque,
sponte sua facere id sine vi subiecta putandum est.
[...]
nonne vides etiam quanta vi tigna trabesque
respuat umor aquae? nam quo magis ursimus alte
derecta et magna vi multi pressimus aegre,
tam cupide sursum removit magis atque remittit,
plus ut parte foras emergant exiliantque.
Nec tamen haec, quantum est in se, dubitamus, opinor,
quin vacuum per inane deorsum cuncta ferantur.
Sic igitur debent flammae quoque posse per auras
aeris expressae sursum succedere, quamquam
pondera, quantum in sest, deorsum deducere pugnent.17
I versi appena citati presentano una interessante peculiarità, che vale la
pena di evidenziare anche a prezzo di una piccola digressione narrativa. Lucrezio vi adopera, infatti, per ben tre volte l’espressione quantum in se est
(v. 190: pondera, quantum in se est, cum deorsum cuncta ferantur; vv. 201202: Nec tamen haec, quantum est in se, dubitamus, opinor, / quin vacuum
per inane deorsum cuncta ferantur; v. 205: pondera, quantum in sest, deorsum
deducere pugnent). Si tratta di tre occorrenze, delle complessive quattro presenti all’interno del De rerum natura,18 di una locuzione che ricorrerà identica
17 [«Ora, crederei, è tempo che nella mia dottrina io ti provi anche questo: nessuna cosa corporea può di sua forza sollevarsi e muovere verso l’alto; né in questo ti facciano inganno i corpi delle
fiamme. Su verso l’alto, è vero, scaturiscono e acquistano slancio, e verso l’alto crescono le luminose
messi e gli alberi, mentre i corpi pesanti, per quanto sta in loro, sono tutti trascinati verso il basso. Ma
quando il fuoco si avventa ai tetti delle case e con la rapida fiamma lingueggia fra le assi e le travi, non è
da credere che lo faccia da solo, senz’essere spinto da una forza. [...] Non vedi anche con quanta forza
il fluido dell’acqua risputa assi e travi? Quanto più le calchiamo dall’alto verticalmente nell’acqua e
con gran forza in molti le affondiamo a fatica, con tanta maggior veemenza su le rigetta e le espelle,
sicché più che a mezzo emergono e balzano fuori. Eppure non dubitiamo, credo, che questi corpi, per
quanto sta in loro, nel libero vuoto tutti precipitino al basso. Cosı̀ dunque anche le fiamme potranno,
sprigionate con forza, sollevarsi nell’aria, sebbene il loro peso di per sé lotti per trascinarle al basso»].
Trad. di Armando Fellin, in TITO LUCREZIO CARO, De rerum natura (cit. n. 10), pp. 143-144.
18 L’altra occorrenza dell’espressione in oggetto si trova ai vv. 246-247 del secondo libro: Namque hoc in promptu manifestumque esse videmus, / pondera, quantum in sest, non posse obliqua meare.
— 147 —
MICHELE CAMEROTA
nelle formulazioni del principio di inerzia enucleate da Descartes e Newton.19
Ciò ha portato ad istituire un nesso diretto tra la Prima lex naturae cartesiana (rubricata come Prima lex motus nell’opera di Newton) e il poema lucreziano.20
Tornando ora al nostro specifico argomento, occorre dire che, per quanto
il discorso di Lucrezio concordi appieno con le tesi (di ascendenza atomistica)
difese dal giovane Galileo al fine di negare l’esistenza di una levitas positiva e
di un moto naturale sursum, tuttavia dal confronto tra l’esposizione dei De
motu antiquiora ed i versi del De rerum natura non emergono riscontri lessicali
o concettuali tali da far annoverare con sicurezza il testo lucreziano tra le fonti
della prima elaborazione galileiana sul moto.21
19 «Prima lex naturae: quod unaquaeque res, quantum in se est, semper in eodem statu perseveret; sicque quod semel movetur, semper moveri pergat». RENÉ DESCARTES, Principia Philosophiae,
II, xxxvii (corsivo mio). Cfr. Œuvres de Descartes, publiées par Charles Adam et Paul Tannery (Paris:
Editions du Cerf, 1897-1913; rist. Paris: Vrin, 1996), VIII, p. 62. «Materiae Vis Insita est potentia
resistendi, qua corpus unumquodque, quantum in se est, perseverat in statu suo vel quiescendi vel
movendi uniformiter in directum». ISAAC NEWTON, Philosophiae Naturalis Principia Mathematica,
Definitio III (corsivo mio). Cfr. Isaac Newton’s Philosophiae Naturalis Principia Mathematica [reprinted] with variant readings assembled and edited by Alexandre Koyre’ and I. Bernard Cohen, with
the assistance of Anne Whitman (Cambridge: Cambridge UP, 1972), I, p. 2.
20 Cfr. BERNARD I. COHEN , ‘‘Quantum in se est: Newton’s Concept of Inertia in Relation to Descartes and Lucretius’’, Notes and Records of the Royal Society of London, 1964, 19: 131-155. Cohen
individua la radice della suggestione cartesiana e newtoniana nel commentario al De rerum natura di
Denys Lambin (Lambinus), originariamente pubblicato a Parigi nel 1563-64. Cfr. ibid., pp. 146-147.
Più recentemente, William Hine ha convincentemente sostenuto che la formulazione del principio di
inerzia e la sua stessa connotazione in termini di ‘‘legge’’ data da Descartes e Newton furono in realtà
ispirate dalla lettura del commento a Lucrezio di Giovanni Battista Pio, edito per la prima volta nel
1511. Cfr. WILLIAM H. HINE, ‘‘Inertia and Scientific Law in Sixteenth-Century Commentaries on
Lucretius’’, Renaissance Quarterly, 1995, 48: 728-741. Sulla conoscenza dell’opera di Lucrezio da
parte di Newton e sulla sua intenzione di citarne diversi brani in una nuova edizione dei Principia,
cfr. inoltre PAOLO CASINI, ‘‘Newton: The Classical Scholia’’, History of Science, 1984, 22: 1-58, e il
contributo di Marco Beretta in questo stesso volume.
21 Recentemente, Pietro Redondi ha sottolineato la similitudine tra uno spunto cosmogonico
dei De motu antiquiora e alcuni versi del quinto libro del De rerum natura. Cfr. PIETRO REDONDI,
‘‘From Galileo to Augustine’’, in The Cambridge Companion to Galileo, a cura di Peter Machamer
(Cambridge: Cambridge UP, 1998), pp. 175-210: 176. In effetti, il passo galileiano dei De motu antiquiora (da noi già citato; cfr. supra nota 1) rilevava come, in accordo con le posizioni degli antiquiores
philosophi, le sostanze più pesanti – cioè quelle che raccolgono un maggior numero di particulae in
uno spazio più ristretto – andavano ad occupare gli spazi più vicini al centro («quae in angustiori
loco plus materiae concluderent, angustiora etiam loca, qualia sunt quae centro magis accedunt, occuparent»). Cfr. OG, I, 253. Redondi evidenzia l’analogia con la cosmogonia atomistica descritta da
Lucrezio nel quinto libro, in particolare, con i versi in cui Lucrezio affermava che i corpi di natura
terrestre si congregano al centro e occupano i luoghi più bassi: Quippe etenim primum terrai corpora
quaeque, / propterea quod erant gravia et perplexa, coibant / in medio atque imas capiebant omnia sedis, Lucr. 5,449-451. Tuttavia, è questa l’unica suggestione che offre qualche (vaghissimo, invero)
motivo di consonanza con i rilievi galileiani. Il resto del discorso lucreziano – dedicato ad illustrare
il formarsi dl cielo, della terra, del mare e dell’etere – è, infatti, assai lontano dalle notazioni del giovane Galileo.
— 148 —
GALILEO, LUCREZIO E L’ATOMISMO
Ciò non significa che Galileo ignorasse il capolavoro di Lucrezio: è del tutto possibile che lo conoscesse di già e lo avesse anche letto. Benché, infatti,
nell’ambito dell’intero corpus dei lavori galileiani il nome di Lucrezio non occorra mai,22 dall’accurata ricostruzione della biblioteca di Galileo svolta da
Antono Favaro si desume con certezza che lo scienziato possedeva almeno
due esemplari del De rerum natura (uno viene individuato in una copia dell’edizione lionese del 1558).23
Nondimeno, per ciò che attiene ai De motu antiquiora, è più plausibile il
ritenere che le posizioni espresse da Galileo nei primi studi di dinamica trovassero radici nel dibattito allora in corso all’università di Pisa, una controversia – concernente soprattutto il moto degli elementi – che oppose i titolari delle due principali cattedre di filosofia: Girolamo Borro, seguace delle tesi
averroiste, e, con posizioni invece più prossime a quelle dei commentatori greci di Aristotele (in particolare di Simplicio), il già ricordato Francesco Buonamici.24
Proprio quest’ultimo attribuiva a Timeo di Locri, Stratone di Lampsaco
ed Epicuro la spiegazione ‘‘estrusiva’’ del moto verso l’alto, di cui abbiamo
poco sopra considerato l’analoga formulazione galileiana:
Timaeus, Strato Lampsacenus et Epicurus – rileva Buonamici – existimaverunt
omnia quidem esse gravia, nihil per se leve; duos autem esse terminos motus, alterum
supremum, atque alterum oppositum illi infimum; sed unum, nempe deorsum et infimum, esse locum in quem omnia properent secundum naturam; alterum vero ad
quem vi ferantur. Etenim cum omnia gravia sint, deorsum suapte natura feruntur;
quod si quid ex his inferius est, aut superius, hoc non aliunde proficisci quam quod
22 Leonardo Olschki spiegava tale assenza con lo sceveramento, consapevolmente operato da
Galileo, del piano scientifico da quello estetico-poetico: «The fact that Lucretius is never mentioned
confirms the impression that Galileo held poetry and science to be fields distinct from one another.
As he separated poetic attitudes and language from philosophical concepts, each to prosper or languish in its own proper sphere, he brought to completion the slow development of what we would
call today the ‘‘aestethic approach’’ to ancient poetry». LEONARDO OLSCHKI, ‘‘Galileo’s literary formation’’, in Galileo Man of Science, a cura di Ernan McMullin (New York: Basic Books, 1967; repr.
Princeton: The Scholar’s Bookshelf, 1988), pp. 140-159: 142-143.
In realtà, l’opera lucreziana costituiva, al tempo di Galileo, oggetto di seria discussione teorica e,
non di rado, rappresentò una importante fonte di suggestioni concettuali. L’interesse genuinamente
‘‘scientifico’’ per il poema avrebbe, peraltro, contrassegnato la ricezione del De rerum natura ancora
per diversi decenni, come debitamente testimoniato dal caso di Descartes e Newton più sopra ricordato.
23 Cfr. ANTONIO FAVARO , ‘‘La libreria di Galileo descritta e illustrata’’, Bullettino di bibliografia
e di scienze matematiche e fisiche, 1886, 19: 219-93, p. 275.
24 In proposito, cfr. MICHELE CAMEROTA – MARIO OTTO HELBING , ‘‘Galileo and Pisan Aristotelianism. Galileo’s ‘De motu antiquiora’ and the ‘Quaestiones de motu elementorum’ of the Pisan
Professors’’, Early Science and Medicine, 2000, 5: 319-65.
