LE RADICI DELLA RELIGIOSITÀ MILANIANA
È comune, per chiunque scriva della vita e delle esperienze di un uomo o di una
donna, incontrare gravi difficoltà nel tentativo di definire e descrivere sinteticamente la
sua personalità e i valori che ne ispirarono, o ne ispirano, azioni e riflessioni. A questa
difficoltà dello studioso o del biografo corrisponde l'altra, più delicata e importante, che
è rappresentata dagli ostacoli che incontra la coscienza, ogni coscienza, nel tentativo di
unificare atteggiamenti e decisioni attorno ad un nucleo vitale di valori, attorno ad uno o
più fili che organizzino e disciplinino le inclinazioni ed i comportamenti. Rarissimi i
casi in cui i tentativi che ognuno di noi compie in questa direzione sortiscano esiti
positivi - tanto che si è perfino sviluppata una filosofia della frammentazione, del
nihilismo, della negazione di ogni unità, statica o dinamica, potenziale o attuale, della
coscienza. A volte, però, il miracolo riesce. È il caso di don Lorenzo Milani.
Nell'anno cruciale della storia italiana di questo secolo ormai al termine, il 1943,
il giovane Lorenzo prese una decisione, anch'essa cruciale, che cambiò definitivamente
il corso della sua vita: decise di orientare religiosamente pensieri parole e opere,
secondo la formula cattolica, ossia l'intera sua vita. L'orientamento religioso divenne il
centro unificante, selettore e direttore della sua vita e delle sue esperienze, ispiratore del
suo impegno.
La centralità e la profondità della religiosità milaniana, il cui studio costituisce
lo scopo di questo saggio, non erano dovute allo status di sacerdote, al quale don Milani
appartenne. Consacrazione presbiteriale e sacramento dell'Ordine non sono, di per sé,
garanzie di religiosità, né tantomeno di profondità umana e spirituale. Lo stesso
Magistero cattolico ha affermato il principio che la Grazia divina, che rende il
Sacramento valido ed efficace in ogni caso (opus operatum), non può, di fatto, costituire
causa efficiente di santificazione senza l'opus operantis, ovvero senza la disposizione
soggettiva del fedele, condicio sine qua non.
Ebbene, la scelta compiuta da Lorenzo Milani in quel tragico 1943 si iscrive
tutta nel travaglio della nazione e del secolo ai quali egli appartenne, travaglio che,
emblematicamente, ebbe culmine in quell'anno fatidico. Pertanto la sua disposizione ad
accogliere e rendere operante in sé e tramite sé la Grazia divina, che già gli era stata
amministrata (con i sacramenti del Battesimo e della Cresima, ricevuti per ragioni di
opportunità nell'infanzia) e che si preparò, in quell'anno, a ricevere con il sacramento
dell'Ordine; questa disposizione, dicevamo, era stata favorita e, diremmo, determinata
dalla sua singolare ricettività nei confronti dei movimenti della vita degli uomini del suo
secolo, nei confronti della storia nella quale si trovava a vivere. E il carisma principale
della sua spiritualità, non a caso, verrà definito un carisma profetico, additando in tal
modo questa sua singolarissima capacità di percepire e di cogliere i segni dei tempi, che
era capacità di leggere il messaggio profondo, il codice di base di questa epoca
Contemporanea, di afferrarne le coordinate strutturali, di seguire e dominare la
direzione e il senso del suo movimento.
Definita, in questo modo, la profondità della religiosità milaniana, resta da
chiarire in che cosa ne consista la centralità. Da quanto detto sopra, del resto, scaturisce
che orientare religiosamente una vita significa orientare secondo i valori religiosi azioni,
pensieri e parole, cioé rendere i valori religiosi regola direttiva di ogni mossa nello
scacchiere della via umana. Quello che può esser definito come valore religioso per
eccellenza, che probabilmente è presente universalmente come carattere distintivo del
concetto stesso di religiosità, è il concetto di limitatezza, proprio d'ogni singolo uomo
come dell'intera umanità. Da questo postulato deriva un corollario altrettanto
fondamentale, quello della dipendenza, dei singoli come della specie, da qualcos'altro.
Pertanto i modi e il grado in cui la religiosità di don Milani fu centrale nella sua
vita sono documentati pienamente dalle molteplici testimonianze offerte da chi ebbe
modo di essergli vicino. Testimonianze tutte convergenti nell'assegnare un ruolo
ineludibile nella sua vita a quel suo fortissimo senso di dipendenza da Dio e dalla
Chiesa, che si traduceva essenzialmente nel bisogno dei Sacramenti, in particolare nel
bisogno del «perdono dei peccati» - ciò di cui egli stesso ebbe più volte a parlare.
Riprenderemo più in là il discorso sulla centralità della religiosità nella vita del
priore di Barbiana. Qui, però, si conviene ampliare il ragionamento sulla profondità di
quell'esperienza. Ed illustrare che cosa intendiamo affermando che don Lorenzo Milani
aveva una singolarissima capacità di percepire ed interpretare il messaggio profondo di
un'intera epoca, di decifrarne il codice di base. O motivare l'altra, più ardita tesi, che
riteniamo dover formulare: l'esperienza di don Milani rappresenta uno dei tentativi più
autorevoli di porre i problemi dell'epoca Contemporanea, ed una delle prove meglio
riuscite per darne una soluzione.
L'età Contemporanea
É opinione abbastanza diffusa tra gli storici che il discrimine tra l'età Moderna e
quella Contemporanea debba collocarsi attorno al 1870; è luogo comune, inoltre, che
l'evento simbolico che segnò quel trapasso fu la vicenda della Comune di Parigi, cioé
l'ingresso dirompente delle masse, autonome e organizzate, sulla scena della storia.
Come molti luoghi comuni, anche questo ha una sua validità. Infatti, se non è
possibile puntualizzare il trapasso in date particolari, è pur vero che la crisi economica
che inizia dopo il 1870 porterà con sé l'affermazione stabile e definitiva di quei fattori di
sviluppo economico, politico, sociale e culturale il cui insieme è pure l'insieme dei tratti
differenziali dell'epoca Contemporanea rispetto a quella Moderna. Per amor di sintesi,
possiamo dire che i tratti differenziali che hanno un valore strutturale (e non meramente
congiunturale) sono tre: i) economia del benessere; ii) democratizzazione; iii)
interdipendenza planetaria.
Spieghiamoli partitamente.
i) Economia del benessere.
