Di prossima pubblicazione nella Rivista Internazionale di Filosofia e Psicologia
Giovanni Tuzet (Università Bocconi)
Andrea Lavazza (CUI)
LE MENTI NON SONO DOCUMENTI (E VICEVERSA)
Abstract
Per la teoria della documentalità gli oggetti sociali sono atti iscritti e per la teoria
della mente estesa le menti si estendono a processi o dispositivi esterni al corpo. Pur
per motivi diversi, le due teorie convergono nel ridurre le differenze fra menti e
documenti, e hanno a loro supporto la dimensione semiotica di menti e documenti;
eppure, in una certa lettura, tali teorie risultano implausibili se si considera che le
proprietà delle cose che chiamiamo “menti” non sono identiche alle proprietà delle
cose che chiamiamo “documenti” (così come, per altro verso, le proprietà degli
oggetti sociali non sono identiche alle proprietà degli atti che li costituiscono). Ciò
chiama in causa una implicita tesi comune alle due teorie, quella di un esternismo
forte che può essere messo in discussione in favore di un esternismo moderato o
interazionista.
Parole chiave
Diritto, Documentalità, Esternismo, Oggetti sociali, Ontologia sociale, Mente estesa.
1. Introduzione
Secondo la teoria della documentalità (Ferraris 2009), gli oggetti sociali sono atti
iscritti. Per questa teoria ogni oggetto sociale dipende in qualche senso da
un’iscrizione che lo costituisce e quando le iscrizioni hanno valore istituzionale sono
documenti.
Secondo la teoria della mente estesa (Clark e Chalmers 1998), le menti si estendono
anche costitutivamente a pratiche, artefatti e dispositivi quali scrittura, grafici,
taccuini, computer e telefoni cellulari. Per questa teoria le nostre interazioni
quotidiane con tali elementi eterogenei rendono del tutto inadeguata una concezione
internista e individuale del mentale.
Entrambe le teorie colgono aspetti importanti delle nostre pratiche sociali e cognitive
e del mondo contemporaneo, mostrando che ruolo primario vi svolgono artefatti e
documenti. Siamo sempre più distanti dal mondo “naturale” da cui proveniamo.
Tuttavia le pretese teoriche di tali approcci e le conclusioni che se ne possono trarre
non devono essere sovrastimate, per le ragioni che cerchiamo di esporre.
Sia da parte dei sostenitori della mente estesa sia da parte dei sostenitori della
documentalità è posto in atto un tentativo filosofico di superare i confini teorici fra
menti e documenti (e strumenti equiparabili funzionalmente a documenti). La tesi
implicita comune ai due approcci, che legittima una trattazione congiunta, sembra
essere un esternismo forte rispetto ai processi cognitivi personali e alla realtà sociale1.
La tesi di fondo può essere declinata in alcune varianti che meritano attenzione. Da
una parte, l’idea che le menti si estendano a documenti (o strumenti equiparabili
funzionalmente a documenti), o siano costituite anche da documenti. Dall’altra, la
tesi che la realtà sociale sia fatta di documenti, o sia costituita essenzialmente da
iscrizioni di atti dal valore istituzionale, così da renderne inadeguata una concezione
internista2.
I documenti di natura giuridica sembrano esemplificare in maniera interessante
queste idee, le quali, calate in un contesto giuridico, si potrebbero ricomprendere in
una più generale tesi di semiotica giuridica secondo cui, in un’accezione ampia di
“segno”3, le menti e i documenti sono entità costituite da (e funzionanti con) segni
che istituiscono un reciproco rinvio: i documenti sono segno di menti (che li
predispongono, sottoscrivono, interpretano, ecc.) e le menti sono segno di documenti
(che le formano, sostengono, estendono, ecc.).
Ora, alcune cautele e sfumature possono rendere plausibili queste idee. Ma nel loro
nocciolo si tratta di teorie che, pur illuminando una parte importante della realtà,
sembrano rivelarsi complessivamente inadeguate una volta sottoposte a un attento
scrutinio. E, a nostro avviso, nel rispondere ad alcune obiezioni hanno in comune un
aspetto critico: entrambe modificano in modo ingiustificato il significato e
l’estensione del proprio termine chiave, ossia “documento” e “mente”.
Alcuni oggetti sociali sono certamente costituiti da documenti, per altri oggetti i
documenti servono solo come prove. La prassi giuridica mostra che i documenti
hanno infatti un duplice ruolo: costitutivo e probatorio, dove l’uno non implica
necessariamente l’altro. Si fa di solito l’esempio della promessa, come atto
linguistico che genera entità sociali quali obblighi e diritti. Ma dal punto di vista
giuridico (e non solo morale) una promessa non richiede necessariamente una forma
scritta o una data forma documentale. La forma è richiesta per certi atti o certi beni
oggetto di una promessa (come un immobile), non per altri atti o beni. Una promessa
può formarsi anche senza essere documentata, sulla base della sola parola di chi
promette e dell’accettazione del soggetto cui è destinata. Se è così, come cercheremo
di argomentare, un esternismo forte non pare adeguato a rendere conto di tutte queste
dinamiche.
1
Clark e Chalmers (1998: 8 ss.) si richiamano esplicitamente a un “active externalism” per il quale l’ambiente ha un
ruolo attivo nel guidare i processi cognitivi e alcuni elementi di tale ambiente sono costitutivamente parte della mente.
Si veda nelle sezioni 3 e 4 infra una trattazione più ampia di questo tema. Sarà anche utile precisare subito che siamo
nell’ambito dell’how-externalism (Hurley 2010), distinto dal what-externalism. Il primo infatti cerca di spiegare,
ricorrendo all’ambiente, il funzionamento dei meccanismi o processi che istanziano un certo stato mentale, mentre il
secondo si concentra sul contenuto degli stati mentali facendo riferimento alla realtà esterna all’individuo, come nelle
note teorie di Putnam e Burge (cfr. Iannucci 2019). Ci riferiamo qui principalmente all’”esternismo del come”, anche se
i confini possono non essere così definiti.
2
Essere identici a documenti o essere costituiti anche da documenti sono tesi distinte, ma i proponenti dell’esternismo
non sempre sono chiari o non concordano tra loro. Ci sembra dunque plausibile discutere insieme entrambe le tesi,
come si vedrà nello svolgimento dell’argomentazione.
3
Si consideri l’accezione comprendente ciò che Peirce chiamava “icone”, “indici” e “simboli”: le prime stanno per il
proprio oggetto in virtù di una somiglianza formale, i secondi in virtù di una connessione esistenziale (come una
relazione causale) e i terzi in virtù di una convenzione. Cfr. Tiercelin 1993 ed Eco 1997.
2
Infatti, l’acquisto di un immobile richiede una serie di documenti senza i quali non
avviene alcun passaggio di proprietà; ma non è così per l’acquisto di un pacchetto di
sigarette, o di un libro, o anche di un oggetto di valore come un’opera d’arte. Però è
consigliabile documentare la compravendita di oggetti di valore, o l’esercizio di
prestazioni dal valore significativo, per averne la prova qualora sorgano controversie
a riguardo. Ancor più significativa ai nostri fini è la nascita di obblighi giuridici da
“contatto sociale”, secondo l’idea che determinate relazioni e interazioni sociali siano
sufficienti a generare obblighi e responsabilità4, senza il tramite di documenti e senza
neppure un accordo verbale. Questi esempi ci aiuteranno a ridimensionare le pretese
della teoria della documentalità, che pure ha meriti che vanno riconosciuti.