— 149 —
MICHELE CAMEROTA
corpora graviora minus gravia premunt, et ideo subeunt illa, non quidem quia leve
aliquid sit, propterea suopte nixu sursum feratur, sed utraque corpora sunt in genere
gravium; alterum vero ex illis leve apparet, quoniam hoc gravissimum est, illud minus
grave, et quoniam hoc gravissimum est, ideo premens illud quod est minus grave,
subit ipsi, quod autem minus grave est, sic supereminet: quasi vero motus hic fit
per extrusionem, quare, quo gravius est magis estrudit, magisque opprimens id quod
est minus grave, eo etiam velocius fertur. Ob id velocitas huius motus non quidem ab
interna caussa derivabitur, verum ab externa, et erit violenta, non autem naturalis.25
Dal canto suo, il rivale del Buonamici, Girolamo Borro, censurava anch’egli le posizioni degli atomisti, asserendo che esse erano contraddette dalla evidente esistenza di corpi ‘‘leggeri’’ ascendenti per una propria naturale inclinazione («cum plurima levia suopte nixu sursum ferri videamus, ergo falsa est
eorum opinio, sensuique contraria»).26 Più in generale, Borro tendeva ad evidenziare, «adversus Leucippum, Democritum et Epicurum, quos imitatus est
Lucretius», che il movimento degli atomi si configurava sempre come un moto ‘‘violento’’, senza che se ne individuasse un preliminare (logicamente e temporalmente) motus naturalis.27
Come si vede, dunque, il tema della concezione atomistica della materia e
delle sue implicazioni dinamiche rappresentava un argomento largamente affrontato nel contesto culturale in cui Galileo stese i suoi primi scritti sul mo25 [«Timeo, Stratone di Lampsaco ed Epicuro ritennero che tutte le cose fossero pesanti e che
niente fosse leggero di per sé; inoltre, due sono i termini del movimento: uno, il più alto, e l’altro,
opposto a quello, il più basso. Ma solo uno, e precisamente il basso, è il luogo a cui tutte le cose
tendono secondo natura, mentre l’altro è quello verso cui sono portate con forza. Infatti, poiché tutte
le cose sono dotate di peso, si muovono per loro natura verso il basso. Pertanto, se qualcosa tra esse
si trova più in basso o in alto, ciò scaturisce solo dal fatto che i corpi più pesanti esercitano una pressione sui meno pesanti, ponendosi cosı̀ al di sotto di questi ultimi, e non certo perché esiste qualcosa
di leggero che per suo impeto naturale si muova verso l’alto. E invero entrambi i corpi appartengono
al genere dei gravi. Ma uno tra loro sembra leggero in quanto l’altro è il più pesante, ed esso risulta
cosı̀ meno pesante. Ora, dal momento che il corpo molto pesante esercita una pressione sul meno
grave, esso viene a sistemarsi al di sotto di questo, che, a sua volta, si pone al di sopra. Pertanto,
questo moto [verso l’alto] viene operato per estrusione, poiché, quanto più un corpo è pesante tanto
più estrude, premendo quello meno pesante, e nel far ciò si muove anche più velocemente. Per tale
motivo, la velocità di questo moto [verso l’alto] non deriverà da una causa interna, ma esterna, e sarà
di natura violenta, niente affatto naturale»]. BUONAMICI, De motu (cit. n. 6), p. 410.
26 BORRO , De motu gravium et levium (cit. n. 7), p. 37.
27 «Violentum [...] illud est quod contra naturam fit; sed atomi aliae ab aliis violentia impelluntur; ergo atomi motum aliquem naturalem habent priorem, contra quem violentia impelli dicuntur.
Nam si violentum id est quod contra naturam fit, naturale prius est violento; ergo tunc, cum naturalis
motio violentam atomorum impulsionem natura praecedit, individua haec naturalia, Democriti, Leucippi, Epicuri et Lucretii elementa, naturalem ac proprium motum habere necesse est: quem eos
nulla ratione novisse constat». Ibid., p. 18. Per altri analoghi spunti critici contro gli atomisti,
cfr. pp. 11, 17, 36-39, 205, 212.
— 150 —
GALILEO, LUCREZIO E L’ATOMISMO
vimento. Più che ad un influsso del poema lucreziano – che pure, come detto,
a quel tempo lo scienziato pisano avrebbe ben potuto conoscere – la sua trattazione delle posizioni degli atomisti sembra, invero, da connettere alla discussione de motu avviata all’interno dello Studio di Pisa, un dibattito con cui l’elaborazione galileiana mostra una cospicua contiguità tematica, ancorché
contrassegnata da un atteggiamento fortemente critico e polemico nei confronti delle opiniones di marca peripatetica.28
Circa un ventennio più tardi, nel 1611-1612, Galileo si ritroverà ancora a
discutere di atomi nel corso di una aspra polemica con alcuni strenui difensori
del ‘‘verbo’’ aristotelico: Ludovico delle Colombe, Giorgio Coresio, Vincenzo
Di Grazia.
Oggetto del contendere era la spiegazione del galleggiamento dei corpi e,
in particolare, il ruolo giocato in esso dalla forma o figura del corpo galleggiante. Nel ribadire i principi dell’idrostatica archimedea di contro all’incrollabile fede peripatetica dei propri avversari, Galileo sosteneva che i mezzi fluidi – l’acqua nella fattispecie – non presentano alcuna resistenza alla
28 A testimoniare la notevole attenzione nei confronti delle tesi atomistiche all’interno dell’ambiente culturale pisano contribuisce anche l’esame di un interessante studio sulla filosofia pre-aristotelica del lettore di logica e filosofia Scipione Aquilani, discepolo del Buonamici. Si tratta del De placitis philosophorum qui ante Aristotelis tempora floruerunt che Aquilani pubblicò nel 1620 (fu poi
riedito dal Brucker nel 1756). Cfr. SCIPIONE AQUILANI, De placitis philosophorum, qui ante Aristotelis
tempora floruerunt, ad principia rerum naturalium, & causas motuum assignandas pertinentibus (Venetijs: apud Ioannem Guerilium, 1620); ID., De placitis philosophorum qui ante Aristotelis tempora
floruerunt ad principia rerum naturalium et caussas motuum assignandas pertinentibus studio et opera
Georgii Moralis medici ac philosophi ob singularem raritatem et vsum; ex scriniis paternis commentarios et illustrationes adiecit Philippi Iacobi Crophii; tractatione de gymnasiis litterariis Atheniensium
annotationibus emendata auxit Carolus Fridericus Bruckerus Iacobi f.m.p. (Lipsiae: apud Ioannem Iacobum Korn, 1742-1767). Richiamandosi costantemente al pensiero dell’acerrimus Peripateticae doctrinae defensor (con questa definizione l’Aquilani qualificava Buonamici; cfr. ibid., p. 4) l’opera sviluppava un’ampia, dettagliata e molto precisa – in quanto supportata da puntigliosi riferimenti alle
fonti – discussione delle problematiche dell’atomismo, dedicando ben nove capitoli all’argomento
(cfr. ibid., pp. 47-102). L’analisi si soffermava su aspetti quali la distinzione tra atomi ed indivisibili,
il rapporto tra struttura atomica della materia e qualità sensibili, il moto degli atomi, la generazione
delle cose ex atomis, tutti punti per la cui illustrazione Aquilani indulge in frequenti citazioni di passi
del De rerum natura, appellandosi spesso alla Lucretii auctoritas. Non mancavano, tuttavia, spunti
critici nei confronti del poeta latino, come quando, a proposito della questione se gli atomi siano
dotati di qualità sensibili o ne siano privi, Aquilani osserva: «Si Lucretium consulamus, in ancipiti
versabimur; quia hac in re non sibi constans, primum videtur affirmasse, postea autem negasse. Affirmat (ut videtur) ubi ait: tactus corporibus cunctis, intactus inani. Et quamquam meminerit de tactu
tantum, unde inferendum videatur, solas primas qualitates eis tribuisse: tamen vel dicendum ipsum
cum tactilibus omnes alias qualitates intellexisse; vel saltem inferendum, Atomos non esse omnium
qualitates expertes. Negat tamen alibi, et ab eis omnes qualitates seiungit, dum ait: Sed ne forte putes
solo spoliata colore / corpora prima manere, etiam secreta teporis / sunt ac frigoris omnino calidique
vaporis, / et sonitu sterila et suco ieiuna feruntur, / nec iaciunt ullum proprium de corpore odorem, /
sicut amaracini blandum stactaeque liquorem». Ibid., pp. 70-71. I versi citati corrispondono a Lucr.
1,454; 2,842-847.
— 151 —
MICHELE CAMEROTA
penetrazione, in quanto la loro struttura materiale è del tutto discontinua.
L’acqua e gli altri fluidi, infatti, sono costituiti di parti «incapaci di esser divise
per la lor tenuità», simili a quelle «minime particelle», non ulteriormente divisibili, cui si arriva sottoponendo i corpi solidi all’azione disgregatrice di «sottilissimi e acutissimi strumenti, quali sono le più tenui parti del fuoco».29
Nel corso della discussione, che spazia su un ampio fronte di argomenti e
prove sperimentali, Galileo ha modo di occuparsi più volte delle tesi atomistiche, difendendo dalle critiche di Aristotele la tesi democritea del sostegno
esercitato da atomi di calore su corpi piatti appoggiati sulla superficie dell’acqua. L’adesione alla prospettiva atomistica è efficacemente rivelata da uno
spunto galileiano destinato a spiegare l’azione degli ‘‘atomi ignei’’:
[...] se noi piglieremo un vaso, di vetro o di rame o di qual si voglia altra materia
dura, pieno d’acqua fredda, dentro la quale si ponga un solido di figura piana o concava, ma che in gravità ecceda l’acqua cosı̀ poco che lentamente si conduca al fondo,
dico che, mettendo alquanti carboni accesi sotto il detto vaso, come prima i nuovi
corpuscoli ignei, penetrata la sustanzia del vaso, ascenderanno per quella dell’acqua,
senza dubbio, urtando nel solido sopraddetto, lo spigneranno sino alla superficie, e
quivi lo tratterranno sin che dureranno le incursioni de’ detti corpuscoli; le quali cessando dopo la suttrazion del fuoco, tornerà il solido al fondo, abbandonato da’ suoi
puntelli.30
«Atomi ignei», «atomi del fuoco», «atomi calidi», «sottilissimi atomi»,
«corpuscoli ignei»: la terminologia adottata nel Discorso sulle galleggianti è
esplicita nel richiamarsi alla concezione atomistica. Non a caso, nel corso della
lunga diatriba con gli oppositori, Galileo si sofferma a chiarire in modo puntiglioso la nozione stessa di ‘‘atomo’’:
gli atomi son cosı̀ detti – rilevava in margine al testo in cui il discepolo Benedetto Castelli rintuzzava gli attacchi dell’aristotelico Giorgio Coresio – non perché siano non
quanti, ma perché, sendo i minimi corpuscoli, non se ne danno altri minori da i quali
possin esser divisi.31
OG, IV, 106.
OG, IV, 132. Cfr. anche ibid., 654-655.
31 OG, IV, 281. Ritenendo, in generale, che, nell’ambito della polemica idrostatica, l’atomismo
di Galileo costituisse «un’ipotesi ad hoc inventata allo scopo di salvaguardare i suoi principi archimedei del moto», William Shea ha considerato l’asserzione galileiana come l’espressione dell’adesione
ad «una posizione simile a quella dei commentatori di Aristotele sui minima naturalia», cioè ad
una dottrina secondo cui «gli atomi erano praticamente, ma non necessariamente intrinsecamente,
indivisibili». WILLIAM R. SHEA, ‘‘Galileo’s atomic hypothesis’’, Ambix, 1970, 17: 13-27; trad. it. in
ID., Copernico, Galileo, Cartesio. Aspetti della rivoluzione scientifica (Roma: Armando, 1989),
pp. 91-107: 94. In sostanza, l’indivisibilità atomica rappresenterebbe il frutto di un deficit tecnico29
30
— 152 —
GALILEO, LUCREZIO E L’ATOMISMO
Di ‘‘infiniti atomi non quanti’’, lo scienziato pisano avrebbe avuto modo
di discorrere molti anni dopo, nella sua ultima grande opera, i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, stampata nel 1638. In
quella sede, l’indagine in merito alla struttura della materia si tramuta in
una disamina geometrica delle proprietà del ‘‘continuo’’, che approda all’affermazione di una «composizione del continuo di atomi assolutamente indivisibili».32
Galileo compie, dunque, una saldatura tra le precedenti prospettive atomistiche e la analisi matematica della struttura del continuo. Le conseguenza
fisiche di questo ‘‘atomismo matematico’’ sono cosı̀ esplicitate:
E questo, che si dice delle semplici linee, s’intenderà detto delle superficie e de’
corpi solidi, considerandogli composti di infiniti atomi non quanti: che mentre gli
vorremo dividere in parti quante, non è dubbio che non potremo disporle in spazii
più ampli del primo occupato dal solido se non con l’interposizione di spazii quanti
vacui, vacui, dico, almeno della materia del solido; ma se intenderemo l’altissima ed
ultima resoluzione fatta ne i primi componenti non quanti ed infiniti potremo concepire tali componenti distratti in spazio immenso senza l’interposizione di spazii quanti
vacui, ma solamente di vacui infiniti non quanti: ed in questa guisa non repugna distrarsi, v.g., un piccolo globetto d’oro in uno spazio grandissimo senza ammettere
spazii quanti vacui; tutta volta però che ammettiamo, l’oro esser composto di infiniti
indivisibili.33
Va detto che la dottrina della struttura della materia enunciata nei Discorsi
e dimostrazioni intorno a due nuove scienze pone cospicui problemi di interpretazione, forse proprio a causa della duplice valenza (matematica e fisica)
operativo dell’uomo, incapace di portare la risoluzione delle sostanze oltre un certo limite, ma non
rifletterebbe affatto una proprietà costituiva della struttura della materia. In verità, questa interpretazione appare di problematico accoglimento, in quanto le parole di Galileo non sembrano esprimere
precisamente il senso adombrato da Shea. Il rilievo mira, infatti, a sottolineare il significato della nozione di ‘‘atomo’’, definendola appunto – secondo l’accezione comunemente invalsa – nei termini di
‘‘minimo corpuscolo’’ non più divisibile. Nessun riferimento è operato alla impossibilità di ulteriori
risoluzioni a causa dell’inadeguatezza mezzi tecnici dell’uomo, ma solo si constata che, pur occupando uno spazio (essendo, cioè, ‘‘quanti’’), gli atomi non risultano per se stessi suscettibili di scomposizione. Pertanto, in tale prospettiva, l’indivisibilità delle particelle prime componenti la materia
rappresenterebbe un limite fisico in sé, presupposto prioritariamente, al di là di ogni valutazione
delle possibilità umane di manipolazione della realtà materiale. A giudizio di Pietro Redondi, invece,
la definizione più sopra richiamata enuclea una concezione per cui: «gli atomi galileiani sono [...]
