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"Parte di sentenza" e formazione del giudicato interno

Judicium

Il saggio prende in esame la giurisprudenza di legittimità sul concetto di “parte di sentenza”, che è il concetto fondamentale ai fini dell'individuazione dell'oggetto dei giudizi d'impugnazione. Pur identificando la “parte di sentenza” con la “decisione di questione”, la Suprema Corte non appare univoca nella definizione specifica del concetto in esame. Dopo aver criticato orientamenti che implicano, di fatto, un ritorno del giudizio di appello al modello del gravame, modello che la stessa Corte ritiene ormai abbandonato dal legislatore, il saggio esamina l'orientamento secondo cui “parte di sentenza” è ogni statuizione su ciascuno degli antecedenti logici della decisione contenuta nel dispositivo, di fatto e/o di diritto, mettendone in luce: a) le applicazioni giurisprudenziali; b) il fondamento logico, esegetico, sistematico e di opportunità; c) i corollari su altri aspetti del sistema delle impugnazioni (estensione dell'effetto devolutivo alle parti di sentenza dipendenti da quelle specificamente colpite dai motivi d'impugnazione; devoluzione delle cause dipendenti ex art. 331, primo comma, c.p.c.; divieto di reformatio in peius).

ISSN 2532-3083 il processo civile in Italia e in Europa Rivista trimestrale giugno 2021 2 Diretta da: B. Sassani • F. Auletta • A. Panzarola • S. Barona Vilar • P. Biavati • A. Cabral • G. Califano D. Dalfino • M. De Cristofaro • G. Della Pietra • F. Ghirga • A. Gidi • M. Giorgetti • A. Giussani G. Impagnatiello • G. Miccolis • M. Ortells Ramos • F. Santangeli • R. Tiscini In evidenza: “Parte di sentenza” e formazione del giudicato interno Roberto Poli Brevi annotazioni sparse su concordato preventivo con continuità aziendale ed esposizione fiscale: le possibili ragioni della disapplicazione dell’art. 48-bis d.p.r. n. 602/1973 Alessio Bonafine Le sentenze dichiarative dell’illegittimità costituzionale delle leggi: dagli effetti retroattivi a quelli pro futuro Rosaria Giordano Revocabilità per errore di fatto delle ordinanze a contenuto decisorio. Una sentenza della Consulta condivisibile nel merito, ma non nel metodo Roberta Tiscini Violazione di norme imperative e impugnazione del lodo arbitrale per contrarietà all’ordine pubblico Gabriella Tota Luci e ombre del regolamento di giurisdizione nelle controversie transnazionali Clarice Delle Donne Il carattere definitivo del decreto di trasferimento nel recente arresto delle Sezioni Unite Federica Barbieri INDICE Saggi ROBERTO POLI, “Parte di sentenza” e formazione del giudicato interno .................................................» 115 ALESSIO BONAFINE, Brevi annotazioni sparse su concordato preventivo con continuità aziendale ed esposizione fiscale: le possibili ragioni della disapplicazione dell’art. 48-bis d.p.r. n. 602/1973 ....» 153 ROSARIA GIORDANO, Le sentenze dichiarative dell’illegittimità costituzionale delle leggi: dagli effetti retroattivi a quelli pro futuro ...................................................................................................................» 163 Giurisprudenza commentata Corte costituzionale 5 maggio 2021, n. 89 con nota di ROBERTA TISCINI, Revocabilità per errore di fatto delle ordinanze a contenuto decisorio. Una sentenza della Consulta condivisibile nel merito, ma non nel metodo ..................................................................................................................................» 179 Corte di cassazione, seconda sezione civile, ordinanza 9 ottobre 2020, n. 21850 con nota di GABRIELLA TOTA Violazione di norme imperative e impugnazione del lodo arbitrale per contrarietà all’ordine pubblico ...................................................................................................................................» 199 Cass. S.U. 15 dicembre 2020, n. 28675 con nota di CLARICE DELLE DONNE, Luci e ombre del regolamento di giurisdizione nelle controversie transnazionali ...........................................................» 217 Cassazione Civile, Sez. Unite, 14 dicembre 2020, n. 28387 con nota di FEDERICA BARBIERI, Il carattere definitivo del decreto di trasferimento nel recente arresto delle Sezioni Unite ......................» 263 112 ROBERTO POLI “Parte di sentenza” e formazione del giudicato interno SOMMARIO : 1. Considerazioni introduttive: “parte di sentenza” come “decisione di questione”. – 2. “Questione” come fattispecie nella sua interezza. Critica. – 3. “Questione” come sequenza logica costituita dal fatto, dalla norma e dall’effetto giuridico. Critica. – 4. “Questione” come antecedente logico necessario, di rito o di merito e, in quest’ultimo caso, di fatto o di diritto, della decisione contenuta nel dispositivo. – 5. Decisione di questioni e struttura della soccombenza. – 6. L’individuazione degli antecedenti logici necessari della decisione, di rito e di merito, di fatto e di diritto. – 7. La devoluzione delle “parti di sentenza” dipendenti da quelle oggetto di impugnazione diretta. – 8. La devoluzione delle cause dipendenti a norma dell’art. 331, primo comma, c.p.c. – 9. Il divieto di reformatio in peius. – 10. Conclusioni. Il saggio prende in esame la giurisprudenza di legittimità sul concetto di “parte di sentenza”, che è il concetto fondamentale ai fini dell’individuazione dell’oggetto dei giudizi d’impugnazione. Pur identificando la “parte di sentenza” con la “decisione di questione”, la Suprema Corte non appare univoca nella definizione specifica del concetto in esame. Dopo aver criticato orientamenti che implicano, di fatto, un ritorno del giudizio di appello al modello del gravame, modello che la stessa Corte ritiene ormai abbandonato dal legislatore, il saggio esamina l’orientamento secondo cui “parte di sentenza” è ogni statuizione su ciascuno degli antecedenti logici della decisione contenuta nel dispositivo, di fatto e/o di diritto, mettendone in luce: a) le applicazioni giurisprudenziali; b) il fondamento logico, esegetico, sistematico e di opportunità; c) i corollari su altri aspetti del sistema delle impugnazioni (estensione dell’effetto devolutivo alle parti di sentenza dipendenti da quelle specificamente colpite dai motivi d’impugnazione; devoluzione delle cause dipendenti ex art. 331, primo comma, c.p.c.; divieto di reformatio in peius). The essay examines the jurisprudence on the concept of “part of the judgment”, which is the fundamental concept for the identification of the object of the appeal judgments. Although identifying the “part of the judgment” with the “decision on an issue”, the Supreme Court does not appear unambiguous in the specific definition of the concept under consideration. After criticizing guidelines which imply, in fact, a return of the appeal judgment to the model of encumbrance, a model that the Court itself considers now abandoned by the legislator, the essay examines the orientation according to which “part of the judgment” is any ruling on each of the logical antecedents of the decision contained in the operative part, in fact and/or in law, thus highlighting: (a) the jurisprudential applications; (b) the rationale and the exegetical, systematic and opportunity basis; (c) corollaries on other aspects of the system of appeals (extension of the devolutive effect to the parts of judgment dependent on those specifically affected by the grounds of appeal; devolution of cases dependent on Article 331, first paragraph, of the Civil Procedure Code, prohibition of reformatio in peius). 115 Roberto Poli 1. Considerazioni introduttive: “parte di sentenza” come “decisione di questione”. La più importante disposizione ai fini della determinazione dell’oggetto dei mezzi d’impugnazione è senza dubbio l’art. 329, comma 2°, c.p.c., che prevede la formazione del giudicato interno sulle “parti di sentenza” non colpite dai motivi d’impugnazione1. Per fare il punto a proposito dell’interpretazione del concetto di “parte di sentenza”, seguirò, in chiave critica, il percorso argomentativo di una recente sentenza della Suprema Corte che ha affrontato funditus il tema in esame2. Come si vedrà, se da un lato è davvero apprezzabile che la Corte si sia finalmente dedicata con consapevolezza ed attenzione alla definizione di un concetto fondamentale nel sistema delle impugnazioni, dall’altro lato sono decisamente da respingere sia gran parte delle premesse poste sia, soprattutto, i risultati cui tale sentenza approda. Pienamente condivisibili sono le considerazioni iniziali della Corte, laddove questa osserva che “l’art. 329 cpv. c.p.c., sostituita alla nozione di capo, adoperata dall’art. 486 c.p.c., 3° co., del 1865, quella più ampia di parte della sentenza, predica la formazione progressiva del giudicato interno e, con esso, l’altrettanto selettiva formazione dell’oggetto del giudizio d’impugnazione (contribuendo così ad abbandonare la concezione dell’appello quale puro gravame) […] La giurisprudenza di questa Corte, com’è noto, ha da sempre aderito all’impostazione che identifica la parte di sentenza nelle sole questioni, sia sostanziali che processuali, dotate di una propria autonomia e indipendenza […]”. Qui si può apprezzare l’adesione della Corte alla tesi che identifica la “parte di sentenza” con la questione – rectius, con la decisione di questione – e la consapevolezza che con il codice del 1942 e, tra l’altro, l’adozione del sintagma “parte di sentenza” al posto del “capo di sentenza”3, è stata abbandonata la concezione dell’appello come gravame4. 1 2 3 4 La disposizione in discorso è da sempre al centro di ampi e vivaci dibattiti, poiché dalla sua interpretazione discendono conseguenze rilevantissime sopra il modo di intendere natura, struttura, funzione e, appunto, oggetto del mezzo d’impugnazione considerato. I problemi interpretativi riguardano in particolare il concetto di “parte di sentenza”, che deve essere definito con precisione, ché solo in tal modo sarà possibile stabilire, una volta proposta l’impugnazione – appello o ricorso per cassazione – quanta parte del potere decisorio speso dal giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata potrà essere messo in discussione dal giudice dell’impugnazione e, all’opposto, quanta parte del medesimo potere dovrà ritenersi vincolante per lo stesso giudice dell’impugnazione, a causa della formazione del giudicato interno sulle “parti di sentenza” non impugnate (cfr. POLI, I limiti oggettivi delle impugnazioni ordinarie, Padova, 2002, passim). Cass. 7 maggio 2020, n. 8645. Nonostante tale precisazione, la Corte nel prosieguo del suo ragionamento continua a discorrere in termini di “capo di sentenza”. Sarebbe invece ora che tutti prendessero atto che la legge discorre esclusivamente di “parte di sentenza”, concetto che il legislatore ha intenzionalmente sostituito al precedente (“capo di sentenza”); sicché continuare a riferirsi al vecchio concetto (ed a suoi asseriti sottotipi), espunto dall’ordinamento da quasi cento anni, è operazione assai discutibile dal punto di vista delle regole dell’ermeneutica, specie ove utilizzata per caldeggiare la tesi dell’attuale vigenza di un modello ormai abbandonato, e che come minimo non contribuisce alla chiarezza del dibattito sul punto. Non appare tuttavia corretto sostenere che la Corte “ha da sempre aderito all’impostazione che identifica la parte di sentenza nelle sole questioni”. Infatti, in proposito vi è sempre stata molta confusione (per riferimenti v. POLI, I limiti oggettivi, cit., 11, testo e note) ed una piena e consapevole adesione alla tesi in discorso, ed alle sue implicazioni, soprattutto con riguardo al giudizio di appello (anche incidentale del soccombente virtuale), si è avuta solo con le recenti Cass., sez. un., 19 aprile 2016, n. 7700 e Cass., sez. un., 12 116 “Parte di sentenza” e formazione del giudicato interno Le affermazioni condivisibili si arrestano tuttavia a questo punto e vibrati dissensi desta il prosieguo del ragionamento, in cui la Corte si propone di definire il concetto di questione, che è il vero nodo problematico dell’intera faccenda, come vedremo tra un momento. 