Per quanto concerne la mente estesa, certamente le nostre capacità mentali possono
essere potenziate tramite procedure e dispositivi. Ma che le nostre menti siano
(anche) tali artefatti è plausibile all’interno di un modello funzionalista, senza che
però si consideri pienamente l’elemento coscienziale-fenomenologico, quello relativo
al “che effetto fa” essere in un certo stato.
Rispetto a ciò si può considerare il noto argomento di Leibniz (o “legge di Leibniz”)
su identità e indiscernibilità. Quando Ferraris (2009: 176) afferma che la semplice
regola Oggetto = Atto Iscritto può rendere conto dell’intera realtà sociale egli sembra
impegnarsi, come sua conseguenza, all’idea che le proprietà degli oggetti siano
identiche a quelle degli atti (assumendo che l’argomento leibniziano si applichi non
solo a entità ma anche a classi di entità e proprietà). Il che non è vero e smentirebbe
la “regola” in questione. Infatti, lo stesso Ferraris chiarifica che gli oggetti sociali
sono qualcosa come il risultato di atti iscritti5. La questione può essere riformulata
circa la mente come tabula rasa che raccoglie iscrizioni (Ferraris 2009: 200), o in
modo ancor più incline all’esternismo in termini di menti e documenti. Se le menti
fossero documenti, le proprietà delle menti dovrebbero essere identiche a quelle dei
documenti, o indiscernibili da esse. Ma quando un documento (ad es. una scansione
neuronale) viene distrutto, non si distrugge al tempo stesso la mente che ne è oggetto.
E un documento che ci riguarda potrà esistere anche quando saremo morti (quando
verrà meno con noi la nostra mente).
Analogamente per la mente estesa: il nostro cellulare è un’estensione della nostra
mente? Forse è una parte di essa? Senza dubbio ci consente cose che non potremmo
fare in mancanza di esso. Ma possiamo rottamarlo e acquistarne uno nuovo, senza
con ciò gettare la nostra mente e ottenerne una nuova. Anzi, sembra essere la nostra
mente a decidere di passare a uno smartphone più evoluto. Per altro verso, il cellulare
potrebbe continuare a esistere imperturbabile dopo la nostra dipartita. Ma,
ovviamente, come vedremo, qui sono in gioco due concezioni della mente, una
processuale, che non si impegna a sottoscrivere l’idea di un’entità con confini
chiaramente identificabili, e una “perdurantista”, che vede un nucleo pur minimo
4
Sulle “obbligazioni senza prestazione” v. in particolare Castronovo 2018: 521 ss.
Cfr. Ferraris 2009: 383-384, dove si riconosce che secondo la legge di Leibniz dovremmo poter dire dell’atto iscritto
tutto ciò che possiamo dire dell’oggetto, il che non accade; qui Ferraris precisa che la relazione è piuttosto di 1)
dipendenza esistenziale (gli oggetti sociali dipendono da iscrizioni) e 2) rappresentazione (le iscrizioni rappresentano
gli oggetti).
5
3
come preminente e “in capo” ai processi estesi. Ciò non ci impegna all’internismo nel
senso classico, che non vogliamo abbracciare nel suo porre rigidi e insuperabili
confini ontologici ed epistemologici tra il soggetto e ciò che sta al di fuori di esso.
Piuttosto, proponiamo un approccio che potrebbe definirsi esternismo interazionista o
moderato, in base al quale gli individui costruiscono la mente e l’ontologia sociale
grazie a una serie di processi interattivi con l’ambiente inteso in senso ampio, senza
che nessuno dei suoi elementi sia equiparabile a una parte della mente o diventi parte
costitutiva di essa (Sterelny 2010).
Oltre queste considerazioni si pone il complesso rapporto fra menti e documenti in
quanto entità di natura segnica. Ciò vale specialmente, come dicevamo, in ambito
giuridico dove certi documenti (come le scansioni neuronali, ma anche le
dichiarazioni di una parte in un rapporto contrattuale) sono utilizzati per provare certi
stati mentali, e viceversa certi stati mentali si formano tramite il supporto di
documenti che veicolano determinati contenuti. Questa complessità di rapporti non è
da trascurare ma non deve essere confusa con l’erronea tesi di un’identità fra menti e
documenti.
In sintesi, la pretesa di questo articolo è limitata e vuole essere un invito alla cautela
teorica: il lavoro non intende dire che cosa sono le menti (specificando quale sia il
cosiddetto “marchio del mentale”) né che cosa sono i documenti. Intende piuttosto
affermare che le menti non sono documenti, e viceversa. In questo senso, la teoria
della documentalità e la teoria della mente estesa colgono reali processi in atto circa
l’individuo umano e l’ontologia sociale ma con un’inclinazione esternista forte che
non raffigura l’intero quadro degli aspetti rilevanti. Nelle sezioni 2 e 3 tratteremo
rispettivamente della teoria della documentalità e della mente estesa; nella sezione 4
concluderemo mettendo in rilievo i limiti delle due teorie e quella che ci pare esserne
una ragione comune, cioè un’assunzione di esternismo forte inadeguato a spiegare
certi aspetti della vita mentale e sociale, specialmente se consideriamo che documenti
e artefatti sono in larghissima parte prodotti intenzionali.
2. Sulla documentalità
Ferraris divide gli oggetti del mondo in tre grandi categorie: naturali, ideali e sociali.
Mentre lo status ontologico dei primi e dei secondi è indipendente dall’epistemologia,
i terzi esistono solo perché noi pensiamo che esistano (Ferraris 2009: 33). In questo
senso, Ferraris dice che la loro ontologia “è sempre subordinata a una epistemologia”
(Ferraris 2008a: 24)6.
In un lavoro in cui usa la categoria degli oggetti fisici al posto degli oggetti naturali,
Ferraris nota che “gli oggetti sociali sembrano porsi a metà strada fra la materialità
6
“La tesi secondo cui un oggetto sociale di cui si è persa qualunque memoria o registrazione non esiste si dimostra
pienamente vera; il che comprova quanto l’ontologia degli oggetti sociali sia dipendente dall’epistemologia” (Ferraris
2009: 144-145). A ben vedere è discutibile l’uso di “epistemologia” sotto questo profilo, poiché una cosa è la
costituzione e un’altra è la conoscenza di tali oggetti; ma non è di questo che vogliamo trattare. Peraltro, proprio mentre
il presente articolo veniva finalizzato è apparso Ferraris (2021), di cui non possiamo rendere conto qui.
4
degli oggetti fisici e l’immaterialità degli oggetti ideali” (Ferraris 2008a: 476) in
quanto gli oggetti fisici esistono nello spazio e nel tempo e indipendentemente da noi,
quelli ideali esistono fuori dallo spazio e dal tempo e indipendentemente da noi,
mentre quelli sociali hanno una durata temporale e un’estensione spaziale ma non
indipendentemente da noi (Ferraris 2008a: 485-486). Perché questi ultimi non sono
ontologicamente indipendenti da noi? Perché “diversamente dagli oggetti fisici e da
quelli ideali, gli oggetti sociali esistono solo nella misura in cui degli uomini pensano
che ci siano” (Ferraris 2008a: 476). Questo pare corretto. Ferraris vi associa la
preoccupazione che tale tesi venga scambiata per un volgare volontarismo: egli
intende combattere “un equivoco concettuale variamente diffuso”, che cioè “gli
oggetti sociali siano del tutto relativi, o che siano la semplice manifestazione della
volontà” (Ferraris 2008a: 476).