frammenti di materia, tali da non poter essere ancora separati senza mutare le loro proprietà fisiche
e geometriche: atomi quanti e sostanziali». PIETRO REDONDI, ‘‘Atomi, indivisibili e dogma’’, Quaderni
Storici, 1985, 20: 529-71, p. 543.
32 OG, VIII, 93.
33 OG, VIII, 72.
— 153 —
MICHELE CAMEROTA
della teoria. Non ci addentreremo in una approfondita discussione di questo
argomento, che costituisce uno dei capitoli più controversi e difficili della
comprensione dell’opera di Galileo e involge considerazioni più generali sulla relazione tra matematica e realtà nell’ambito dell’epistemologia galileiana.34 Ricorderemo solo che persino un ammirato discepolo quale Vincenzo
Viviani esprimeva dubbi circa la soluzione del Maestro, rilevando, a proposito dell’idea che una parte finita di materia risulti composta da infiniti «minimi» e «vacui», che «se sono infiniti è necessario che non siano quanti, perché infiniti quanti fariano una estensione infinita: e pure poco avanti [...] gli
fa quanti».35
Ciò che tuttavia ci interessa notare è che le prospettive appena illustrate
vengono da Galileo concepite come perfettamente in linea con le tesi dell’atomismo classico. Non a caso il commento al brano poco sopra citato è affidato al seguente scambio di battute:
Simp. Parmi che voi caminiate alla via di quei vacui disseminati di certo filosofo
antico.
Salv. Ma però voi non soggiugnete ‘‘il quale negava la Providenza divina’’, come
in certo simil proposito, assai poco a proposito, soggiunse un tale antagonista del nostro Accademico.
Simp. Veddi bene, e non senza stomaco, il livore del mal affetto contradittore: ma
io non solamente per termine di buona creanza non toccherei simili tasti, ma perché
so quanto sono discordi dalla mente ben temperata e bene organizzata di V. S., non
solo religiosa e pia, ma cattolica e santa.36
Il ‘‘filosofo antico’’ qui richiamato non è Democrito, come a suo tempo
ritenuto da Adriano Carugo e Ludovico Geymonat nella loro edizione dei Discorsi,37 ma – come, più di recente, ha opportunamente e convincentemente
osservato Pietro Redondi – Epicuro.38
34 Oltre ai pregevoli saggi di Shea e Redondi poc’anzi citati, cfr. HOMER EUGENE LE GRAND,
‘‘Galileo’s Matter Theory’’, in New Perspectives on Galileo, a cura di Robert E. Butts and Joseph
C. Pitt (Dordrecht-Boston: Reidel, 1978), pp. 197-208; MARK A. SMITH, ‘‘Galileo’s theory of indivisibles: revolution or compromise?’’, Journal of the History of Ideas, 1976, 37: 571-588; CARLA RITA
PALMERINO, ‘‘Una nuova scienza della materia per la Scienza nova del moto. La discussione dei paradossi dell’infinito nella Prima Giornata dei Discorsi galileiani’’, in Atomismo e continuo nel XVII
secolo, a cura di Egidio Festa e Romano Gatto (Napoli: Vivarium, 2000), pp. 276-319.
35 VINCENZO VIVIANI , Postille ai Discorsi e dimostrazioni intorno a due nuove scienze, Biblioteca
Nazionale Centrale di Firenze, ms. Gal. 79, c. 17r.
36 OG, VIII, 72.
37 Cfr. GALILEO GALILEI , Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, a
cura di Adriano Carugo e Ludovico Geymonat (Torino: Boringhieri, 1958), p. 626.
38 Cfr. REDONDI , ‘‘Atomi, indivisibili e dogma’’ (cit. n. 31), part. pp. 555-558.
— 154 —
GALILEO, LUCREZIO E L’ATOMISMO
Sotto le spoglie del ‘‘mal affetto contradittore’’, antagonista delle opinioni
del ‘‘nostro Accademico’’ (cioè di Galileo stesso), si scorge, infatti, la figura
del gesuita Orazio Grassi, avversario galileiano in una dura polemica sulle comete. Grassi aveva etichettato le tesi sulla natura del calore esposte dallo
scienziato pisano nel suo Il Saggiatore (1623) come opinioni di ascendenza
epicurea:
scholam illam, quam bonam praeclaro nomine appellat Galilaeus, Epicuri scholam
fuisse, hominis eo omnia dirigentis, ut aut Deum tolleret, aut illum mundi cura levaret.39
Al di là delle denunce di Grassi sulle conseguenze dell’atomismo galileiano nell’ambito dell’interpretazione del dogma eucaristico – aspetto su cui ha
molto insistito Pietro Redondi nel suo famoso e assai discusso libro Galileo
eretico – 40 va detto che la polemica tra Galileo e il rivale gesuita in merito alla
struttura della materia fu caratterizzata da toni oltremodo aspri e pungenti.
Di fatto, Il Saggiatore galileiano proponeva alcuni capitoli che, a partire da
una articolata critica della tesi aristotelica del moto come causa del calore, sviluppavano un’interessante riflessione sulla composizione corpuscolare delle
sostanze materiali, soffermandosi altresı̀ ad enucleare le implicazioni gnoseologiche di tale dottrina.
Non a caso, in una lettera del 1636 al Peiresc, Tommaso Campanella riconosceva senza esitazione la natura atomistica delle speculazioni galileiane
del Discorso idrostatico del 1612 e de Il Saggiatore, asserendone esplicitamente
l’ascendenza democritea. Lo Stilese dichiarava, infatti, di esser:
certissimo ch’il S.r Galileo in molte cose, massime nei principii, è con Democrito e dal
discorrere ch’ha fatto meco in Roma, e da quel che ne scrive nell’opuscolo De natantibus [il Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua del 1612] e nel Saggiatore
[...] 41
39 [«quella scuola che Galileo designa col nobile nome di ‘‘buona’’ fu la scuola di Epicuro, che
necessitava a tal punto tutte le vicende umane da togliere di mezzo Dio o da allegerirlo del governo
del mondo»]. ORAZIO GRASSI, Ratio ponderum librae et simbellae (Lutetiae Parisiorum: Sumptibus
Sebastiani Cramoisy, 1626), cfr. OG, VI, 475-476. Ad una simile accusa Galileo replicava – nelle postille apposte in margine alla sua copia del libro del Grassi – dichiarando di ignorare le opere di Epicuro: «Io veramente, come quello che non ho mai studiato i libri d’Epicuro, non sapevo che esso ne
fusse l’autore; ma il Sarsi, come molto pratico ne’ suoi dogmi, l’ha riconosciuto subito». OG, VI, 476.
40 Cfr. PIETRO REDONDI , Galileo eretico (Torino: Einaudi, 1983; nuova ed. Torino: Einaudi,
2004).
41 Tommaso Campanella a Nicolas Fabri de Peiresc, 19 giugno 1636; cfr. GERMANA ERNST –
EUGENIO CANONE, ‘‘Una lettera ritrovata: Campanella a Peiresc, 19 giugno 1636’’, Rivista di storia
della filosofia, 1994, 49: 353-366, p. 363.
11
— 155 —
MICHELE CAMEROTA
Alcuni stralci della discussione svolta da Galileo ne Il Saggiatore sono assai
noti e ampiamente antologizzati. È il caso del celebre brano in cui lo scienziato pisano distingue tra le qualità ‘‘oggettive’’ e ‘‘soggettive’’ dei corpi:
io dico – scrive Galileo – che ben sento tirarmi dalla necessità, subito che concepisco
una materia o sostanza corporea, a concepire insieme ch’ella è terminata e figurata di
questa o di quella figura, ch’ella in relazione ad altre è grande o piccola, ch’ella è in
questo o quel luogo, in questo o quel tempo, ch’ella si muove o sta ferma, ch’ella tocca o non tocca un altro corpo, ch’ella è una, poche o molte, né per veruna imaginazione posso separarla da queste condizioni; ma ch’ella debba essere bianca o rossa,
amara o dolce, sonora o muta, di grato o ingrato odore, non sento farmi forza alla
mente di doverla apprendere da cotali condizioni necessariamente accompagnata: anzi, se i sensi non ci fussero scorta, forse il discorso o l’immaginazione per se stessa non
v’arriverebbe già mai. Per lo che vo io pensando che questi sapori, odori, colori, etc.,
per la parte del suggetto nel quale ci par che riseggano, non sieno altro che puri nomi,
ma tengano solamente lor residenza nel corpo sensitivo, sı̀ che rimosso l’animale, sieno levate ed annichilate tutte queste qualità; tuttavolta però che noi, sı̀ come gli abbiamo imposti nomi particolari e differenti da quelli de gli altri primi e reali accidenti,
volessimo credere ch’esse ancora fussero veramente e realmente da quelli diverse.42
La distinzione di cui sopra ha radici atomistiche e Galileo, verosimilmente, potrebbe averla mutuata dalla testimonianza di Galeno, il quale attribuisce
a Democrito lo sceveramento tra le qualità sensibili esistenti solo «per convenzione» (novmw/) da quelle esistenti «in realtà» (ejteh/)~ . Ecco il passo del De elementis ex Hippocratis sententia nella traduzione latina di Vittore Trincavelli,
pubblicata nell’edizione delle opere galeniche in sette volumi del Valgrisi (la
stessa forse posseduta da Galileo):
Nempe subicitur ab his omnibus, primum elementum usque adeo esse omni penitus qualitate vacuum, ut nullam vel albedinem innatam habeat, vel nigredinem, vel
alium quempiam colorem, non dulcedinem, non amaritudinem, sed neque calorem,
neque frigus et tandem ut cuiusvis alterius qualitatis sit omnino expers. Lege enim
dicebat Democritus color est, lege amarum, lege dulce, atomus vero et vacuum vere
est, ipse ejteiv" dixit. Credidit enim ille sensiles qualitates ex individuorum illorum corpusculorum conventu per solam ad nos, qui sentimus, collationem gigni: ipsa vero
natura nihil esse album aut nigrum, flavum aut rubrum, amarum aut dulce. Quippe
hoc illi lege significabat, ex nostra nimirum existimatione, non ex ipsa rerum natura,
ita etiam illi ejteiv" nomen ab ejteovn deductum est, quod verum significat, ut universi
sermonis illius est is sensus sit. Arbitramur quidem nos homines quippiam esse album
vel nigrum, vel dulce, vel amarum et quaecumque alia huiusce generis sunt. Sed re
42
OG, VI, 347-348.