2. “Questione” come fattispecie nella sua interezza. Critica. A ben vedere, la Corte, più che definire il nostro concetto, vorrebbe far intendere che questo sarebbe sempre stato univoco, ben delineato e fermo nella sua giurisprudenza ed il relativo indirizzo interpretativo sarebbe stato subito chiaro dall’entrata in vigore del codice, si sarebbe poi consolidato e da allora sarebbe “proseguito senza interruzioni fino ad oggi […] senza alcuna contraddizione” (sic!)5. È davvero così? Quando ho studiato questi temi ormai vent’anni orsono, la questione mi è sembrata tutt’altro che definita6. Oggi, come vedremo, la situazione appare ancora più confusa e ingarbugliata. La Corte, per illustrare quello che sarebbe il suo chiarissimo, univoco e consolidato orientamento, inizia il ragionamento con il richiamo a principi generalissimi che abbiamo trovato centinaia di volte nelle sentenze di legittimità, ma che non aiutano per nulla a risolvere i nostri problemi, giacché, a parte la genericità, si pongono come perfette petizioni di principio. Ad esempio: “il giudicato interno non si forma su ogni questione di fatto o di diritto su cui il giudice, nel dirimere il relativo contrasto, abbia espresso il proprio convincimento, ma solo su quelle statuizioni dotate di una propria e compiuta individualità. Ne restano escluse, perciò, sia le mere argomentazioni, sia le esposizioni di un’astratta tesi giuridica, pur se servano a risolvere questioni strumentali rispetto all’attribuzione del bene controverso”7. A questo riguardo si può però osservare un primo livello di rilevante e pericolosa confusione: qui la Corte – e tutta la giurisprudenza che afferma tali massime – confondono chiaramente tra la “decisione di una questione”, di fatto o di diritto, e le argomentazioni, in fatto e/o in diritto, che vengono apportate dal giudice per motivare la sua decisione. Ad esempio, se si controverte in ordine alla sussistenza del nesso di causalità tra la esposizione all’uranio impoverito e la patologia lamentata dal militare, una cosa è la “decisione 5 6 7 maggio 2017, n. 11799 (seguita da Cass. 12 dicembre 2017, n. 29642), ove anche l’importante affermazione, in entrambe, che oggetto dell’impugnazione, anche nel giudizio di appello, è la decisione impugnata (e non la domanda oggetto del giudizio di primo grado). In proposito v. anche Cass., sez. un., 20 ottobre 2016, n. 21260. Per i numerosi argomenti a favore della tesi che identifica la “parte di sentenza” con la decisione di questione, v. POLI, I limiti oggettivi, cit., 153 ss. Si tratta di un concetto ripetuto continuamente nel corpo della motivazione di Cass. n. 8645/20. Cfr. POLI, I limiti oggettivi delle impugnazioni ordinarie, cit., passim. Così Cass. 7 maggio 2020, n. 8645. La Corte richiama anche la massima, del pari frequentissima nei nostri repertori, ma ancor più generica, secondo cui “la formazione della cosa giudicata (s’intende, in senso processuale) per mancata impugnazione su un determinato capo della sentenza investita dall’impugnazione, può verificarsi soltanto con riferimento ai capi della stessa sentenza completamente autonomi, in quanto concernenti questioni affatto indipendenti da quelle investite dai motivi di gravame, perché fondate su autonomi presupposti di fatto e di diritto, tali da consentire che ciascun capo conservi efficacia precettiva anche se gli altri vengono meno, mentre, invece, non può verificarsi sulle affermazioni contenute nella sentenza che costituiscano mera premessa logica della statuizione adottata, ove quest’ultima sia oggetto del gravame” (tra le molte in tal senso v., ad es., Cass. 31 gennaio 2018, n. 2379). 117 Roberto Poli della questione”, con la quale il giudice afferma ed accerta la sussistenza del nesso nel caso di specie – decisione che, come vedremo, determina in concreto e struttura la soccombenza8 – altra cosa è la motivazione, più o meno complessa a seconda dei casi, con la quale il giudice giustifica la sua decisione; vale a dire il contesto del discorso con il quale il giudice, sul piano meramente argomentativo, indica le specifiche ragioni – tratte dalla valutazione delle prove e/o dalla interpretazione delle norme applicabili al punto oggetto di decisione – che lo hanno portato ad assumere quella specifica decisione di esistenza del nesso di causalità nel caso di specie9. La Corte prosegue poi il suo ragionamento e, con maggior specificazione, aggiunge che “se parti della sentenza sono (anche) le singole questioni decise che avrebbero potuto essere oggetto di apposita e separata pronuncia e che non soffrono la soluzione delle questioni successive, deve coerentemente ricondursi la preclusione in oggetto alle sole interlocuzioni suscettibili di sentenza (definitiva o non secondo l’esito), vale a dire alle sole questioni pregiudiziali di rito o preliminari di merito intese nella loro interezza e nella funzione che svolgono ai fini dell’ordinato progredire del processo. La c.d. acquiescenza tacita, pertanto, trova applicazione con riguardo alle sole parti della decisione impugnata che hanno respinto una domanda o risolto una questione preliminare di merito o pregiudiziale di rito”10. Prima di richiamare in sintesi le principali obiezioni a tale ricostruzione, vediamo in che modo la Corte conclude il proprio ragionamento, non senza aver sin da ora rilevato in che modo qui essa confonda la questione come possibile oggetto (del dispositivo) di una sentenza, definitiva o non definitiva, con la questione quale possibile oggetto dell’impugnazione; in altre parole, la Corte confonde la risposta alla domanda sull’esistenza dell’effetto giuridico richiesto, contenuta nel dispositivo della sentenza, che stabilisce la soccombenza, con le decisioni delle questioni contenute nella motivazione, che determinano in concreto e strutturano la soccombenza stessa e che possono costituire l’oggetto dell’impugnazione11. 8 9 10 11 V. infra, § 5. In sintesi, la giurisprudenza in esame non si avvede che quella che chiama “mera premessa logica della statuizione impugnata”, vale a dire la motivazione della sentenza, è costituita da due componenti strutturalmente e funzionalmente ben distinte tra loro: (i) le “decisioni delle questioni”, che determinano e strutturano la soccombenza, e (ii) la giustificazione di tali decisioni, rappresentata da argomentazioni probatorie e/o in diritto che non strutturano la soccombenza e non vincolano il giudice dell’impugnazione. In questi termini, v. chiaramente Cass., 12 dicembre 2017, n. 29642, in motivazione. Sul punto, v. infra, § 5. Così Cass., 7 maggio 2020, n. 8645. Questo ragionamento riprende pedissequamente la tesi sostenuta nella nostra dottrina da Nicola Rascio, nel suo pregevole studio del 1998 (RASCIO, L’oggetto del giudizio di appello, Napoli, 1998, 115 ss., spec. 121 e 128), tesi accolta da alcune sentenze non più recenti (Cass., 21 dicembre 1999, n. 14421; Cass., 29 ottobre 1998, n. 10832; Cass., 10 luglio 1998, n. 6769) e tuttavia, per le numerose ragioni che ho già illustrato ormai da tempo, a mio avviso per nulla condivisibile: v. POLI, I limiti oggettivi, cit., 136 ss., 155 ss., 163 ss., 181 ss., 196 ss., 215 ss., 273 ss., 370, nota 636, 409 ss., cui rinvio per un discorso assai più completo e dettagliato rispetto a quello parziale e sintetico possibile in questa sede. V. infra, § 5. La Corte prosegue la sua argomentazione ed osserva che, così ragionando, “ne risulta rinvigorito il necessario legame con l’art. 187 c.p.c., commi 2 e 3 e art. 279 c.p.c., senza il quale l’interpretazione dell’art. 329, c.p.v., c.p.c. vaga per terre incognite, alla mercé di impressioni arbitrarie e di soluzioni estemporanee”; e poco dopo rimarca “l’inevitabile vaghezza dei requisiti di «autonomia», «indipendenza», «propria individualità» della questione, contraltare dell’altrettanto generico concetto di «parte della sentenza» contenuto nell’art. 329, cpv. c.p.c.” (Cass. 7 maggio 2020, n. 8645). In realtà, come vedremo fra poco, le questioni suscettibili 118 “Parte di sentenza” e formazione del giudicato interno La Corte si avvia a concludere il proprio ragionamento osservando che “si è ormai consolidato l’indirizzo – inaugurato dalla sentenza n. 10832/98 e ripreso, dopo un lungo intervallo, dalla n. 16583/12 e da allora proseguito senza interruzioni fino ad oggi – secondo cui ai fini della selezione delle questioni, di fatto o di diritto, suscettibili di devoluzione e, quindi, di giudicato interno se non censurate in appello, la locuzione giurisprudenziale “minima unità suscettibile di acquisire la stabilità del giudicato interno” individua la sequenza logica costituita dal fatto, dalla norma e dall’effetto giuridico, ossia la statuizione che affermi l’esistenza di un fatto, sussumibile sotto una norma, cui il giudice ricolleghi un dato effetto giuridico. Ne consegue che, sebbene ciascun elemento di detta sequenza possa essere oggetto di un apposito motivo d’impugnazione, quest’ultima, ove motivata in ordine anche ad uno soltanto di essi, riapre la cognizione del giudice dell’impugnazione sull’intera statuizione” (corsivo mio)12. Qui la Corte, senza dar alcun peso alla cosa, richiama un diverso orientamento della giurisprudenza di legittimità – quello appunto secondo cui per decisione di questione deve intendersi la decisione avente ad oggetto congiuntamente le decisioni sull’esistenza di un fatto, l’esistenza di una norma, l’effetto da questa previsto. E ragiona come se i due orientamenti fossero pienamente fungibili, ma in realtà, come osserveremo, la giurisprudenza di legittimità si riferisce la maggior parte delle volte a quest’ultimo, senza nominare il possibile contenuto delle sentenze non definitive (ed in effetti i due criteri non coincidono)13. Infine la Corte tira le somme del suo ragionamento e conclude nei seguenti termini: “Pertanto, affinché questi possa ricostruire i fatti in maniera autonoma rispetto a quanto prospettato dalle parti, e/o procedere ad una diversa loro qualificazione giuridica, non occorre un’apposita censura sugli uni o sull’altra, ma è sufficiente che sia contestato anche soltanto l’effetto finale che il giudice a quo ne ha tratto”. 12 13 di giudicato interno per impugnazione parziale ex art. 329, co. 2, c.p.c. possono essere individuate con precisione e chiarezza del tutto indipendentemente dal riferimento al possibile contenuto delle sentenze non definitive (v. infra, § 6). La Corte poi richiama altre due massime che pure frequentemente si trovano nei nostri repertori: (a) il principio del tantum devolutum quantum appellatum non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, nonché in base alla qualificazione giuridica dei fatti medesimi e, in genere, all’applicazione di una norma giuridica diversa da quella invocata dalla parte, né incorre nella violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato il giudice d’appello che, rimanendo nell’ambito del petitum e della causa petendi, confermi la decisione impugnata sulla base di ragioni diverse da quelle adottate dal giudice di primo grado o formulate dalle parti, mettendo in rilievo nella motivazione elementi di fatto risultanti dagli atti ma non considerati o non espressamente menzionati dal primo giudice (in questi termini v., ad es., Cass., 11 gennaio 2019, n. 513); (b) l’applicazione del principio iura novit curia fa salva la possibilità-doverosità per il giudice di dare una diversa qualificazione giuridica ai fatti ed ai rapporti dedotti in lite nonché all’azione esercitata in causa, ricercando, a tal fine, le norme giuridiche applicabili alla vicenda descritta in giudizio e ponendo a fondamento della sua decisione disposizioni e principi di diritto eventualmente anche diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti, con il solo limite dell’immutazione della fattispecie da cui conseguirebbe la violazione del principio di correlazione tra il chiesto ed il pronunciato (così, ancora, Cass., 7 maggio 2020, n. 8645). A questo proposito, salvo riprendere a breve il discorso nel testo, per il momento osservo solo che il principio iura novit curia ha una portata ben diversa a seconda che debba essere applicato al giudizio di primo o alle fasi d’impugnazione, dove può esplicarsi solo nell’ambito della specifica questione sollevata con il motivo d’impugnazione (cfr. POLI, I limiti oggettivi, cit., 301 ss., 346 ss.). Cass. 7 maggio 2020, n. 8645. Nel senso che il giudicato interno non può formarsi sui presupposti necessari di fatto della decisione contenuta nel dispositivo v. anche, di recente, Cass., 1 luglio 2020, n. 13412; Cass., 18 giugno 2020, n. 11897; Cass., 15 giugno 2020, n. 11540. Sulla non configurabilità del giudicato interno sulla qualificazione della domanda v., ad es., Cass., 24 giugno 2020, n. 12246. V. infra, § 3. 