Non è affatto relativo che l’attuale Presidente della Repubblica italiana sia Sergio
Mattarella, sebbene dipenda da una serie di nostre credenze e assunzioni. Per altro
verso, non dobbiamo trascurare il rilievo della volontà e degli atti autoritativi nella
determinazione della realtà sociale e istituzionale. Non si tratta solo di credenze e
assunzioni di sfondo. La volontà di legislatori, giudici e funzionari di vario genere
conta e non poco nella determinazione di quegli oggetti sociali in cui consiste il
diritto assieme ad altre istituzioni. Ma facciamo un esperimento mentale (appunto,
non documentale): se tutti cessassimo di credere che Mattarella è il Presidente della
Repubblica (magari lui compreso), egli cesserebbe di esserlo – anche se in un tale
scenario si dovrebbe rendere conto dei documenti che lo designano come tale.
Potrebbe essere che Mattarella cominci a comportarsi in modi così irrituali e contrari
al suo ruolo che tutti non credano più che sia il Presidente, anche se formalmente –
documentalmente – lo sarebbe ancora. Diverso è il caso di un’amnesia collettiva
provocata da un inquinamento delle acque, di fronte alla quale i documenti delle
elezioni di Mattarella potrebbero comprovare il fatto che egli è l’attuale Presidente
della Repubblica.
Ma una spiegazione dettagliata di come Mattarella rivesta tale ruolo non può ridursi a
un insieme di credenze, pensieri o assunzioni di sfondo; deve tenere in conto il ruolo
di norme, poteri, autorità7. Altra questione delicata è capire quali e quanti siano i
soggetti i cui atteggiamenti sono decisivi per la determinazione della realtà sociale: se
tutti pensassimo che Mattarella non è il Presidente della Repubblica egli non lo
sarebbe; ma se lo pensasse solo una parte di noi? Le crisi istituzionali nascono spesso
da disaccordi di questo tipo8.
In ogni caso, l’insistere su volontà e intenzioni renderebbe il quadro incline
all’internismo. La posizione teorica sarebbe cioè quella di rendere conto della realtà
sociale sulla base di stati mentali. Dunque, una forma di mentalismo che Ferraris
mette seriamente in discussione. Ferraris (2008a: 477) osserva che un oggetto sociale
7
Per il giurista non sono sufficienti semplici credenze (su ciò che è), ma occorrono atteggiamenti di tipo normativo (su
ciò che deve essere). Come contenuto di questi atteggiamenti, norme sociali, morali e giuridiche fanno sorgere obblighi
e diritti, forme di responsabilità e di potere. Ferraris (2020) ne sostiene una teoria documentale.
8
Qualche esempio: la crisi in Venezuela nella primavera del 2019, la fallita dichiarazione di indipendenza catalana
nell’ottobre del 2017, il caos siriano che dura dal 2011. Si noti che in questi scenari molto dipende da rapporti di forza,
non da mere credenze o assunzioni, anche se, caso per caso, andrebbe accertato il peso delle diverse componenti.
5
come una promessa continua a esistere anche quando dormiamo o cambia la volontà
del promittente. Questo è certamente vero. Ma in virtù di che cosa continua a
esistere?
Il modo in cui Ferraris (2009: 161 ss.) cerca di rendere conto degli oggetti sociali è
quello di una teoria della documentalità capace di superare i limiti dell’ontologia
sociale di Searle (1995; ma vedi anche Searle 2010). In cosa consiste quest’ultima?
Nell’idea che – grosso modo – quelli sociali sono oggetti di ordine superiore rispetto
agli oggetti fisici e sono rappresentati dagli Y nella nota formula “X conta come Y in
C”, dove X è un oggetto fisico, Y è un oggetto sociale e C è il contesto di riferimento.
Nel contesto dell’Italia di oggi, un certo individuo fisicamente determinabile conta
come il Presidente della Repubblica.
Ferraris rende giustamente omaggio a Searle, in quanto è colui che più di ogni altro
ha attirato l’attenzione della filosofia contemporanea sugli aspetti della realtà
sociale9. Non va tuttavia dimenticato che importanti autori precedenti ne hanno
trattato (Durkheim, Weber, Mead per fare qualche nome) e che fra i filosofi del
diritto in particolare si sa da tempo che occorre una serie di norme o di convenzioni
affinché, ad esempio, un fatto conti come esecuzione capitale e non come omicidio, o
i movimenti corporei di un insieme di individui valgano come un voto dell’assemblea
legislativa (Kelsen 1934: 50-51 ed. it.).
Uno dei problemi della teoria di Searle (rilevato da Barry Smith)10 è costituito dalle
entità Y indipendenti, cioè da quegli oggetti sociali che non hanno un (preciso)
supporto fisico. Il quadro teorico di Searle non sembra in grado di renderne conto.
Smith li intende in termini di “rappresentazioni” (come una scacchiera pensata da
giocatori sufficientemente abili, senza che ci debba essere una scacchiera fisica).
Ferraris ribatte che qualcosa di fisico deve pur esistere, e a questo riguardo fa
l’esempio del denaro e dei debiti o crediti registrati in qualche documento: “è difficile
– anzi, francamente impossibile – sostenere che, nel caso del denaro trasformato in
tracce sul computer, ci siano solo rappresentazioni e non qualcosa di fisico che le
sostiene, sebbene con una fisicità non imponente” (Ferraris 2008a: 483). Se è falso
che un oggetto sociale dipende da un particolare supporto fisico, ma è vero che ogni
oggetto sociale dipende genericamente da un qualche supporto fisico (un’iscrizione
di qualche sorta), allora si può mantenere la critica alla posizione di Searle ma evitare
la conclusione di Smith (Ferraris 2009: 178). Ne segue la documentalità. “Gli oggetti
sociali sono il risultato di atti sociali registrati, anche semplicemente nella testa delle
persone”; “non tutte le iscrizioni sono dei documenti, ma non c’è iscrizione che, in
una certa condizione e acquisito un determinato potere sociale, non possa diventarlo”
9
Searle sostiene che tutti gli oggetti sociali e i fatti istituzionali sono prodotti dalla stessa operazione logica: la
creazione di una realtà che viene rappresentata come esistente. Con una semplice dichiarazione stipulativa, che discende
dalla concordanza di intenzionalità mentale degli individui, facciamo sì che esista la funzione di status Y, la quale
impone funzioni a oggetti e persone quando la semplice costituzione fisica non basterebbe all’oggetto in questione per
svolgere quella funzione, che deve essere riconosciuta collettivamente. Così, una banconota, grazie alla funzione di
status, diventa il denaro che tutti accettano come pagamento di beni o servizi; un semplice muretto può segnare un
confine tra Stati, varcare il quale può avere enormi implicazioni politiche e militari; una registrazione può fare nascere
una corporation come persona giuridica, laddove esistono solo edifici e singoli individui.
10
Cfr. Smith e Searle 2003, Ferraris 2009: 174-176 e Ferraris 2012: 80 ss. Per una mappa analitica delle questioni v.
Torrengo 2009.
6
(Ferraris 2009: 181, 183). Se un documento è un’“iscrizione con valore istituzionale”
è il contesto sociale a determinare – magari con regole – quando un’iscrizione è un
documento in senso proprio (Ferraris 2009: 280, 282-283).