— 156 —
GALILEO, LUCREZIO E L’ATOMISMO
vera omnia unum sunt et nihil: nam et ille hoc loquitur modo, qui atomos unum appellat, vacuum autem nihil. Itaque atomi omnes, quae exigua quaedam corpuscula
sunt, omni prorsus qualitate vacant.43
Sulla (probabile) scia delle tesi democritee, Galileo riduceva dunque, la
dimensione oggettiva della conoscenza ai «primi e reali accidenti» costituiti
dalle «grandezze, figure, moltitudini e movimenti tardi e veloci», riservando
un carattere meramente soggettivo ai colori, sapori, suoni e odori, «li quali
– dichiarava – fuor dell’animale vivente non credo che sieno altro che nomi».44
L’assimilazione delle cosiddette ‘‘qualità soggettive’’ a mere formule linguistiche è ricorrente in queste pagine galileiane e merita di esser meglio vagliata ed approfondita. Galileo sembra ammonire a non cadere nell’errore di
ritenere che si dia una qualche esistenza oggettiva al di là dell’atto della nominazione, mettendo in guardia circa la fallacia del voler credere che, «sı̀ come
gli abbiamo imposti nomi particolari e differenti da quelli de gli altri primi e
reali accidenti», tali sensazioni «ancora fussero veramente e realmente da
quelli diverse».45 Cosı̀, chi venisse «toccato, verbigrazia, sotto le piante de’
piedi, sopra le ginocchia o sotto l’ascelle, sente, oltre al commun toccamento,
un’altra affezzione, alla quale noi abbiamo imposto un nome particolare, chiamandola solletico: la quale affezzione è tutta nostra, e non punto della mano».46 Pertanto, «quella titillazione [...] non è più altro che un puro nome»; 47
si può dunque, in generale, concludere che le «qualità risedenti ne’ soggetti
43 [«Di certo, tutto ciò implica che l’elemento primo è del tutto privo di qualunque qualità,
tanto da non avere alcuna innata colorazione di bianco o di nero, o di qualsivoglia altra tonalità,
né da possedere il gusto del dolce o dell’amaro, e neppure l’esser caldo o freddo, e, in breve, da esser
totalmente mancante di ogni altra qualità. E infatti, Democrito diceva che il colore, l’amaro, il dolce
esistono per convenzione, mentre l’atomo e il vuoto esistono in realtà (ejteiv" dice lui). Egli credette
che le qualità sensibili scaturiscano dall’incontro degli atomi, e attraverso questa sola riunione [di
atomi] si producano per noi, soggetti percipienti, mentre in natura non vi è nulla che sia bianco o
nero, giallo o rosso, amaro o dolce. E, in effetti, con l’espressione ‘‘per convenzione’’ intendeva appunto ‘‘secondo la nostra opinione’’ e non ‘‘secondo la vera natura delle cose’’, come viene altresı̀
significato dal termine ejteiv", derivato dal vocabolo ejteovn, che significa vero. E il senso di tutto questo
discorso è il seguente: noi umani giudichiamo un qualcosa bianco o nero, dolce o amaro, e ogni altra
determinazione dello stesso genere, mentre in realtà esistono solo l’ente e il nulla. Infatti, Democrito
argomenta proprio in questo modo, chiamando ‘‘ente’’ gli atomi e ‘‘nulla’’ il vuoto. Pertanto, tutti gli
atomi, che sono dei piccoli corpuscoli, mancano del tutto di ogni qualità»]. GALENO, De elementis ex
Hippocratis sententia libri duo, Victore Trincavelio interprete, in ID., Omnium operum prima classis
(Venetiis: apud Vicentium Valgrisium, 1562), p. 2.
44 OG, VI, 350.
45 OG, VI, 348.
46 Ibid.
47 Ibid.
— 157 —
MICHELE CAMEROTA
esterni, non ànno veramente altra essistenza che in noi, e fuor di noi non sono
altro che nomi».48
La definizione delle ‘‘qualità soggettive’’ in termini di ‘‘puri nomi’’ riflette
le più generali posizioni galileiane di filosofia del linguaggio, contraddistinte
da una forte accentuazione del carattere stipulativo delle determinazioni semantiche. Di fatto, la convenzionalità dei codici di comunicazione verbale è
chiaramente affermata da Galileo in diversi luoghi della sua opera: «Io non
fo un caso al mondo de i nomi», egli dichiarava contro al Di Grazia, e, replicando al Discorso apologetico del Delle Colombe, notava come «l’esplicazioni
de’ termini son libere», talché è «in potestà di ogni artefice il circoscrivere e
definire le cose [...] a modo suo».49 Ancora, nella Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari, confessava di mettere «poca difficoltà sopra i nomi»,
sapendo «ch’è in arbitrio di ciascuno l’imporgli a modo suo»; 50 infatti, spiegava, «i nomi e gli attributi si devono accomodare all’essenza delle cose, e
non l’essenza a i nomi; perché prima furon le cose e poi i nomi».51 Di conseguenza, nella Terza Giornata del Dialogo sopra i due massimi sistemi, Galileo
poteva qualificare come un retaggio dovuto al ‘‘battesimo iniziale’’ (per mutuare la terminologia di Saul Kripke), cioè all’imposizione di un «solo puro
ed arbitrario nome», la comune identificazione del nostro sito con l’elemento
terra.52
Coerentemente con una simile prospettiva, il discorso galileiano de Il Saggiatore tende ad utilizzare la distinzione tra nomi e realtà concrete per richiamare l’attenzione del lettore sul carattere meramente interno alla coscienza
delle ‘‘qualità secondarie’’ (secondo la denominazione resa celebre dal successivo gergo filosofico di stampo lockiano). Non a caso Galileo si sofferma costantemente a precisare le condizioni negative che consentono di riconoscere i
connotati di flatus vocis propri di tali qualità: «rimosso l’animale», «rimosso il
corpo animato e sensitivo» (in due occorrenze), «tolti via gli orecchi, le lingue,
i nasi». Al di fuori della loro realtà come modificazioni della coscienza soggettiva, le qualità sensibili esistono, dunque, solo come atti linguistici condivisi in
base ad una originaria stipulazione denotativa.
Alla radice della separazione galileiana tra le diverse qualità stava l’idea
che le sensazioni derivino dall’azione di «minime particelle» che, staccandosi
48
49
50
51
52
OG, VI, 350.
Cfr. OG, IV, 741 nota 2; 631.
OG, V, 229. Cfr. anche V, 257.
OG, V, 97.
Cfr. OG, VII, 429.
— 158 —
GALILEO, LUCREZIO E L’ATOMISMO
dai corpi, «vanno a ferire» (secondo l’espressione di Galileo) i nostri organi
di senso.53 Nel caso della sensazione del ‘‘caldo’’, per esempio, occorre pensare che:
quelle materie che in noi producono e fanno sentire il caldo, le quali noi chiamiamo
con nome generale fuoco, siano una moltitudine di corpicelli minimi, in tal e tal modo
figurati, mossi con tanta e tanta velocità; li quali, incontrando il nostro corpo, lo penetrino con la lor somma sottilità, e che il lor toccamento, fatto nel lor passaggio per
la nostra sostanza e sentito da noi, sia l’affezzione che noi chiamiamo caldo, grato o
molesto secondo la moltitudine e velocità minore o maggiore d’essi minimi che ci vanno pungendo e penetrando, sı̀ che grata sia quella penetrazione per la quale si agevola
la nostra necessaria insensibil traspirazione, molesta quella per la quale si fa troppo
gran divisione e risoluzione nella nostra sostanza: 54 sı̀ che in somma l’operazion del
fuoco per la parte sua non sia altro che, movendosi, penetrare colla sua massima sottilità tutti i corpi, dissolvendogli più presto o più tardi secondo la moltitudine e velocità degl’ignicoli e la densità o rarità della materia d’essi corpi; de’ quali corpi molti
ve ne sono de’ quali, nel lor disfacimento, la maggior parte trapassa in altri minimi
ignei, e va seguitando la risoluzione fin che incontra materie risolubili.55
Come può facilmente notarsi, il discorso galileiano si fonda sull’assunzione
di una materia agente attraverso le sue minime parti costitutive. All’interno de
Il Saggiatore (1623) Galileo riproponeva, dunque, con piena consapevolezza
di causa, una prospettiva atomistica che – va ricordato – conosceva proprio
in quel torno di tempo (gli anni ’20 del diciassettesimo secolo) una notevole
rinascita di interesse.
Cosı̀, nel 1621 un professore dell’università di Pisa, il medico Estevao Rodrigues de Castro, dava alle stampe un trattato De meteoris microcosmi, in cui
53 Cosı̀, certi ‘‘minimi’’ «ricevuti sopra la parte superiore della lingua, penetrando, mescolati
colla sua umidità, la sua sostanza, arrecano i sapori, soavi o ingrati, secondo la diversità de’ toccamenti delle diverse figure d’essi minimi, e secondo che sono pochi o molti, più o men veloci; gli altri,
che accendono, entrando per le narici, vanno a ferire in alcune mammillule che sono lo strumento
dell’odorato, e quivi parimente son ricevuti i lor toccamenti e passaggi con nostro gusto o noia, secondo che le lor figure son queste o quelle, ed i lor movimenti, lenti o veloci, ed essi minimi, pochi o
molti. E ben si veggono providamente disposti, quanto al sito, la lingua e i canali del naso: quella,
distesa di sotto per ricevere l’incursioni che scendono; e questi, accommodati per quelle che salgono:
e forse all’eccitar i sapori si accommodano con certa analogia i fluidi che per aria discendono, ed a gli
odori gl’ignei che ascendono». OG, VI, 349.
54 Nel Discorso delle comete (1619), scritto insieme al ‘‘discepolo’’ Mario Guiducci (e pubblicato a solo nome di quest’ultimo), Galileo aveva già avuto occasione di anticipare il concetto, notando che le «sottilissime parti» di un corpo caldo penetrano «per li meati della nostra carne», producendo in noi con il loro «toccamento», «secondo che saranno pochi o molti, tardi o veloci», «un
certo grato diletico, che noi poi chiamiamo caldo soave, o vero una violenta dissoluzion di parti con
molto nostro dolore, la quale scottamento o abbruciamento vien detto». OG, VI, 56.
55 OG, VI, 350-351.
— 159 —
MICHELE CAMEROTA
difendeva l’atomismo dalle critiche di Aristotele e Galeno. L’opera del medico
portoghese presenta diversi spunti analoghi a quelli che abbiamo appena visto
sviluppare da Galileo ne Il Saggiatore. A dimostrazione di ciò, ecco un significativo stralcio dove de Castro riporta anch’egli le sensazioni al diffondersi di
corpuscula:
Accedamus nunc ad calorem et frigiditatem; unde nam has duas qualitates agnosces? Nempe ex sensu tactus; at tactus non discernit an sint qualitates an substantiae.
Sentit quidem molestiam aut delectationem, a molesto vel delectabili obiecto; sed
utrum hoc sit qualitas, an substantia non discernit. Numquid impossibile iudicabis
corpuscula exeuntia et tactui occurrentia esse, quae efficiunt sensationem, quam tu
calorem et frigiditatem appellas? 56
Galileo doveva certamente conoscere l’opera di de Castro, che trattava argomenti (i fenomeni meteorici e cometari) per lui di grande interesse in quegli
anni. La lettura del libro del professore portoghese potrebbe, dunque, aver
confortato la sua già ferma adesione alla prospettiva atomistica.
Vale inoltre la pena di notare come il testo di de Castro rechi non pochi
rinvii a Lucrezio. In ciò esso condivideva una tendenza piuttosto diffusa al
tempo, poiché, proprio negli anni in cui Galileo redigeva Il Saggiatore (e proprio negli ambienti da lui frequentati), Lucrezio veniva diffusamente letto e
persino imitato.