119 Roberto Poli Orbene, questa conclusione lascia a dir poco perplessi, giacché, come vedremo, contraddice apertamente i principi affermati dalla Corte stessa da oltre trent’anni a proposito del giudizio di appello e sostanzialmente dall’entrata in vigore del codice per quello che riguarda il giudizio di cassazione, cui pure, secondo la sentenza ora in esame, tale conclusione si applicherebbe. La sentenza in esame tenta peraltro di individuare il fondamento normativo – le “solide basi” – di siffatta conclusione: “L’essenza della giurisdizione risiede non già nel risolvere purchessia la controversia, ma nel dirimerla attraverso lo ius dicere, cioè individuando ed interpretando correttamente le norme deputate a regolare una determinata fattispecie. Il che rientra nei compiti istituzionali del giudice, tenuto a rispettare parametri logicogiuridici su cui la condotta delle parti non può interferire. A maggior ragione la funzione nomofilattica, che l’art. 65 dell’ordinamento giudiziario assegna alla Corte di cassazione, nell’esplicare l’esportazione dei precedenti a futuri casi simili, esige formulazioni dotate di coerenza teoretica; la quale, a sua volta, non può essere rimessa alle parti né quale onere né quale potere (come del resto conferma la funzione correttiva della motivazione in diritto14, che la Corte esercita d’ufficio nell’ipotesi di cui all’art. 384 c.p.c.)”15. Ebbene, è fin troppo evidente che questo argomento prova troppo o non prova nulla. Prova troppo perché, ove fosse preso alla lettera ed in termini assoluti, esso comporterebbe lo stravolgimento dell’intero attuale sistema processuale: dovremmo infatti, per coerenza, eliminare, a titolo esemplificativo: le preclusioni di merito ed istruttorie in primo grado; il principio di non contestazione; l’onere di disconoscimento della scrittura privata; le prove legali; tutto il processo del lavoro; gli artt. 157 e 161, primo comma, c.p.c., e così via (fino ad ipotizzare l’introduzione di un terzo grado di merito, l’ammissibilità della c.d. reformatio in pejus ed una maggiore tangibilità, se non l’eliminazione tout court, del giudicato)16. 14 15 16 Non sembra proprio che la funzione correttiva della motivazione in diritto, esercitata d’ufficio dalla Corte nell’ipotesi di cui all’art. 384 c.p.c., confermi l’argomento in esame. Come è noto, infatti, il giudizio di cassazione ha ad oggetto solo le questioni riaperte con i motivi di ricorso (per cui la Corte non enuncia principi di diritto con riguardo alle decisioni di questioni passate in giudicato interno), ed anche il potere correttivo, secondo la migliore interpretazione di detta disposizione, può essere esercitato solo nell’ambito delle singole, specifiche questioni riaperte con i motivi, mentre il novero delle ‘questioni’ qui rilevanti – come vedremo meglio infra § 6 – deve essere rintracciato nell’alveo dell’art. 360, primo comma, c.p.c.; per maggiori dettagli in proposito, v. POLI, I limiti oggettivi, cit., 548 ss. La sentenza in esame poi aggiunge che “collegare l’effetto preclusivo di cui all’art. 329 cpv. c.p.c. alla mancata impugnazione di affermazioni giuridiche isolatamente considerate, scisse cioè dal complessivo ragionamento svolto dalla sentenza impugnata nel richiamare e applicare le norme di diritto, significherebbe vincolare il giudice dell’impugnazione non alla domanda – cioè all’oggetto sostanziale del processo –, ma ad un opzione ermeneutica, ancorché, in ipotesi, incoerente con gli effetti che l’una o l’altra parte intendano lucrare a proprio vantaggio”. A questo proposito si può osservare che le “decisioni delle questioni” di diritto e di fatto, come esemplificate tra poco nel testo (ad es. l’individuazione della norma di diritto sostanziale applicabile, l’accertamento del nesso di causalità, il criterio di calcolo degli interessi sulla somma rivalutata, ecc.), non possono certo essere confuse con le “affermazioni giuridiche isolatamente considerate” e che l’idea di vincolare anche il giudice dell’impugnazione, e non solo quello di primo grado, alla domanda nella sua interezza, è l’idea alla base del modello del gravame, che la Corte stessa, nella medesima sentenza ora in discorso, afferma abbandonato sin dall’entrata in vigore del codice del 1940 (come pure chiarito tra poco nel testo). Alla stessa stregua, peraltro, nemmeno il giudicato interno ex art. 329 cpv. c.p.c. sulle fattispecie considerate nella loro interezza, o sul solo an debeatur, ecc. potrebbe essere ammesso. Infatti l’argomento della Corte potrebbe essere recepito in termini assoluti solo all’interno di un sistema in cui parte di sentenza corrispondesse a decisione di domanda, con effetto devolutivo pieno ed automatico, e dunque ad un sistema in cui il giudizio di appello fosse strutturato sul modello del gravame puro, che viceversa la 120 “Parte di sentenza” e formazione del giudicato interno Vero è piuttosto che l’argomento in sé non prova nulla: in effetti, pur riconoscendo il ruolo di ideale regolativo all’esigenza che la fattispecie sia correttamente disciplinata, tale esigenza deve fare i conti con tutte le altre esigenze del processo civile – tra cui quelle per cui il processo deve svolgersi in modo ordinato, certo, concentrato, tenuto conto del ruolo fondamentale che hanno le parti nella determinazione del suo oggetto, in primo grado come nelle fasi d’impugnazione – ed in particolare con il diritto positivo; per cui solo all’esito di una considerazione complessiva dei principi e delle norme che regolano il processo stesso potrà individuarsi esattamente la portata dell’esigenza che la decisione della domanda giudiziale sia sempre pienamente conforme alla legge17. Vediamo, ora, cosa comporta, sul piano pratico, l’adozione dell’orientamento qui criticato. Un esempio chiarirà adeguatamente questo aspetto: come è noto, nelle cause per risarcimento danni, affinché il giudice possa pronunciare la sentenza di condanna può essere necessario decidere una serie numerosissima ed estremamente complicata di eterogenee questioni, ben distinte tra questioni di diritto (ad es., la natura della responsabilità, l’individuazione e l’interpretazione della norma di diritto sostanziale applicabile, la distribuzione dell’onere della prova, l’individuazione e la corretta applicazione del criterio della ‘causalità’, l’individuazione e la corretta applicazione dello standard di prova, l’ammissibilità di uno più ragionamenti presuntivi, in relazione alla interpretazione della gravità, precisione e concordanza) e questioni di fatto, queste ultime anche estremamente eterogenee tra loro, che possono richiedere lunghe e complesse consulenze tecniche d’ufficio (ad es., la ricostruzione della condotta lesiva, l’accertamento dell’elemento soggettivo, nonché del nesso di causalità, dato un certo criterio di causalità, che da solo può richiedere numerosissimi sub-accertamenti del tutto autonomi e diversificati); e ciò lasciando in disparte tutte le numerose, complicate ed eterogenee questioni che possono porsi a proposito della determinazione del quantum debeatur18. Ebbene, secondo l’orientamento qui criticato, sarebbe sufficiente anche un solo motivo di appello del convenuto soccombente che censurasse anche una sola delle numerose decisioni di questione contenute nella sentenza impugnata19, per rendere del tutto inefficaci tutte le altre decisioni di questione, rimettere in discussione tutte le questioni oggetto di decisione nella sentenza di primo grado sulle cui soluzioni le parti avevano prestato acquiescenza (perché ritenute corrette, eviden- 17 18 19 stessa Corte ritiene ormai da tempo abbandonato; solo in tal modo invero sarebbe possibile “vincolare il giudice dell’impugnazione alla domanda nella sua interezza”, come auspica la pronuncia in esame, e non alle singole decisioni di questioni non colpite dai motivi d’impugnazione. Sull’importanza dei valori “dell’ordine e della speditezza del processo”, con i quali devono trovare un punto di bilanciamento anche gli altri valori, pure se costituzionali, v. Cass., sez. un., 20 ottobre 2016, n. 21260. Si pensi, tra le altre, alle cause per responsabilità medica o per esposizione a sostanze tossiche, come l’uranio impoverito o il fumo di sigarette, nelle quali possono presentarsi numerosissime, autonome e delicate questioni di fatto già per accertare il solo c.d. nesso di causalità materiale. Ad es., la questione: a) della individuazione della norma applicabile; o quella b) relativa all’accertamento di uno solo degli elementi fattuali della condotta lesiva; o quella c) relativa ad uno solo dei numerosi sub accertamenti necessari per affermare la sussistenza del nesso causale; o quella d) della liquidazione di una sola voce di danno, tra le plurime riconosciute in sentenza; o quella e) del calcolo degli interessi sulla somma rivalutata, ecc. 121 Roberto Poli temente), e consentire al giudice di appello di “ricostruire i fatti in maniera autonoma rispetto a quanto prospettato dalle parti” e, sempre del tutto autonomamente, qualificare la fattispecie, individuare ed interpretare tutte le norme applicabili alla fattispecie stessa, senza bisogno di alcuna censura al riguardo ad opera delle parti stesse20. Questo “sistema delle impugnazioni” che scaturisce dall’orientamento qui non condiviso comporta: i) una piena quanto ingiustificata svalutazione dell’intera attività decisoria svolta in primo grado sulle questioni (ed anche di quella svolta nel giudizio di appello, ove si ritenga tale sistema operante anche in Cassazione), che resta priva di qualunque efficacia anche solo endoprocessuale una volta proposto l’appello, a prescindere dalla presenza o meno di specifiche censure delle parti; ii) comporta per la parte appellata (e destinataria del ricorso per cassazione), anche dove la censura della parte impugnante abbia riguardato solo un aspetto della pronuncia (ad esempio, la ritenuta inapplicabilità alla fattispecie di una invocata disposizione di legge, o la mancata prova del nesso causale), la necessità di 20 Lo stesso discorso può svolgersi anche con riguardo alle fattispecie, estintive, modificative ed impeditive. Ragioniamo, ad esempio, con riferimento alla questione di prescrizione. Ipotizzando un giudizio per risarcimento dei danni alla salute, la fattispecie estintiva prescrizione può presentare almeno tre questioni molto complesse e del tutto autonome tra di loro (lasciando fuori una quarta possibile questione, quella della prescrittibilità dell’azione): (i) la questione della decorrenza del termine (se dalla insorgenza della malattia o dalla morte della parte danneggiata); (ii) la questione della durata del termine (cinque anni o il termine più lungo previsto dal reato in ipotesi configurabile); (iii) la questione della esistenza di un valido atto interruttivo. Si tratta, come ciascuno può constatare, di tre questioni autonome e complesse, sulle quali può ben svilupparsi un ampio e del pari autonomo nonché complesso dibattito processuale (si pensi alla questione della decorrenza del termine di prescrizione nei c.d. danni lungolatenti o alla questione dell’applicabilità dei principi di cui all’art. 2, co. 4°, c.p., anche ai fini della individuazione della durata del termine della prescrizione civile: su tali questioni v., ad es., Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, nn. 580 e 581). All’esito di tale ampio e complesso dibattito, il giudice di primo grado può decidere tutte e tre le autonome questioni in senso favorevole alla parte attrice e quindi stabilire che il termine decorre dalla morte, che si applica il termine più lungo e che esiste un efficace atto interruttivo della prescrizione. Se il convenuto soccombente nel merito si convince della piena legittimità delle prime due decisioni e, per l’effetto, censura con un unico motivo specifico di appello solo la terza decisione, perché mai il giudice di appello dovrebbe occuparsi d’ufficio anche delle prime due? Ma vi è di più. Infatti, secondo l’orientamento in discussione, la ora descritta devoluzione piena della fattispecie nella sua interezza – e quindi con automatica devoluzione di tutte le autonome questioni oggetto di decisioni sebbene non colpite dalla impugnazione – si determinerebbe anche nel giudizio di cassazione, pure ove il convenuto soccombente in appello si limitasse a proporre un unico motivo di ricorso, ad esempio per omesso esame circa un fatto decisivo, ex art. 360, comma 1°, c.p.c. In effetti la Corte, nella pronuncia n. 8645/20 in esame, non pone alcuna distinzione ed anzi sottolinea che la “questione” devoluta è rappresentata dalla fattispecie nella sua interezza vuoi che la “parte di sentenza” impugnata sia quella di primo grado, vuoi che sia quella di appello impugnata con ricorso per cassazione (ragionare diversamente, invero, secondo la pronuncia in parola, “equivarrebbe a minare le basi stesse del controllo di legittimità”). Nella sentenza di Cass. n. 8645/2020 si legge infatti: “Aprire all’idea di un uso ‘negoziale’ della legge, impedendone in sede d’impugnazione la corretta identificazione e/o interpretazione ove non oggetto di critica ad opera delle parti, equivarrebbe a minare le basi stesse del controllo di legittimità (e non solo di esso)”. Quindi: proposto motivo di ricorso per violazione dell’art. 2050 c.c., il giudice di cassazione potrebbe riscontrare d’ufficio la violazione dell’art. 2929 c.c. a proposito dell’accertamento del nesso di causalità materiale (che era stato riconosciuto in base ad un ragionamento presuntivo) e viceversa. A ben vedere, vi è ancora di più. Sempre in base all’orientamento che qui si critica, poiché la fattispecie costitutiva sarebbe devoluta in appello nella sua interezza, con piena riapertura della cognizione del giudice dell’impugnazione, pure ove questa fosse motivata in ordine anche ad una soltanto delle autonome decisioni di questioni oggetto del primo giudizio, qualora ad avviso della Corte di cassazione il giudice d’appello non avesse esercitato i poteri d’ufficio di ricostruzione dei fatti (ad es. per accertata, dalla Corte stessa, violazione dell’art. 2929 c.c.) o di corretta individuazione della norma applicabile (ad es. per accertata violazione, sempre dalla stessa Corte, dell’art. 2050 c.c.), sarebbe la Corte di cassazione a dover cassare la sentenza di appello (per violazione dell’art. 2929 c.c. e/o dell’art. 2050 c.c.), anche se le parti interessate avevano ritenuto perfettamente legittime le rispettive decisioni del giudice di primo e proprio per ciò non avevano proposto alcun motivo di appello sulle corrispondenti “parti della sentenza” di primo grado. Ragiona in questi termini, ad es., Cass., sez. un., 27 ottobre 2016, n. 21691, per nulla condivisibile. V. invece, molto chiaramente e del tutto correttamente, Cass., 22 marzo 2011, n. 6525, in motivazione. 122 “Parte di sentenza” e formazione del giudicato interno predisporre uno sforzo difensivo non solo del tutto indipendente dall’iniziativa dell’appellante – l’unico cui si dovrebbe riconoscere l’interesse a delimitare l’ambito dell’oggetto del giudizio d’impugnazione – ma onnicomprensivo, ovvero capace di contrastare l’eventuale riforma di tutte le decisioni, su ciascun punto di fatto e di diritto, rese dal giudice inferiore in merito a quella fattispecie (incluse quelle sulle quali in primo grado non vi era stata contestazione)21; iii) comporta pertanto una totale ripetizione del giudizio di primo grado (e di secondo grado ove applicato anche in Cassazione), anche ove la parte convenuta soccombente abbia censurato solo un aspetto marginale della prima decisione (ad esempio, la statuizione sugli accessori del credito oggetto della condanna); iv) comporta anche per la parte che appella (o che propone ricorso per cassazione) l’onere di predisporre uno sforzo difensivo non solo del tutto indipendente dall’iniziativa dell’appellato (o del destinatario del ricorso per cassazione) – l’unico cui si dovrebbe riconoscere l’interesse ad estendere, tramite l’impugnazione incidentale (o, a seconda dei casi, la riproposizione ex art. 346 c.p.c.), l’ambito dell’oggetto del giudizio d’impugnazione – ma onnicomprensivo, nel senso chiarito sub ii)22. Inoltre, tale “sistema delle impugnazioni”, per le ragioni appena indicate, sottrae la fase di appello (e di legittimità) alla “essenziale realizzazione contraddittoria della tutela richiesta”23, e non consente, relativamente a tali fasi, una piena e coerente attuazione dei principi dispositivo e della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, che operano anche nelle fasi d’impugnazione, lasciando il giudice libero di definire il giudizio, attraverso la decisione di questioni non sollevate dalle parti, in termini nemmeno immaginabili dalle parti stesse al momento della proposizione dell’impugnazione (visto che il giudice dell’impugnazione può confermare la sentenza impugnata, in danno della parte impugnante, sulla base di fatti diversi da quelli fatti valere dalla parte interessata e sui quali si era fondata la sentenza impugnata). Come ho anticipato poc’anzi, e chiunque può agevolmente comprendere, si tratta di un “sistema delle impugnazioni civili” in chiaro, aperto ed insanabile contrasto con tutte le regole e con tutti i principi dettati negli ultimi trent’anni dalla giurisprudenza di legittimità a proposito della formazione dell’oggetto del giudizio di appello e, dall’entrata in vigore del codice, a proposito dell’oggetto del giudizio di cassazione. Infatti, è manifestamente contraddittorio affermare, da un lato, che l’appello è una impugnazione in senso stretto a critica libera24, basata sulla deduzione di specifici vizi di 21 22 23 24 V., ad es., la fattispecie poi correttamente decisa da Cass., 10 luglio 2020, n. 14709; v. anche, analogamente, Cass., 22 luglio 2005, n. 15356. V., invece, non correttamente, ad es., tra le molte, Cass., 17 aprile 2019, n. 10760; Cass., 2 ottobre 2015, n. 19709. V., ad es., la vicenda poi risolta correttamente da Cass., 12 dicembre 2017, n. 29642; per l’ipotesi indicata nel testo, e quindi non correttamente, v., ad es., Cass., 25 settembre 2009, n. 20652; Cass., 10 aprile 1997, n. 3100. SATTA-PUNZI, Diritto processuale civile, Padova, 2000, 145. V., ad es., Cass., 30 novembre 2018, n. 31101, ove si legge: “Non occorre soffermarsi approfonditamente sull’evoluzione del giudizio di appello e sulla sua trasformazione da mezzo di gravare in mezzo di impugnazione in senso stretto avente ad oggetto non già il rapporto controverso, bensì la sentenza impugnata”. Talvolta si riscontra nelle sentenze della Suprema Corte l’affermazione secondo cui la concezione dell’appello come revisio prioris instantiae non trasforma tale mezzo in «un giudizio a critica vincolata», e ciò per negare che oggetto diretto dell’appello è la sentenza impugnata, e oggetto solo indiretto è il rapporto giuridico controverso (v., ad es. Cass., 11 aprile 2016, n. 6978). Tuttavia, se per «giudizio a critica vincolata» si ritiene (a mio avviso correttamente) quel mezzo i cui 123 Roberto Poli illegittimità, formale o sostanziale, della sentenza di primo grado che è assistita da presunzione di legittimità25, ed esigere motivi di censura rigorosamente specifici26, con la puntuale indicazione degli errori, in iudicando o in procedendo, relativi alle questioni ed ai punti decisi nella sentenza impugnata27, distinguendo chiaramente tra questioni di fatto e questioni di diritto28, al fine di circoscrivere rigidamente l’oggetto ed i poteri di cognizione del giudice d’appello su tali questioni e punti29. E poi contestualmente sostenere, dall’altro lato, “che, sebbene ciascun elemento [di fatto o di diritto] di detta sequenza possa essere 25 26 27 28 29 motivi d’impugnazione sono predeterminati tassativamente dal legislatore, il rilievo non appare pertinente; se invece si ritiene, con tale espressione, quel giudizio il cui oggetto sia rigidamente delimitato dai motivi d’impugnazione proposti, sappiamo che esattamente in questi termini si esprime la giurisprudenza di legittimità a proposito del giudizio di appello, la quale correttamente parla al riguardo di “impugnazione in senso stretto a critica libera” (dovendosi intendere, con quest’ultima espressione, semplicemente il fatto che i motivi di censura non sono predeterminati dal legislatore e possono consistere in qualunque vizio di formazione del provvedimento; e non certo che il giudice di appello e libero di decidere questioni indipendentemente dalla iniziativa della parte appellante, in via principale o incidentale). Sull’appello come impugnazione a critica libera v., tra le molte, Cass., 16 maggio 2018, n. 12012, e, come impugnazione in senso stretto, Cass., 5 luglio 2019, n. 18160; contra, Cass., 24 aprile 2019, n. 11197. Cass., sez. un., 8 febbraio 2013, n. 3033, in Riv. dir. proc. 2013, 1184 ss., con mia nota adesiva, Appello come revisio prioris instantiae e acquisizione del documento erroneamente interpretato e valutato dal giudice di primo grado; successivamente, negli stessi termini, v. Cass., 9 giugno 2016, n. 11797. Più di recente, sul punto, v. Cass., 24 febbraio 2020, n. 4782; Cass., 7 agosto 2019, nn. 21063 e 21062; Cass., 19 luglio 2019, n. 19529; Cass., 21 febbraio 2018, n. 4229; Cass., sez. un., 16 novembre 2017, n. 27199; Cass., 11 agosto 2016, n. 17037; Cass., 6 giugno 2016, n. 11574. V. anche Cass., sez. un., 23 dicembre 2005, n. 28498, in Foro it. 2006, I, 1436 ss., con nota critica di BALENA, ORIANI, PROTO PISANI, RASCIO, Oggetto del giudizio di appello e riparto degli oneri probatori: una recente (e non accettabile) pronuncia delle sezioni unite e in Riv. dir. proc., 2006, 1397 ss., con mia nota adesiva, L’oggetto del giudizio di appello. Ex multis, Cass., 7 ottobre 2020, n. 21570; Cass., 28 agosto 2020, n. 18041; Cass., 22 giugno 2020, n. 12080; Cass., 27 aprile 2020, n. 8194; Cass., 10 marzo 2020, n. 6734; Cass., 28 febbraio 2020, n. 5528; Cass., 7 febbraio 2020, n. 2977; Cass., 16 gennaio 2020, n. 795; Cass., 30 ottobre 2019, n. 27926; Cass., 21 dicembre 2018, n. 33124; Cass., 21 dicembre 2018, n. 33123; Cass., sez. un., 16 novembre 2017, n. 27199; Cass., 11 agosto 2016, n. 17037; Cass., 6 giugno 2016, n. 1574; Cass., sez. un., 9 novembre 2011, n. 23299; Cass., 31 maggio 2006, n. 12984. Cass., 21 dicembre 2018, n. 33124; Cass., 21 dicembre 2018, n. 33123; Cass., 11 agosto 2016, n. 17037; Cass., 6 giugno 2016, n. 1574; Cass., 15 aprile 2016, n. 7523; Cass., 15 aprile 2016, n. 7504; Cass., 8 aprile 2016, n. 6881; Cass., 20 gennaio 2016, n. 962; Cass., 18 febbraio 2015, n. 3200; Cass., 12 dicembre 2014, n. 26191; Cass., 27 marzo 2013, n. 7761; in tali pronunce si afferma che il motivo è specifico quando, in base ad un giudizio ex ante, l’eventuale fondatezza dell’argomentazione priverebbe di base logica la sentenza impugnata, così mutuando la formula da me proposta (cfr. POLI, I limiti oggettivi, cit., 473). Parlano espressamente di “questioni e punti” della decisione, che devono essere oggetto di specifica censura, tra le altre, Cass., 10 marzo 2020, n. 6734; Cass., 4 marzo 2020, n. 6008; Cass., 28 febbraio 2020, n. 5528; Cass., 30 ottobre 2019, n. 27926; Cass., 25 luglio 2019, n. 20195; Cass., 26 marzo 2019, n. 8394. Cass., sez. un., 16 novembre 2017, n. 27199; Cass., sez. un., 6 giugno 1987, n. 4991, in Foro it. 1987, I, 3037, con nota di BALENA. V. anche il chiaro testo dell’art. 342, comma 1°, c.p.c., come risultante dalla riforma del 2012. Così, a far data da Cass., sez. un., 6 giugno 1987, n. 4991, cit., la cui motivazione, in relazione alla fattispecie decisa, è emblematica ai fini argomentativi qui perseguiti. Successivamente, sempre delle Sezioni Unite sul punto specifico v. anche Cass., sez. un., 29 gennaio 2000, n. n. 16, ivi, 2000, I, 1606, con note di BALENA, BARONE e PROTO PISANI; Cass., sez. un., 23 dicembre 2005, n. 28498, cit.; Cass., sez. un., 8 febbraio 2013, n. 3033, cit.; Cass., sez. un., 16 novembre 2017, n. 27199. Tra le moltissime altre, di recente, v. Cass., 7 ottobre 2020, n. 21570; Cass., 28 agosto 2020, n. 18041; Cass., 22 giugno 2020, n. 12080; Cass., 16 giugno 2020, n. 11635, ove si precisa che “la necessità dell’indicazione, da parte dell’appellante, delle argomentazioni da contrapporre a quelle contenute nella sentenza di primo grado serve proprio ad orientare entro precisi confini il compito del giudice dell’impugnazione” (così anche Cass., 13 agosto 2019, n. 21397; Cass., 12 agosto 2019, n. 21331; Cass., 8 febbraio 2019, n. 3831; Cass., 20 novembre 2018, n. 29991, con ulteriori richiami); Cass., 27 aprile 2020, n. 8194; Cass., 10 marzo 2020, n. 6734; Cass., 28 febbraio 2020, n. 5545; Cass., 28 febbraio 2020, n. 5528; Cass., 7 febbraio 2020, n. 2977; Cass., 16 gennaio 2020, n. 795; Cass., 16 dicembre 2019, n. 33228; in tempi meno recenti, v. Cass., sez. un., 9 novembre 2011, n. 23299; Cass. 13 marzo 2009, n. 6156; Cass., 25 febbraio 2008, n. 4778; Cass., 31 maggio 2006, n. 12984; Cass., 30 luglio 2004, n. 14620; Cass., 24 ottobre 2003, n. 16009; Cass., 17 ottobre 2003, n. 15548; Cass., 27 settembre 2002, n. 14027; Cass., 27 ottobre 2000, n. 14235; Cass., 15 maggio 2000, n. 6231; Cass., 15 gennaio 1997, n. 355; Cass., 22 novembre 1996, n. 10354; Cass., 27 febbraio 1996, n. 1535; Cass., 18 novembre 1995, n. 11934; Cass., 24 giugno 1995, n. 7169; Cass. 4 gennaio 1995, n. 111; Cass., 7 settembre 1994, n. 7688; Cass., 15 aprile 1993, n. 4473; Cass., 16 luglio 1992, n. 8603; Cass., 29 maggio 1990, n. 5029; Cass., 16 giugno 1989, n. 2914; Cass., 16 giugno 1989, n. 2914, tutte in motivazione. 