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Psicoterapia Tra mitologia e anelito di sicurezza scientifica

2021, Psicoterapia Tra mitologia e anelito di sicurezza scientifica

Il termine "psicoterapia" entrato nel linguaggio comune, evoca significati di certezza, sicurezza, validità, efficacia, scientificità che sono gli stessi significati che di norma attribuiamo alle terapie fisiche. Il lavoro affronta criticamente l'uso e l'abuso del termine psicoterapia a partire dal suo valore semantico. Le suggestioni originano dal lavoro di Thomas Szasz che ne ha descritto l'aspetto mitico e metaforico, per poi addentrarci nei processi cosiddetti psicoterapeutici, cercando di capire se i processi psicologici implicati possano essere definiti terapeutici o abbiano una natura diversa. Relazione terapeutica, elementi terapeutici, fattori comuni delle psicoterapie sono stati affrontati in un ottica critica riportando e discutendo le opinioni di alcuni autorevoli autori.

Psicoterapia Tra mitologia e anelito di sicurezza scientifica Marcello Marcellini1 ..quel termine: “ scientifico”, nobile e accreditante, è una etichetta penosa apposta a tentativi, dall’aria moderna ma dall’anima ottocentesca, di abbagliare gli ingenui. Il problema è che i grandi paradigmi della scienza sperimentale, alla base della legittimazione del termine “scientifico”, non sono utilizzabili per indagare la mente, un campo legato ai significati più che agli eventi e che non ha sede nel cervello, come la miopia materialista si sforza di vedere, ma in un grande "testo" condiviso e in continuo mutamento. (Marco V. Masoni). Il termine “terapia” occupa sempre più il nostro linguaggio e il nostro immaginario. Spesso ricorre dove meno te l’aspetti. Una passeggiata in montagna può essere una “montagna terapia”; la pratica dell’arte e della creatività può diventare “arte terapia”. Anche la danza può essere utilizzata come terapia ed essere una “danza terapia”. Persino il toccare il corpo è terapeutico. “La tocco terapia” ne è la pratica. Esistono inoltre la “video terapia”, la “foto terapia”, la “film terapia”, la “musico terapia”; la “cromoterapia”, “l’ippoterapia”, la “pet terapy”, “l’orto-giardino terapia” e avanti ancora. Il termine terapia sembra aver contaminato la cultura contemporanea occidentale identificando la vita umana stessa come un processo patologico e come terapia al tempo stesso. Tutto ciò che addolcisce la fatica di vivere è automaticamente tradotto in una prassi terapeutica. Il disagio insito nell’esistere trova le sue “soluzioni” nella stessa esperienza di vita. Dal greco therapeia, la terapia assume il significato della cura, della guarigione. Il therapeyo è la figura che assiste, che cura, ma l’etimologia rintraccia anche il teraps che invece è un aiutante, un compagno, un servitore. Nel primo caso il concetto di terapia implica la malattia, un qualcosa di definito e di oggettivo che si scopre attraverso un processo di diagnosi, l’atto del “riconoscere attraverso” (diagnosis) il “capire per mezzo”. Di fronte al corpo malato la parola terapia ha connotazioni chiare, limpide, oggettive, sicure. Il therapeyo è il medico che sa “vedere attraverso”, che è depositario della sapienza della cura, che applica “cure letterali” secondo la terminologia di Thomas Szasz. Il malato si accorge di essere guarito. Vede i sintomi 1 Dirigente psicologo, U.O.C. Medicina Penitenziaria ASL Teramo scomparire, il dolore svanire, può di nuovo camminare, mangiare, vedere bene, respirare. Nel caso del teraps invece, la “terapia” assume una natura diversa. C’è l’aiuto, la vicinanza, il servizio, la condivisione. La “terapia” consiste nell’accompagnare, nel sostenere nella posizione del servitore, del compagno (cum-panem, colui con cui condivido il pane). In questo “lavoro terapeutico” il concetto di guarigione non è significativo. La malattia non è elemento centrale dell’azione ma si parte “dal ... come si fa a vivere” (Szasz T. 1981). La guarigione non è un obiettivo del “lavoro terapeutico” perché il disagio sperimentato non è una malattia, anche se può essere grave e invalidante, ma è considerato un problema umano. L’applicazione del concetto di terapia al disagio mentale è diventata prassi diffusa. E’ difficile pensare che si possa vivere