Psicoterapia
Tra mitologia e anelito di sicurezza
scientifica
Marcello Marcellini1
..quel termine: “ scientifico”, nobile e accreditante, è
una etichetta penosa apposta a tentativi, dall’aria
moderna ma dall’anima ottocentesca, di abbagliare gli
ingenui. Il problema è che i grandi paradigmi della
scienza sperimentale, alla base della legittimazione del
termine “scientifico”, non sono utilizzabili per
indagare la mente, un campo legato ai significati più
che agli eventi e che non ha sede nel cervello, come la
miopia materialista si sforza di vedere, ma in un
grande "testo" condiviso e in continuo mutamento.
(Marco V. Masoni).
Il termine “terapia” occupa sempre più il
nostro linguaggio e il nostro immaginario. Spesso
ricorre dove meno te l’aspetti. Una passeggiata in
montagna può essere una “montagna terapia”; la
pratica dell’arte e della creatività può diventare “arte
terapia”. Anche la danza può essere utilizzata come
terapia ed essere una “danza terapia”. Persino il
toccare il corpo è terapeutico. “La tocco terapia” ne
è la pratica. Esistono inoltre la “video terapia”, la
“foto terapia”, la “film terapia”, la “musico terapia”;
la “cromoterapia”, “l’ippoterapia”, la “pet terapy”,
“l’orto-giardino terapia” e avanti ancora.
Il termine terapia sembra aver contaminato
la cultura contemporanea occidentale identificando
la vita umana stessa come un processo patologico e
come terapia al tempo stesso. Tutto ciò che
addolcisce la fatica di vivere è automaticamente
tradotto in una prassi terapeutica. Il disagio insito
nell’esistere trova le sue “soluzioni” nella stessa
esperienza di vita.
Dal greco therapeia, la terapia assume il
significato della cura, della guarigione. Il therapeyo è
la figura che assiste, che cura, ma l’etimologia
rintraccia anche il teraps che invece è un aiutante, un
compagno, un servitore.
Nel primo caso il concetto di terapia
implica la malattia, un qualcosa di definito e di
oggettivo che si scopre attraverso un processo di
diagnosi, l’atto del “riconoscere attraverso” (diagnosis) il “capire per mezzo”. Di fronte al corpo
malato la parola terapia ha connotazioni chiare,
limpide, oggettive, sicure. Il therapeyo è il medico
che sa “vedere attraverso”, che è depositario della
sapienza della cura, che applica “cure letterali”
secondo la terminologia di Thomas Szasz. Il malato
si accorge di essere guarito. Vede i sintomi
1
Dirigente psicologo, U.O.C. Medicina Penitenziaria ASL Teramo
scomparire, il dolore svanire, può di nuovo
camminare, mangiare, vedere bene, respirare.
Nel caso del teraps invece, la “terapia”
assume una natura diversa. C’è l’aiuto, la vicinanza,
il servizio, la condivisione. La “terapia” consiste
nell’accompagnare, nel sostenere nella posizione del
servitore, del compagno (cum-panem, colui con cui
condivido il pane). In questo “lavoro terapeutico” il
concetto di guarigione non è significativo. La
malattia non è elemento centrale dell’azione ma si
parte “dal ... come si fa a vivere” (Szasz T. 1981).
La guarigione non è un obiettivo del
“lavoro terapeutico” perché il disagio sperimentato
non è una malattia, anche se può essere grave e
invalidante, ma è considerato un problema umano.
L’applicazione del concetto di terapia al disagio
mentale è diventata prassi diffusa. E’ difficile
pensare che si possa vivere un disagio senza
incasellarlo in una diagnosi e senza immaginare una
terapia specifica. Se, come osserva Antonio
Imbasciati (2008) “in medicina una terapia serve a
ristabilire la normalità”, è molto facile per l’uomo
contemporaneo, portatore di un disagio piscologico,
acquisire lo stesso status del paziente malato nel
corpo. Anzi è molto probabile che il cittadino
cerchi, più spesso che in passato, risposte oggettive
e sicure al suo problema attraverso una diagnosi e
una terapia.