124 “Parte di sentenza” e formazione del giudicato interno oggetto di un apposito motivo d’impugnazione, quest’ultima, ove motivata in ordine anche ad uno soltanto di essi, riapre la cognizione del giudice dell’impugnazione sull’intera statuizione”, e che “affinché questi possa ricostruire i fatti in maniera autonoma rispetto a quanto prospettato dalle parti, e/o procedere ad una diversa loro qualificazione giuridica, non occorre un’apposita censura sugli uni o sull’altra, ma è sufficiente che sia contestato anche soltanto l’effetto finale che il giudice a quo ne ha tratto”30. L’orientamento qui discusso non consente una piena e coerente attuazione dei principi dispositivo31 e della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato32, che si applicano anche nelle fasi d’impugnazione; nonché con il principio di non contestazione33, con quello della conversione delle ragioni di nullità in motivi d’impugnazione34, con il principio per il quale, quando la decisione si fonda su una pluralità di rationes decidendi, l’impugnazione che non le censuri entrambe è inammissibile per difetto d’interesse35, con il principio di consumazione dell’impugnazione36 e con l’onere di riproposizione a pena di decadenza ex art. 346 c.p.c.37. 30 31 32 33 34 35 36 37 Così Cass., 7 maggio 2020, n. 8645; ed in tali termini v., ad es., Cass., 27 maggio 2016, n. 11031. Invece, molto chiaramente nel senso da me sostenuto, cfr. Cass., 1 marzo 2001, n. 3002, a proposito della qualificazione giuridica della domanda: “É ben noto che, con riguardo ad una sentenza di primo grado che si articoli in una pluralità di statuizioni autonome, l’atto di gravame il quale contenga censure solo contro alcune di dette statuizioni, non consente al giudice di appello di prendere in esame le altre. Il thema decidendum nel giudizio di secondo grado è infatti delimitato dai motivi di impugnazione la cui specifica indicazione è richiesta, ex articolo 342 c.p.c., per l’individuazione dell’oggetto della domanda di appello e per stabilire l’ambito entro il quale deve essere effettuato il riesame della sentenza impugnata. È pertanto affetta da vizio di ultrapetizione la sentenza con la quale il giudice di appello – in violazione del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato di cui all’articolo 112 c.p.c. – abbia (come nella specie) esteso il suo esame a parti della decisione di primo grado non censurate dall’appellante”. Negli stessi termini v. anche, tra molte, Cass., 1 dicembre 2010, n. 24339; Cass., 28 marzo 2007, n. 7690; Cass., 22 luglio 2005, n. 15356; Cass., 16 luglio 2001, n. 9621; Cass., 13 luglio 1996, n. 6354; Cass., 17 dicembre 1993, n. 12499; Cass., 18 ottobre 1991, n. 11022, tutte molto perentorie e con riguardo alla qualificazione giuridica della domanda o del rapporto controverso. V. Cass., sez. un., 29 gennaio 2000, n. 16, cit., secondo la quale l’appello “è dato alla parte contro l’ingiustizia della sentenza di primo grado ed è rimessa alla stessa parte, per il principio dispositivo, la determinazione dei fatti nei quali l’ingiustizia si concreta, con la conseguenza della esigenza assoluta della motivazione, quale elemento inseparabile dalla postulazione dell’ingiustizia e con l’ulteriore conseguenza che, in difetto di tale motivazione del vizio denunciato, il giudice del gravame non può procedere alla revisio prioris instantiae”. Più di recente, negli stessi termini v., tra le molte, Cass., 21 dicembre 2018, n. 33124; Cass., 8 novembre 2013, n. 25244. V., tra le molte, Cass., 16 dicembre 2019, n. 33228, ove si rimarca che, a norma dell’art. 112 c.p.c., “il giudice non deve oltrepassare i limiti della domanda, disposizione generale che si applica ad ogni procedimento di impugnazione, tenuto conto che la cognizione del giudice dell’impugnazione è circoscritta alle questioni dedotte dall’appellante o dal ricorrente”; Cass., sez. un., 21 marzo 2019, n. 7940; Cass., 31 gennaio 2018, n. 2380, che precisa come la violazione di tale disposizione vizia di ultrapetizione la sentenza di secondo grado; negli stessi termini, in tempi meno recenti, Cass., 17 ottobre 2003, n. 15548; Cass., 27 agosto 2002, n. 12562; Cass., 1 marzo 2001, n. 3002; Cass., 8 settembre 1999, n. 9526. Il principio di non contestazione dimostra, infatti, che, financo nel giudizio di primo grado, se la parte interessata non contesta l’allegazione della controparte, il giudice non può, d’ufficio, non tenere conto degli effetti della non contestazione, e dunque della scelta della parte in ordine alla posizione di quel fatto nell’ambito della ricostruzione fattuale della fattispecie. Infatti, l’asserito “uso negoziale della legge, impedendone in sede d’impugnazione la corretta identificazione e/o interpretazione ove non oggetto di critica ad opera delle parti”, ed idoneo perciò “a minare le stesse basi del controllo di legittimità” (così Cass. n. 8645/2020), non potrebbe essere permesso nemmeno con riguardo alla legge processuale. Infatti l’ulteriore ratio decidendi potrebbe essere superata d’ufficio dal giudice. Perché privare la parte che impugna del potere di proporre ulteriori motivi d’impugnazione, se il medesimo risultato può essere ottenuto, nell’interesse dell’esatta osservanza della legge, con l’attività del giudice? Onere di riproposizione che, secondo la più recente giurisprudenza, deve essere assolto con il primo atto difensivo e comunque non oltre la prima udienza: Cass., sez. un., 21 marzo 2019, n. 7940. 125 Roberto Poli Inoltre, questo orientamento non può trovare applicazione, per intrinseca inadeguatezza, nelle ipotesi, frequentissime nella pratica, di diritti a petitum divisibile38, e comunque contrasta con tutta la giurisprudenza che riconosce il giudicato sull’an debeatur una volta impugnata solo la parte di sentenza relativa al quantum39, e la non libera riesaminabilità della parte di sentenza relativa al quantum debeatur una volta impugnata solo quella relativa all’an40. Ovviamente, tutte le contraddizioni e le incongruenze fino a questo punto rimarcate valgono con ogni evidenza a fortiori ove riferite non al giudizio di appello, dianzi considerato, bensì al giudizio di cassazione, al quale pure si applicherebbe in modo pieno, secondo la pronuncia di Cass. n. 8645/2020, l’orientamento qui criticato41. Mi sembrano, quelli qui evidenziati, elementi sufficienti per abbandonare siffatto orientamento. 3. “Questione” come sequenza logica costituita dal fatto, dalla norma e dall’effetto giuridico. Critica. Come ho accennato, la Corte, nella sentenza n. 8645/20, richiama anche un altro e diverso orientamento, assimilandolo erroneamente a quello fin qui considerato. Si tratta dell’orientamento – che appare prevalente nella più recente giurisprudenza di legittimità –, secondo il quale per “decisione di questione” deve intendersi la decisione avente ad oggetto congiuntamente le decisioni sull’esistenza di un fatto, l’esistenza di una norma, l’effetto da questa previsto42. La prima considerazione che si deve fare al riguardo è che quello ora in parola è un criterio estremamente vago e generico, privo di qualsiasi contenuto o riferimento tecnico43 38 39 40 41 42 43 Cfr. POLI, I limiti oggettivi, cit., 213 ss., spec. 216 ss. Cfr. POLI, op. ult. cit., cit., 143 ss., anche per riferimenti. Cfr. POLI, op. ult. cit., cit., 134 ss., anche per richiami. Sulla c.d. estensione dell’effetto devolutivo alle parti di sentenza dipendenti da quelle impugnate, v. comunque infra, § 7, pure per richiami di giurisprudenza. Orientamento che, per tale via, si porrebbe in insanabile contrasto con l’altro, consolidato e granitico per cui: “il giudizio di cassazione è un giudizio a critica vincolata, delimitato e vincolato dai motivi di ricorso, che assumono una funzione identificativa condizionata dalla loro formulazione tecnica con riferimento alle ipotesi tassative formalizzate dal codice di rito” (v., tra le moltissime, Cass., 17 dicembre 2020, n. 28905; Cass., 16 dicembre 2020, n. 28795); nonché, a tacer d’altro, con l’istituto del ricorso incidentale condizionato in caso di soccombenza virtuale del resistente in sede di legittimità. Oltre a Cass., 7 maggio 2020, n. 8645, v. Cass., 23 luglio 2020, n. 15773; Cass., 26 giugno 2020, n. 12790; Cass., 19 marzo 2020, n. 7461; Cass., 26 febbraio 2020, n. 5129; Cass., 25 febbraio 2020, n. 5066; Cass., 20 febbraio 2020, n. 4454; Cass., 18 febbraio 2020, n. 4007; Cass., 24 gennaio 2020, n. 1655; Cass., 19 dicembre 2019, n. 31134; Cass., 5 dicembre 2019, n. 31837; Cass., 26 novembre 2019, n. 30767; Cass., 17 aprile 2019, n. 10760; Cass., 17 gennaio 2019, n. 1219, in motivazione; Cass., 8 gennaio 2019, n. 198; Cass., 8 ottobre 2018, n. 24785; Cass., 26 settembre 2018, n. 22822; Cass., 26 giugno 2018, n. 16853; Cass., 2 gennaio 2018, n. 11; Cass., 16 maggio 2017, n. 12202; Cass., 4 febbraio 2016, n. 2217; Cass., 28 settembre 2012, n. 16583; Cass., 19 marzo 2009, n. 6651; in tempi più risalenti, v. Cass., 29 ottobre 1998, n. 10832; Cass., 15 gennaio 1997, n. 355, che pure raccorda il contenuto delle sentenze non definitive con lo schema fatto-norma-effetto. Si tratta di una tesi elaborata nella nostra dottrina da Eduardo Grasso in lavori ormai risalenti (GRASSO, Le impugnazioni incidentali, Milano, 1973, 91; ID., La pronuncia d’ufficio, Milano, 1967, 27-28). Questo criterio non è collegato, se non in modo del tutto approssimativo, con il possibile contenuto delle sentenze non definitive, 126 “Parte di sentenza” e formazione del giudicato interno e che pertanto può assumere i più diversi contenuti44, attribuendo per l’effetto un enorme, quanto inammissibile potere discrezionale al giudice che intenda avvalersene45. Il più delle volte, tuttavia, il criterio ora in parola viene richiamato per affermare il potere del giudice di appello di conoscere liberamente e decidere nuovamente tutte le questioni oggetto di decisione in primo grado nell’ambito di una determinata fattispecie, una volta che questa sia messa in discussione anche solo limitatamente ad una o solo ad alcune delle plurime decisioni di questioni contenute nella motivazione46. In queste ipotesi, le conseguenze pratiche dell’applicazione di questo criterio sono esattamente le stesse che si determinano intendendo per questione una fattispecie nella sua interezza, di cui abbiamo già detto. Per queste ragioni, il criterio ora in esame è inaccettabile dal punto di vista sistematico e fonte di problemi ancora più marcati ed evidenti rispetto al primo che abbiamo considerato (che si richiama all’intera fattispecie)47. Anche il criterio che si fonda sullo schema fatto-norma-effetto deve pertanto essere abbandonato. Ed a maggior ragione deve essere decisamente abbandonato, per i medesimi argomenti – e quindi se si vuole preservare un minimo di coerenza all’intero sistema delle impugnazioni –, anche l’orientamento che, addirittura senza nemmeno richiamarsi al contenuto delle sentenze non definitive (e quindi alle fattispecie considerate nella loro interezza), o 44 45 46 47 e nemmeno con altri possibili determinabili ambiti oggettivi. Nell’ambito di una fattispecie considerata nella sua interezza, infatti, lo schema fatto-norma-effetto può applicarsi a ciascuno degli elementi strutturali della fattispecie stessa, così come alla qualificazione giuridica di tali elementi, alla qualificazione giuridica della fattispecie nella sua interezza, alle norme