Così Ferraris riformula lo slogan derridiano (“Nulla esiste al di fuori del testo”) nella
tesi della documentalità: “Nulla di sociale esiste al di fuori del testo”11. Falso è dire in
generale che nulla esiste al di fuori del testo, o fuori dal testo; vero è dirlo degli
oggetti sociali, secondo Ferraris. Ma qui vengono al pettine alcuni nodi. Ferraris dice,
come segnalato all’inizio, che gli oggetti sociali sono atti iscritti (cfr. Ferraris 2008a:
485; 2009: 131-132; 2012: 75).
Gli oggetti sociali conseguono dalla registrazione di atti che coinvolgono
almeno due persone e che sono caratterizzati dal fatto di essere iscritti su un
supporto fisico qualunque, dal marmo ai neuroni, passando per la carta e
andando oltre, nel mondo del web. La mia tesi è che con questa semplice regola
[Oggetto = Atto Iscritto] si può render conto della intera realtà sociale (Ferraris
2009: 176).
Preso alla lettera, sembra che questo modo di intendere la questione suggerisca
un’identità fra atti e oggetti. Ma se così fosse si tratterebbe di un errore categoriale,
palesato dal fatto che le proprietà di un oggetto sociale sono diverse da quelle del
relativo atto. Si consideri che un atto come la composizione di una poesia ha
coordinate spaziotemporali che non coincidono con quelle del relativo oggetto, la
poesia, la quale sussiste al di là di esse12. Plausibilmente, non è questo il punto di
Ferraris, e se intendessimo la sua tesi in questo modo costruiremmo un bersaglio ad
hoc. Quella che Ferraris chiama “legge costitutiva degli oggetti sociali”, cioè Oggetto
= Atto Iscritto, è suscettibile di letture diverse che vanno infatti distinte. Vediamone
alcune. Se tale “legge” volesse dire che un oggetto sociale è identico all’atto che lo
ha iscritto, diremmo che una poesia è identica all’atto di comporla, e questo è
chiaramente falso. Se volesse dire che un oggetto sociale è identico all’atto che viene
iscritto, la tesi sarebbe di nuovo falsa, poiché non è vero che il contenuto di una
poesia consista sempre in un atto. Plausibilmente Ferraris vuole dire altro. Infatti, in
alcuni suoi passaggi si trova la tesi più plausibile che un oggetto sociale è qualcosa
come il “risultato”, o il prodotto, di un atto sociale (Ferraris 2009: 181; 2012: 75).
Però, almeno in qualche misura, Ferraris pare confondere gli aspetti costitutivi di atti
e oggetti sociali e i loro aspetti probatori. Chi ha una sufficiente dimestichezza con
gli atti giuridici sa che per certuni è richiesta la forma scritta e per altri questa forma è
solo consigliata, non tanto perché senza di essa l’atto non potrebbe costituirsi quanto
per la necessità di provarlo con maggiore sicurezza13. Come già anticipato nella
11
Ferraris 2012: 82, la cui tesi è distinta anche da quella di Searle formulata come “Nulla di sociale esiste al di fuori
della testa”. Cfr. Ferraris 2009: 132, 153 ss.
12
Con questo esempio assumiamo, ma non discutiamo, la socialità dell’arte.
13
Nella letteratura giuridica sulla prova documentale si trovano in realtà delle definizioni molto ampie di “documento”,
per cui è tale ogni cosa rappresentativa del thema probandum (Denti 1988 e Caminiti 2005) od ogni cosa che consente
la formulazione di un giudizio circa l’esistenza di un fatto (Patti 1996), anche a prescindere dalla forma scritta; ma
queste definizioni non dimenticano la differenza fra il documento richiesto ad substantiam e quello ad probationem.
7
nostra introduzione, l’acquisto di un immobile richiede una forma scritta e una serie
di documenti senza i quali l’atto non sussiste e il bene non si trasferisce legalmente
da un soggetto a un altro. Per altri beni non è necessaria una forma scritta ma è
consigliabile a fini probatori; si pensi al trasferimento di un quadro di valore e alla
quietanza con cui il venditore libera il compratore dichiarando di aver ricevuto il
prezzo del bene. Per altri beni, di modesto valore, non è necessaria una forma scritta
ed è antieconomico preoccuparsi di documentare l’accaduto; se per ogni copia di
giornale od ogni pacchetto di sigarette dovessimo documentare in forma scritta il
trasferimento di titolarità le relative transazioni diventerebbero oltremodo onerose14.
Insomma, non tutti i contratti richiedono una forma scritta. Non tutte le forme di
diritto la richiedono (si pensi al diritto consuetudinario, o agli obblighi nascenti da
“contatto sociale”). E non tutte le norme la richiedono (si pensi alle norme morali).
Sulla scorta dei suoi lavori Ferraris potrebbe replicare che sono comunque necessarie
delle “iscrizioni”, per lo meno nella testa delle persone che hanno a che fare con tali
atti e oggetti. Dice infatti che “gli oggetti sociali sono atti sociali (tali che avvengano
almeno tra due persone) caratterizzati dal fatto di essere iscritti, su un documento, in
un file di computer, o anche semplicemente nella testa delle persone” (Ferraris
2008a: 485; cfr. Torrengo 2009: 175-176)15. Ferraris sostiene altresì che ci sono atti
taciti, o “atti muti”, ma che questi comportano delle iscrizioni (mentali) e che “l’atto
iscritto non è identico all’oggetto; piuttosto, lo identifica (e lo rende reidentificabile)”
(Ferraris 2009: 189, 190).
Senza iscrizioni non ci potrebbe essere memoria di tali oggetti16. Questo è vero, ma
se i “documenti” e le “iscrizioni” hanno un senso così ampio, comprendono ogni
forma di linguaggio e di pensiero. Un uso così ampio dei termini “documento” e
“iscrizione” può risultare problematico, se non permette di distinguere adeguatamente
fra cose diverse come contratti scritti, accordi verbali, consuetudini, obblighi da
“contatto sociale” e altro ancora. I termini “documento” e “iscrizione”, quando non si
riferiscono a qualcosa di scritto ma sono presi nel senso così ampio che Ferraris
conferisce loro, servono certamente a costruire una teoria omnicomprensiva.
Rischiano però di diventare eccessivamente generici e persino fuorvianti17. Anche in
14
La considerazione riguarda le parti coinvolte; altro discorso è quello fiscale, che per ovvie ragioni richiede una
maggiore documentalità.
15
Ovviamente, andrebbe specificato come gli atti sociali si iscrivano nella testa delle persone. Non si tratta soltanto di
un tema neurobiologico (pur rilevante, dato che di una traccia mnestica sappiamo molto meno della distribuzione
dell’inchiostro su un foglio di carta), ma anche di un tema filosoficamente delicato e per nulla scontato, come si vedrà
nella sezione dedicata alla mente estesa.
16
Sembra valere ciò che si è detto alla nota precedente. Non si può trascurare il fatto che la memoria individuale, priva
di supporti esterni, è un contenitore instabile e continuamente riscritto, sensibile a mutamenti fisiologici e
condizionamenti ambientali.
17
Analogamente per la nozione di “traccia”: “la stessa mente (in quanto funzione capace di riconoscere le tracce in
quanto tali) è costituita di tracce”; però “non ci sono tracce in sé, ma solo per menti (anche animali) capaci di
riconoscerle” e le tracce non sono meri oggetti fisici, poiché “la mente è composta di tracce” (Ferraris 2009: 251, 253).
Non si capisce bene quale sia l’ordine esplicativo, se le menti dipendano da tracce o viceversa. O meglio: pare di capire
che in senso genetico vengano prima le tracce, poi le registrazioni come tracce che si depongono nella nostra mente in
quanto tabula rasa, quindi le iscrizioni come registrazioni accessibili ad almeno due persone (Ferraris 2009: 200),
quindi i documenti come iscrizioni istituzionali; ma in che rapporti stiano tutte queste cose con la mente è difficile da
precisare.