Lo stesso destinatario de Il Saggiatore, monsignor Virginio Cesarini, maestro di camera del papa Urbano VIII e accademico Linceo, intratteneva – a
quanto narra il suo biografo Justus Riquius – l’intenzione di scrivere un commento poetico al De rerum natura.57 Benché l’iniziativa non si realizzasse a
causa della precoce morte del prelato (avvenuta nel 1624), le composizioni
poetiche del Cesarini che ancora ci restano comprovano in modo indubitabile
l’ispirazione lucreziana della sua penna.58 Forse non a caso, dunque, sul fron56 [«Veniamo ora al caldo e al freddo; da dove, infatti, deriva la conoscenza di queste due qualità? Certamente dal senso del tatto; ma il tatto non discerne se siano qualità o sostanze. Esso percepisce il fastidio o il piacere che vengono da un oggetto fastidioso o piacevole; ma non distingue se
ciò sia una qualità o una sostanza. Forse che allora giudicherai impossibile che siano corpuscoli che si
dipartono dai corpi e incontrano il senso del tatto a produrre la sensazione che chiami caldo o
freddo?»] ESTEVAO RODRIGUES DE CASTRO, De meteoris microcosmi libri quatuor (Florentiae: apud
Iunctas, 1621), p. 17. Sul libro di De Castro e sulla possibile influenza sull’opera galileiana ha per
primo richiamato l’attenzione Pietro Redondi nel suo Galileo eretico. Cfr. REDONDI, Galileo eretico
(cit. n. 40), pp. 73-74.
57 «pari ratione fatalis illa tempestas iniuriae in Poeticos de Reurm Natura Commentarios desaevit, quos arduum illum Lucretianum imitatus subinde scriptitabat». JUSTUS RIQUIUS, De vita viri
praestantissimi Virginii Caesarini Lyncei (Patavii: Thuilii, 1629), p. 12.
58 Si vedano i recenti contributi di E. Bellini e T. Bonaccorsi: ERALDO BELLINI , Umanisti e Lin-
— 160 —
GALILEO, LUCREZIO E L’ATOMISMO
tespizio dell’orazione funebre destinata a ricordarlo, Alessandro Gottifredi fece incidere l’impresa della romana Accademia degli umoristi, con l’immagine
di un mare sovrastato da una nube piovente accompagnata dai versi lucreziani
Redit agmine dulci (De rerum natura 6,637).59
Anche l’opera di un altro Linceo, Johannes Faber, presenta tratti di ascendenza lucreziana, come rivela un’orazione manoscritta sulla natura del fuoco e
dei metalli (datata 1622 e ora conservata alla Biblioteca Nazionale di Napoli),60 infiorata «di molte citazioni poetiche di Virgilio, di Orazio e, in particolare, di Lucrezio».61
Negli stessi anni, Giovanni Ciampoli, anch’egli Linceo e stretto sodale di
Galileo e del Cesarini, si cimentò nella composizione del dialogo atomista Del
sole e del fuoco,62 mentre ad un altro protagonista della scena culturale di quegli anni, il convertito cattolico Kaspar Schopp, si deve la stesura di un elaborato commento al poema lucreziano.63 Le Notae schoppiane al De rerum natura – rimaste manoscritte e basate sulla edizione plantiniana del 1566, a
cura di Hubert van Giffen – 64 sono brevi glosse ai versi di Lucrezio, intese
a chiarirne il significato anche attraverso riferimenti a luoghi di altri autori
classici.65
cei (Padova: Antenore, 1997), pp. 286-292; TERESA BONACCORSI, «‘‘Clausos rerum aperire sinus’’.
L’esperimento di un poeta linceo: Virginio Cesarini», Bruniana & Campanelliana, 2001, 7: 51-76.
59 Cfr. ALESSANDRO GOTTIFREDI , In funere Virginii Caesarini (Romae: apud Alexand. Zanettum), 1624.
60 Cfr. JOHANNES FABER , Oratio qua Ignis et Metallorum exemplo quam parum sciamus demonstratur, Napoli, Biblioteca Nazionale, ms. VIII.D.13.
61 GIUSEPPE GABRIELI , Contributi alla storia della Accademia dei Lincei (Roma: Accademia dei
Lincei, 1989), vol. 2, p. 1184. Sull’operetta del Faber, che rappresenta il testo di una orazione tenuta
alla Sapienza nel novembre 1622, cfr. ora SILVIA DE RENZI, ‘‘Un Linceo alla Sapienza: la natura del
fuoco e dei metalli in un’orazione di Johannes Faber’’, in All’origine della scienza moderna: Federico
Cesi e l’Accademia dei Lincei, a cura di Andrea Battistini, Gilberto De Angelis e Giuseppe Olmi (Bologna: Il Mulino, 2007), pp. 271-316.
62 Cfr. FEDERICA FAVINO , ‘‘A proposito dell’atomismo di Galileo: da una lettera di Tommaso
Campanella ad uno scritto di Giovanni Ciampoli’’, Bruniana & Campanelliana, 1997, 3: 265-82;
EAD., ‘‘Deux dialogues retrouvés de Giovanni Ciampoli’’, in Géométrie, atomisme et vide dans l’école
de Galilée, a cura di Egidio Festa, Vincent Jullien e Maurizio Torrini (Fontenay-Saint-Cloud: Ens
Éditions, 1999), pp. 25-42.
63 KASPAR SCHOPP, Ad T. Lucretium Carum De rerum natura Notae, Napoli, Biblioteca Nazionale, ms. V.B.39.
64 T. Lucretii Cari De Rerum Natura libri sex, mendis innumerabilis liberati & in pristinum paene
veterum potissime librorum ope ac fide, ab Oberto Gifanio Burano Iuris studioso, restituti (Antuerpiae:
Ex officina Christophori Plantini, 1566).
65 Ho intenzione di dedicare uno studio a questo interessante lavoro, che potrebbe recare qualche ulteriore lume in merito alla ricezione del poema lucreziano nell’ambito della cultura della Controriforma.
— 161 —
MICHELE CAMEROTA
Ora, la forte attenzione prestata al poema lucreziano negli ambienti culturali più prossimi a Galileo nel corso del terzo decennio del diciassettesimo secolo, corrobora l’ipotesi che, a dispetto dell’assenza di qualunque riferimento
esplicito a Lucrezio,66 i capitoli 41-48 de Il Saggiatore – quelli in cui, tra l’altro,
viene delineata la distinzione tra le qualità ‘‘oggettive’’ e ‘‘soggettive’’ – debbano qualcosa alla lettura del capolavoro del poeta latino. In effetti, per quanto Galileo tenda a esplicitare assai di rado le proprie fonti di ispirazione, non
sembra affatto implausibile ritenere che, nella stesura di queste sezioni della
sua opera del 1623, egli abbia tratto stimolo anche dalla lettura del De rerum
natura.
Cosı̀, l’idea galileiana che le sensazioni si riducano a «moto e toccamento»
trovava sostegno in diversi passi del poema lucreziano, tra cui i versi 298-304
del primo libro, dove si esprime il concetto della natura corporea dell’odore,
del calore, del freddo e della voce:
Tum porro varios rerum sentimus odores
nec tamen ad naris venientis cernimus umquam
nec calidos aestus tuimur nec frigora quimus
usurpare oculis nec voces cernere suemus;
quae tamen omnia corporea constare necessest
natura, quoniam sensus inpellere possunt:
tangere enim et tangi, nisi corpus, nulla potest res.67
Tutto lo svolgimento della discussione del capitolo 48 de Il Saggiatore è
contraddistinto da un ampio ricorso al lemma ‘‘toccamento’’ (ricorre ben nove volte, tra singolare e plurale, nello spazio di tre pagine). Il contatto o ‘‘toccamento’’ che produce la sensazione porta Galileo ad enfatizzare il ruolo del
tatto, strumento fondamentale della sensibilità umana:
Un corpo solido, e, come si dice, assai materiale, mosso ed applicato a qualsivoglia parte della mia persona, produce in me quella sensazione che noi diciamo tatto, la
quale, se bene occupa tutto il corpo, tuttavia pare che principalmente risegga nelle
66 A menzionare esplicitamente l’opera di Lucrezio è invece il gesuita Orazio Grassi, che, proprio nelle pagine della sua Libra astronomica ac philosophica impugnate nei capitoli galileiani su cui ci
stiamo soffermando, cerca di corroborare la propria argomentazione con l’ausilio di due passi del De
rerum natura, concernenti il caso di proiettili che fondono durante il volo (Lucr. 6, 178-179, 306308). Cfr. OG, VI, 163.
67 [«Inoltre percepiamo i vari odori delle cose, eppure non li vediamo mai giungere alle nari, né
scorgiamo le vampe del caldo, né il freddo possiamo discernerlo con gli occhi, né ci è dato di vedere i
suoni: eppure è necessario che queste emanazioni siano tutte di natura corporea, perché possano stimolare i sensi. Toccare, infatti, ed esser toccato nulla può fuor che un corpo»]. Trad. di Armando
Fellin, in TITO LUCREZIO CARO, De rerum natura (cit. n. 10), p. 85.
— 162 —
GALILEO, LUCREZIO E L’ATOMISMO
palme delle mani, e più ne i polpastrelli delle dita, co’ quali noi sentiamo piccolissime
differenze d’aspro, liscio, molle e duro, che con altre parti del corpo non cosı̀ bene le
distinguiamo [...].68
In questo generale contesto, la distinzione tra i vari tipi di sensi viene
da Galileo riportata alla diversità dei moti corpuscolari: esistono, infatti,
«particelle minime» che «come più gravi dell’aria scendono al basso, ed altre, più leggeri, salgono ad alto».69 Queste ultime particelle attivano il senso
dell’odorato, andando a «ferire alcune mammillule» che ne sono lo «strumento». I «minimi che scendono», a loro volta, «ricevuti sopra la parte superiore della lingua, penetrando, mescolati colla sua umidità, la sua sostanza, arrecano i sapori, soavi o ingrati, secondo la diversità de’ toccamenti
delle diverse figure d’essi minimi, e secondo che sono pochi o molti, più
o men veloci».70
Anche Lucrezio aveva attribuito alle differenti figure degli atomi la diversa
qualità, piacevole o repellente, del gusto. Cosı̀, nei versi 398-409 del secondo
libro aveva affermato:
Huc accedit uti mellis lactisque liquores
iucundo sensu linguae tractentur in ore;
at contra taetra absinthi natura ferique
centauri foedo pertorquent ora sapore;
ut facile agnoscas e levibus atque rutundis
esse ea quae sensus iucunde tangere possunt,
at contra quae amara atque aspera cumque videntur,
haec magis hamatis inter se nexa teneri
proptereaque solere vias rescindere nostris
sensibus introituque suo perrumpere corpus.
omnia postremo bona sensibus et mala tactu
dissimili inter se pugnant perfecta figura.71
OG, VI, 348-349.
Ibid., 349.
70 Ibid.
71 [«A ciò s’aggiunge che i liquidi del miele e del latte si assaporano in bocca con vivo piacere
della lingua; invece la tetra natura dell’assenzio e l’acre centaurea fanno storcere la bocca col ripugnante sapore; ti è facile cosı̀ riconoscere che d’atomi lisci e rotondi sono le sostanze che toccano
gradevolmente i sensi, mentre tutte quelle che sembrano amare e aspre sono intessute di corpuscoli
più uncinati, e per questo sogliono lacerare le vie dei nostri sensi e, nell’entrare, far violenza al corpo.
Infine tutte le cose che sono buone ai sensi o cattive a toccarle, discordano fra loro perché sono composte di elementi di forma diversa»]. Trad. di Armando Fellin, in TITO LUCREZIO CARO, De rerum
natura (cit. n. 10), p. 155.
68
69
— 163 —
MICHELE CAMEROTA
E, ancora, nei versi 620-626 del quarto libro chiariva:
Inde quod exprimimus per caulas omne palati
Diditur, et rarae per flexa foramina linguae.
Hoc ubi levia sunt manantis corpora suci,
suaviter attingunt et suaviter omnia tractant
umida linguai circum sudantia templa.