applicabili, a ciascuna voce di danno ed anche agli accessori dei crediti di valore, che sono una componente del danno (natura compensativa degli interessi, loro momento di decorrenza, criterio di calcolo degli interessi stessi sulla somma rivalutata, ecc.): lo schema fatto-norma-effetto, in sintesi, copre un’area oggettiva che va dalla fattispecie nella sua interezza (possibile estensione massima) a ciascun presupposto di fatto o di diritto che rappresenta un antecedente logico necessario della decisione contenuta nel dispositivo (possibile estensione minima). Basti osservare, ad es., quanto è avvenuto proprio nella decisione di Cass. n. 8645/2020 qui commentata (v. anche la nota seguente). Non è un caso che questo criterio sia riapparso in tempi recenti in una pronuncia della giurisprudenza di legittimità – pronuncia poi richiamata da molte successive sentenze fino ad oggi – in relazione ad una vicenda in cui la Corte, avendo evidentemente ritenuto equo dover applicare lo ius superveniens per la prima volta in sede di legittimità alle parti di sentenza riguardanti il quantum debeatur che non avevano formato oggetto di impugnazione nemmeno con l’atto di appello, ha dovuto forzare non poco il consolidato sistema di formazione dell’oggetto del giudizio di secondo grado prima ricapitolato, nel testo all’altezza delle note 24-29: cfr., infatti, Cass., sez. un., 27 ottobre 2016, n. 21691. Tanto è vero che la Corte lo richiama, nella pronuncia n. 8645/20, per due specifiche ragioni: (i) in primo luogo perché, dovendo giustificare la copiosa giurisprudenza che ammette la formazione del giudicato interno sulla sola qualificazione giuridica della fattispecie, e non potendo per ciò richiamare il criterio della fattispecie nella sua interezza, è costretta a ricorrere al criterio più ampio e versatile rappresentato dallo schema fatto-norma-effetto; (ii) in secondo luogo, con riguardo al caso concreto sottoposto al suo esame, perché in tal modo ritiene di poter giustificare l’esclusione del giudicato interno sulla qualificazione di giuridica inesistenza della notificazione dell’atto introduttivo del processo laddove siano ancora controverse le conseguenze processuali di tale qualificazione. Ma a questo riguardo si può osservare: quanto al primo aspetto, che è ovvio che alla definizione della qualificazione giuridica della fattispecie conseguano anche effetti giuridici, ed è per questo, come vedremo tra poco nel testo (infra, § 4), che anche la qualificazione giuridica della fattispecie rappresenta un antecedente logico necessario della decisione idoneo a passare in giudicato interno in caso di omessa specifica impugnazione sul punto; ma è altrettanto ovvio che la qualificazione giuridica della fattispecie, come la norma giuridica applicabile non coincidono affatto con una fattispecie nella sua interezza. Quanto al secondo aspetto, si deve considerare che la nullità, una volta pronunciata – e massime quando trattasi di nullità rilevabile d’ufficio – non rientra nella disponibilità delle parti, che non possono pertanto disporre dei suoi effetti; ed infatti la questione di nullità è unitaria, ed è sempre devoluta al giudice dell’impugnazione nella sua interezza (v. infra, § 4). Invero, agli inconvenienti già segnalati, qui si aggiungono vaghezza e genericità, e quindi rischi non controllabili di eccessiva discrezionalità. 127 Roberto Poli allo schema fatto-norma-effetto, postula un effetto devolutivo praticamente pieno ed automatico a seguito della proposizione dell’appello, determinando una situazione analoga a quella del gravame in punto di estensione dei poteri del giudice dell’impugnazione48. 4. “Questione” come antecedente logico necessario, di rito o di merito e, in quest’ultimo caso, di fatto o di diritto, della decisione contenuta nel dispositivo. Aggiunge poi la Corte, sempre nella pronuncia n. 8645/20, che “accanto a tali indirizzi, nella giurisprudenza di questa Corte Suprema ne vive ed opera un altro, il quale in apparente antitesi afferma, invece, che il giudicato può formarsi anche sulla qualificazione giuridica di un rapporto, se questa abbia formato oggetto di contestazione e sul punto deciso, costituente antecedente necessario ed indispensabile della pronuncia sulla domanda, la parte interessata non abbia proposto impugnazione”, giusta il principio tantum devolutum quantum appellatum. Se così fosse, prosegue la Corte, “ne risulterebbe influenzata ed ampliata la stessa nozione di parte della sentenza. […] parte di sentenza diverrebbe ogni frammento di decisione sul materiale controverso (cioè non pacifico) non solo in diritto ma anche in fatto [e] ne risulterebbe reciso il collegamento, sopra richiamato, fra detta nozione e le questioni suscettibili di pronuncia non definitiva”. Ma la Corte respinge tale ipotesi, osservando in conclusione che, “in realtà, se si esaminano le singole fattispecie in cui è maturato il suddetto indirizzo […] ci si accorge che le cose stanno altrimenti, e che nelle varie ipotesi considerate la preclusione da giudicato si è formata su un’intera questione che includeva un nomen iuris controverso, ma non si esauriva in esso, comprendendo anche l’effetto che il giudice di volta in volta ne aveva tratto”. Anche questo ragionamento lascia piuttosto perplessi, per diverse ragioni, e ciò a parte la confusione dei due criteri – fattispecie nella loro interezza e schema fatto-norma-effetto –, di cui già abbiamo detto49. Soprattutto, così ragionando, la Corte oblitera del tutto la 48 49 Cfr., ad es., Cass., 21 ottobre 2020, n. 22891; Cass., 27 agosto 2020, n. 17942; Cass., 21 agosto 2020, nn. 17525 e 17525; Cass., 28 luglio 2020, n. 16071; Cass., 15 luglio 2020, n. 15019; Cass., 11 gennaio 2019, n. 513; Cass., 10 maggio 2018, n. 11289; in tempi meno recenti, negli stessi termini, v. Cass., 24 marzo 2011, n. 6757; Cass., 25 settembre 2009, n. 20652. V. anche, analoga nella sostanza, Cass., 13 ottobre 2020, n. 22064. V. retro, § 3, testo e note. In particolare, la Corte non considera, da un lato, che è fin troppo ovvio che dalla qualificazione giuridica della fattispecie, o dalla individuazione di una certa disciplina applicabile discendano conseguenze giuridiche (gli effetti di cui parla la pronuncia in commento), anche perché altrimenti le rispettive statuizioni non rappresenterebbero antecedenti logici necessari della decisione; dall’altro, che il segmento fatto-qualificazione giuridica della (o norma applicabile alla) fattispecie-effetto conseguenziale rappresenta “un frammento della decisione”, per usare le stesse parole della Corte, che non c’entra nulla con una fattispecie nella sua interezza, e che recide il collegamento, sopra richiamato, tra la nozione di parte di sentenza e le questioni suscettibili di sentenza non definitiva (almeno per come la Corte stessa, nella pronuncia n. 8645/20 ed in quelle ivi richiamate, intende il possibile contenuto delle sentenze non definitive: in dottrina – invero e come è noto – vi è chi riconosce la possibilità di sentenza non definitiva avente ad oggetto esclusivamente una questione di mero diritto: v., anche per riferimenti, DALFINO, Questioni di diritto e giudicato, Torino, 2008, 217; SANTINI, Questioni di diritto e preclusioni, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2010, 935 ss.). Infatti, le conseguenze giuridiche che derivano dalla qualificazione giuridica della fattispecie, o dalla individuazione della disciplina applicabile alla fattispecie medesima, sovente 128 “Parte di sentenza” e formazione del giudicato interno chiara ed inequivoca esistenza di un robustissimo terzo orientamento che, ammettendo il giudicato interno sugli antecedenti logici della decisione contenuta nel dispositivo, di fatto e/o di diritto, si pone in diretta, immediata ed effettiva contrapposizione – e non “in apparente antitesi” – con i primi due orientamenti sin qui considerati. Vediamo allora, di questo terzo orientamento, nell’ordine: (i) le affermazioni di principio; (ii) le applicazioni; (iii) il fondamento, dai punti di vista, logico, esegetico e sistematico; (iv) le ricadute su altri aspetti fondamentali del sistema delle impugnazioni (estensione dell’effetto devolutivo alle parti di sentenza dipendenti da quelle specificamente colpite dai motivi di impugnazione, devoluzione delle cause dipendenti ex art. 331, primo comma, c.p.c. e divieto di reformatio in peius). La Suprema Corte, con la massima chiarezza e consapevolezza possibili ha affermato, in linea di principio: «Posto che per “parte di sentenza” deve intendersi “decisione di questione”, si precisa altresì, e tale è la soluzione da preferire, in adesione al modello ormai accolto dal legislatore, che si fonda sul progressivo affinamento della decisione, che per “questione” deve intendersi ogni punto controverso: a) sull’esistenza o inesistenza di un fatto; b) sull’individuazione e applicazione di una norma di diritto sostanziale; c) sull’individuazione e sull’applicazione (cioè sull’effetto) di una norma di diritto processuale; parte di sentenza sarà allora la statuizione su ciascuno dei punti controversi, così definiti, che sorgono all’interno di un giudizio»50. Davvero numerose sono le decisioni che hanno adottato questo orientamento51. E moltissime sono le pronunce che riconoscono la formazione del giudicato interno sulla qua- 50 51 in grado di condizionare l’impostazione e il successivo svolgimento del giudizio (v. gli stessi esempi riportati da Cass., n. 8645/20, ove si richiama, ad es., la questione di esistenza del termine legale di convocazione dell’assemblea dei proprietari, e le numerose pronunce richiamate infra, nelle note 52-57), non hanno nulla a che vedere con l’effetto giuridico che scaturisce dall’accertamento di una fattispecie nella sua interezza; il quale corrisponde piuttosto all’effetto giuridico perseguito con la proposizione della domanda giudiziale. Cfr. Cass., 11 agosto 2016, n. 17037 e Cass., 6 giugno 2016, n. 11574, che correttamente correlano l’esigenza di motivi di appello specifici all’ambito oggettivo della devoluzione. V. poi per la stessa impostazione, con affermazioni più o meno esplicite, tutte le pronunce richiamate infra nelle note 51-57. V. anche, più di recente, Cass., 15 maggio 2019, n. 12875, secondo la quale il giudicato interno “concerne anche gli accertamenti che costituiscono il presupposto logico-giuridico della decisione”. A titolo esemplificativo, hanno riconosciuto la formazione del giudicato interno sulla decisione di questione, intesa quest’ultima come un antecedente logico necessario, di fatto e/o di diritto, della pronuncia contenuta nel dispositivo, Cass. 9 novembre 2020, n. 24991, “sulla statuizione del Tribunale secondo cui il T. non ha provato che, se le informazioni gli fossero state correttamente fornite, non avrebbe prestato il consenso all’intervento”; Cass., 30 giugno 2020, n. 13170, “in ordine alla anteriorità dei crediti pregiudicati dal compimento dell’atto”; Cass., 15 giugno 2020, n. 11583, in merito all’estraneità di una parte a determinate trattative; Cass., 12 giugno 2020, n. 11360, Cass., 26 maggio 2020, nn. 9786-9787, Cass., 24 febbraio 2020, n. 4882, Cass., 2 aprile 2019, nn. 9114-9116, Cass., 25 febbraio 2019, n. 5432, Cass., 19 febbraio 2019, n. 4807, Cass., 13 febbraio 2019, n. 4236, Cass., 4 febbraio 2019, n. 3197, Cass., 30 marzo 2018, n. 7982, Cass., 21 marzo 2018, n. 7059, Cass., 20 marzo 2018, nn. 6901-6902, tutte e quindici “sulla statuizione con cui la Corte di appello, confermando la pronuncia di primo grado, ha accertato la reiterazione abusiva della stipulazione dei contratti a tempo determinato”; Cass., 3 giugno 2020, n. 10416, in merito all’applicazione del termine decennale, in luogo di quello quinquennale, della prescrizione; Cass., 6 maggio 2020, n. 8511, sulla statuizione che ha qualificato di garanzia una determinata scrittura privata; Cass., 18 dicembre 2019, n. 33721, sull’ “affermazione della ‘pacificità’ della provenienza dei documenti dall’Arma dei Carabinieri,”; Cass., 23 luglio 2019, n. 19725, sulla statuizione che “la notificazione della citazione introduttiva è avvenuta il giorno 26 luglio 2008”; Cass., 4 aprile 2019, n. 9321, sulla “decorrenza di rivalutazione e interessi dalla data di pubblicazione della sentenza di primo grado”; Cass., 17 gennaio 2019, n. 1063; sulla insussistenza “della prova della frequenza