Frank Furedi osserva a tal proposito:
“È allarmante che tanti cerchino sollievo e conforto in una
diagnosi. Si può individuare, nell’istituzionalizzazione di
un’etica terapeutica, l’avvio di un regime di controllo sociale
… la terapia, infatti, come la cultura più vasta di cui fa
parte, insegna a stare al proprio posto. In cambio offre i
dubbi benefici della conferma e del riconoscimento” (Furedi
F., 2005).
Molti comportamenti umani sono diventati
problemi per la società, così come molti
comportamenti che erano in passato problemi per la
società oggi non lo sono più: si veda, ad esempio,
l’omosessualità che è scomparsa dai manuali di
psichiatria sul finire degli anni settanta. E’ molto
probabile che Francesco di Assisi sarebbe stato
ricoverato in un ospedale psichiatrico se si fosse
trovato
al
cospetto di
uno
psichiatra
contemporaneo. Così come uno psichiatra avrebbe
trovato plausibile sottoporre San Paolo a una perizia
o proporgli una psicoterapia perché considerava un
fatto naturale la schiavitù o la sottomissione della
donna all’uomo. È noto che nel Settecento e
nell’Ottocento vi erano medici specializzati in
malattie respiratorie e masturbatorie che pubblicavano
libri sulle malattie mentali prodotte dalla
masturbazione.
La
malattia
cosiddetta
mentale,
diversamente da quella fisica, è soggetta a profondi
1
sconvolgimenti che dipendono dai punti di
osservazione personali, culturali, sociali e storici. Ciò
significa che sul disagio umano, come per tutte le
attività vitali, agiscono variabili di natura culturale ed
economica destinate a influire sul pensiero
scientifico. Anzi, spesso il pensiero scientifico
finisce per legittimare spinte di natura economica e
istanze lucrative di mercato.
Dunque il disagio psichico è difficile da
definire attraverso le codificazioni concettuali
tipiche della corporeità. La mente umana non può
essere semplicemente relegata all’interno dei confini
cranici e la conoscenza di quest’aspetto della vita
dell’uomo non è così chiara come quando ci si trova
al cospetto del corpo malato.
Thomas Szasz (1981) aveva notato questa
difficoltà:
“mentre i disturbi fisici si riferiscono ad accadimenti fisicochimici riconoscibili da tutti, la nozione di malattia mentale è
usata per definire avvenimenti socio-psicologici maggiormente
personali nei quali l’osservatore (il diagnosta) ha un ruolo”.
Chi “riconosce attraverso”, cioè chi fa la
diagnosi, non è un osservatore neutrale, ma è dentro
il processo di costruzione della conoscenza
diagnostica. Non è una figura distante da ciò che
osserva, ma conosce attraverso un orizzonte
valoriale ed etico. In sostanza nel fare diagnosi il
medico rappresenta “come si dovrebbe vivere” secondo
lui, qual è il modo “normale” di vivere, indica cosa ci
si aspetta da un uomo che vive in quel contesto
sociale.
Questa modalità operativa origina da un
processo che ha a che vedere con il potere, non solo
riconducibile all’asimmetria di rapporto tra medico e
paziente, ma insito in un processo di controllo
sociale del quale lo psichiatra, consapevolmente o
inconsapevolmente, rappresenta il braccio operativo
convalidato dalla scienza. Lo psichiatra è un medico
che legittima il suo intervento (e non potrebbe
essere diversamente) attraverso la malattia e tende a
oggettivare il disagio mentale così come l’ortopedico
oggettiva una frattura di un femore.
“Ma chi sono gli psichiatri? Soni i medici dell’anima (psychè)
preposti alla sua cura (iatreìa). Naturalmente per curare
l’anima bisogna conoscerla. Ma gli psichiatri si sentono
esonerati dalla conoscenza dell’anima individuale, perché a
loro basta conoscere i sintomi della malattia, che sono poi
quelle espressioni dissonanti rispetto al modo comune di essere
al mondo che, in quanto dissonanti, vanno curati”
(Galimberti U., 2009)
Per la psicologia il concetto di terapia
alimenta ulteriori criticità e problematicità, almeno
per chi onestamente va in cerca di legittimità
scientifica. La terapia, la guarigione, la malattia, la
diagnosi, da un lato tendono a organizzare, attorno
all’operatività psicologica, certezze, oggettività e
sicurezze proprie della medicina che si occupa della
malattia fisica, dall’altro tendono a generare un’idea
della mente umana conoscibile attraverso paradigmi
tipici della scienza sperimentale.