un disagio senza incasellarlo in una diagnosi e senza immaginare una terapia specifica. Se, come osserva Antonio Imbasciati (2008) “in medicina una terapia serve a ristabilire la normalità”, è molto facile per l’uomo contemporaneo, portatore di un disagio piscologico, acquisire lo stesso status del paziente malato nel corpo. Anzi è molto probabile che il cittadino cerchi, più spesso che in passato, risposte oggettive e sicure al suo problema attraverso una diagnosi e una terapia. Frank Furedi osserva a tal proposito: “È allarmante che tanti cerchino sollievo e conforto in una diagnosi. Si può individuare, nell’istituzionalizzazione di un’etica terapeutica, l’avvio di un regime di controllo sociale … la terapia, infatti, come la cultura più vasta di cui fa parte, insegna a stare al proprio posto. In cambio offre i dubbi benefici della conferma e del riconoscimento” (Furedi F., 2005). Molti comportamenti umani sono diventati problemi per la società, così come molti comportamenti che erano in passato problemi per la società oggi non lo sono più: si veda, ad esempio, l’omosessualità che è scomparsa dai manuali di psichiatria sul finire degli anni settanta. E’ molto probabile che Francesco di Assisi sarebbe stato ricoverato in un ospedale psichiatrico se si fosse trovato al cospetto di uno psichiatra contemporaneo. Così come uno psichiatra avrebbe trovato plausibile sottoporre San Paolo a una perizia o proporgli una psicoterapia perché considerava un fatto naturale la schiavitù o la sottomissione della donna all’uomo. È noto che nel Settecento e nell’Ottocento vi erano medici specializzati in malattie respiratorie e masturbatorie che pubblicavano libri sulle malattie mentali prodotte dalla masturbazione. La malattia cosiddetta mentale, diversamente da quella fisica, è soggetta a profondi 1 sconvolgimenti che dipendono dai punti di osservazione personali, culturali, sociali e storici. Ciò significa che sul disagio umano, come per tutte le attività vitali, agiscono variabili di natura culturale ed economica destinate a influire sul pensiero scientifico. Anzi, spesso il pensiero scientifico finisce per legittimare spinte di natura economica e istanze lucrative di mercato. Dunque il disagio psichico è difficile da definire attraverso le codificazioni concettuali tipiche della corporeità. La mente umana non può essere semplicemente relegata all’interno dei confini cranici e la conoscenza di quest’aspetto della vita dell’uomo non è così chiara come quando ci si trova al cospetto del corpo malato. Thomas Szasz (1981) aveva notato questa difficoltà: “mentre i disturbi fisici si riferiscono ad accadimenti fisicochimici riconoscibili da tutti, la nozione di malattia mentale è usata per definire avvenimenti socio-psicologici maggiormente personali nei quali l’osservatore (il diagnosta) ha un ruolo”. Chi “riconosce attraverso”, cioè chi fa la diagnosi, non è un osservatore neutrale, ma è dentro il processo di costruzione della conoscenza diagnostica. Non è una figura distante da ciò che osserva, ma conosce attraverso un orizzonte valoriale ed etico. In sostanza nel fare diagnosi il medico rappresenta “come si dovrebbe vivere” secondo lui, qual è il modo “normale” di vivere, indica cosa ci si aspetta da un uomo che vive in quel contesto sociale. Questa modalità operativa origina da un processo che ha a che vedere con il potere, non solo riconducibile all’asimmetria di rapporto tra medico e paziente, ma insito in un processo di controllo sociale del quale lo psichiatra, consapevolmente o inconsapevolmente, rappresenta il braccio operativo convalidato dalla scienza. Lo psichiatra è un medico che legittima il suo intervento (e non potrebbe essere diversamente) attraverso la malattia e tende a oggettivare il disagio mentale così come l’ortopedico oggettiva una frattura di un femore. “Ma chi sono gli psichiatri? Soni i medici dell’anima (psychè) preposti alla sua cura (iatreìa). Naturalmente per curare l’anima bisogna conoscerla. Ma gli psichiatri si sentono esonerati dalla conoscenza dell’anima individuale, perché a loro basta conoscere i sintomi della malattia, che sono poi quelle espressioni dissonanti rispetto al modo comune di essere al mondo che, in quanto dissonanti, vanno curati” (Galimberti U., 2009) Per la