8
considerazione del fatto che possediamo già termini come “pensiero” e “linguaggio”
e il più generale termine “segno”.
Proprio l’esempio del diritto e delle pratiche normative può far dubitare della tesi
secondo cui “una qualche forma di iscrizione” (Ferraris 2008b: 255) è condizione
necessaria delle entità sociali. Cosa dire del diritto non scritto? E di un gioco come il
nascondino? La “tana” esiste se è scritta da qualche parte o suscettibile di esserlo?
Forse, proprio con Searle, si dovrebbe dire che la condizione cruciale è il linguaggio
o una forma di intenzionalità, non la scrittura o la documentalità. Oppure, come
suggeriamo, si potrebbe adottare un esternismo moderato secondo cui processi
mentali interni concorrono a generare atti e oggetti sociali la cui identificazione,
tuttavia, viene operata essenzialmente tramite segni esterni. Se è vero che la nostra
Costituzione del 1948 è scritta, è altrettanto vero che il Regno Unito ha una
costituzione non scritta basata su assunzioni etico-politiche, prassi e precedenti di
vario tipo. Se è vero che alcuni contratti devono essere documentati in forma scritta, è
pur vero che altri contratti non hanno la necessità di esserlo. Certi atti di diritto
societario richiedono date forme, altri no. E così via. Le forme o segni esterni sono
essenziali per l’identificazione degli oggetti sociali, e talora si rivelano cruciali a fini
probatori; ma ciò non toglie che i processi mentali dei soggetti coinvolti (costituenti,
legislatori, giudici, azionisti, venditori, ecc.) siano parte di ciò che genera tali oggetti
e siano talvolta sufficienti alla loro costituzione.
3. Sulla mente estesa
Che a caratterizzarci non sia solo la capacità interna di ritenere ricordi è un dato che
tutte le scienze dell’uomo cominciano a riconoscere. In una società della memoria
esterna, in cui la conoscenza è in larga parte depositata su supporti da noi creati,
anche parte della filosofia prova a riconsiderare l’approccio internista, il cosiddetto
“cranialismo”, secondo il quale tutto ha origine e si svolge nel nostro cervello. La
teoria che con più forza si muove in questa direzione è quella della “mente estesa”18.
[Il modello della mente estesa] non considera [i fenomeni mentali] come relegati
all’interno dei confini del sistema nervoso centrale e del corpo, ma, al contrario,
afferma che a) in certi casi, aspetti dell’ambiente esterno all’organismo possono
fungere da veicoli attivi dei processi cognitivi e b) in tali casi i veicoli esterni
devono essere considerati come parte della mente degli agenti cognitivi.
[Il modello della mente estesa] è innanzi tutto una teoria sulla cognizione umana,
che difende l’esistenza di veicoli esterni del pensiero; poi una teoria sulla mente
umana, che ne propone l’estensione nel mondo; infine, una teoria sulla natura
umana, che afferma che tutti noi siamo cyborg naturali, un impasto evolutivo di
biologico e artificiale (Di Francesco e Piredda 2011: 236).
18
9
Si riprende qui una trattazione svolta in (nota anonimizzata per la revisione cieca).
Secondo Andy Clark e David Chalmers (1998), le credenze possono formarsi almeno
in parte grazie a caratteristiche ambientali, nel caso tali caratteristiche svolgano un
ruolo del tipo giusto nel guidare i processi cognitivi19. L’esempio che propongono
riguarda le vicende di due personaggi, Inga e Otto. La prima è una giovane sana e
normale, che apprende di una mostra al museo d’arte moderna. Le sembra
interessante e decide di visitarla. Pensando alla mostra, al museo e alla decisione di
recarvisi, le viene alla mente che il museo si trova nella piazza del municipio e quindi
là si dirige. Inga crede che il museo sia a quell’indirizzo e intratteneva tale credenza
anche prima di recuperare il dato dalla sua memoria semantica20. La convinzione era
latente, non cosciente, depositata nei ricordi e pronta a essere richiamata.
Otto, invece, è un anziano malato di Alzheimer, che non può affidarsi alla propria
memoria e deve quindi fare affidamento sulle informazioni che gli provengono
dall’ambiente. Nello specifico, annota su un quaderno tutti i dati che ritiene potranno
essergli utili in futuro. E negli appunti cerca le informazioni nello stesso modo –
affermano Clark e Chalmers – in cui Inga le cerca nella memoria. Quando Otto viene
a sapere della mostra, consulta il quaderno, trova che il museo è nella piazza del
municipio e là si reca. A parere degli autori, Otto aveva la convinzione che la mostra
fosse a quell’indirizzo anche prima di verificare il dato sul proprio taccuino. Se così
è, i due casi sono analoghi, in quanto il quaderno gioca lo stesso ruolo della memoria
semantica interna. Il dato scritto su un supporto esterno funzionerebbe come un’informazione che costituisce una convinzione latente, non presente alla mente
cosciente.
Quello che qui interessa è la plausibilità di tale ricostruzione per quanto riguarda la
memoria interna e quella esterna (ovvero la distinzione tra mente e documento),
anche in funzione del loro diverso utilizzo e delle eventuali modificazioni della
prima21. Se le dinamiche esplicativo-causali sono analoghe, Inga e Otto nel loro
recarsi al museo sono mossi da desideri, convinzioni e credenze simili; non sembra
che accada lo stesso, però, per il ricordo del luogo in cui si trova il museo. Non pare
equiparabile ciò che risiede nella memoria interna con l’informazione depositata su
un supporto esterno. E non si tratta soltanto di autorità epistemica, perché certo ci si
può sbagliare anche nel ricordare una circostanza, così come si può leggere male il
quaderno o imbattersi in un errore di stampa nello stradario che si consulta.
Il punto è che la tesi di Clark e Chalmers sembra implicare un soggetto diviso in
compartimenti non comunicanti, in cui la memoria equivale alla scheda di un
computer, che può essere inserita o rimossa, mentre l’io di Inga (se così ci si può
esprimere) che ha convinzioni attuali o latenti risulta un’altra entità distinta, che può
19
Spunti simili si trovano nella tradizione pragmatista. Vedi ad es. Dewey 1916: 13-14 (cfr. in italiano Dewey 2008) e
Vaesen 2014 (sulla “cognizione estesa” in Dewey). V. anche Tiercelin 1993 (su Peirce), nonché De Waal 2001: 83-84 e
2002: 62-69 (rispettivamente su Peirce e Mead).
20
Per memoria semantica si intende la memoria relativa alle informazioni “oggettive”, del tipo: Parigi è la capitale della
Francia; le Torri gemelle di New York furono abbattute l’11 settembre 2001. È distinta dalla memoria autobiografica
non solo per contenuto, ma anche per strutture cerebrali coinvolte.
21
Per un approfondimento della teoria della mente estesa, si vedano Menary (2010) e Di Francesco e Piredda (2012).
Per una critica incentrata sull’integrazione informazionale delle credenze, cfr. Weiskopf (2008).
10
prescindere dalla propria memoria. Infatti, se Inga non differisce in nulla di
sostanziale da Otto nel processo cognitivo che la porta al museo, allora avere o meno
una memoria biologica interna non fa differenza e, quindi, tale memoria è qualcosa di
separato dall’io che ha pensieri, desideri, credenze e scopi.