Ma approfondendo, guardando dentro la
pratica psicoterapeutica, si scopre che per gli
psicoterapeuti la terapia non assume il significato di
un processo che porta alla guarigione del “malato”.
Il mondo della psicoterapia non è interessato al
guarire pur occupandosi di malattie e pur facendo
diagnosi.
James Hillman (2002) per fare un esempio piuttosto
radicale, valuta “..la terapia come ‘patologizzazione’ ossia
… la comprensione della condizione patologica cronica della
vita stessa”
la terapia per lui
“è l’azione primaria del Fare Anima perché la domanda del
Fare Anima è sostanzialmente: questo evento, questo oggetto,
questo attimo che cosa significano per la mia morte?
Andrea Bonacchi (2013) suggerisce che
“la posta in gioco (nella psicoterapia) non è solo guarire da
qualcosa ma è far fronte ad una domanda di conoscenza che
origina dal profondo di sé … ogni persona che decide di
intraprendere una psicoterapia lo fa perché desidera essere più
felice”.
Lorenzo Cionini (2013) vede la psicoterapia
“come un processo di ricerca all’interno del quale paziente e
terapeuta svolgono ruoli diversi e complementari come quello
di ricercatore e di supervisore di ricerca”.
Per Franz Epting (1998),
“il
processo psicoterapeutico viene considerato
principalmente un’impresa creativa dove il terapeuta tenta
di aiutare il cliente a diventare più inventivo con la sua
vita”.
Per Whitaker C.A e Malone T. (1998): “La
Psicoterapia, pur essendo basata sulla psichiatria, ha un
orientamento un po’ diverso, in quanto non è focalizzata
nella patologia in sé, ma sulle dinamiche terapeuticamente
rilevanti della patologia presentata. Lo psicoterapeuta è
essenzialmente un empirista, interessato alla relazione tra
patologia e crescita … il suo interesse verso la genesi della
psicopatologia è secondario all’idea di poter influire sul
potenziale terapeutico insito nella patologia attuale”
Per Giuseppe Esposito (2013) è “.. una
pratica di liberazione atta a sostenere la persona in un
percorso attraverso il quale possa accedere alla verità di sé,
qualunque essa sia .. la posta in gioco non è solo guarire da
qualcosa ma è far fronte ad una domanda di conoscenza che
origina dal profondo di sé”.
La psicoterapia assume quindi significati
che mettono al centro la “la crescita personale”, la
“consapevolezza di sé”, il rafforzamento del“benessere
psicologico”, lo sviluppo dell’“ottimalità della persona (...)
della personalità, della capacità e potenzialità del
funzionamento mentale” (Imbasciati A., 2008).
2
Gian Luigi Dell’Erba (Dell’Erba G., 1997)
mette in evidenza come la relazione terapeutica sia il
“fattore centrale nel determinare l’efficacia della psicoterapia”
anche se sfugge ancora se la relazione terapeutica sia
elemento strutturale della tecnica o sia qualcosa che
la preceda, cioè appartenga, come pensava Aldo
Carotenuto a quella sfera della “creatività” personale
che nessun training o studio riesce a trasmettere.
La relazione terapeutica, oltre a
rappresentare “lo strumento più rilevante ai fini del
cambiamento” (Cionini L., 2014), veicolerebbe,
seguendo ancora il ragionamento di Dell’Erba, i
sottoelencati “elementi terapeutici”:
esempio positivo e modello autorevole di riferimento;
chiarificazione
educazione
apprendimento pratico di soluzioni
presa di coscienza
autoesplorazione
aumento di consapevolezza
esperienza emotiva correttiva adattamento
figura vicariante
funzione vicariante
aiuto e supporto emozionale
co-costruzione
Inoltre nelle psicoterapie sono stati
rintracciati i cosiddetti fattori comuni, che, seguendo
sempre l’esposizione di Gian Luigi Dell’Erba
(1997), possono essere così riassunti:
1. Addestramento,
allenamento,
insegnamento,
apprendimento, educazione;
2. Concettualizzazione, esplorazione, chiarificazione,
interpretazione, consiglio;
3. Ascolto, incoraggiamento, supporto, sostegno, fiducia,
dimostrazioni di affetto.