psicologia il concetto di terapia alimenta ulteriori criticità e problematicità, almeno per chi onestamente va in cerca di legittimità scientifica. La terapia, la guarigione, la malattia, la diagnosi, da un lato tendono a organizzare, attorno all’operatività psicologica, certezze, oggettività e sicurezze proprie della medicina che si occupa della malattia fisica, dall’altro tendono a generare un’idea della mente umana conoscibile attraverso paradigmi tipici della scienza sperimentale. Ma approfondendo, guardando dentro la pratica psicoterapeutica, si scopre che per gli psicoterapeuti la terapia non assume il significato di un processo che porta alla guarigione del “malato”. Il mondo della psicoterapia non è interessato al guarire pur occupandosi di malattie e pur facendo diagnosi. James Hillman (2002) per fare un esempio piuttosto radicale, valuta “..la terapia come ‘patologizzazione’ ossia … la comprensione della condizione patologica cronica della vita stessa” la terapia per lui “è l’azione primaria del Fare Anima perché la domanda del Fare Anima è sostanzialmente: questo evento, questo oggetto, questo attimo che cosa significano per la mia morte? Andrea Bonacchi (2013) suggerisce che “la posta in gioco (nella psicoterapia) non è solo guarire da qualcosa ma è far fronte ad una domanda di conoscenza che origina dal profondo di sé … ogni persona che decide di intraprendere una psicoterapia lo fa perché desidera essere più felice”. Lorenzo Cionini (2013) vede la psicoterapia “come un processo di ricerca all’interno del quale paziente e terapeuta svolgono ruoli diversi e complementari come quello di ricercatore e di supervisore di ricerca”. Per Franz Epting (1998), “il processo psicoterapeutico viene considerato principalmente un’impresa creativa dove il terapeuta tenta di aiutare il cliente a diventare più inventivo con la sua vita”. Per Whitaker C.A e Malone T. (1998): “La Psicoterapia, pur essendo basata sulla psichiatria, ha un orientamento un po’ diverso, in quanto non è focalizzata nella patologia in sé, ma sulle dinamiche terapeuticamente rilevanti della patologia presentata. Lo psicoterapeuta è essenzialmente un empirista, interessato alla relazione tra patologia e crescita … il suo interesse verso la genesi della psicopatologia è secondario all’idea di poter influire sul potenziale terapeutico insito nella patologia attuale” Per Giuseppe Esposito (2013) è “.. una pratica di liberazione atta a sostenere la persona in un percorso attraverso il quale possa accedere alla verità di sé, qualunque essa sia .. la posta in gioco non è solo guarire da qualcosa ma è far fronte ad una domanda di conoscenza che origina dal profondo di sé”. La psicoterapia assume quindi significati che mettono al centro la “la crescita personale”, la “consapevolezza di sé”, il rafforzamento del“benessere psicologico”, lo sviluppo dell’“ottimalità della persona (...) della personalità, della capacità e potenzialità del funzionamento mentale” (Imbasciati A., 2008). 2 Gian Luigi Dell’Erba (Dell’Erba G., 1997) mette in evidenza come la relazione terapeutica sia il “fattore centrale nel determinare l’efficacia della psicoterapia” anche se sfugge ancora se la relazione terapeutica sia elemento strutturale della tecnica o sia qualcosa che la preceda, cioè appartenga, come pensava Aldo Carotenuto a quella sfera della “creatività” personale che nessun training o studio riesce a trasmettere. La relazione terapeutica, oltre a rappresentare “lo strumento più rilevante ai fini del cambiamento” (Cionini L., 2014), veicolerebbe, seguendo ancora il ragionamento di Dell’Erba, i sottoelencati “elementi terapeutici”:  esempio positivo e modello autorevole di riferimento;  chiarificazione  educazione  apprendimento pratico di soluzioni  presa di coscienza  autoesplorazione  aumento di consapevolezza  esperienza emotiva correttiva adattamento  figura vicariante  funzione vicariante  aiuto e supporto emozionale  co-costruzione Inoltre nelle psicoterapie sono stati rintracciati i cosiddetti fattori comuni, che, seguendo sempre l’esposizione di Gian Luigi Dell’Erba (1997), possono essere così riassunti: 1. Addestramento, allenamento, insegnamento, apprendimento, educazione; 2. Concettualizzazione, esplorazione, chiarificazione, interpretazione, consiglio; 