Vi è poi il tema della caratterizzazione in prima e terza persona dei ricordi (o delle
iscrizioni, per restare nei termini della documentalità). Qui si parla di credenze, ma
basate sulla memoria, e la memoria, anche quella dichiarativa immagazzinata nel
cervello, ha una sua tipicità e coloritura, che influenza le credenze che su di essa si
basano, caratteristiche assenti in un’informazione neutra appresa per la prima volta da
un supporto esterno. Se Otto è un alzheimeriano con gravi deficit mnemonici, ciò che
legge sul quaderno per lui ogni volta è “nuovo”, quindi non gli sono accessibili la
tipicità e la coloritura legate a un ricordo riattivato, caratteristiche che mettono in
azione una rete di connessioni nella memoria biologica.
Per esempio, la nota teoria di Antonio Damasio sostiene che il sé e tutto il suo
funzionamento “normale” sono connessi in una ricorsività di stati fisiologici di base e
che i processi decisionali risultano condizionati dalle risposte somatiche emotive
utilizzate dal soggetto come marcatori che lo orientano nel mondo, funzionando come
uno strumento automatico per la selezione di opzioni (Damasio 1995). Il ricordo
interno è quindi biologicamente fondamentale anche per il dispiegarsi delle credenze,
se queste ultime devono essere motivanti e avere un ruolo nella cognizione, come
accade nell’esempio del museo.
Clark e Chalmers insistono sul fatto che ciò che rende un’informazione valida come
credenza è il ruolo che svolge, ma l’informazione – il ricordo – contenuta nel
cervello, e per questo riattivata con una coloritura emotiva peculiare e personale, può
svolgere un ruolo diverso rispetto a un’informazione letta per la prima volta su un
quaderno. Per esempio, Inga potrebbe sviluppare un grande desiderio di visitare la
mostra, ma poi ricordarsi che in quel museo ha cominciato a incrinarsi la storia
d’amore con il suo ex fidanzato e quindi provare un’ambivalenza tra la passione per
l’arte e il timore di rivivere un grande dispiacere. Al punto che, avviatasi per
raggiungere il museo ma inconsciamente combattuta, non s’accorga della fermata
della metropolitana alla quale doveva scendere, arrivando alla mostra dopo l’orario di
chiusura.
La proposta di Clark e Chalmers è che Otto e il suo quaderno siano un sistema
cognitivo unitario e che il flusso informativo sia simile, dato che se Otto può smarrire
il quaderno e dunque non avere accesso alla memoria, anche Inga può essere ubriaca
o dormire e, quindi, non ricordare bene. Resta il fatto che la memoria biologica
appare diversa da strumenti ausiliari, perché averla “fa un certo effetto”, come in
generale tutti i contenuti di coscienza hanno una componente fenomenologica che li
caratterizza, secondo l’influente proposta di Nagel, secondo il quale, notoriamente,
non potremo mai sapere com’è essere un pipistrello che si orienta tramite
ecolocalizzazione (Nagel 1974).
Clark ha tuttavia risposto a queste obiezioni e ha ulteriormente precisato che “perché
si possa parlare di estensione cognitiva basta che il processo veicolato col contributo
del supporto esterno soddisfi uno dei ruoli funzionali ‘a trama grossa’ individuati
11
dalla psicologia di senso comune” (Clark 2008: 98; trad. nostra). Così, pur
ammettendo che il processo di recupero delle informazioni di Otto e Inga è differente,
ciò non impedirebbe che, una volta acquisita, l’informazione sul taccuino guidi
ragionamento e comportamento di Otto in modo simile a quanto avviene con Inga.
La concezione di Clark e Chalmers è ispirata a quello che chiamano principio di
parità in linea con il funzionalismo in filosofia della mente. In questa prospettiva, ciò
che distingue elementi diversi è il loro ruolo causale. Se, dunque, la memoria di Inga
e il taccuino di Otto svolgono lo stesso ruolo nei processi mentali/cognitivi, pur
avendo basi fisiche differenti, allora entrambi sono assimilabili come parte del
processo mentale/cognitivo22. Ma gli aspetti fenomenologici, come si è visto, non
sono facilmente trascurabili, se si vuole dare una ricostruzione plausibile di come
“funziona” la nostra mente, almeno nella maggior parte dei casi.
Si consideri inoltre un esempio presentato da Marconi (2005), quello di una
studentessa pigra A che si fa fare le versioni dal latino da un traduttore automatico e
una studentessa B che si fa fare le traduzioni dal padre latinista: quante menti ci sono
nel secondo caso? Due o una sola? E ci sono più menti nello stesso contesto
spaziotemporale? La concezione della mente estesa incorre in paradossi come
questo23. Semmai, secondo Paternoster (2010: 219), si può parlare di processi estesi,
“dove un processo esteso è composto dalla mente di una persona (o, eventualmente,
di più persone) e da risorse esterne condivise; ma ciascuna mente resta ben ancorata
al cervello o corpo che la ospita”.
A questo tipo di critica – che parrebbe implicare che tutto ciò che è stato registrato in
qualsiasi forma in qualsiasi documento contribuisce a comporre le credenze
disposizionali dei futuri utilizzatori di quei supporti informativi (che diverrebbero
parti delle loro menti) – Clark e Chalmers (1998: 17) rispondono indicando tre criteri
per operare una discriminazione, seppure non totale. Si tratta della fiducia che si
ripone nei documenti, dal grado di dipendenza del soggetto da essi e della
accessibilità che il soggetto ha nei confronti di questi ultimi.
Altre importanti obiezioni sono tuttavia state mosse alla teoria della mente estesa.
Una delle più rilevanti è quella di Adams e Aizawa (2001, 2008, 2010). I due studiosi
sostengono che vi è una fallacia alla base della teoria, precisamente la fallacia
dell’accoppiamento-costituzione, secondo la quale non basta affermare che un
oggetto è connesso a un agente cognitivo per affermare che l’oggetto stesso è una
parte del processo cognitivo. Servirebbe una diversa forma di giustificazione per
postulare tale tesi ontologica. D’altra parte, a loro parere, il mentale ha un suo
marchio specifico nella condizione di contenuto intrinseco, cioè intenzionale e non
derivato, cosa che sembra solo la mente di esseri viventi possegga attualmente.
Inoltre, tornando al nostro focus principale, delle menti predichiamo cose che non
predichiamo dei documenti, e viceversa. La cosa è palese quando pensiamo a
situazioni problematiche o patologiche. Se un documento elettronico non si apre più è
perché una parte della mente del suo possessore è andata in tilt? E se il possessore di
un taccuino cambia idea su certe cose anche il taccuino cambia? In molti sensi, si può
22
23
Per un’introduzione al funzionalismo e ai concetti base della filosofia della mente, vedi Lavazza 2015.
Altre robuste critiche alla nozione di mente estesa si possono trovare in Paternoster 2010: 217-220.
12
rispondere di no. Analogamente per i dispositivi: abbiamo davvero una limitazione
della nostra mente quando si rompe il cellulare? E se abbiamo idee nuove, si aggiorna
anche lo smartphone? Questo tipo di obiezioni può tuttavia essere affrontato dai
sostenitori della teoria della mente estesa in una prospettiva sistemica. La “mente
estesa” è un insieme interconnesso di moduli in cui conta la prestazione cognitiva
complessiva. Al venire meno di un modulo, sia esso interno o esterno, peggiora tale
prestazione. Se subiamo un micro-ictus che ci causa un’anomia specifica
(l’incapacità di nominare una categoria di oggetti), perdiamo una funzione così come
senza il cellulare con la specifica “app” di riconoscimento non sappiamo identificare
tutti i fiori e le piante che incontriamo in un ambiente naturale.