Il progressivo, generale miglioramento delle tecnologie aveva portato con sé un
aumento generalizzato della produzione e dei salari. La possibilità di accedere a beni di
consumo, fino ad allora irragiungibili se non per le élite dei ricchissimi, anche da parte
di piccolo borghesi o di operai benestanti è una grande novità degli anni dal 1875 in poi,
ed è consentita anche dalla diffusione di forme di rateizzazione. Quel che più conta,
larghissime masse di popolazione, soprattutto nei paesi della 'metropoli', nei paesi
industrializzati, vengono sottratte una volta per tutte alla brutalizzante e frustrante
minaccia della miseria e dell'inedia. Gli effetti della recessione che inizia negli anni '70
del secolo scorso inducono la diffusione delle tecnologie che giorno dopo giorno si
vanno perfezionando in tutte le realtà e le unità produttive in grado di sopravvivere e di
rirstrutturarsi. Inoltre, costringono le aziende più forti ad ingrandisi sempre di più, a
discapito delle piccole aziende, fagocitate quando non annientate. La crescita
vertiginosa delle dimensioni delle unità produttive, con la standardizzazione delle
operazioni lavorative fino al taylorismo e alla catena di montaggio, determinano
conseguenze sociali importantissime, la cui dimensione politica sarà quella spinta al
protagonismo delle masse e, nel migliore dei casi, alla democratizzazione - fenomeni
che studieremo nel paragrafo successivo. Qui definiamo sinteticamente l'insieme di
conseguenze di questa nuova situazione produttiva, che coinvolgeva masse enormi di
persone, come standardizzazione dei comportamenti ed emersione dell'uomo-massa .
Per il resto degli anni che ci separano da quest'inizio della contemporaneità, il processo
di miglioramento delle condizioni economiche non ha subito arresti se non in
conseguenza di eventi catastrofici, come le due Guerre Mondiali .
ii) Democratizzazione.
Conseguenza diretta delle mutate condizioni produttive, questo fenomeno
politico, che supra abbiamo più opportunamente definito come spinta delle masse al
protagonismo politico e alla democratizzazione , determinò la progressiva erosione del
compatto fronte egemonico che aveva diretto e gestito i processi di industrializzazione.
La borghesia liberale, con i suoi valori tradizionali di morigeratezza, dedizione al
lavoro, cosmopolitismo, razionalità progressiva ed illuminata, si vedeva scalzata nella
possibilità di gestire il potere politico dalle potenzialità, via via sempre più concrete ed
effettive, delle organizzazioni politiche delle masse. Il movimento ascensionale delle
masse, del resto era favorito dalle mille contraddizioni che dilaniavano e estenuavano la
vita borghese: tra un passato di privazioni e duro lavoro ed un presente di agi e
mollezze; tra le idee cosmopolite e liberistiche e il trionfo dei protezionismi, dei
nazionalismi e, persino, degli imperalismi; tra la necessità di affrontare i problemi
emergenti con l'«educazione delle masse» e il buttarsi a capofitto nella liquidazione
della razionalità per inneggiare alla violenza e alla guerra, in quel tragico scambio tra
apparenze e realtà che costituirà il fondamento più autentico dei totalitarismi di questo
secolo. Tra questi poli si dibatteva la classe egemone nei quarant'anni che precedettero il
periodo delle due conflagrazioni mondiali. Tra questi poli, va aggiunto, si muove ogni
classe egemone che sul censo e sulla pura accumulazione di ricchezza basi la propria
egemonia. Quindi, una contraddizione di questo tipo, ed altrettanto lancinante, cioé tra
individualistici appetiti e bene comune, caratterizza molte delle nostre sfide: la
questione ambientale, ancora - i tragici fatti dell'alluvione piemontese del '94 sono lì a
dimostrarlo -, il problema della corruzione politica e del discredito crescente dei regimi
liberal-democratici, etc..
iii) Mondializzazione.
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1 Bisogna pure ricordare che in questo periodo si assiste per la prima volta alla formazione un vero e proprio sistema di massmedia.
2 Se le nuove condizioni determinatesi per il degrado ambientale causato dai metodi contemporanei di produzione industriale
segneranno il sorgere di un'epoca completamente nuova, oppure l'inizio di una nuova fase di questa stessa epoca, non sta a noi
stabilirlo: «ai posteri l'ardua sentenza». Quel che possiamo argomentare, a favore della seconda tesi, è che i la vitalità dei processi
che stiamo analizzando non appare in via di esaurimento. Le cesure che si registrano attorno al 1914, al 1940 e al 1989, secondo
questa prospettiva, individuano l'inizio di fasi storiche nuove, ma non ci sembra che segnalino l'emergere di processi altrettanto
generalizzati e significativi come quelli cui qui abbiamo attribuito valore strutturale.
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Quindi in nome che attribuiamo a questo processo è una sineddoche, in quanto la parte positiva del fenomeno
(democratizzazione, appunto) serve a denominare un fenomeno più generale (il protagonismo politico delle masse) di cui è parte
anche un fenomeno differente, cui diamo in generale un valore negativo, l'attivismo di massa irrazionale o violento, tipico di
fenomeni come i vari nazionalismi, e poi il fascismo, il bolscevismo ed il nazismo.
Il miglioramento evidentissimo dei sistemi di trasporto, da un lato, e l'impegno
diretto dei paesi metropolitani nel governo delle colonie - che ormai erano costituite da
tutt'intero il pianeta, escluse le zone metropolitane, appunto - determinarono per la
prima volta nella storia un sistema di interdipendenze commerciali, economiche e
politiche che avvolgesse l'intero pianeta. Le conseguenze di questo fatto minarono
ulteriormente la compattezza del blocco egemonico, in modi la cui paradossalità mette
ancor meglio in evidenza la gravità e l'inestricabilità delle contraddizioni entro le quali
si dibatteva la borghesia europea. Il governo e l'amministrazione delle colonie furono
spesso affidati a uomini colti e liberali, se non liberisti, appartenenti, cioé, a quei gruppi
che maggiormente avevano osteggiato l'imperialismo e l'occupazione diretta delle
colonie. L'amministrazione illuminata che questi uomini seppero realizzare per conto
delle loro patrie favorì il sorgere di élites nazionali indipendentistiche e determinò
condizioni (comunicazioni a lunga distanza, burocrazia, scuole, etc.) che consentivano a
popolazioni fino ad allora, spesso, confinate nell'ambito della loro tribù di aggregarsi
attorno ad obiettivi comuni: quelli delle potenze coloniali, finché sembrò saldo ed
indiscutibile il loro dominio; quelli dell'autonomia e dell'indipendenza, non appena
questi fermenti iniziarono a serpeggiare e diffondersi e si rese possibile la loro
realizzazione concreta (ossia dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale). Del resto,
erano sempre apparsi difficilmente compatibili, almeno dal punto di vista delle idee - o
degli ideali -, il mantenimento degli imperi coloniali e l'avanzata delle masse dei paesi
dominanti che conquistavano i propri spazi democratici. Con la fine della Seconda
Guerra mondiale, appunto, i movimenti anticoloniali contribuirono a scalzare
definitivamente l'Europa dalla sua posizione di supremazia mondiale occupata fino a
quel punto. Gli equilibri si spostarono a favore delle grandi potenze continentali degli
U.S.A. e dell'U.R.S.S., per tutti i quarantacinque anni che hanno seguito la seconda
conflagrazione mondiale .