3. Ascolto, incoraggiamento, supporto, sostegno, fiducia, dimostrazioni di affetto. I fattori comuni come osserva “sarebbero presenti, in mix differenti, in tutte le psicoterapie, anche se ciascun approccio ed orientamento ha la sua ricetta specifica nella quale vediamo accentuate certe caratteristiche piuttosto che altre”. Dunque è chiaro che gli elementi e i fattori comuni più sopra elencati, non rimandano a un concetto di terapia così come lo conosciamo nell’ambito medico. Non fanno riferimento a un disagio conclamato, circoscrivibile attraverso un processo diagnostico; “il concetto di psicoterapia (..) non lo si può ancorare al concetto di patologia, né tantomeno a quello di diagnosi” (Imbasciati A., 2008). Essi rimandano semmai, come suggerisce Szasz, al “problema di come si fa a vivere” (1981). Se poi dovessimo addentrarci nella problematica della valutazione di efficacia o nello studio dei processi psicologici implicati nelle psicoterapie ne usciremmo scoraggiati. Tutti sono d’accordo (direi che non poteva essere altrimenti) che una relazione positiva terapeuta-utente, sia “conditio sine qua non” di una buona psicoterapia. Tuttavia l’acquisizione di una patente scientifica della psicoterapia genericamente intesa comporta il sottostare alle regole della scienza e del suo metodo. Se lo sforzo d’individuazione degli elementi e dei fattori comuni delle psicoterapie ha dato qualche frutto, rimane aperto il problema della loro misurazione e quindi della loro verifica. Ora, se la psicoterapia può essere una “procedura prescrivibile” per curare una particolare malattia della psiche, va da sé che il prescrittore, il medico ad esempio, dovrebbe essere consapevole di prescrivere un trattamento la cui validità scientifica non è certa. Come suggerisce ancora Gian Luigi Dell’Erba, “la conseguenza di questa considerazione è che la psicoterapia per essere procedura prescrivibile per il trattamento di un disturbo psicologico deve essere una tecnica giustificata empiricamente, altrimenti l’indicazione di una psicoterapia (di qualsiasi orientamento) avrebbe il carattere di un consiglio pratico generico ...” Se riflettiamo sul fatto che la relazione terapeutica è considerata il fattore centrale di ogni psicoterapia e che la stessa sia legata a variabili complesse che rinviano alla personalità del terapeuta, alla sua autorevolezza, creatività, alla sua soggettività, variabili che non appartengono alla “tecnica psicoterapeutica”, ma che dobbiamo supporre la condizioni potentemente, allora è evidente che qualsiasi verifica empirica delle psicoterapie, almeno nella valutazione dei processi psicologici implicati, è un atto velleitario per quanto auspicabile. Cos’è allora la psicoterapia? Perché chiamare psicoterapeutici processi che non hanno a che vedere con la malattia e con la guarigione? Perché chiamare psicoterapeutici processi che possono verificarsi in ambiti diversi dalla pratica medica. Affidiamoci ancora all’illustre opinione di uno dei massimi detrattori di questa pratica: “Nell'accezione convenzionale (la psicoterapia), è, generalmente parlando, la cura della malattia mentale, in particolare con mezzi psicologici, sociali o ambientali piuttosto che fisici o chimici. In base a questa metafora, la psicoterapia è reale e obiettiva nello stesso senso in cui lo è la prescrizione di penicillina, la rimozione chirurgica di un tumore al cervello o la riduzione di una frattura” (Szasz T., 1981). La definizione non lascia spazio a dubbi. La psicoterapia è una pratica, reale e obiettiva, che cura la malattia mentale. Szasz naturalmente non la fa sua, ma attribuisce questa definizione alla cultura psichiatrica (direi anche psicologica) dominante. Tant’è che, subito dopo, preferisce pensare che: “…. questa concezione è completamente falsa. In realtà la psicoterapia si riferisce a quanto due o più persone fanno le une per le altre, e le une alle altre, mediante messaggi verbali e non-verbali! Si tratta, in breve, di una relazione 3 paragonabile all'amicizia, al matrimonio, all'osservanza religiosa, alla tecnica pubblicitaria o all'insegnamento. Quando quindi suggerisco che la psicoterapia è un mito non intendo negare la realtà dei fenomeni a cui tale termine è applicato. Le persone soffrono realmente di ogni