Vanno in questa direzione le critiche-integrazioni alla teoria avanzate da Sutton
(2010) e Menary (2010). Sutton propone un principio di complementarietà per il
quale l’ambiente nel suo complesso dà un contributo indispensabile ai processi
cognitivi senza però affermare che un singolo artefatto pensi. Si tratta di prendere atto
che il cervello, una parte che rimane unica e distinta nel sistema esteso, ha
costantemente bisogno di contributi esterni per il suo consueto funzionamento. A
parere di Menary, invece, tra cervello e supporti ambientali vi è una integrazione
cognitiva in cui si dà rilievo alla capacità di un soggetto cognitivo embodied di
sfruttare l’ambiente.
Né può essere escluso che in futuro la tecnologia giunga a tal punto di integrazione
fra menti da una parte e dispositivi e documenti dall’altra da rendere il tutto
omogeneo, con passaggi talmente fluidi fra tali cose da rendere insignificanti le
differenze fra basi cerebrali e altri fattori. Ma è interessante notare che anche in
questo modo le cose potrebbero non essere così semplici, salvo ignorare
deliberatamente la componente fenomenologica. Infatti, se diventeremo cyborg con
microchip in silicio collegati con le nostre cellule nervose viventi, si darà comunque
un dilemma teorico legato alla coscienza fenomenica. Nel caso i microchip non siano
in grado di implementare la coscienza, avremo una perdita di coscienza o una sua
diluizione (cfr. Schneider 2020). Ma anche nel caso siano capaci di farlo (cosa che
attualmente non si vede come sia possibile), i microchip potenzieranno processi
computazionali che non saranno necessariamente omogenei alle proprietà fino a quel
momento tipiche del nostro io. Pertanto, l’integrazione tra mente da una parte e
dispositivi e documenti dall’altra potrebbe finire con il mutare il nostro io. Infatti,
posto che è difficile persino stabilire quale siano le nostre proprietà tipiche e
identificative, è assai improbabile che dispositivi e documenti le possano mimare
perfettamente.
La questione generale sulla plausibilità del modello della mente estesa inteso in senso
stretto rimane quindi ampiamente aperta. Per ciò che è qui centrale, ovvero il tema
più circoscritto legato ai ricordi e alla loro istanziazione anche documentale, ha
particolare rilevanza la differenza che riteniamo difendibile tra supporti esterni e
processi interni, sebbene anche su questo punto si stia registrando un certo stallo tra
posizioni, provocando l’invito a un superamento anche della dicotomia esternointerno (Loughlin e Zahidi 2017).
13
In ogni caso, sottolineare la specificità e l’importanza della memoria biologicopersonale non implica direttamente una prospettiva di riduzionismo fisicalistico,
secondo la quale si dà una perfetta identità fra mente e cervello e con il
funzionamento di neuroni e sinapsi si spiega tutto quello che riguarda l’essere umano.
Uno spazio autonomo del mentale, non coincidente con il cerebrale, è legato al
soggetto individuale, pur in rapporto con il mondo, i cui primi confini sono costituiti
dal corpo.
Se esiste una tendenza a equiparare specifici artefatti alla memoria cerebrale, l’idea di
una memoria che risiede in una “scrittura” intersoggettiva, condivisa e pubblicamente
“consultabile”, rientra nel più generale passaggio a una memoria esterna come
preminente su quella individuale e biologica. Infatti, per Ferraris (2009: 200, 251253), anche la mente è una tabula che raccoglie iscrizioni. Sotto il profilo di una
teoria della mente, l’ontologia sociale è fondata dall’iconologia, la dottrina della
traccia. Percezioni e pensieri si presentano come iscrizioni nella nostra mente. Ma la
mente non è solo una tavola iscritta: è anche capace di cogliere le iscrizioni, le tracce
che si trovano nel mondo come sul foglio che ci sta davanti. Si produce in questo
modo una gerarchia ascendente: le tracce (ogni incisione su uno sfondo), le
registrazioni (le tracce della mente come tabula), le iscrizioni in senso tecnico (le
tracce in quanto accessibili ad almeno due persone) e i documenti (le iscrizioni
istituzionali).
Da questa prospettiva, la memoria rilevante è quella esterna e pubblica, sebbene pure
quella conservata nella mente dal singolo individuo svolga un ruolo per la
documentalità. Ma, se qualcuno perdesse i propri ricordi (come avviene con le
amnesie), potrebbe rientrare nel mondo sociale accedendo ai documenti che ha
sottoscritto in varia forma durante la sua esistenza, che continuano a permanere e a
impegnarlo. La consapevolezza di tali documenti potrebbe tuttavia essere diversa
rispetto al passato: egli potrebbe sentirli come estranei, senza avere la facoltà di
rinnegarli, avvertendo così uno iato tra la dimensione legale e la dimensione
personale. Nella prospettiva della documentalità, c’è una memoria condivisa e
distribuita a cui ognuno può contribuire e da cui ognuno può attingere, ma la
fruizione e il valore dei documenti sembra dipendere anche dai meccanismi interni
dell’individuo.
Resta, però, il problema non facilmente aggirabile delle diverse ontologie che sono
implicate nella prospettiva della mente estesa (e della documentalità) a fronte di un
modello più “realistico” che pur non rigettando il funzionalismo ammetta il ruolo
della coscienza fenomenica con la sua conseguente fenomenologia personale (cfr.
Miyazono 2017). La teoria della mente estesa infatti è imperniata su un
funzionalismo processuale che tende a escludere gli aspetti coscienziali. Ciò che
distingue i ricordi di Inga e Otto, secondo quanto abbiamo evidenziato in
contrapposizione alla lettura di Clark e Chalmers, impedisce infatti alla prospettiva
documentalista di saturare l’ambito del mentale per come si manifesta nelle vite, e
quindi anche nelle interazioni sociali, delle persone all’interno del loro ambiente.
Questo ci riporta al grado di esternismo che teoria della documentalità e teoria della
mente estesa condividono, un grado forte, a nostro parere, che potrebbe essere
14
utilmente mitigato. Ciò significa, da una parte, riconoscere il decisivo ruolo, anche
trasformativo, dei supporti esterni per i nostri processi cognitivi; dall’altra parte,
tuttavia, implica il non negare una specificità delle componenti interne della mente e
della cognizione e la non esaustività dei documenti in quanto tali sia per il mentale
sia per l’ontologia sociale.
Gli stessi sostenitori dell’internismo nella dimensione dell’intenzionalità fenomenica
(Horgan e Kriegel 2008) ammettono che stati esterni possano fare parte della mente a
patto che siano collegati con la giusta relazione a stati mentali che sono interni in
quanto stati fenomenicamente coscienti, soggettivi e intrinseci, cioè non
costitutivamente dipendenti da ciò che accade fuori della testa.
4. Conclusione
L’invito alla cautela teorica formulato in questo lavoro tiene alla distinzione fra
diversi aspetti della vita mentale e sociale. Non è corretto equiparare le menti a
documenti, né viceversa equiparare i documenti a stati mentali.