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Il livello d'astrattezza sul quale ci siamo collocati è reso necessario dagli stessi
scopi del nostro saggio. Non apparirà quindi strano trascurare riferimenti puntuali agli
eventi, tragici quanto noti, che si son verificati negli ultimi centovent'anni. Va
comunque aggiunta qualche integrazione a proposito della fase attuale. La terza
rivoluzione industriale - quella dell'informatizzazione e della terziarizzazione, per
intenderci - e la caduta dell'impero Sovietico - la quale a sua volta, sia detto per inciso,
può essere spiegata come una conseguenza della prima - hanno senza alcun dubbio
determinato l'esordio di una fase storica nuova. Probabilmente non è possibile
determinare già da adesso il carattere strutturale di questa nuova fase, se cioé si siano
determinate, o si vadano determinando, condizioni del tutto nuove, come
schematicamente abbiamo supposto avvenisse a partire dal 1870, o se le condizioni di
base siano rimaste immutate, essendosi solamente - solamente!? - collocati
diversamente fattori il cui prodotto, a dispetto delle apparenze, non cambia. Chi scrive
sottoscriverebbe piuttosto la seconda che la prima ipotesi, pur lasciando volentieri «ai
1 Non vogliamo, con queste parole, attribuire un giudizio positivo al colonialismo. Quel giudizio vuol essere una valutazione di
fatto, perché talvolta l'amministrazione delle colonie fu in effetti illuminata, come non lo fu quasi mai la direzione politica.
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In questi anni il problema della mondializzazione si pone sotto la specie di neocolonialismo, un sistema di strettissime
interelazioni economiche caratterizzate, in poche parole, dallo scambio ineguale. Le condizioni intollerabili nelle quali sono
condannati a vivere i 4/5 dell'umanità (ed è una proporzione largamente ottimistica), e la recente emersione di un nuovo colosso
dell'economia mondiale, la Cina, lasciano prevedere una continuazione di questo processo, che gli interessi del mondo ricco
vorrebbero veder già concluso in virtù di qualche contentino distribuito ai paesi sottosviluppati.
posteri l'ardua sentenza». Una discussione su questo tema torna utile solo perché una
decisione in un senso o nell'altro varrebbe, nello spirito del nostro ragionamento, come
una valutazione della maggiore o minore attualità del pensiero e dell'esperienza di don
Milani nel mondo d'oggi. D'altra parte, a ridurre la discriminatività, per valutare
l'attualità di don Milani, che può esser attribuita alla soluzione del problema storico
sulla natura del cambiamento in corso si possono invocare due tópoi del dibattito sulla
storia e sulla storiografia: in primis quello sulla continuità della storia, che non procede
mai per balzi netti e cesure; poi, quello sulle radici antiche dei fenomeni, secondo il
quale un fenomeno che accade oggi si lega con fili talora sottilissimi talora più spessi ed
evidenti a processi ed eventi lontani nel tempo e talvolta, in apparenza, lontani anche
per contenuto e significati.
L'egemonia borghese.
Torniamo a parlare della storia Contemporanea , avviandoci a discuterne
teoricamente alcune caratteristiche socio-politiche. La classe sociale che gestì
l'egemonia nel periodo che segnò il definitivo imporsi dell'industrializzazione, abbiamo
detto, è la borghesia liberale. La mondializzazione, la democratizzazione e, soprattutto,
l'economia del benessere possono considerarsi i risultati, a lungo agognati e
strenuamente perseguiti, degli sforzi di quella classe lungo l'arco di otto secoli, dai
comuni italiani dopo il Mille fino alle grandi borghesie nazionali di cui discorriamo ora.
Le rivoluzioni borghesi segnarono la consacrazione di un'egemonia le cui basi erano
state poste da questo lavoro secolare. Ora gli ideali delle rivoluzioni borghesi non erano
stati, appunto, egualitaristici e cosmopolitici? Non avevano esse promesso un mondo
libero dall'oppressione della miseria, in cui ognuno perseguisse la sua propria felicità, in
cui le differenze di ceto fossero abolite, in cui le nazioni fossero riunite in un concerto
di onesti lavoratori dediti ad accumulare ricchezze e a commerciare liberamente prodotti
ed idee?
Ma, si evincerà da quello che abbiamo detto a proposito di queste tre grandi
caratteristiche della contemporaneità, esse nascondevano problemi assai gravosi per la
tenuta ed il rafforzamento dell'egemonia borghese. Questi tre fenomeni, tanto importanti
da generare un vero e proprio salto epocale, menaron con sé la triste ed inattesa
conseguenza di sconvolgere i quadri materiali e mentali dell'esistenza borghese - oltre a
metterne in crisi esplicita, abbiamo visto, la gestione diretta del potere, che fino ad
allora era sembrata indiscutibile.
I quadri mentali, dunque. Le certezze scientifiche e cosmologiche del
positivismo erano messe in discussione dagli stessi progressi delle scienze esatte, dalle
stesse scoperte che uomini come Poicaré, Einstein e Planck venivano facendo. Freud,
raccogliendo una tradizione iconoclastica che come un basso continuo accompagna
l'ascesa della borghesia, dissolverà alcune delle certezze borghesi teorizzando il ruolo
dell'inconscio nella determinazione dei processi psichici. I grandi artisti del
decadentismo porteranno il canone dei generi affermatosi col classicismo ed il
romanticismo a sfaldarsi progressivamente sotto la spinta di esigenze espressive e
formali le più varie, tanto che a tutt'oggi pare difficile delineare un sistema di forme
artistiche definito ed ampiamente condivisibile.