genere di disturbi e dolori, paure e sensi di colpa, depressioni e sentimenti d'inutilità, molte di queste persone si rivolgono davvero, o sono costrette a rivolgersi, a esperti chiamati psicoterapeuti, e uno o più dei partecipanti alla transazione che ne consegue può considerarla giovevole, utile o "terapeutica." L'incontrarsi di queste due parti e i risultati dei loro incontri sono convenzionalmente denominati psicoterapia. Tutto ciò esiste e costituisce una parte importante della nostra realtà sociale. Ma proprio in questo consiste la mitologia della psicoterapia: poiché questi incontri non hanno assolutamente niente a che fare con le menti e non sono terapeutici”. Quindi crescere come persona, sviluppare una maggiore consapevolezza del proprio sé, acquisire un più elevato benessere psicologico non sono “processi terapeutici” e non hanno come obiettivo la “guarigione” da qualche malattia. Essi appartengono alla sfera della saggezza, del saper vivere, affrontano il tema esistenziale e profondo di “come si fa a vivere” e ci invitano a considerare il termine terapia come improprio, anche se rassicurante e legittimante. Anche Robert Akeret, citato da Umberto Galimberti (2009), è dell’idea che la psicoanalisi (come tutte le pratiche psicoterapeutiche) “non serve a guarire, ma a sentirsi più vivi”. James Hillman in Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio (1993) invita a non adattare l’uomo ad una società malata che genera sofferenza, altrimenti si finisce per far soffrire ancor più l’individuo e la società. Anche le parole di un grande teorico dell’angoscia come Franz Kafka (1970) appaiono utili per rafforzare il ragionamento, a proposito delle malattie psichiche e degli psicanalisti, scriveva: “Voi dite che non la comprendete. Cercate di capirla chiamandola malattia. E una delle molte manifestazioni di malattia che la psicanalisi crede di aver rivelato. Io non la chiamo malattia, e giudico le pretese terapeutiche della psicanalisi come un impotente errore. Tutte queste cosiddette malattie, per quanto lamentevoli possano sembrare, sono fatti di fede, rappresentano l'ancoraggio dell'essere umano in angustie a un qualche terreno materno o d'altra natura; perciò non ci sorprende che la psicanalisi trovi che la matrice primaria di tutte le religioni è esattamente quella delle ‘malattie’ delle persone ... E c'è davvero qualcuno che crede che questo sia un possibile oggetto di cura? Carl Gustav Jung (2015) sulla scorta dell’esperienza personale negativa avuta con Freud, non lascia margini di manovra ai procacciatori ufficiali di malattie e guarigioni: "Su questo punto certamente s’illudono sia medico che paziente. Anche se queste teorie (freudiana e adleriana) rendono giustizia alla psicologia della nevrosi in misura infinitamente maggiore di quanto abbia fatto qualunque concezione medica precedente, il loro limitarsi a ciò che è istintuale non soddisfa le necessità più profonde della psiche malata. Sono troppo scientifiche e troppo concrete, troppo poco aperte ai processi ipotetici o immaginativi; troppo poco significative. Soltanto ciò che ha significato redime." "Il problema di colui che soffre nell'anima, continua Jung, riguarderebbe molto più il direttore spirituale, che non il medico; ma il malato, nella maggioranza dei casi, consulta prima il medico, perché ritiene di essere malato fisicamente e perché certi sintomi nevrotici possono essere almeno attenuati con le medicine. E ancora Il problema della guarigione è definito un problema religioso… Le religioni sono sistemi di guarigione per i mali della psiche… Ecco perché i malati costringono il medico dell'anima in un ruolo sacerdotale e pretendono da lui che li liberi dai loro dolori. È per questo che noi medici psicologi dobbiamo occuparci di problemi che, a rigore, competono propriamente alla facoltà di teologia." Trovo altresì molto interessante, sul concetto di guarigione, un pensiero di una paziente riportato dal dott. Ernesto Venturini (2014)in una comunicazione a un convegno: “Per me il termine guarire significa condurre una vita normale, con i tuoi alti e i tuoi bassi; a parte che io non mi ritengo guarita nel senso che adesso non vedo la malattia psichiatrica come una malattia da cui guarisci, vedo la malattia psichiatrica