del corso di specializzazione e del conseguimento del diploma”; Cass., 10 gennaio 2019, nn. 456 e 455, sulla ricorrenza in capo a taluni specializzandi della materia che consentiva un particolare risarcimento del danno; Cass., 15 ottobre 2018, n. 25709, “sul termine di decorrenza annuale della prestazione” assistenziale; Cass., 25 maggio 2018, n. 12514, “sulla statuizione del Tribunale che la normativa 129 Roberto Poli lificazione-identificazione della domanda giudiziale52, o sulla qualificazione giuridica del 52 sopravvenuta era da ritenersi, nel suo complesso, più favorevole poiché consentiva la definizione agevolata”; Cass., 31 gennaio 2018, n. 2380, sulla statuizione di primo grado che aveva negato l’applicabilità alla fattispecie della presunzione di responsabilità ex art. 2051 c.c.; Cass., 12 dicembre 2017, n. 29642, sulla statuizione circa la sussistenza dell’inadempimento, non impugnata in via incidentale dal convenuto vittorioso nel merito per mancanza di prova del danno; Cass., 19 settembre 2017, n. 24658, sul termine annuale della prescrizione, laddove l’appellante aveva censurato solo l’altra questione della valida interruzione della prescrizione stessa; Cass., 11 maggio 2017, n. 11581, “sulla statuizione della successione del condominio nell’intero contratto stipulato dalla cooperativa”; Cass., 10 maggio 2017, n. 11443, “in materia di pensione d’inabilità o di assegno d’ invalidità […] in ordine all’esistenza del requisito economico” (così anche Cass., 4 novembre 2011, n. 22899); Cass., 28 marzo 2017, n. 7893, sulla statuizione che negava la sussistenza di mala gestio della società assicuratrice”; Cass., 17 marzo 2017, n. 6934, sulla statuizione relativa all’ “applicazione dell’istituto della continuazione alle sanzioni amministrative applicate alla contribuente”; Cass., 7 ottobre 2016, n. 20234, sulla natura edificabile del terreno; Cass., 23 settembre 2016, n. 18693, sulla ammissibilità della domanda di indebito arricchimento; Cass., 1 dicembre 2015, n. 24439 e Cass. 30 novembre 2015, nn. 24382, 24381, 24380 e 24379, tutte e sul riconoscimento degli accessori “nella forma del cumulo tra interessi legali e rivalutazione monetaria dalle singole scadenze al saldo”; Cass. 25 novembre 2015, n. 24108, “sulla decorrenza della prestazione e sulla carenza, a quella data, del requisito dell’età dell’invalida”; Cass., 5 dicembre 2014, n. 25753, sulla statuizione di “irrazionalità ed erroneità del procedimento seguito per la determinazione della percentuale di ricarico che, tra l’altro, viene ottenuta senza spiegazione matematica del metodo eseguito, con la conseguenza che i risultati dell’accertamento dovevano ritenersi privi di certezza, precisione e concordanza in quanto fondati su calcoli assolutamente incerti e non sufficientemente rigorosi”; Cass., 17 luglio 2014, n. 16372, sulla “statuizione del primo giudice, non impugnata da alcuna delle parti, in ordine all’avvenuta irreversibile trasformazione dei terreni di proprietà dei C. nel luglio del 1990”; Cass., 30 giugno 2014, n. 14806, sull’ “accertamento implicito dell’avvenuta conclusione del contratto e con esso l’effetto giuridico della qualificazione contrattuale dell’azione esercitata” (sia pur richiamando lo schema fatto-norma-effetto); Cass., 4 marzo 2014, n. 4972, sulla decisione che aveva escluso la vessatorietà di una clausola contrattuale; Cass., 14 dicembre 2012, nn. 23094-23095, entrambe sulla statuizione, non impugnata da parte dell’Agenzia ricorrente, in ordine all’assenza di prova circa il maggior valore dei cespiti immobiliari ai quali si riferiva l’avviso di accertamento”, benché i motivi di appello riguardassero proprio la determinazione del valore dei detti cespiti; Cass., 18 settembre 2012, n. 15653, sulla “statuizione con cui è stato ritenuto violato, nella specie, il principio dell’immediatezza della contestazione degli addebiti” da parte del datore di lavoro; Cass., 9 settembre 2011, n. 18551, sulla statuizione della decorrenza degli “interessi, fatti decorrere dalle singole annualità scadute invece che, come stabilito in primo grado con statuizione non censurata, dalla decisione”; Cass., 9 agosto 2011, n. 17132, “sul calcolo dell’aggiornamento Istat”; Cass., 14 luglio 2011, n. 15506, sulla statuizione di ammissibilità della domanda ex art. 2041 c.c., implicita nella pronuncia di accoglimento di primo grado [benché domanda nuova e come tale inammissibile], avendo l’appellante contestato solo l’esistenza delle condizioni di proponibilità e di fondatezza” della domanda stessa; Cass., 18 dicembre 2010, n. 26709, sulla “statuizione del primo giudice, secondo cui alla FISI ed al M. competeva il controllo tecnico della gara, per mancanza di specifica impugnazione sul punto da parte della FISI medesima”; Cass., 24 novembre 2008, n. 27888, sulla “decisione del Tribunale che ha ritenuto l’avvenuta sdemanializzazione tacita del bene” oggetto della domanda di usucapione; Cass. 19 ottobre 2006, n. 22479, sul “profilo che concerne il mancato decorso del termine di prescrizione”; Cass. 15 settembre 2006, nn. 19932-19933, entrambe sulla “statuizione del primo Giudice in ordine alla sufficienza probatoria del credito vantato dalla banca”; Cass., 10 luglio 2006, n. 15650, sulla “statuizione di inammissibilità della questione della ricollegabilità della malattia all’espletamento dell’attività lavorativa anteriormente al 1994”; Cass., 7 giugno 2006, n. 13342, sulla “statuizione relativa alla natura della locazione per uso abitativo”; Cass., 15 settembre 2004, n. 18578, sulla statuizione relativa alla “capitalizzazione trimestrale degli interessi”; Cass., 11 agosto 2004, n. 15509, sulla “statuizione secondo la quale, pur in presenza di fatture chiaramente sovradimensionate e quindi in parte inesistenti, l’IVA è dovuta limitatamente all’importo reale dell’operazione economica”; Cass., 29 luglio 2004, n. 14354, sulla “statuizione del giudice di primo grado in ordine alla mancata decorrenza del termine ventennale” per il perfezionamento dell’usucapione; Cass., 4 marzo 2004, n. 4406, sulla “statuizione del giudice di primo grado, in ordine all’applicabilità alla fattispecie della norma di cui all’art. 2043 c.c.” (e non dell’art. 2051 c.c.); Cass., 31 luglio 2002, n. 11370, sul criterio di calcolo degli interessi sulla somma rivalutata; Cass., 9 gennaio 2002, n. 176, sulla “decisione avente per oggetto la ricostituzione dei periodi contributivi per il periodo successivo all’entrata in vigore della l. n. 37 del 1967”; Cass., 2 gennaio 2001, n. 6, in merito alle modalità di espletamento delle mansioni lavorative, in Giur. it. 2002, 2066, con mia nota, Oscillazioni della Suprema Corte in tema di limiti oggettivi del giudicato interno; Cass., 25 settembre 1999, n. 10631, sul criterio di calcolo degli interessi sulla somma rivalutata; Cass., 29 maggio 1990, n. 5029, sulla statuizione relativa alla indicizzazione dell’assegno di mantenimento; Cass., 23 maggio 1988, n. 3574, sulla “statuizione con cui il Tribunale aveva escluso che l’erigendo edificio della società Sacep e quello preesistente degli attori avessero tra loro parti contrapposte”; Cass., sez. un., 21 novembre 1986, n. 6836, sulla decisione del tribunale “di dover applicare la legge italiana all’azione risarcitoria da illecito extracontrattuale”, perché non appellata in via incidentale dal convenuto vittorioso in primo grado per improponibilità di detta azione. Cass., 16 giugno 2020, n. 11651 sulla “qualificazione giuridica della domanda dell’attrice come di natura extracontrattuale”; Cass., 12 aprile 2018, n. 9048; Cass., 31 gennaio 2018, n. 2380, sulla qualificazione della domanda ai sensi dell’art. 2043 c.c. e non 2051 c.c.; Cass., 22 maggio 2017, n. 12843; Cass., 30 settembre 2015, n. 19532; Cass., 3 luglio 2014, n. 15223; Cass., 4 dicembre 2013, n. 27200; Cass., 7 novembre 2005, n. 21490, sulla qualificazione della domanda “come domanda di esecuzione specifica di un contratto preliminare e non come domanda di accertamento di contratto definitivo”; Cass., 12 luglio 2005, n. 14573, sulla qualificazione dell’azione “nello schema dell’indebito soggettivo di cui all’art. 2036 c.c. e non in quello della locazione”; Cass., 15 maggio 2001, n. 6712, sulla “qualificazione della domanda e dell’azione 130 “Parte di sentenza” e formazione del giudicato interno rapporto53 o sulla legge applicabile al rapporto54; alcune con la precisazione che il giudicato sulla qualificazione giuridica del rapporto si forma quando detta qualificazione abbia condizionato l’impostazione e la definizione dell’indagine di merito e la parte interessata abbia omesso di proporre specifica impugnazione sul punto55, o se la qualificazione abbia formato oggetto di contestazione e il punto deciso costituisca antecedente necessario ed indispensabile della pronuncia sulla domanda56. E ciò anche attraverso chiare, consape- 53 54 55 56 come domanda tendente ad introdurre un giudizio di primo grado, e quindi completamente autonomo da altri [e non] come domanda avente ad oggetto l’impugnazione di precedente statuizione o la riassunzione, a seguito di cassazione con rinvio”; Cass., 1 marzo 2001, n. 3002, sulla identificazione della domanda che non contemplava la richiesta di condanna, che invece è stata pronunciata dal giudice di secondo grado; Cass., 22 novembre 1999, n. 12947, sulla qualificazione dell’azione come di regolamento di confini e non di rivendica; Cass., 20 novembre 1998, n. 11753, sulla qualificazione della domanda “proposta ai sensi dell’art. 1676 [e non] in applicazione del disposto dell’art. 3 della legge 23 ottobre 1960, n. 1369; Cass., 13 luglio 1996, n. 6354, sulla qualificazione della “domanda del controricorrente che il Tribunale aveva definito come avente per oggetto il mero accertamento dell’obbligo di adempiere da parte del Colletta e che invece è stato interpretato come esercizio dell’azione concessa dall’art. 2932 c.c. per l’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di acquistare”; Cass., 2 aprile 1977, n. 1237, in Giur. it., 1977, I, 1, 1281 ss.; Cass., 9 luglio 1975, n. 2701; Cass., 21 giugno 1974, n. 1834. Cass., 18 giugno 2018, n. 16007, sulla “qualificazione giuridica della predetta scrittura in termini di contratto preliminare improprio (i.e.: definitivo di compravendita)”; Cass., 11 luglio 2014, n. 16006, sulla natura di mutuo del rapporto tra le parti; Cass., 3 luglio 2014, n. 15223; Cass. 19 marzo 2014, n. 6403, sulla natura di compravendita della fattispecie, relativamente al giudizio di cassazione; Cass., 4 dicembre 2013, n. 27200; Cass. 19 febbraio 2009, n. 4051, sulla natura di contratto di locazione ad uso non abitativo; Cass. 28 marzo 2007, n. 7690; Cass., 10 marzo 2006, n. 5290, sulla “natura di pegno regolare del pegno sul certificato di deposito”, con la precisazione che su tale qualificazione può formarsi il giudicato interno, in quanto “costituisce accertamento pregiudiziale ed indispensabile ai fini della decisione della presente controversia”; Cass., 12 novembre 2002, n. 15859, sulla natura di contratto definitivo di vendita e non di preliminare; Cass., 16 luglio 2001, n. 9621, con motivazione chiara e perentoria, sulla natura di impresa familiare del rapporto rispetto alla fattispecie “astratta di cui all’art. 230-bis c.c.”; Cass., 13 aprile 1996, n. 3506, sulla qualificazione della “scrittura privata come di vendita e non come di preliminare di vendita”; sin da Cass., 9 agosto 1951, n. 2484, in Giust. civ., 1952, 398, con nota di JANNUZZI, Giudicato sulla qualificazione giuridica del rapporto controverso? Cass., 25 giugno 2020, n. 12720, con riguardo alla individuazione ma anche alla interpretazione della disposizione applicabile; Cass., 3 luglio 2014, n. 15223, l’art. 844 c.c. e non la “L. n. 2359 del 1865, art. 46 (poi D.P.R. n. 327 del 2001, art. 44)”; Cass., 4 dicembre 2013, n. 27200; Cass., 24 gennaio 2013, n. 1658, sulle “norme relative alla fattispecie prescrizionale applicata (prescrizione breve di cui al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 20, comma 3 in luogo della prescrizione decennale ex artt. 2946 e 2953 c.c.)”; Cass., 12 settembre 2012, n. 15266, che di conseguenza ha escluso l’applicazione della disciplina sopravvenuta; contra, espressamente, Cass., 20 ottobre 2010, n. 21561, che richiama come precedente Cass., 29 aprile 1976, n. 1531 (sic). Cass., 28 luglio 2020, n. 