I fattori comuni come osserva “sarebbero
presenti, in mix differenti, in tutte le psicoterapie, anche se
ciascun approccio ed orientamento ha la sua ricetta specifica
nella quale vediamo accentuate certe caratteristiche piuttosto
che altre”.
Dunque è chiaro che gli elementi e i fattori
comuni più sopra elencati, non rimandano a un
concetto di terapia così come lo conosciamo
nell’ambito medico. Non fanno riferimento a un
disagio conclamato, circoscrivibile attraverso un
processo diagnostico; “il concetto di psicoterapia (..) non
lo si può ancorare al concetto di patologia, né tantomeno a
quello di diagnosi” (Imbasciati A., 2008). Essi
rimandano semmai, come suggerisce Szasz, al
“problema di come si fa a vivere” (1981).
Se poi dovessimo addentrarci nella
problematica della valutazione di efficacia o nello
studio dei processi psicologici implicati nelle
psicoterapie ne usciremmo scoraggiati. Tutti sono
d’accordo (direi che non poteva essere altrimenti)
che una relazione positiva terapeuta-utente, sia “conditio
sine qua non” di una buona psicoterapia. Tuttavia
l’acquisizione di una patente scientifica della
psicoterapia genericamente intesa comporta il
sottostare alle regole della scienza e del suo metodo.
Se lo sforzo d’individuazione degli elementi e dei
fattori comuni delle psicoterapie ha dato qualche
frutto, rimane aperto il problema della loro
misurazione e quindi della loro verifica. Ora, se la
psicoterapia può essere una “procedura prescrivibile”
per curare una particolare malattia della psiche, va
da sé che il prescrittore, il medico ad esempio,
dovrebbe essere consapevole di prescrivere un
trattamento la cui validità scientifica non è certa.
Come suggerisce ancora Gian Luigi Dell’Erba, “la
conseguenza di questa considerazione è che la psicoterapia per
essere procedura prescrivibile per il trattamento di un disturbo
psicologico deve essere una tecnica giustificata empiricamente,
altrimenti l’indicazione di una psicoterapia (di qualsiasi
orientamento) avrebbe il carattere di un consiglio pratico
generico ...”
Se riflettiamo sul fatto che la relazione
terapeutica è considerata il fattore centrale di ogni
psicoterapia e che la stessa sia legata a variabili
complesse che rinviano alla personalità del
terapeuta, alla sua autorevolezza, creatività, alla sua
soggettività, variabili che non appartengono alla
“tecnica psicoterapeutica”, ma che dobbiamo
supporre la condizioni potentemente, allora è
evidente che qualsiasi verifica empirica delle
psicoterapie, almeno nella valutazione dei processi
psicologici implicati, è un atto velleitario per quanto
auspicabile.
Cos’è allora la psicoterapia? Perché
chiamare psicoterapeutici processi che non hanno a
che vedere con la malattia e con la guarigione?
Perché chiamare psicoterapeutici processi che
possono verificarsi in ambiti diversi dalla pratica
medica. Affidiamoci ancora all’illustre opinione di
uno dei massimi detrattori di questa pratica:
“Nell'accezione convenzionale (la psicoterapia), è,
generalmente parlando, la cura della malattia mentale, in
particolare con mezzi psicologici, sociali o ambientali piuttosto
che fisici o chimici. In base a questa metafora, la psicoterapia
è reale e obiettiva nello stesso senso in cui lo è la prescrizione
di penicillina, la rimozione chirurgica di un tumore al cervello
o la riduzione di una frattura” (Szasz T., 1981).
La definizione non lascia spazio a dubbi. La
psicoterapia è una pratica, reale e obiettiva, che cura
la malattia mentale. Szasz naturalmente non la fa
sua, ma attribuisce questa definizione alla cultura
psichiatrica (direi anche psicologica) dominante.
Tant’è che, subito dopo, preferisce pensare che:
“…. questa concezione è completamente falsa. In realtà la
psicoterapia si riferisce a quanto due o più persone fanno le
une per le altre, e le une alle altre, mediante messaggi verbali
e non-verbali! Si tratta, in breve, di una relazione
3
paragonabile all'amicizia, al matrimonio, all'osservanza
religiosa, alla tecnica pubblicitaria o all'insegnamento.