come una tua componente con cui devi imparare a convivere; non c'è un momento di guarigione o un momento di malattia, la malattia sono io e non sono io. E' una parte di me che è più vulnerabile, che ho imparato a gestire e imparare a gestire questa parte di me vuole dire guarire, vuol dire poter condurre una vita normale”. Umberto Galimberti (2009) osserva: “Quando poi al dolore e all’infelicità, sono componenti dell’esistenza da cui al limite, se si vuole conservare qualche tratto umano, non vale neanche la pena di guarire. Scopo dell’analisi infatti non è la guarigione, ma la conoscenza di sé, …” E ancora: “Chi pretende di guarire dal dolore pretende di guarire dalla condizione umana” La psicoterapia è dunque un mito e un trattamento metaforico come osserva Szasz? E’ un vestito scientifico dato a una relazione umana di tipo professionale? E’ un atto di saggezza travestito da strategia terapeutica? Un “atto creativo” che non può essere appreso come sosteneva Aldo Carotenuto? Una “pratica artigianale” come suggeriva Giovanni Jervis? Una “patologizzazione” 4 come la interpreta James Hillman? Una “Nonterapia” come la descrive Selene Calloni Williams? Da quando l’anima è stata sostituita dalla mente, intesa come funzione del cervello, la cura del disagio è diventata un fatto medico. Iatria e non logia. Curare, non capire lo psichico. Questo è un dato storico incontrovertibile. Il medico non si è fatto filosofo, non ha assunto le sembianze di Dio come argomentava Ippocrate e sperava Karl Jaspers, lo studioso che ha aperto la strada alla psicopatologia cioè alla logia dei sintomi dell’individuo. La medicina è rimasta quello che era: una pratica in cui prevalgono diagnosi, terapia e prognosi delle malattie fisiche. La psichiatria non fa eccezione a questa regola, almeno quella maggioritaria. L’uso del termine “psicoterapia” è coerente con questo modello e con questa visione del disagio psichico. Il termine terapia associato alla psiche presuppone che lo psicoterapeuta guarisca i mali della mente anche se gli obiettivi reali, come abbiamo visto, non sono terapeutici: la crescita personale, il benessere psicologico, la consapevolezza di sé ecc.., non sono guarigioni anche se la “guarigione” è implicita nella richiesta d’aiuto. È comprensibile che per gli psicoterapeuti, come per i loro “pazienti”, che il disagio psichico si configuri come uno status uguale a quello del malato fisico, una “iatrìa” appunto. Al volto del therapeyo autoritario, sicuro e oggettivo soggiace “il teraps” il compagno, il servitore, l’aiutante. L’uno, rassicurante e “scientifico” l’altro che si muove sul terreno del dubbio, dell’incertezza, dell’umana insicurezza. Il vestito rigoroso della scienza (evidence based medicine) che nasconde l’umanità dell’aiuto. Non è sbagliato pensare che al sentimento d’inadeguatezza si risponda indossando un abito scientifico/medicale, laddove la scienza ha poco da capire con i suoi metodi. Non sarà un caso che la psichiatria usi categorie di comprensione della vita mentale che afferiscono a discipline non mediche come la psicologia, la sociologia, la filosofia, la logica simbolica, la semiotica, ma tiene ben saldi i piedi nel terreno medico, quello della malattia fisica. Dall’altro lato la psicologia, sempre in cerca di accreditamenti scientifici, stenta ad affrancarsi dal modello medicale della cura. Sta qui la fondamentale ambiguità. Questo è uno dei motivi principali dell’affermazione e dell’uso del termine psicoterapia. Dare una veste oggettiva alla sofferenza mentale. Fare sì che psichiatra, psicoterapeuta e paziente si sentano al sicuro, al riparo dalle incertezze e dagli agguati della soggettività. Riferimenti bibliografici Bonacchi, A. (2013). Gli obiettivi della psicoterapia. Tratto da Centrosynthesis: http://www.centrosynthesis.it/ Carotenuto, A. (s.d.). Il non detto della psicoanalisi. Tratto da Associazione italiana psicologi: http://www.associazioneitalianapsicologi .it Cionini, L. (2014). La persona del terapeuta come strumento del cambiamento:implicazioni per il processo formativo. Costruttivismi, 1: 29-33. Dell'Erba, G. (1997). La valutazione delle psicoterapie. Tratto da Academia edu: https://independent.academia.edu/ Epting, F. 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