Se vengono meno i due soggetti fra i quali vi è appena stata una promessa e la
promessa ha avuto solo carattere verbale, non ne rimane davvero nulla. Mentre ne
rimane qualcosa se l’hanno trascritta o registrata su un supporto che non sia la loro
mente. Questo da un lato conferma l’importanza dei documenti, dall’altro mostra che
ci possono essere enti sociali che scompaiono irrimediabilmente una volta venute
meno le menti che li hanno posti in atto. Se viene meno il promissario senza che ci
siano documenti o testimoni, il promittente potrebbe avvertire un dovere morale di
adempiere a favore degli eredi o successori del promissario. Ma se non avesse tale
scrupolo morale, nessuno avrebbe modo di far valere la promessa.
La teoria della documentalità sembra trascurare la differenza fra la funzione
costitutiva e la funzione probatoria dei documenti ed estende in modo
apparentemente indebito la semantica di “documenti” e “iscrizioni”. In diritto, come
abbiamo rilevato, i documenti scritti servono a volte ad substantiam, a volte solo ad
probationem. Sono prove di qualcosa di mentale che non ne necessita per esistere. A
meno di non modificare la nostra comprensione e il nostro uso di termini come
“documento” e “iscrizione” (forse è quello che Ferraris suggerisce di fare) il mentale
non è riducibile a un insieme di iscrizioni o a quanto può essere documentato. Nel
nostro uso linguistico e concettuale, le menti non sono documenti e viceversa i
documenti non sono menti.
La teoria di Ferraris converge con una possibile interpretazione della mente estesa per
cui le menti sono documenti. Infatti, da questo punto di vista, Ferraris è annoverabile
tra i testualisti, non tra i mentalisti24. Però è vero che entrambe le cose funzionano
con segni, nell’accezione ampia di “segno” utilizzata sopra. Questo è ovvio per i
documenti, che sono segno di qualcosa (come una foto del proprio oggetto) o sono
24
A essere in favore del mentalismo o intenzionalismo (e dunque per una possibile riduzione dei documenti e degli
oggetti sociali ad atti e contenuti mentali) sono altri teorici dell’ontologia sociale come Searle e Smith. Cfr. Ferraris
2005 per una categorizzazione parzialmente diversa, fra forme di testualismo e realismo.
15
fatti di segni (come un contratto scritto). Non meno ovvio per le menti, che
funzionano con segni di vario tipo fra cui immagini mentali e simboli linguistici25.
Che però menti e documenti appartengano a una stessa categoria (“cose che
funzionano con segni”) non significa che siano la stessa cosa. Sarebbe una fallacia
sostenere il contrario, come sostenere che uomini e astronavi sono la stessa cosa
perché appartengono a una stessa categoria (“cose che consumano energia”).
Ma non esisterebbero più documenti se non ci fossero più menti. Supponiamo di
scomparire, di estinguerci tutti. Rimarrebbero i nostri documenti? Resterebbero dei
pezzi di carta, dei supporti e delle tracce di qualche tipo. Ma non dei documenti se
non ci fossero menti capaci di intenderli. Questo semplicemente perché i documenti
sono oggetti sociali e in gran parte sono prodotti intenzionali (alcuni documenti
possono risultare tali anche se non nascono con un’intenzione, come una foto scattata
inavvertitamente).
La stessa idea di mente estesa non sembra sufficiente ad avvalorare l’idea che le
menti siano un tipo di documento, perché tende a sottovalutare in larga misura la
componente fenomenologica della nostra vita mentale che, come abbiamo tentato di
mostrare, è parte essenziale non solo della nostra esperienza interiore ma anche delle
nostre motivazioni al comportamento. In questo senso, pur riconoscendo l’utilità
euristica della teoria della documentalità, capace di unificare molti fenomeni sociali
in un’unica cornice teorica ed esplicativa, è importante evidenziare le importanti
differenze che rimangono tra menti e documenti, sia dal punto di vista strettamente
teoretico sia dal punto di vista pratico. L’ambito giuridico, come argomentato in
questo articolo, ne può costituire un esempio paradigmatico.
L’esternismo forte che caratterizza sia la teoria della documentalità sia la teoria della
mente estesa sembra quindi implicare una tesi ontologica oltre che una condivisibile
tesi epistemologica. Quest’ultima afferma che l’ambiente è necessario a spiegare e
comprendere la mente, i processi cognitivi e l’ontologia sociale che da essi si genera.
E pare certamente plausibile, sia a livello teorico sia sulla base dei dati empirici, che
non sia possibile prescindere dalla considerazione dei supporti esterni per
decodificare il nostro funzionamento mentale e sociale. D’altra parte, sostenere che i
supporti esterni costituiscano o siano parte consustanziale della mente e dei processi
cognitivi non solo è più impegnativo e controintuitivo, ma sembra che comporti una
descrizione del sistema cognitivo umano incompleta e inaccurata, come abbiamo
cercato di argomentare.
Una posizione intermedia, se così si può dire, e forse più adeguata viene, per
esempio, da Sterelny (2010), il quale parla di scaffolded mind, cioè di una mente
sostenuta dall’intera nicchia che essa stessa si costruisce nel tempo, adattando
l’ambiente alle proprie esigenze. In realtà, il processo è bi-direzionale, con un’azione
della mente sull’ambiente e un’influenza dell’ambiente sulla mente. L’interesse della
proposta di Sterelny nasce dall’eterogeneità dei supporti (compresi oggetti non
“cognitivi” e altri individui) e delle relazioni tra gli agenti e i supporti stessi, che
possono essere diversamente interscambiabili o specifici e personalizzati. Perciò tali
25
Come è noto, vi sono diverse teorie in proposito, ma non è questa la sede per un approfondimento.
16
supporti non sono né ontologicamente costitutivi della mente né meramente
complementari ai processi cognitivi messi in atto.
Molto interessante è poi l’idea che alcuni processi cognitivi siano il risultato di
un’interazione fra diversi soggetti in un contesto strutturato. In questi casi, non sono i
documenti a creare cognizione e ontologia sociale, bensì un rimando e una
sintonizzazione tra individui senza un riferimento diretto a supporti materiali. Ne è un
esempio la collaborative recall, quel processo di ricordo e ricostruzione
(nell’accezione di ricollocazione di parti sparse e non di “invenzione”) di un evento o
di un fatto che avviene tra persone tra loro familiari (per motivi di parentela, lavoro o
comune esperienza) che si danno indizi l’un l’altro, riuscendo a raggiungere
collettivamente una migliore memoria26.
Si vede qui il limite dell’internismo inteso come cranialismo, cioè limitazione dei
processi cognitivi all’interno di mente/cervello individuale, ma si nota anche come
l’ambiente esterno che viene sfruttato possa essere costituito da altri soggetti e non
necessiti di supporti di altro tipo.
Può trovare qui spazio un accenno alle prospettive enattiviste, le quali condividono
l’orientamento esternista, proponendo una dipendenza forte quando non
un’identificazione della mente da/con il rapporto concreto tra soggetto e ambiente in
cui esso si muove. La nostra prospettiva non si spinge in questa direzione, perché
tende a privilegiare l’ambiente umano in senso ampio rispetto agli aspetti sensomotori che sono invece fondamentali nelle teorie avanzate per esempio da Kevin
O’Regan e Alva Noë (2001), caratterizzate da un esternismo assai accentuato.
L’approccio esternista moderato che suggeriamo, a sua volta, non nega che ciascuno
degli agenti che ha recuperato una migliore memoria dell’evento o del fatto viva quel
ricordo in una dimensione personale specifica, anche causalmente efficace (perché,
ad esempio, la componente fenomenologica diventa motivazione a reagire al ricordo
e ad agire sulla base del ricordo in modo diverso dagli altri). Si tratta di qualcosa che
è interno, anche se è debitore di un indispensabile contributo esterno.
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