1
1 Dopo quel che s'è affermato, non parrà strano l'uso della maiuscola.
D'altro canto non si fatica a scorgere l'origine della decadenza spirituale della
borghesia in quella più generale crisi dei quadri materiali e sociali che le avevano reso
possibile la conquista dell'egemonia - e cui abbiamo già accennato. Indotta dalle nuove
condizioni storiche proprie della contemporaneità, la progressiva perdita di ruolo e di
potere dei ceti moderati si accompagnava ad un infiacchimento dello stesso rigore, che
quell'egemonia aveva fondato e rafforzato. I valori dell'astinenza e dell'impegno nel
produrre ed accumulare ricchezze, unito di volta in volta, a seconda delle circostanze, a
grandissime tolleranze o a strenue intransigenze, erano messi in questione e come
fiaccati nella loro eficacia sia dall'interno - ovvero dalle contraddizioni che si erano
generate nel suo stesso seno dall'inflaccidirsi delle nuove generazioni 'corrotte' dagli agi
del benessere - che dall'esterno - ossia per le spinte dovute al rinnovato protagonismo
delle masse e alle difficoltà connesse alla gestione degli imperi coloniali -. Lorenzo
Milani, prima della conversione, visse con sofferta inquietitudine questa condizione e le
profonde contraddizioni che la caratterizzarono, perché apparteneva, appunto, a quella
classe sociale di cui andiamo discorrendo - il salotto della sua famiglia era uno dei
meglio frequentati della Firenze borghese, illuminata e cosmopolita - che si era resa
protagonista dell'unificazione nazionale, e che infine assistette prima compiaciuta e poi
impotente alle vicende del fascismo e poi della guerra .
Ma quali erano stati i caratteri dell'egemonia borghese? Quali le movenze
principali della sua ascesa e della sua affermazione? Quali - ed è ciò che più
interessa,qui - le ragioni e le radici di quella profonda crisi?
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Troppo sarebbe pretendere di rispondere esaustivamente a queste domande.
D'altro canto è pur possibile, sviluppando un ragionamento teorico sui concetti di
egemonia, riforma, religione, etica etc. indicare in quale direzione andrebbero cercate le
risposte, e studiare gli argomenti con cui altri, in quella stessa direzione movendosi,
hanno potuto rispondere.
Un principio teorico e metodico, intanto, va posto subito, perché ci consente di
ricondurre il ragionamento storico e teorico al punto dal quale aveva preso le mosse: è
possibile studiare i fenomeni di religiosità in stretta correlazione con i fenomeni sociali,
economici e politici. È possibile, in altri termini, interpretare la religiosità, in quanto
fatto sociale totale, come uno tra gli aspetti sotto i quali leggiamo e interpretiamo i
sistemi sociali, che altrimenti possono esser visti come sistemi di produzione, o di
organizzazione del potere e del consenso, o, ancora, di gestione dell'egemonia. Con ciò
si vuol rivendicare la possibilità epistemologica e fattuale di studiare la religiosità in
funzione della vita sociale nel suo complesso, dando per evidente ed ammesso il
postulato che essa allaccia in qualche modo e in ogni caso delle strettissime relazioni di
interdipendenza con i fatti economici o con quelli politici. Detto questo, possiamo
provarci a delineare qualcosa come una regola di dispersione che consenta di calcolare
l'area e la forma tendenziale del campo nel quale debbano andare a collocarsi i
disparatissimi casi concreti di relazione tra religiosità e sistemi sociali complessivi. Il
tentativo è ardito, e chiede spazio, e pazienza nel lettore.
Come può, la religiosità, esser posta in funzione (in senso algebrico e logico)
dell'esercizio dell'egemonia? In che cosa consiste la connessione tra questi due fattori
dell'azione sociale? Antonio Gramsci, nel suo tentativo di studiare e discutere le radici e
1 Su questo tema cfr. Fallaci 1974 e Postiglione 1994.
le caratteristiche dell'egemonia borghese in Italia, ha proposto uno schema interpretativo
di altissimo peso teorico, il cui valore non fa che accrescersi col tempo. L' egemonia che
una classe sociale esercita sul più complesso insieme del corpo sociale, viene esercitata
tramite due tipi di strategie: alleanze con le classi sociali che hanno interessi economici
politici e culturali in comune con la classe egemone, e conflitto aperto nei confronti di
quelle gli interessi delle quali sono inconciliabilmente contrastanti con i suoi. La prima
di queste due strategie può esser definita direzione, la seconda dominio. Per inciso, va
ricordato che il concetto di egemonia denota anch'esso, come quello di «sistema di
produzione», o come quello di «visione del mondo», o come l'altro, a proposito del
quale già s'è posto in evidenza questo carattere, di «religione», e così via, un fatto
sociale totale; e che, pur essendo quest'ultimo termine del tutto estraneo alla
terminologia gramsciana, i Quaderni del carcere sembrano confermare
un'interpretazione del genere, se la distinzione canonica del marxismo, quella tra
struttura e sovrastruttura, che Gramsci pur accetta, viene definita «meramente
didasclica». Infatti le riflessioni gramsciane su ideologia e cultura sono
programmaticamente inscindibili da quelle altre sulla storia nel suo contenuto più
immediatamente «strutturale» o di classe, anzi: l'abbozzo di storia degli intellettuali
italiani che Gramsci compie nei Quaderni mira a verificare in quegli ambiti più
tipicamente sovrastrutturali, cultura, etica e religione, i rapporti di forza intercorrenti tra
le diverse e contrapposte istanze economiche e sociali. È solo un punto di vista
organico, non meramente quantitativo, che permette di cogliere la corposità di quei
movimenti e di quelle lotte.
Torniamo al nesso tra egemonia e religione. Infallibile cartina di tornasole del
sussistere d'una egemonia e della sua consistenza sono le modalità e il grado in cui la
visione del mondo della classe egemone penetra di sé le visioni del mondo delle classi
dirette e dominate. Gramsci dispone lungo una stessa linea filosofia, religione e
ideologia, accogliendo l'equazione crociana per cui religione è uguale a visione del
mondo più etica conforme :
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Nesso tra filosofia, religione, ideologia (nel senso crociano). Se per religione si ha da intendere
una concezione del mondo (una filosofia) con una norma di condotta conforme, quale differenza può
esistere tra religione e ideologia (o strumento d'azione) e in ultima analisi, tra ideologia e filosofia? Esiste
o può esistere filosofia senza una volontà morale conforme? I due aspetti della religiosità, la filosofia e la
norma di condotta, possono concepirsi come staccate e come <possono> essere state concepite come
staccate?
[...] Il carattere della filosofia della praxis è specialmente quello di essere una concezione di
massa, una cultura di massa e di massa che opera unitariamente, cioè che ha norme di condotta non solo
universali in idea, ma «generalizzate» nella realtà sociale. E l'attività del filosofo «individuale» non può
essere pertanto concepita che in funzione di tale unità sociale, cioè anch'essa come politica, come
funzione di direzione politica. [Gramsci, Quaderni del carcere, q. 10, §<31>, p. 1269-1271]
Ma come va posto, nell'epoca Contemporanea, lo specifico problema della
religione? Come mettere in connessione il tratto concettuale della dipendenza da
qualcosa d'altro, che abbiamo affermato caratterizzare la religiosità, e l'egemonia, e la
visione del mondo socialmente condivisa? Come si giustifica teoricamente il tentativo
gramsciano di mettere in una stessa serie religione, morale, politica e filosofia? Questi
quesiti ci introducono a parlare del concetto di visione del mondo.