Quando quindi suggerisco che la psicoterapia è un mito non
intendo negare la realtà dei fenomeni a cui tale termine è
applicato. Le persone soffrono realmente di ogni genere di
disturbi e dolori, paure e sensi di colpa, depressioni e
sentimenti d'inutilità, molte di queste persone si rivolgono
davvero, o sono costrette a rivolgersi, a esperti chiamati
psicoterapeuti, e uno o più dei partecipanti alla transazione
che ne consegue può considerarla giovevole, utile o
"terapeutica." L'incontrarsi di queste due parti e i risultati
dei loro incontri sono convenzionalmente denominati
psicoterapia. Tutto ciò esiste e costituisce una parte
importante della nostra realtà sociale.
Ma proprio in questo consiste la mitologia della psicoterapia:
poiché questi incontri non hanno assolutamente niente a che
fare con le menti e non sono terapeutici”.
Quindi crescere come persona, sviluppare
una maggiore consapevolezza del proprio sé,
acquisire un più elevato benessere psicologico non
sono “processi terapeutici” e non hanno come
obiettivo la “guarigione” da qualche malattia. Essi
appartengono alla sfera della saggezza, del saper
vivere, affrontano il tema esistenziale e profondo di
“come si fa a vivere” e ci invitano a considerare il
termine terapia come improprio, anche se
rassicurante e legittimante. Anche Robert Akeret,
citato da Umberto Galimberti (2009), è dell’idea che
la psicoanalisi (come tutte le pratiche
psicoterapeutiche) “non serve a guarire, ma a sentirsi più
vivi”.
James Hillman in Cento anni di psicoterapia e il
mondo va sempre peggio (1993) invita a non adattare
l’uomo ad una società malata che genera sofferenza,
altrimenti si finisce per far soffrire ancor più
l’individuo e la società. Anche le parole di un grande
teorico dell’angoscia come Franz Kafka (1970)
appaiono utili per rafforzare il ragionamento, a
proposito delle malattie psichiche e degli
psicanalisti, scriveva:
“Voi dite che non la comprendete. Cercate di capirla
chiamandola malattia. E una delle molte manifestazioni di
malattia che la psicanalisi crede di aver rivelato. Io non la
chiamo malattia, e giudico le pretese terapeutiche della
psicanalisi come un impotente errore. Tutte queste cosiddette
malattie, per quanto lamentevoli possano sembrare, sono fatti
di fede, rappresentano l'ancoraggio dell'essere umano in
angustie a un qualche terreno materno o d'altra natura;
perciò non ci sorprende che la psicanalisi trovi che la matrice
primaria di tutte le religioni è esattamente quella delle
‘malattie’ delle persone ... E c'è davvero qualcuno che crede
che questo sia un possibile oggetto di cura?
Carl Gustav Jung (2015) sulla scorta
dell’esperienza personale negativa avuta con Freud,
non lascia margini di manovra ai procacciatori
ufficiali di malattie e guarigioni:
"Su questo punto certamente s’illudono sia medico che
paziente. Anche se queste teorie (freudiana e adleriana)
rendono giustizia alla psicologia della nevrosi in misura
infinitamente maggiore di quanto abbia fatto qualunque
concezione medica precedente, il loro limitarsi a ciò che è
istintuale non soddisfa le necessità più profonde della psiche
malata. Sono troppo scientifiche e troppo concrete, troppo poco
aperte ai processi ipotetici o immaginativi; troppo poco
significative. Soltanto ciò che ha significato redime."
"Il problema di colui che soffre nell'anima, continua Jung,
riguarderebbe molto più il direttore spirituale, che non il
medico; ma il malato, nella maggioranza dei casi, consulta
prima il medico, perché ritiene di essere malato fisicamente e
perché certi sintomi nevrotici possono essere almeno attenuati
con le medicine. E ancora Il problema della guarigione è
definito un problema religioso… Le religioni sono sistemi di
guarigione per i mali della psiche… Ecco perché i malati
costringono il medico dell'anima in un ruolo sacerdotale e
pretendono da lui che li liberi dai loro dolori. È per questo che
noi medici psicologi dobbiamo occuparci di problemi che, a rigore,
competono propriamente alla facoltà di teologia."