At contra pungunt sensum lacerantque coorta,
quanto quaeque magis sunt asperitate repleta.72
La sensazioni variano poi anche a seconda del grado di addensamento degli atomi. In tale prospettiva, Galileo aveva notato come il caldo si configurasse «grato o molesto secondo la moltitudine e velocità minore o maggiore d’essi
minimi che ci vanno pungendo e penetrando».73 In modo simile, Lucrezio, nei
versi 650-651 del primo libro, spiega che:
Acrior ardor enim conductis partibus esset,
languidior porro disiectis disque sipatis.74
Inoltre, proprio come in Galileo «la diversità de’ toccamenti delle diverse
figure d’essi minimi» produce le differenti sensazioni, anche in Lucrezio la distinzione tra le modalità sensoriali è determinata dalla varia configurazione degli atomi; ecco quanto affermato nei versi 680-685 del secondo libro:
Denique multa vides quibus et color et sapor una
reddita sunt cum odore; in primis pleriqua poma.
Haec igitur variis debent constare figuris;
nidor enim penetrat qua fucus non it in artus,
fucus item sorsum, <sorsum> sapor insinuatur
sensibus; ut noscas primis differre figuris.75
72 [«Ciò che di lı̀ [dal cibo che mastichiamo] spremiamo, tutto si diffonde nel condotti del palato e per gli attorti canali della lingua porosa. Per questo, quando sono lisci gli atomi del succo che
filtra, soavemente toccano e vellicano tutt’intorno l’umido, trasudante ricettacolo della lingua. Invece
gli atomi pungono il senso e irrompendo lo straziano, quanto più sono pieni di asperità»]. Ibid.,
p. 297.
73 OG, VI, 350.
74 [«Più vivo sarebbe il calore una volta addensate le parti, più languido invece quando fossero
disunite e disperse»]. Trad. di Armando Fellin, in TITO LUCREZIO CARO, De rerum natura (cit. n. 10),
p. 105.
75 [«Infine molti corpi tu vedi ai quali il colore e il sapore sono dati insieme con l’odore: in
primo luogo la maggior parte dei frutti. Essi devono dunque constare di atomi di varia figura; l’odore
infatti penetra dove il colore non passa nelle membra, e per una sua via il colore, per un’altra il sapore s’insinuano nei sensi; da ciò puoi capire che differiscono per le forme dei principi»]. Ibid.,
p. 171.
— 164 —
GALILEO, LUCREZIO E L’ATOMISMO
Anche la distinzione galileiana tra l’azione dei «minimi» che produce la
sensazione e il contenuto soggettivo di quest’ultima trova qualche corrispondenza in passi lucreziani. A tal proposito, Galileo scriveva di ritenere che «tolti via gli orecchi le lingue e i nasi, restino bene le figure i numeri e i moti, ma
non già gli odori né i sapori né i suoni».76 Analogamente Lucrezio, nei versi
842-846 del secondo libro, rilevava:
Sed ne forte putes solo spoliata colore
corpora prima manere, etiam secreta teporis
sunt ac frigoris omnino calidique vaporis,
et sonitu sterila et succo ieiuna feruntur,
nec iaciunt ullum proprium de corpore odorem.77
E poco oltre, ai versi 854-867:
propter eandem <rem> debent primordia rerum
non adhibere suum gignundis rebus odorem
nec sonitum, quoniam nihil ab se mittere possunt,
nec simili ratione saporem denique quemquam
nec frigus neque item calidum tepidumque vaporem,
cetera; quae cum ita sunt tamen ut mortalia constent,
molli lenta, fragosa putri, cava corpore raro,
omnia sint a principiis seiuncta necesse est,
inmortalia si volumus subiungere rebus
fundamenta quibus nitatur summa salutis;
ne tibi res redeant ad nihilum funditus omnes.
Nunc ea quae sentire videmus cumque necessest
ex insensilibus tamen omnia confiteare
principiis constare.78
OG, VI, 350.
[«Ma perché tu forse non creda che privi del solo colore sussistano i corpi primi, sono anche
in tutto esenti da tepore, da freddo, da ardente calore, ed errano incapaci di suono e digiuni di sapore, né emanano dal corpo un proprio odore»]. Trad. di Armando Fellin, in TITO LUCREZIO CARO,
De rerum natura (cit. n. 10), p. 179.
78 [«per la stessa ragione non devono i principi portare nella creazione delle cose un loro odore
né suono, perché nulla possono da sé emettere, e allo stesso modo non devono avere nessun sapore,
né gelo, né calore ardente o temperato, né altre simili cose; ma poiché queste risultano mortali, le
flessibili di sostanza molle, le fragili di friabile, le porose di sostanza rada, è necessario che tutte siano
disgiunte dai principi, se fondamenti immortali vogliamo assicurare alle cose, sui quali poggi la salvezza dell’universo, perché le cose non ti ritornino tutte, quante sono, al nulla. Ora, quanto alle cose
che vediamo fornite di senso, devi ammettere che tuttavia sono composte di principi insensibili»].
Ibid.
76
77
— 165 —
MICHELE CAMEROTA
Mentre, ancora nei versi 891-896 del secondo libro, il poeta individuava
nella ‘‘forma’’, oltre che nei «moti, ordini e positure» degli atomi, gli «elementi che creano il sensibile»:
Illud in his igitur rebus meminisse decebit,
non ex omnibus omnino, quaecumque creant res
sensilia, extemplo me gigni dicere sensus,
sed magni referre ea primum quantula constent,
sensile quae faciunt, et qua sint praedita forma,
motibus ordinibus posituris denique quae sint.79
Come si può notare, sussistono diverse sintonie teoriche tra Il Saggiatore
galileiano e il De rerum natura. È tuttavia oggettivamente difficile determinare
al di là di ogni ragionevole dubbio quanti degli spunti appena ricordati furono
realmente suggeriti a Galileo dalla lettura dell’opera del poeta latino.
In ogni caso, la valutazione degli eventuali motivi di affinità tra l’elaborazione lucreziana e quella galileiana non può arrestarsi ai passi sopra citati. Senza pretesa di alcuna esaustività, è lecito recare qualche ulteriore esempio, a
partire dalla segnalazione di una curiosa peculiarità espressiva.
Nelle postille apposte in margine alla Libra astronomica ac philosophica del
suo avversario Orazio Grassi, Galileo replicava al rilievo del gesuita di non esser riuscito a riscontrare il supposto flusso di particelle prodotte dalla percussione di un corpo, affermando che la bilancia non registra simili eventi. A sostegno di tale asserzione, lo scienziato pisano notava che il percuotere un
oggetto d’oro gli avrebbe fatto perdere una quantità di materia simile a quella
consumata nel portare un anello al dito per diversi mesi:
ex libra non percipias decrementum, mirum non est: puta enim ex auro per ictus horae dimidiatae tantum absumi, quantum ex anulo quem gestaveris per duos menses;
cuius decrementum ex lance non percipies, licet revera absumatur.80
79 [«Ma a tale proposito converrà ricordare, che non da tutte le sostanze che creano le cose
sensibili dico che nascano senz’altro le facoltà dei sensi; ma che molto importa, da prima, come siano
sottili gli elementi che creano il sensibile, e di qual forma siano dotati, infine quali siano per moti,
ordini e positure»]. Ibid., p. 183.
80 [«non dobbiamo meravigliarci se non percepiamo la diminuzione alla bilancia: considera infatti che un pezzo d’oro battuto per mezz’ora subisce un consumo pari a quello di un anello che hai
portato per due mesi; eppure non ne osservi alla bilancia nessuna diminuzione di peso, anche se, in
realtà, esso si consuma»]. OG, VI, 161. Singolarmente, nel testo de Il Saggiatore l’esempio dell’anello
viene riformulato, e si parla di un bottone dorato: «E prima, io domando al Sarsi, se pesato un bottone d’argento, e poi doratolo e tornato a pesarlo, ei crede che l’accrescimento fusse notabile e sensibile. Bisogna dir di no, perché noi veggiamo l’oro ridursi a tanta sottigliezza, che anco nell’aria quietissima si trattiene e lentissimamente cala a basso; e con tali foglie può dorarsi alcun metallo. In oltre,
questo medesimo bottone verrà adoperato due o tre mesi, avanti che la doratura sia consumata; e pur
— 166 —
GALILEO, LUCREZIO E L’ATOMISMO
Un esempio analogo occorre ai versi 311-313 del primo libro del De rerum
natura, che recitano:
Quin etiam multis solis redeuntibus annis
anulus in digito subter tenuatur habendo,
stilicidi casus lapidem cavat [...] 81
Forse si tratta di una semplice coincidenza, tanto più che l’esempio dell’anello potrebbe esser stato suggerito a Galileo dal noto passo ovidiano Gutta
cavat lapidem, consumitur anulus usu (Ov. Pont. 4,10,5). Nondimeno, alla luce
della indubbia sintonia teorica tra le dottrine gnoseologiche de Il Saggiatore e i
già citati passi del De rerum natura, l’esempio dell’anello d’oro potrebbe, assai
verosimilmente, esser considerato come un’ulteriore traccia di un influsso lucreziano su Galileo.82
Ancora, più in generale, merita di essere approfondito l’uso galileiano della voce simulacri (lat. simulacra), lemma e nozione di peculiare interesse nel
contesto del lessico e del patrimonio concettuale del De rerum natura. Come
è noto, con tale espressione Lucrezio traduceva il termine epicureo ei[dwla,
significando quelle sottilissime pellicole di atomi che, dipartendosi dai corpi,
causano la visione.
Benché lo scienziato pisano si serva del termine in diverse occasioni, l’accezione galileiana sembra però sempre estranea al significato tecnico imposto
al nome dal poeta latino. Cosı̀, proprio all’esordio della dedicatoria al Granduca di Toscana del Sidereus Nuncius – l’operetta con cui, nel 1610, Galileo
comunicava al mondo la straordinaria novità delle proprie scoperte telescopiche – si legge:
Eiusmodi est enim humanae mentis conditio, ut nisi assiduis rerum simulacris in
eam extrinsecus irrumpentibus pulsetur, omnis ex illa recordatio facile effluat.83
consumandosi finalmente, chiara cosa è che ogni giorno, anzi ogn’ora, s’andava diminuendo». OG,
VI, 332.
81 [«nel volgere di molti anni di sole l’anello al dito si logora sotto, al portarlo; il gocciare delle stille incava la pietra [...]»]. Trad. di Armando Fellin, in TITO LUCREZIO CARO, De rerum natura
(cit. n. 10), p. 87.
82 L’immagine lucreziana dell’anello d’oro venne, in quegli stessi anni, ripresa (con termini indubitabilmente mutuati dal dettato del De rerum natura) anche da Isaac Beeckman. Cfr. BENEDINO
GEMELLI, Isaac Beeckman atomista e lettore critico di Lucrezio (Firenze: Olschki, 2002), pp. 49-50.
83 [«La condizione della mente umana è infatti di tal genere che, laddove essa non venga assiduamente eccitata dalle immagini delle cose che irrompono dall’esterno, ogni ricordo in lei facilmente si perde»]. OG, III, 55.
— 167 —
MICHELE CAMEROTA
Commentando il passo, nella sua eccellente edizione del Sidereus Nuncius,
Isabelle Pantin ha rilevato che «Galilée ne donne pas à ‘‘simulacra’’ le sens
précis qu’il a chez Lucrèce».84 A giudizio della studiosa francese, Galileo
usa il termine simulacra con una accezione equivalente alla generica e comune
nozione di species.85
Le considerazioni della Pantin appaiono assolutamente condivisibili e sono rafforzate dalle altre occorrenze del vocabolo rilevabili all’interno del corpus dei lavori galileiani. Il Saggiatore è l’opera in cui il lemma simulacro ricorre
il maggior numero di volte: ben quarantotto tra forme singolari e plurali. Galileo si diffonde a parlare di «vani simulacri», «simulacri apparenti», «varie illusioni di simulacri diversi», trattando del «simulacro del Sole», e spiegando
come «la cometa sia un simulacro intero, e non mutilato e tronco». Nel complesso, la valenza del termine è quella, ordinaria, di ‘‘immagine apparente’’
(spesso fittizia), senza alcun legame evidente con il significato specificamente
tecnico della voce lucreziana. Non sembra, pertanto, possa accreditarsi una
qualche influenza del poema di Lucrezio sull’uso galileiano del termine, al
di là, forse, della volontà di utilizzare un lemma proprio di una tradizione – quella atomistica – di cui si condivideva l’ispirazione di fondo. Come ha, infatti, notato Isabelle Pantin, commentando il passo poc’anzi citato del Sidereus
Nuncius, «le mot [simulacra] conserve sa couleur épicurienne, de même que
cette conception d’un esprit qui a constamment besoin d’être stimulé de l’éxtérieur pour n’être vide et inerte».86
Sicuramente interessante sotto il profilo concettuale – benché l’effettiva
scaturigine lucreziana dei rilievi in oggetto risulti egualmente incerta – è anche
la similarità tra alcuni spunti galileiani e i versi del De rerum natura in cui Lucrezio propone un suggestivo argomento a sostegno dell’esistenza del vuoto. Il
passo in questione corrisponde ai vv. 384-390 del primo libro:
Postremo duo de concursu corpora lata
si cita dissiliant, nempe aer omne necessest,
inter corpora quod fiat, possidat inane.