1 L'impostazione del problema in questi termini è dovuta a Benedetto Croce, ripreso da Gramsci, le cui riflessioni qui seguiamo
più da vicino.
La tradizione metafisica, come è stata diffusa e vulgata nelle scuole e nelle
accademie, spinge a intendere le differenze di visione del mondo come differenze nel
modo di concepire l'arch, il principio ultimo delle cose, la sostanza che fonda e basa la
realtà, l'escaton, l'al di là. Le differenze logiche, linguistiche e semantiche che le
concezioni del mondo presentano su questi temi sono pensate come le differenze
pertinenti su cui si basa l'indagine filosofica o teologica; le controversie sono risolubili
attribuendo un valore di verità alle concezioni del mondo e alle proposizioni che
vengono emesse dai loro mèntori. Il luogo comune che grava sulla riflessione filosofica
occidentale è che la verità è unica e univoca, e che è vera la concezione del mondo che
risponde alla realtà. Quest'idea della verità una, unica e assoluta ha determinato, tra
l'altro, l'alternarsi di due fenomeni, di due atteggiamenti speculari, nel corso della
tradizione storica e filosofica dell'Occidente: affermazione di ortodossie ideologiche
(politiche, filosofiche o scientifiche) coesistenti o in lotta tra loro, e frammentazione
delle verità, per iconoclastica caduta degli dei. È degno del massimo rilievo che don
Milani, nelle sue riflessioni sul linguaggio, elaborate nel corso della sua opera pastorale
ed educativa, abbia difeso una concezione del linguaggio drasticamente alternativa a
questa . Non è neppure irrilevante che egli sentì sempre lontane ed estranee le
costruzioni concettuali dei filosofi di professione, pur essendo, invece, capace di
riflessioni di alto rilievo filosofico.
Se volessimo fornire una più proficua definizione del concetto di concezione del
mondo - se quindi volessimo ammettere la possibilità di incasellare schematicamente, in
una frase, concetti che possiedono e devono conservare una notevole elasticità ed una
notevole vaghezza - capace di dissipare alcuni degli equivoci connessi con la
concezione metafisica della filosofia, potremmo dire che una visione del mondo è una
galassia di significato, globale ed onnicomprensiva, condivisa da un gruppo,
tendenzialmente cosciente e più o meno rigorosamente sistematizzata . A questa
definizione va connessa quella del concetto di significato, che va visto come l'insieme di
azioni e operazioni logico-simboliche (linguistiche) e materiali governate dalle più
generali regole di comportamento o di selezione proprie della specie umana. Il concetto
di significato, dunque, è assai prossimo ai concetti di lavoro, esperienza, opera,
costruzione (in senso attivo e passivo), produzione, prodotto. Quest'«uso del verbo
significare», ovviamente, non è «centrale dal punto di vista della semantica linguistica»
come lo è «la parola francese 'fenetre' significa la stessa cosa dell'italiano 'finestra'», ma
è «centrale» dal punto di vista teorico-filosofico, che è il nostro punto di vista, allo
stesso modo in cui lo è «Qual è il significato della vita» o «Quell'uomo non significa
niente per me» . In questa prospettiva, ergo, assume pienamente senso l'operazione
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1 Questa concezione metafisica, che, s'è visto, poggia a sua volta su una concezione referenzialistica del linguaggio, fu discussa e
combattuta da Gramsci (sotto forma di «credenza nell'oggettività del mondo esterno», di stampo aristotelico, diffusa tra le masse
popolari per influsso del clero) e da Wittgenstein (nelle Philosophische Untersuchungen) cfr.
2 Il concetto di Visione del mondo è strettamente legato a quello di cultura. Una Visione del mondo fa parte di una cultura.
3 L'esempio è ripreso dalle magistrali Lezioni di linguistica di John Lyons [Lyons 1981: 146]. A supporto metodologico di questa
impostazione va richiamato anche il contributo di Max Weber, secondo cui il concetto di significato assume un ruolo centrale e
basilare nell'edificio delle scienze storico-sociali. Come è noto, Weber riteneva che compito della sociologia e delle altre discipline
nomotetiche nell'ambito delle scienze storico-sociali fosse indagare complessivamente i fatti storici ed astrarre dalle vicende degli
uomini, cioè dal divenire concreto e magmatico, costanti e termini ricorrenti, e quindi elaborare tipi ideali, costruzioni concettuali di
valore principalmente euristico verificabili empiricamente e connettibili entro teorie a mano a mano più generali. Il significato
culturale è la categoria che rende possibile identificare gli oggetti d'indagine delle scienze storico-sociali, garantendone la
consistenza e la rilevanza: «Se si vuol chiamare «scienze della cultura» quelle discipline che considerano i processi della vita umana
dal punto di vista del loro significato culturale, la scienza sociale appartiene a questa categoria. [...]. La scienza sociale, quale noi
vogliamo promuoverla, è una scienza di realtà. Noi vogliamo intendere la realtà della vita che ci circonda, e nella quale noi siamo
inseriti, nel suo proprio carattere - noi vogliamo intendere cioè da un lato la connessione e il significato culturale dei suoi fenomeni
gramsciana di considerare casi particolari di un unico fenomeno religione, ideologia,
morale, filosofia: intendendo il concetto di morale come un insieme, storicamente dato e
più o meno coerente e sistematico, di prescrizioni dell'azione, non farebbero le morali
parte anch'esse del più ampio universo del «significato culturale»? Non dovrebbero
essere intese e studiate in stretta correlazione con gli altri insiemi pertinenti di
significato, agli altri fatti sociali totali, quali i sistemi di etichetta, i sistemi economici, i
sistemi di credenze, i sistemi linguistici etc.? Ritorna dunque il quesito posto da
Gramsci: «Esiste o può esistere filosofia senza una volontà morale conforme? I due
aspetti della religiosità, la filosofia e la norma di condotta, possono concepirsi come
staccate e come <possono> essere state concepite come staccate?»
Possiamo a questo punto tentare risolutamente di concettualizzare la religiosità
in quanto fatto sociale totale ed in relazione ai problemi della sociatà contemporanea.