Trovo altresì molto interessante, sul
concetto di guarigione, un pensiero di una paziente
riportato dal dott. Ernesto Venturini (2014)in una
comunicazione a un convegno:
“Per me il termine guarire significa condurre una vita
normale, con i tuoi alti e i tuoi bassi; a parte che io non mi
ritengo guarita nel senso che adesso non vedo la malattia
psichiatrica come una malattia da cui guarisci, vedo la
malattia psichiatrica come una tua componente con cui devi
imparare a convivere; non c'è un momento di guarigione o un
momento di malattia, la malattia sono io e non sono io. E'
una parte di me che è più vulnerabile, che ho imparato a
gestire e imparare a gestire questa parte di me vuole dire
guarire, vuol dire poter condurre una vita normale”.
Umberto Galimberti (2009) osserva:
“Quando poi al dolore e all’infelicità, sono componenti
dell’esistenza da cui al limite, se si vuole conservare qualche
tratto umano, non vale neanche la pena di guarire. Scopo
dell’analisi infatti non è la guarigione, ma la conoscenza di
sé, …”
E ancora: “Chi pretende di guarire dal dolore pretende di
guarire dalla condizione umana”
La psicoterapia è dunque un mito e un
trattamento metaforico come osserva Szasz? E’ un
vestito scientifico dato a una relazione umana di
tipo professionale? E’ un atto di saggezza travestito
da strategia terapeutica? Un “atto creativo” che non
può essere appreso come sosteneva Aldo
Carotenuto? Una “pratica artigianale” come
suggeriva Giovanni Jervis? Una “patologizzazione”
4
come la interpreta James Hillman? Una
“Nonterapia” come la descrive Selene Calloni
Williams?
Da quando l’anima è stata sostituita dalla
mente, intesa come funzione del cervello, la cura del
disagio è diventata un fatto medico. Iatria e non
logia. Curare, non capire lo psichico. Questo è un
dato storico incontrovertibile. Il medico non si è
fatto filosofo, non ha assunto le sembianze di Dio
come argomentava Ippocrate e sperava Karl
Jaspers, lo studioso che ha aperto la strada alla
psicopatologia cioè alla logia dei sintomi dell’individuo.
La medicina è rimasta quello che era: una
pratica in cui prevalgono diagnosi, terapia e
prognosi delle malattie fisiche. La psichiatria non fa
eccezione a questa regola, almeno quella
maggioritaria. L’uso del termine “psicoterapia” è
coerente con questo modello e con questa visione
del disagio psichico.
Il termine terapia associato alla psiche presuppone
che lo psicoterapeuta guarisca i mali della mente
anche se gli obiettivi reali, come abbiamo visto, non
sono terapeutici: la crescita personale, il benessere
psicologico, la consapevolezza di sé ecc.., non sono
guarigioni anche se la “guarigione” è implicita nella
richiesta d’aiuto.
È comprensibile che per gli psicoterapeuti,
come per i loro “pazienti”, che il disagio psichico si
configuri come uno status uguale a quello del
malato fisico, una “iatrìa” appunto. Al volto del
therapeyo autoritario, sicuro e oggettivo soggiace “il
teraps” il compagno, il servitore, l’aiutante. L’uno,
rassicurante e “scientifico” l’altro che si muove sul
terreno del dubbio, dell’incertezza, dell’umana
insicurezza. Il vestito rigoroso della scienza (evidence
based medicine) che nasconde l’umanità dell’aiuto.
Non è sbagliato pensare che al sentimento
d’inadeguatezza si risponda indossando un abito
scientifico/medicale, laddove la scienza ha poco da
capire con i suoi metodi.
Non sarà un caso che la psichiatria usi
categorie di comprensione della vita mentale che
afferiscono a discipline non mediche come la
psicologia, la sociologia, la filosofia, la logica
simbolica, la semiotica, ma tiene ben saldi i piedi nel
terreno medico, quello della malattia fisica.
Dall’altro lato la psicologia, sempre in cerca di
accreditamenti scientifici, stenta ad affrancarsi dal
modello medicale della cura. Sta qui la fondamentale
ambiguità.
Questo è uno dei motivi principali
dell’affermazione e dell’uso del termine psicoterapia.
Dare una veste oggettiva alla sofferenza mentale.
Fare sì che psichiatra, psicoterapeuta e paziente si
sentano al sicuro, al riparo dalle incertezze e dagli
agguati della soggettività.
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