Is porro quamvis circum celerantibus auris
confluat, haud poterit tamen uno tempore totum
84 GALILEO GALILEI , Sidereus Nuncius. Le messager céleste, Texte, traduction et notes établis
par Isabelle Pantin (Paris: Les Belles Lettres, 1992), 51, nota 12. Il passo citato in trad. francese dalla
Pantin corrisponde a Lucr. 4,50-53: ea quae rerum simulacra vocamus, / quae quasi membranae vel
cortex nominitandast / quod speciem ac formam similem gerit eius imago / cuiuscumque cluet de corpore fusa vagari.
85 GALILEI , Sidereus Nuncius. Le messager céleste, ed. Pantin (cit. n. 84), p. 51, nota 12.
86 Ibid.
— 168 —
GALILEO, LUCREZIO E L’ATOMISMO
compleri spatium; nam primum quemque necessest
occupet ille locum, deinde omnia possideantur.87
I versi appena citati hanno posto qualche problema di interpretazione, facendo registrare anche delle proposte di correzione.88 In generale, i duo corpora lata in concursu di cui parla Lucrezio sono stati intesi nei termini di
due superfici piatte a contatto. Conformemente a tale opzione, già Alessandro
Marchetti, nella sua settecentesca versione del De rerum natura, traduceva:
S’alfin due piastre di lucente acciaio
si combaciano assieme, indi in un tratto
l’una dall’altra si solleva, è d’uopo
che vuoto resti l’interposto spazio;
poiché, quantunque d’ogn’intorno accorra
l’aere per occuparlo, in un sol punto
ciò far non può; ma che riempia è forza
i luoghi più vicini e poscia gli altri.89
Al di là delle fantasiose ‘‘integrazioni’’ di Marchetti, che individua senza
incertezze nel «lucente acciaio» la materia dei duo corpora lucreziani, le parole
87 [«Infine se due corpi estesi venuti a scontrarsi rimbalzano di colpo lontani, di necessità avviene che l’aria occupi tutto il vuoto che si fa tra i due corpi. Ma per quanto l’aria d’intorno confluisca con rapide onde, non potrà in un istante riempirsi tutto lo spazio: è necessario ch’essa occupi il
luogo che via via è più vicino. Finché da ultimo possieda tutto lo spazio»]. Trad. di Armando Fellin,
in TITO LUCREZIO CARO, De rerum natura (cit. n. 10), p. 91.
88 Cosı̀, nel 1985, Shackleton Bailey ha suggerito di leggere late (invece di lata) al v. 384, intendendo altresı̀ il cita del v. 385 come un participio, con il significato di ‘‘messo in movimento’’ («set in
motion»). Cfr. DAVID ROY SHACKLETON BAILEY, ‘‘Lucretiana’’, Phoenix, 1985, 39: 27-29. La modifica testuale di late ha trovato il consenso di Martin F. Smith, che, anche sulla base di alcune testimonianze manoscritte, la ha recepita nella sua revisione del 1992 dell’edizione Loeb del De rerum
natura. In proposito cfr. MARTIN F. SMITH, ‘‘Notes on Lucretius’’, The Classical Quarterly, 1993,
n.s. 43: 336-339. Un diverso punto di vista è stato invece espresso da Ivars Avotin, che ha accuratamente rivisitato la questione rifiutando la proposta di Shackleton Bailey e Smith. Cfr. IVARS AVOTIN , ‘‘On Lucretius 1.384-397’’, Phoenix, 1997, 51: 38-43.
89 ALESSANDRO MARCHETTI , Della natura delle cose di Lucrezio, a cura di Denise Aricò (Roma: Salerno, 2003), vv. 526-533, p. 33. Di ‘‘piatti che combaciano’’ parlano le versioni di Balilla Pinchetti e
Enzio Cetrangolo; cfr. TITO LUCREZIO CARO, La natura, trad. di Balilla Pinchetti, introd. di Luca Canali
(Milano: Rizzoli, 1953, sesta ed. 1986), p. 71; LUCREZIO, Della natura, trad. di Enzio Cetrangolo, introd.
di Benjamin Farrington (Firenze: Sansoni, 1978), p. 27. Diversa la scelta di altri traduttori: come abbiamo visto, Armando Fellin associa al termine concursus l’idea di uno scontro tra i due corpi (cfr. supra,
nota 87); analoga la soluzione adottata da Luca Canali, che rende i vv. 384-386 in questo modo: «Infine
se due grandi corpi scontratisi tra loro rimbalzano / d’un tratto lontani, è certo necessario che tutta l’aria /
occupi l’intero vuoto che si produce tra loro». LUCREZIO, La natura delle cose, trad. di Luca Canali,
introd. di Gian Biagio Conte, testo e commento a cura di Ivano Dionigi (Milano: Rizzoli, 1990;
200614), pp. 101-103. Combina le due immagini il più recente editore italiano, Titus Lucretius Carus
De rerum natura, Edizione critica con Introduzione e Versione, a cura di Enrico Flores (Napoli: Bibliopolis, 2002), vol. 1, p. 71: «Infine, se due oggetti piatti dopo uno scontro / veloci rimbalzano...».
— 169 —
MICHELE CAMEROTA
del De rerum natura sembrano, in effetti, sostenere che, laddove si proceda
alla separazione di due lastre combacianti, prima che il mezzo aereo sopravvenga ad occupare lo spazio lasciato libero, tra di esse si darà il vuoto. L’aria,
infatti, impiegherà un certo tempo ad interporsi tra le superfici, riempiendo
preliminarmente le parti più esterne: bisogna dunque ammettere che, anteriormente alla saturazione dell’intervallo tra i corpi operato progressivamente
dall’aria, lo spazio interstiziale risulti vuoto.
Ora, in varie opere galileiane si ritrovano spunti analogamente concernenti il caso di superfici piatte o piastre a diretto contatto. Cosı̀, Il Saggiatore discute di «due marmi ben piani e lisci» la cui aderenza è tanta «che alzandone
uno, l’altro lo segue», ancorché, precisa Galileo, «se le superficie toccantisi
non saranno ben bene equidistanti all’orizonte, ma un sol capello inclinate,
subito il marmo inferiore sdrucciolerà verso la parte inclinata».90
Anche nel Discorso idrostatico del 1612, lo scienziato pisano aveva sviluppato considerazioni del medesimo tenore, rilevando come «i corpi solidi ancora, se saranno di superficie in tutto simili, sı̀ che esquisitamente si combacino insieme, né tra di loro resti aria che si distragga nella separazione e
ceda sin che l’ambiente succeda a riempier lo spazio, saldissimamente stanno
congiunti, né senza gran forza si separano».91
Nei passaggi appena citati la conformità con l’argomento lucreziano risulta, invero, piuttosto labile, limitata com’è al caso esemplare delle due superfici
aderenti, senza che vi si affronti il tema fondamentale in discussione, quello
dell’esistenza del vuoto.
Non altrettanto può dirsi dello stralcio dei Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove in cui il personaggio di Salviati evoca «due piastre
di marmo, di metallo o di vetro, esquisitamente spianate pulite e lustre», soggiungendo che, una volta poste le lastre l’una sull’altra, «senza veruna fatica se
gli muove sopra strisciando [...], ma che volendo separarle, mantenendole
equidistanti, tal repugnanza si trova, che la superiore solleva e si tira dietro
l’altra e perpetuamente la ritiene sollevata». La circostanza serve a provare
«l’orrore della natura nel dover ammettere, se ben per breve momento di tempo, lo spazio voto».92
Replicando ad una tale conclusione, un altro interlocutore del dialogo, Sagredo, opera un rilievo senza dubbio più prossimo a quello già enucleato da
Lucrezio nel De rerum natura:
90 La conclusione sancisce pertanto che «al muover l’una superficie sopra l’altra non si troverà
resistenza, ben che grandissima si senta nel volerle staccare e separare». OG, VI, 322-323.
91 OG, IV, 102-103.
92 OG, VIII, 59.
— 170 —
GALILEO, LUCREZIO E L’ATOMISMO
il vedere come la piastra inferiore segue la superiore e che con moto velocissimo vien
sollevata, – osserva Sagredo – ci rende sicuri che, contro al detto di molti filosofi e
forse d’Aristotele medesimo, il moto nel vacuo non sarebbe instantaneo; perché
quando fusse tale, le nominate due lastre senza repugnanza veruna si separerebbero,
già che il medesimo instante di tempo basterebbe per la loro separazione e per il concorso dell’aria ambiente a riempier quel vacuo che tra esse potesse restare. Dal seguir
dunque che fa l’inferior lastra la superiore, si raccoglie come nel vacuo il moto non
sarebbe instantaneo; e si raccoglie insieme che pur tra le medesime piastre resti qualche vacuo, almeno per brevissimo tempo, cioè per tutto quello che passa nel movimento dell’ambiente, mentre concorre a riempiere il vacuo; ché se vacuo non vi restasse, né di concorso né di moto di ambiente vi sarebbe bisogno. Converrà
dunque dire che, pur per violenza o contro a natura, il vacuo talor si conceda (benché
l’opinion mia è che nissuna cosa sia contro a natura, salvo che l’impossibile, il quale
poi non è mai).93
Come già nel poema di Lucrezio, anche in questo brano dei Discorsi si sostiene l’occorrere del vuoto «almeno per brevissimo tempo», prima che l’aria
ambiente sopravvenga «a riempiere il vacuo».
Identiche considerazioni, Galileo aveva già esposto negli studi giovanili di
dinamica, i De motu antiquiora, nell’ambito di un ragionamento piuttosto conforme al discorso lucreziano:
[...] libet etiam ex eorundemmet adversariorum argumento, quo vacuum dari tollere conantur, id ipsum elicere: nempe in vacuo motum fieri in tempore. Dicunt enim
ipsi, quod si accipias duos lapides exactissime expolitos, quorum superficies ita congruant, inter se aptatae, ut nihil diversi generis inter ipsas relinquatur, tunc si conatus
eris eas ad invicem separare, ita tamen ut semper aequidistent, te operam perditurum;
natura enim vacuum, quod aliquando inter ipsas relinqueretur, nimium horret: ex
quo colligunt, vacuum non dari posse. At si hoc verum est, uti certe verissimum extat,
tunc sic arguo: lapides non possunt separari; ergo motus in instanti non fit in vacuo.
Nam si lapides non possunt separari, ne quis locus vacuus relinquatur, iam separari
poterunt cum vacuum non relinquatur: nam aer circumfluus in vacuum in instanti advolabit, et ita vacuus nunquam erit locus. Attamen quia lapides adhuc non disseparantur, signum est quod per aliquod tempus inter eas relinqueretur vacuum: quod
quidem vacuum, ex eo quod per aliquod temporis spatium duraret, satis superque
demonstrat, in se non instantaneum fieri motum sed successivum.94
OG, VIII, 60.
[«[...] anche dall’argomento degli stessi avversari, con cui essi tentano di negare l’esistenza
del vuoto, si può ricavare la medesima conclusione, vale a dire che il moto nel vuoto viene fatto
in un certo tempo. Essi affermano, infatti, che se si prendono due lastre di pietra perfettamente levigate, le cui superfici, poste l’una sull’altra, siano cosı̀ combacianti che tra di loro non resti nulla di
diverso genere, allora, se si tenterà di separarle in modo che rimangano sempre equidistanti, si fati93
94
12
— 171 —
MICHELE CAMEROTA
Al di là delle indubbie somiglianze concettuali, è però difficile dire se e
quanto l’esposizione galileiana sia stata influenzata da Lucrezio. Il passo si
connette, infatti, in modo esplicito ad un preliminare «adversariorum argumentum», che utilizzava l’esempio delle due lastre aderenti per sostenere l’impossibilità del vuoto. Sembra, dunque, che Galileo utilizzasse (in modo critico
e polemico) uno spunto mutuato da fonti, verosimilmente, coeve.