Abbiamo più su parlato del «concetto di limitatezza, propria d'ogni singolo uomo come
dell'intera umanità» come valore religioso di base. Abbiamo aggiunto che da questo
postulato deriva un corollario altrettanto fondamentale, quello della dipendenza, dei
singoli come della specie, da qualcos'altro. Quali che siano i contenuti concreti di queste
forme semantiche generalissime, possiamo dire che esse costituiscono le proprietà
formali basilari di ogni religiosità. Ora, che cos'è meglio di forme semantiche di questo
tipo per fondare e gestire un'egemonia? Su quali principi di ragion pratica può fondarsi
la direzione o il dominio di un gruppo, o di un insieme strutturato di gruppi (cioé una
classe sociale) su altri gruppi meglio che su quelli di dipendenza da qualcos'altro?
Com'è possibile assicurare la tenuta del legame sociale meglio che con la coscienza
molecolare (cioé posseduta da ogni appartenente ad un gruppo sociale) della propria
limitatezza individuale, e della propria dipendenza da qualcos'altro ?
Impostato in questo modo, dunque, possiamo concludere che il problema della
religione, con riferimento alla vita di una società complessa è problema di dedizione ad
un universo di valori che orienti la partecipazione, sotto qualsiasi forma, negativa o
positiva, alla vita sociale, civile e politica, attraverso il controllo e, se necessario, il
mutamento dei comportamenti individuali. Dedizione ad un universo di valori, dunque,
indipendentemente dagli esiti dogmatici o teologici espliciti. Pertanto, andranno studiati
nel capitolo «religione e religiosità» fenomeni storici come il giacobunismo, il
liberalismo, il nazismo, il fascismo, il bolscevismo, il consumismo - non paia strano: il
consumismo è l'orizzonte di valori connesso con l'affermazione dell'economia fluente, e
nel suo orizzonte si iscrivono comportamenti di massa come il tifo calcistico o il
fanatismo musicale, fenomeni anch'essi di tipo religioso, fenomeni di dedizione ad un
universo di valori, quali che essi siano .
1
2
Gramsci conduce la sua critica dell'egemonia borghese in Italia tramite la
discussione del maggiore e più serio tentativo di impostare un programma di riforma nel
quadro di quella stessa egemonia, e nel tentativo di rafforzarne le basi: la filosofia e
culturali nella loro odierna configurazione, e dall'altro i fondamenti del suo essere divenuto così-e-non-altrimenti». [Weber 1904: 78,
84].
1 Questa è la ragione più autentica della definizione marxiana della religione come «oppio dei popoli». Sarà chiaro a chiunque - e
l'esperienza di don Milani costituisce un esempio lampante di ciò - che non solo quest'esito negativo ha il nesso tra egemonia e
religiosità, ma può anche esser reso funzionale ad una prassi di liberazione.
2
Donde l'estrema pericolosità morale delle estremizzazioni di questi fenomeni soociali - denunciata del resto dal Magistero
cattolico e da molte altre voci. Don Milani comprese benissimo l'ateismo pratico del consumismo: cfr. tutta la polemica sulla
ricreazione (Esperienze Pastorali, pp.)
l'azione culturale di Benedetto Croce. La critica a Croce è un po' il canovaccio su cui
Gramsci ricama la sua originale costruzione concettuale, dato che l'idealismo, a suo
dire, rappresenta il più avanzato contributo filosofico dei suoi tempi. Il suo
procedimento consiste nel mettere in evidenza da un lato le insufficienze e le
contraddizioni 'tecniche' del pensiero di Croce; dall'altro nell'indicarne lo specifico
contenuto di classe, che è come dire i limiti e le contraddizioni nascoste, 'inconsce'.
E' sintomatico che il tema più importante nella critica gramsciana a Croce è
proprio quello dell'atteggiamento del filosofo laico nei confronti della religione.
Lasciamo spazio alla voce di Gramsci, il cui dettato, pur imperfetto stilisticamente , è
esemplare per chiarezza e rigore:
1
La posizione del Croce verso la religione è uno dei punti più importanti da analizzare per
comprendere il significato storico del crocismo nella storia della cultura italiana. Per il Croce la religione
è una concezione della realtà con una morale conforme a questa concezione, presentata in forma
mitologica. Pertanto è religione ogni filosofia, cioé ogni concezione del mondo, in quanto è diventata
fede, cioé considerata non come attività teoretica (di creazione di nuovo pensiero) ma come stimolo
all'azione (attività etico-politica concreta, di creazione di nuova storia).
Proprio sull'argomento delicatissimo della religione, così fondamentale per le
ansie e il bisogno di senso degli uomini, il lavoro teoretico, scientifico e civile di Croce
si mostra deficitario, non all'altezza di un problema così delicato:
Sebbene il Croce non voglia fare nessuna concessione intellettuale alla religione (neppure del
genere molto equivoco di quelle che fa il Gentile) e a ogni forma di misticismo, tuttavia il suo
atteggiamento è tutt'altro che combattivo e militante. Questa posizione è anzi molto significativa e da
mettere in rilievo. Una concezione del mondo non può rivelarsi valida a permeare tutta una società e a
diventare «fede» se non quando dimostra di essere capace di sostituire tutte le concezioni e fedi
precedenti in tutti i gradi della vita statale.
Le conseguenze di questo atteggiamento da riformatore religioso che abdica
davanti alle credenze 'mitologiche' e confessionali del popolo sono pesanti per la tenuta
e soprattutto per l'integrità etica e pedagogica dell'egemonia borghese:
Ricorrere alla teoria hegeliana della religione mitologica come filosofia delle società primitive
[l'infanzia dell'umanità]2 per giustificare l'insegnamento confessionale sia pure nelle sole scuole
elementari, non significa altro se non ripresentare sofisticata la formula della «religione buona per il
popolo» e in realtà abdicare e capitolare dinanzi all'organizzazione clericale.
Gramsci arriva così a prevedere, con più di dieci anni d'anticipo, l'egemonia
politica e sociale dei cattolici, che avrà luogo non appena sarà possibile, nel
Dopoguerra. Poi ripropone un argomento che altrove svilupperà, riferendosi alla
Riforma Luterana:
Per una filosofia è una forza o una debolezza di avere oltrepassato i soliti limiti dei ristretti ceti
intellettuali e di diffondersi nelle grandi masse sia pure adattandosi alla mentalità di queste e perdendo
poco o molto del suo nerbo? E che significato ha il fatto di una concezione del mondo che in tal modo si
diffonde e si radica e continuamente ha dei momenti di ripresa e di nuovo splendore intellettuale?
Una concezione del mondo che prescrive l'uso della «doppia verità», per i dotti e
per il popolo, che prevede che quella che sul recto, per i ricchi, era «religione della
libertà» divenga sul verso «culto della nazione», svela con ciò stesso la sua debolezza, e
la sua incapacità ad opporsi, nei fatti, agli arbitri di chi fa della violenza uno strumento
1 Imperfezioni, com'è noto, attribuibili alle difficili condizioni in cui Gramsci era costretto nella sua prigionia.
2 Interlinea di Gramsci (trascritto tra parentesi quadre dall'editore, Valentino Gerratana).
politico.
Croce in qualche libro ha scritto qualcosa di questo genere: «Non si può togliere la religione
all'uomo del popolo, senza subito sostituirla con qualcosa che soddisfi le stesse esigenze per cui la
religione è nata e ancora permane». C'è del vero in questa affermazione, ma non contiene questa una
confessione dell'impotenza della filosofia idealista a diventare una integrale (e nazionale) concezione del
mondo? E infatti come si potrebbe distruggere la religione nella coscienza dell'uomo del popolo senza
nello stesso tempo sostituirla? E' possibile in questo caso solo distruggere senza creare?
«È possibile in questo caso solo distruggere senza creare?» La borghesia, nella
sua débacle, aveva perso la capacità di trascinare le masse verso ambiziosi traguardi di
civiltà. Le lancinanti ed irresolubili contraddizioni tra ideali ed egoismi, tra prospettive
di progresso ed interessi economici di breve termine, le aveva alienato - dovunque, ma
in modi più drammatici in Italia - la possibilità di esercitare l'egemonia sulle masse
lavoratrici. Il più importante indice di questa sconfitta era stata l'inettitudine
amministrativa, il clientelismo e la corruzione serpeggianti nello Stato liberale:
emblematico in questo senso il caso della Mafia siciliana. Così l'esercizio del dominio
sulle classi subalterne passò dai gabelloti e dagli esangui notabili di provincia, non più
in grado di arrestare la marea dell'insoddisfazioe popolare, ai volgari accoliti di
Mussolini, piccolo-borghesi insiddisfatti e in cerca di gloria con la violenza fisica e col
machismo. Questa fu la fine dei nobili ideali liberali. Ma il culto del Duce e della
nazione non era sufficiente ad assicurare sufficiente compattezza all'egemonia
dittatoriale fascista. La Chiesa Cattolica riuscì a ritagliarsi uno spazio autonomo con il
concordato del '29. I frutti di quella scelta fruttificheranno in seguito, dopo la guerra,
quando l'apparato organizzativo della Chiesa diverrà baluardo contro il comunismo e
acquisterà posizioni di assoluto predominio nel campo dell'educazione e della cultura.
L'egemonia borghese nel dopoguerra dovrà esser mediata dalla mentalità e dall'apparato
della chiesa cattolica.
Tuttavia l'inettitudine religiosa della borghesia, e della borghesia italiana in
particolare, portarono con sé un'altra importante conseguenza. I migliori rampolli
borghesi, posti davanti alla tragedia della guerra e alla disfatta di tutto un mondo - alla
disfatta della nazione italiana nel 1943, appunto - furono spinti a riflessioni profonde e
radicali, e furono costretti a drammatiche scelte di campo. L'esigenza di un
rinnovamento culturale, morale, sociale e politico dell'Italia maturò nelle selve e nei
campi di battaglia dove combatterono e morirono migliaia di uomini e di donne, giovani
e meno giovani. Quali sono stati i risultati di quelle istanze, ognuno può giudicarlo da
sé, guardandosi attorno.
Tra quei giovani, Lorenzo Milani, il quale, secondo quanto narrano le biografie e
le testimonianze, fece, proprio in quei tragici e cruciali giorni, una scelta decisiva,
quella di convertirsi al cattolicesimo e di diventare sacerdote. Una scelta che in
apparenza potrebbe apparire di disimpegno, di fuga dal mondo. Tutt'altro. Saverio
Tutino, compagno di classe di Lorenzo al liceo Berchet di Milano, coglierà benissimo la
profondità di quella scelta, confrontandola con la sua, combattente della resistenza. Il
giovane Milani cercherà, entrando nella Chiesa Cattolica e nel Seminario Arcivescovile
di Cestello, di risolvere su di sé e dentro di sé i problemi e le contraddizioni morali che,
come abbiamo argomentato, si possono imputare come cause della tragedia storica che
il mondo viveva in quel momento. Non apparirà dunque un caso che, nonostante la vita
appartata che conduceva, gli avvenimenti più salienti e significativi di quegli anni sono
accompagnati e come scanditi da precise e irrevocate scelte spirituali del giovane
seminarista.
Soprattutto, però, è importante riflettere sul fatto che questo carattere 'incarnato'
della sua religiosità sia stato da Lorenzo Milani vissuto sin dal principio, tanto che,
descrivendo e giustificando la scelta che aveva compiuto, e che sarebbe stata
solennizzata pochi giorni più tardi con i voti per il suddiaconato, egli scrisse al padre
che si trattava di
un impegno definitivo che mi prendo con Dio, con me stesso, e con una grande società umana.
«Il compatto spesore di quella scelta iniziale» - ha scritto Giovanni Miccoli - si
conserverà intatto, nonostante le successive esperienze di cappellano e di parroco, e le
conseguenti, ben note, delusioni e difficoltà. A ben pensarci, don Milani, figlio della
migliore borghesia liberale fiorentina, destinato ed educato per ciò stesso a ricoprire un
ruolo di intellettuale e dirigente, con la sua conversione cercherà di metter fra parentesi
gli appetiti individuali, i suoi personali interessi di carriera e di ricchezza, annullerà le
sue ambizioni inquadrandosi entro «una grande società umana», si metterà senza alcun
risparmio e con sempre maggior convinzione al servizio del suo «prossimo», che gli si
presentava sotto la specie dei suoi parrocchiani; troverà così il modo per sciogliere le
contraddizioni che gravavano sulla sua propria classe sociale, la borghesia, e per rendere
i valori in cui credeva efficaci ed operanti in virtù dell'amore che egli nutriva e della
concretezza di opere che era in grado di esprimere per i suoi figliuoli, per le sue
pecorelle dal Vescovo affidategli.
La lingua di don Milani
Esaurito in questo modo il nostro argomentare sulla profondità della religiosità
milaniana, torniamo per un attimo a trattare della centralità che la caratterizzò. È nostra
opinione che il modo più proficuo per studiare quest'ultima consista in un'analisi della
lingua di don Milani . Gli scritti di don Milani sono sempre e comunque religiosamente
orientati, anche quando, verrebbe da aggiungere , nelle lettere ai familiari, si tratta di
richieste di aiuto materiale o alimentare. Solo, l'orientamento assiologico religioso è
soggiacente, pervade di sé intimamente la pagina o l'opera milaniana, onde chi non è
capace di ascolto composto e raccolto non se ne avvvede.