E invero, il caso dei «duo lapides exactissime politi» venne discusso, in
preciso riferimento al problema del vuoto, fin dal Medioevo, e fu poi al centro
dell’attenzione di molti autori rinascimentali e della prima età moderna.95 Le
radici della questione vanno rintracciate – oltre che negli argomenti contra vacuum del quarto libro della Physica aristotelica – in un passo del De anima e
nel relativo commento di Averroé, che enfatizzava l’impossibilità di un contatto diretto ed ‘‘esattissimo’’ tra due corpi immersi in un mezzo ambiente.96
Conseguentemente, in diversi commentari cinquecenteschi e del primo Seicento alle opere di Aristotele si trova un’esposizione dell’argomento delle piastre aderenti, spesso allo scopo di confutarne la conclusione favorevole all’esistenza del vuoto.97
cherà invano. Ciò in quanto la natura ha troppo orrore del vuoto che per qualche tempo si creerebbe
tra di esse. Da questo, gli avversari concludono che il vuoto non si può dare. Ma se il discorso è vero,
come certamente consta essere verissimo, allora io argomento in tale maniera. Le lastre non possono
disgiungersi, dunque il moto istantaneo non ha luogo nel vuoto. Infatti, se le lastre non possono esser
separate perché tra di esse non resti alcuno spazio vuoto, esse potranno staccarsi quando tra di loro
non rimarrà alcun vuoto: e poiché l’aria circostante confluirà all’istante a riempire il vuoto, cosı̀ non
vi sarà mai uno spazio vuoto. Ma la circostanza che le lastre non si separino ancora, indica che per
qualche tempo tra di loro rimane il vuoto, il quale vuoto, durando per qualche spazio di tempo, dimostra più che a sufficienza che in esso il moto non è istantaneo ma avviene successivamente nel
tempo»]. OG, I, 394-395.
95 Per il dibattito medievale cfr. part. PIERRE DUHEM , Le système du monde. Histoire des doctrines cosmologiques de Platon à Copernic, 10 voll. (Paris: Hermann, 1913-1959), 8: pp. 142-144
(ma, in generale, ved. tutta la discussione sul vuoto, pp. 121-168); EDWARD GRANT, Much Ado about
Nothing. Theories of Space and Vacuum from the Middle Ages to the Scientific Revolution (Cambridge: Cambridge UP, 1981), pp. 86-95. Per la discussione rinascimentale, cfr. CHARLES
B. SCHMITT, ‘‘Experimental Evidence for and against a Void: the Sixteenth-Century Arguments’’,
Isis, 1967, 58: 352-366.
96 «[...] impossibile est ut corpus siccum tangat corpus siccum in aqua, aut in aëre, nisi inter ea
sit corpus aut ex aqua aut ex aëre». AVERROES, Commentarium in Aristotelis De Anima libros, in ARISTOTELIS , Opera cum Averrois Commentariis, 12 voll. (Venetiis: apud Junctas, 1562-74; Unveränderter
Nachdruch, Frankfurt am Main: Minerva G.m.b.H, 1962), suppl. II, 2, c. 110r. Per il passo aristotelico, cfr. De anima, 423a 22-423b 1.
97 Charles Schmitt, nel suo pregevole saggio sulle prove sperimentali cinquecentesche sul
vuoto, menziona, per esempio, DOMINGO DE SOTO, Super octo libros physicorum Aristotelis quaestiones (Salmanticae: ex officina I. a Terranova et Neyla, 1582), c. 66r, e i CONIMBRICENSES, Commentarium Collegii Conimbricensis Societatis Iesu in octo libros physicorum Aristotelis Stagiritae (Lugduni:
sumptibus Horatii Cardon, 1602), coll. 89, 95. Cfr. SCHMITT, ‘‘Experimental Evidence for and
against a Void’’ (cit. n. 95), p. 365, nota 31. Ad attestare la diffusione dell’assunto delle due superfici,
— 172 —
GALILEO, LUCREZIO E L’ATOMISMO
Peraltro, non mancano, nel vasto e variegato panorama della esegesi aristotelica della prima età moderna, i lavori in cui la discussione della tematica
de vacuo fa ricorso alla citazione di passi lucreziani.98 Tuttavia, è più plausibile
ritenere che, almeno nel brano dei De motu poc’anzi ricordato, Galileo stesse
intervenendo criticamente contro le tesi di avversari peripatetici, allo scopo di
mettere in evidenza come, in contrasto con l’opinione di Aristotele, «in vacuo
motum fieri in tempore».
Se, dunque, non si può escludere che l’esempio delle lastre a contatto, cosı̀
ricorrente nelle opere galileiane, sia stato suggerito anche dai versi lucreziani,
bisogna nondimeno concludere che esso trovava precisa occorrenza in testi
che lo scienziato pisano conosceva fin dai tempi del proprio apprendistato filosofico,99 e contro cui, ben presto, cercò di articolare una alternativa dottrina
dinamica.
Come si vede, a parte le suggestioni direttamente attinenti ad aspetti fondamentali della concezione atomistica e della relativa gnoseologia, non si riscontrano ulteriori, evidenti tracce di un influsso di Lucrezio nell’opera di Galileo. Mentre, infatti, i passi de Il Saggiatore concernenti la distinzione tra le
qualità ‘‘oggettive’’ e soggettive’’ possono ben essere ricondotte alla lezione
del De rerum natura (ancorché la fonte di ispirazione più chiara e diretta
sia, probabilmente, individuabile nelle testimonianze galeniche in merito all’obasti dire che, nel suo Cursus Thomisticus (1631), Giovanni di S. Tommaso (João Poinsot) lo annoverava senza esitazioni tra gli «argumenta quae solent fieri ad probandum vacuum». Cfr. IOANNES a
SANCTO THOMA, Cursus philosophicus thomisticus secundum exactam, veram, genuinam Aristotelis et
Doctoris Angelici mentem, a cura di Beato Reiser (Torino: Marietti, 1930-37; seconda ed. 1948-50),
vol. 2, p. 362. Ringrazio l’amico Mario Helbing per avermi segnalato il passo di Giovanni di S. Tommaso.
98 Schmitt cita in proposito le opere di Giulio Pace, Francesco Vimercati e Giulio Castellani.
Cfr. SCHMITT, ‘‘Experimental Evidence for and against a Void’’ (cit. n. 95), p. 360, nota 19.
99 In tal senso, il gesuita Francisco Toleto (o Toledo; lat. Toletus), nel suo commentario alla
Physica, che Galileo aveva, probabilmente, letto negli anni giovanili, rilevava: «Sumantur duo lapides
plani, et unus sit alteri suppositus: tunc ex aequo superior elevetur; cum aer non possit in totum illud
spatium, quod lapis occupabat, intrare ita cito, dabitur per aliquod tempus vacuum». FRANCISCUS
TOLETUS, Commentaria una cum quaestionibus in octo libros Aristotelis De Physica Auscultatione (Venetiis: apud Iuntas, 1586), c. 131r. Toleto rispondeva all’argomento affermando che: «in illo casu
unus lapis traheret alium, quod si parum oblique elevaretur unus, ut posset aer subentrare, tunc
non esset difficultas». Ibid., c. 131v. Ricordiamo che il commentario di Toleto alla Physica è stato
individuato come una delle fonti degli Juvenilia galileiani. Cfr. ALISTAIR C. CROMBIE, ‘‘Sources of Galileo’s Natural Philosophy’’, in Reason, Experiment and Mysticism in the Scientific Revolution, a cura
di Maria Luisa Righini Bonelli e William R. Shea (New York: Science History Publications), 1975,
pp. 157-175; WILLIAM A. WALLACE, Galileo’s Early Notebooks: The Physical Questions (Notre
Dame: University of Notre Dame Press, 1977), pp. 12-15; ADRIANO CARUGO – ALISTAIR C. CROMBIE,
‘‘The Jesuits and Galileo’s Ideas of Science’’, Annali dell’Istituto e Museo di storia della scienza di
Firenze, 1983, 8: 3-67, pp. 5-6, 19-23; WILLIAM A. WALLACE, Galileo and His Sources. The Heritage
of the Collegio Romano in Galileo’s Science (Princeton: Princeton UP, 1984), pp. 58-61.
— 173 —
MICHELE CAMEROTA
pinione di Democrito), le altre affinità espressive e teoriche esaminate non appaiono ascrivibili ad una indubitabile matrice lucreziana.
In conclusione, possiamo cosı̀ riassumere gli esiti della nostra (assai parziale e sicuramente bisognosa di ulteriori approfondimenti) indagine.
In primo luogo, Galileo dimostrò, lungo tutto il corso della sua lunga e
travagliata carriera scientifica, una sostanziale adesione alla dottrina degli atomi. Di fatto, pur con oscillazioni concettuali e terminologiche, la sua trattazione dei problemi attinenti alla struttura della materia tese costantemente a connotarsi nei termini di una riproposizione della prospettiva atomista.
Certamente, lo scienziato pisano riscontrava nella concezione dell’atomismo
classico un modello teorico facilmente integrabile (perché in decisa sintonia)
con il proprio programma di sviluppo di una spiegazione quantitativa e meccanica dei fenomeni naturali, in contrapposizione all’approccio qualitativo e
teleologico della tradizione aristotelica.
Galileo si rivelò, inoltre, ben consapevole delle implicazioni gnoseologiche
della dottrina atomista, cui dedicò alcune delle più rilevanti pagine del suo Il
Saggiatore. Proprio questi passi contengono gli spunti in cui una eventuale influenza lucreziana risalta con maggior perspicuità. Come detto in precedenza,
non è affatto sicuro che i passi del capitolo 48 de Il Saggiatore sul meccanismo
della percezione sensibile debbano qualcosa al De rerum natura. Ma, certo,
l’affinità teorica con alcuni stralci del poema è notevole e lascia presumere
il concorso di suggestioni tratte dal De rerum natura al costituirsi del discorso
sviluppato da Galileo.
Altri luoghi del corpus galileiano offrono ulteriori spunti di possibile
ascendenza lucreziana. Nondimeno, almeno nei casi poc’anzi discussi, nessuno di essi si contraddistingue per una sicura derivazione dal De rerum natura.
Insomma, anche sulla scia di una ferma adesione ad una teoria della materia di stampo atomistico, è oltremodo probabile che Galileo abbia letto – e,
certo, con grande interesse ed attenzione – il capolavoro lucreziano (di cui, lo
ricordiamo, possedeva ben due esemplari), ricavandone argomenti e idee a sostegno della propria scelta teorica.
Peraltro, nessuna esplicita menzione di Lucrezio venne da lui mai operata
in alcuno scritto. Se, certamente, la pericolosa fama del poeta latino – tanto
più temibile per chi, come Galileo, già non godeva di una reputazione ineccepibile – concorreva a sconsigliare citazioni dirette, il silenzio galileiano potrebbe altresı̀ spiegarsi alla luce di una tendenza piuttosto diffusa all’epoca (si pensi, solo per fare un esempio, al caso di Descartes), identificabile con la spiccata
propensione a mostrarsi reticenti nei confronti delle proprie fonti e dei propri
ispiratori.
— 174 —
GALILEO, LUCREZIO E L’ATOMISMO
Una simile attitudine appare, in qualche modo, in connessione con il drastico rifiuto di ogni concessione al principio d’autorità. E forse, in tal senso, è
lo stesso Galileo a darci ragione delle larvate motivazioni del suo ‘‘riserbo’’
sulle fonti di ispirazione, quando, in un frammento steso in margine al testo
del Dialogo sopra i due massimi sistemi, confessava:
Molti si pregiano d’aver molte autorità di uomini per confermazione delle loro
opinioni; ed io vorrei essere stato il primo e solo a trovarle.100
100
OG, VII, 540.
— 175 —