Non è questa la sede per dar dimostrazione esauriente di quanto appena
affermato. Si tratterebbe di entrare nel meccanismo compositivo degli scritti più
importanti di don Milani: sarebbe necessario più di un volume. Per dare un'idea
proponiamo al lettore di rileggere le due Lettere più mature, quella Ai giudici, stesa in
occasione del processo sull'obiezione di coscienza, e quella A una professoressa, di cui
don Milani è solo coautore in quanto regista della stesura collettiva e responsabile
dell'educazione di chi la scrisse effettivamente.
La lettera ai giudici è nota come manifesto etico - soprattutto - ed educativo di
don Milani e della Scuola di Barbiana, come uno dei capisaldi del pensiero nonviolento
e del socratismo intellettuale inteso come base autentica di ogni convivenza
democratica. Il cumine argomentativo della lettera è nell'inno alla libertà di coscienza
1
2
1 Intendiamo qui per lingua una configurazione di opzioni e di gerarchie di valore, veicolate da un sistema di forme lessicogrammaticali in virtù dell'uso che ne fa un gruppo socialmente collocato, saturarandolo di intenzioni socialmente pertinenti. Cfr.
Bachtin
2 Ma è un'iperbole, naturalmente.
che si intona subito dopo aver discusso la funzione della legge. Leggiamo:
La leva ufficiale per cambiare la legge è il voto. La Costituzione gli affianca anche la leva dello
sciopero.
Ma la leva vera di queste due leve del potere è influire con la parola e con l'esempio sugli altri
votanti e scioperanti. E quando è ora non c'è scuola più grande che pagare di persona un'obiezione di
coscienza. Cioé violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede.
[L.G.: 38].
Queste parole rappresentano tutta una concezione della scuola e della
convivenza civile. Quel che qui più importa, tuttavia, è indicare come si esprime
l'orientamento religioso di base che ne determina lo scaturire. Una risposta banale
potrebbe esser fornita dai molti richiami, che la lettera contiene, al magistero ufficiale
della Chiesa e alla condizione di sacerdote dello scrivente. Come già detto, però, il
culmine argomentativo è altrove, è proprio in quel socratismo e in quella concezione
della vita democratica che vede come fulcro della convivenza civile la libertà di
coscienza.
Qual è, dunque, l'indice esplicito dell'intima disposizione religiosa che ispira
questo socratismo? Secondo un'idea di Michail Bachtin, un ruolo fondamentale, nel
determinare la natura dei generi discorsivi e letterari, e dei testi concreti che in essi si
inquadrano, è svolto dall'incipit e dall'explicit, ossia dalle modalità dell'inizio e della
fine dei testi. L'explicit della lettera ai giudici suona così:
Non è un motivo per non fare fino in fondo il nostro dovere di maestri. Se non potremo salvare
l'umanità ci salveremo almeno l'anima. [92].
Don Milani fa qui riferimento alla posizione di chi difende le stesse idee in nome
dell'umanità, ovvero per impedire che prevalgano tendenze capaci di condurre alla
distruzione del genere umano, vista la potenza degli ordigni di cui si dispone. «...Ci
salveremo almeno l'anima»: la fedeltà a quel nucleo fondamentale di valori che
costituiscono la persona in relazione di dipendenza creaturale e d'amore con Dio è molto
più importante degli effetti concreti, negativi o anche positivi, che l'esplicazione
concreta di quella fedeltà comporta. Quella fiamma religiosa che sottendeva le pagine
moralmente più tese della Lettera ai giudici trova questo suggestivo sugello, che rende
chiara l'origine di quella tensione.
Un'altro brano può aiutarci a cogliere un aspetto forse non ancora ben valutato
della religiosità di don Milani. È stata spesso messa in rilievo la natura ebraica o
veterotestamentaria della sua spiritualità, e sono stati evidenziati i tratti tipicamente
tridentini del suo ministero pastorale e della sua teologia. Raramente, seppure è
avvenuto, è stata messa in evidenza la sua fedeltà profonda al vangelo , probabilmente
offuscata da certi atteggiamenti di rottura e da certe durezze «classiste». È opinione di
chi scrive che proprio questi due atteggiamenti siano ascrivibili agevolmente
all'evangelo di Gesù Cristo. Ma vi può essere una dimostrazione ancora più
convincente, completamente interna alla vicenda e al pensiero di don Milani.
Come è noto, Lettera a una professoressa fu scritta da 8 ragazzi di Barbbiana,
sotto la direzione - che talvolta si spinse a una collaborazione compositiva - di don
Milani. Gli argomenti esposti, le storie narrate, i dati raccolti furono opera di quei
montanini. Anche la veste stilistica, ubbidiente a precisi canoni elaborati da don Milani
nel corso della sua vita, e tali da ritenersi criteri pedagogici, oltre che stilistici, fu curata
1
1 E, quando messa in evidenza, è stata piuttosto presupposta che dimostrata.
dai ragazzi, con l'aiuto dei genitori e di operai poco e male istruiti. L'obiettivo era la
chiarezza e l'efficacia persuasiva. Quindi anche l'argomento che citeremo, seguendo
quelle norme, dovrebbe esser stato elaborato dai ragazzi. Si parlava delle interrogazioni
nella scuola pubblica:
Allora mi venivano solo parole sporche o ingiurie. Quelle parole che qui per scritto riusciamo a
contenere un po' a fatica e trasformare in argomenti.
Così abbiamo capito cos'è l'arte. E' voler male a qualcuno o a qualche cosa. Farsi aiutare dagli
amici in un paziente lavoro di squadra.
Pian piano viene fuori quello che di vero c'è sotto l'odio. Nasce l'opera d'arte: una mano tesa al
nemico perché cambi. [131-132].
Il frutto dell'opera educativa di don Milani è quest'idea d'arte: «una mano tesa al
nemico perché cambi». La gratuità evangelica si incarna in una concezione dell'arte,
ossia di un'altra attività spirituale eminentemente gratuita. «Ama il tuo nemico»: non è
l'arte una forma tra le più nobili d'amore?
Anche qui, l'analisi testuale certifica la centralità - appunto - di questo brano
nell'economia compositiva della Lettera. Non sarà certo possibile argomentare
ulteriormente su ciò, ma ci piace lasciare il lettore, che con tanta pazienza ci ha seguiti
fin qui, con una suggestiva eppur realistica ipotesi: la religiosità di don Milani, nei suoi
contenuti, nella sua centralità e nella sua profondità, è tutta in questo evangelismo
radicale presente sulla bocca degli ultimi della cui educazione ed evangelizzazione egli
era responsabile. Non rappresenta, questa, una soluzione, tra le tante possibili, dei
problemi e delle contraddizioni della borghesia europea di inizio secolo - e di ogni
borghesia?