16002, sulla qualificazione della domanda come regolamento di confini e non di rivendica; Cass., 25 giugno 2020, n. 12639; Cass., 19 dicembre 2019, n. 34026; Cass., 15 maggio 2019, n. 12875; Cass., 17 aprile 2019, n. 10745; Cass., 1 giugno 2018, n. 14077; Cass., 20 marzo 2017, n. 7050; Cass., 1 agosto 2013, n. 18427; Cass., 1 dicembre 2010, n. 24339, con motivazione molto chiara e precisa, “sulla qualificazione dell’atto dismissivo del rapporto di lavoro, ritenuto dal primo giudice come vero e proprio atto di recesso, e valutato, invece, dal giudice di appello come comportamento attuativo di una clausola di estinzione automatica della relazione contrattuale” Cass., 26 settembre 2005, n. 18779, sulla “qualificazione giuridica del contratto concluso tra le parti come mediazione”; Cass., 27 agosto 2002, n. 12562, sulla qualificazione del contratto in termini di “vendita e non di appalto”; Cass., 6 giugno 2002, n. 8216 sulla qualificazione dell’“azione proposta come azione di regresso”; Cass., 18 aprile 2001, n. 5702; Cass., 2 aprile 2001, n. 4811, sulla “qualificazione di contratto traslativo ad immediati effetti reali”; Cass., 7 agosto 1996, n. 7260; Cass., 13 aprile 1996, n. 3506, sulla qualificazione Cass., 17 dicembre 1993, n. 12449, sulla “qualificazione giuridica (regolamento di confini) diversa da quella (rivendica) adottata dal primo giudice e dalle parti non impugnata”; Cass., 18 ottobre 1991, n. 11022, sulla qualificazione dell’azione come manutenzione nel possesso e non di denuncia di nuova opera. Meno chiara, sul punto, Cass., 22 giugno 2020, n. 12116. Cass., 15 maggio 2019, n. 12875; Cass., 19 marzo 2018, n. 6716, sulla qualificazione del contratto i termini di fideiussione e non contratto autonomo di garanzia; Cass., 21 febbraio 2017, n. 4455; Cass., 24 aprile 2013, n. 10053, sull’accertamento, compiuto dal primo giudice, “in ordine alla qualificazione del contesto proprietario come di semplice comunione e non di condominio”; Cass., 28 marzo 2007, n. 7690, con ampi richiami in motivazione; Cass., 22 luglio 2005, n 15356, molto chiara e perentoria nella motivazione, sulla “ricorrenza degli elementi costitutivi della fattispecie regolata dall’art. 936/11 c.c.”, anziché dall’art. 1150 c.c., e sui rigorosi limiti che incontra il giudice di appello nella qualificazione della domanda; Cass., 23 settembre 2004, n. 19126, sulla “qualificazione del rapporto data dal primo giudice come appalto anziché come vendita”; Cass., 27 agosto 2002, n. 12562, richiamata anche nella nota precedente. Per un’analitica disamina delle pronunce che hanno affermato la formazione del giudicato interno sulla qualificazione giuridica della domanda o del rapporto in tempi non più recenti, v. POLI, I limiti oggettivi, cit., 309 ss. 131 Roberto Poli voli e perentorie prese di posizione sul punto57. Ne segue che, in sede d’impugnazione, il principio iura novit curia opera solo nell’ambito della specifica questione riaperta con il motivo d’impugnazione58. 5. Decisione di questioni e struttura della soccombenza. Ora, per comprendere il fondamento di questo orientamento, occorre prendere le mosse dalla soccombenza e dall’interesse ad impugnare59. Ed a questo riguardo occorre distinguere tra decisioni che stabiliscono la soccombenza, da un lato, e decisioni che determinano (perché ne costituiscono le concrete e specifiche ragioni) e strutturano (perché la articolano in concreti, specifici e distinti elementi costitutivi) la soccombenza dall’altro60. Le prime sono contenute nel dispositivo, sono correlate all’effetto giuridico richiesto in giudizio con la domanda giudiziale – effetto che può essere negato, accolto totalmente o accolto solo in parte – e fondano l’interesse ad impugnare in via principale, in caso di rigetto o accoglimento totale della domanda, o anche in via incidentale, in caso di accoglimento parziale della stessa domanda. Le seconde sono contenute nella motivazione, sono correlate alle questioni controverse in giudizio, di fatto e/o di diritto, indicano perché vi è stata soccombenza, e sono idonee, ove modificate in sede d’impugnazione, a condurre ad una modificazione del contenuto del dispositivo, qualitativa o solo quantitativa61. Esse pertanto strutturano la soccombenza e l’interesse ad impugnare in concreto62, anche in via incidentale63. L’interesse ad impugnare in astratto (o generico) si misura guardando al rapporto tra le conclusioni ed il dispositivo della sentenza impugnata. L’interesse ad 57 58 59 60 61 62 63 V., ad es., tra le molte, le motivazioni di Cass., 1 dicembre 2010, n. 24339; Cass., 28 marzo 2007, n. 7690; Cass., 27 agosto 2002, n. 12562; Cass., 16 luglio 2001, n. 9621; Cass., 17 dicembre 1993, n. 12499; Cass., 18 dicembre 1991, n. 11022, oltre alle già ricordate, chiarissime e pienamente consapevoli sul punto, Cass., 11 agosto 2016, n. 17037 e Cass., 6 giugno 2016, n. 11574. Cfr. POLI, I limiti oggettivi, cit., 301 ss., 346 ss. Di ciò è consapevole anche la pronuncia n. 8645/20, che infatti dedica a questo aspetto un passaggio rilevante della sua argomentazione: il problema è che la Corte, in detta pronuncia, non si avvede che quando va a riconoscere la rilevanza della singola questione per la determinazione della soccombenza e, correlativamente, dell’interesse ad impugnare, ha già abbandonato il concetto di questione come fattispecie nella sua interezza, e lo ha sostituito con lo schema fatto-norma-effetto, da intendersi però come idoneo a ricomprendere anche questioni assai più ristrette della fattispecie nella sua interezza (v., ad es., il richiamo operato dalla pronuncia ora in discorso alla questione di esistenza del termine legale di convocazione dell’assemblea dei proprietari). Modifico così in parte, per maggior chiarezza del discorso, la terminologia da me utilizzata in I limiti oggettivi, cit., 170 e 174. Cfr. Cass., sez. un., 19 aprile 2016, n. 7700: “L’oggetto della critica e, dunque, l’impugnazione con cui essa viene espressa, deve allora riguardare necessariamente la motivazione (espressa o implicita) o la mancanza di motivazione o l’omesso esame di una domanda o di una eccezione in quanto risultino avere inciso sul contenuto della decisione”. Occorre ricordare al riguardo che le parti ricorrono al processo di cognizione perché sussiste un dubbio, una contestazione, in ordine ad uno (o a più di uno) degli elementi di fatto e/o di diritto di una fattispecie prevista dalla legge sostanziale (costitutiva e/o impeditiva, modificativa, estintiva di una situazione giuridica) e chiedono al giudice che risolva i dubbi e le contestazioni (le questioni) sollevate dalle parti su tali elementi e, conseguentemente, rispondendo alla domanda della parte attrice, affermi (totalmente o parzialmente, o neghi) l’effetto giuridico derivante dalla fattispecie dedotta nel processo. V., ad es., Cass. 19 marzo 2018, n. 6716, in motivazione, a proposito della decisione sulla qualificazione giuridica del contratto. 132 “Parte di sentenza” e formazione del giudicato interno impugnare in concreto (o specifico) si misura guardando al rapporto tra le decisioni di questioni contenute nella sentenza impugnata e i motivi d’impugnazione64. Se l’impugnazione è strutturata sul modello del gravame, rilevano solo le decisioni che stabiliscono la soccombenza, perché il giudice del gravame decide nuovamente, in modo automatico, pieno, immediato e diretto, della fattispecie (o delle fattispecie) dedotte in giudizio. In questo modello non rilevano, pertanto, le decisioni che determinano e strutturano la soccombenza; ed infatti qui, coerentemente, i motivi d’impugnazione non sono indispensabili allo scopo, perché non rilevano le eventuali violazioni di legge commesse dal primo giudice, considerato che il secondo giudice valuterà ex novo i materiali di causa con un giudizio proprio per ciò destinato a sostituirsi sempre – anche in caso di conferma – alla prima decisione. Il gravame aspecifico è un gravame al massimo irregolare (se la norma richiede la formulazione di motivi, senza prevedere sanzioni al riguardo, come il vecchio art. 342 c.p.c.), ma certamente valido perché idoneo allo scopo. Se, invece, si abbandona il modello del gravame e si adotta un modello dove è la parte soccombente ad indicare (a dover indicare: art. 342 c.p.c.), gli errori commessi dal primo giudice, le ragioni di illegittimità della decisione impugnata (quindi se si adotta il modello dell’impugnazione in senso stretto e proprio), allora tali ragioni non possono non riguardare le decisioni di questioni che hanno determinato e strutturato la sua soccombenza; vale a dire le decisioni aventi ad oggetto questioni che, ove risolte diversamente in sede d’impugnazione, comportano una decisione contenuta nel dispositivo di segno diverso, dal punto di vista qualitativo o anche solo quantitativo. Qui i motivi svolgono un ruolo essenziale allo scopo, perché circoscrivono l’oggetto dell’impugnazione, riaprendo la discussione solo sulle specifiche decisioni di questioni censurate, in tal modo precludendo la formazione della cosa giudicata. Il potere d’impugnazione è infatti esercitato quando è affermata l’illegittimità della sentenza per un determinato error, in procedendo o in iudicando. Se i motivi d’impugnazione sono tassativamente predeterminati dal legislatore – come nel nostro ricorso per cassazione –, allora si parla di impugnazione a critica vincolata. Se la parte soccombente può far valere qualsiasi violazione della legge processuale, senza limitazione alcuna – come accade oggi per il nostro giudizio di appello – allora si parla di impugnazione a critica libera. È la parte soccombente che valuta il contenuto della sentenza da impugnare, e stabilisce quali sono le questioni a suo avviso ben decise e che pertanto reputa di accettare, e quelle che stima mal decise e sulle quali pertanto 64 Vi può essere interesse ad impugnare in astratto per l’attore, perché ad es. il dispositivo ha respinto la domanda, ma non interesse ad impugnare in concreto, perché il medesimo attore con i motivi d’impugnazione non ha attaccato tutte le decisioni (di questioni) che hanno escluso l’esistenza degli elementi costitutivi della fattispecie dedotta in giudizio e, più in generale, nei casi in cui chi impugna non abbia censurato tutte le rationes decidendi sulle quali la sentenza impugnata si fonda (v. ad es., ex multis, Cass. 19 ottobre 2018, n. 26460; v. però Cass. 6 luglio 2020, n. 13880, che fonda l’inammissibilità dell’impugnazione “per l’esistenza del giudicato sulla ratio decidendi non censurata, piuttosto che per carenza di interesse”); o, ancora, perché rispetto ad una determinata, specifica decisione (di questione) non è configurabile una soccombenza nel caso concreto (v., ad es., Cass., sez. un., 20 ottobre 2016, n. 21260, nel caso di impugnazione della decisione sulla giurisdizione da parte dell’attore soccombente nel merito). Per un discorso più analitico in proposito rinvio a POLI, I limiti oggettivi, cit., 169 ss., 174 ss., 204 ss., 210 ss., 371 ss., 576, nota 152. 133 Roberto Poli vuole chiedere una nuova decisione da parte del giudice dell’impugnazione, indicandone le ragioni. Ed è proprio per questo che l’impugnazione parziale importa acquiescenza alle parti di sentenza non impugnate (art. 329, cp.v., c.p.c.). Ma se così è, ovvero se si adotta questo secondo modello, non si può al contempo affermare, come fa parte della giurisprudenza, che “il principio del tantum devolutum quantum appellatum non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, nonché in base alla qualificazione giuridica dei fatti medesimi e, in genere, all’applicazione di una norma giuridica diversa da quella invocata dalla parte”. E ciò perché in tal modo emerge un sistema del tutto contraddittorio – per non dire schizofrenico – dove la coerenza interna e le rationes di un modello sono interamente frustrate dall’altro65. Se si abbandona il modello del gravame, in sintesi e per riassumere, rilevano solo le decisioni di questioni idonee a determinare ed a strutturare la soccombenza66. 6. L’individuazione degli antecedenti logici necessari della decisione, di rito e di merito, di fatto e di diritto. Nella sentenza n. 8645/20, come ho già ricordato, si dice che senza il collegamento con il contenuto delle sentenze non definitive (fattispecie nella sua interezza), “l’interpretazione dell’art. 329, c.p.v., c.p.c. vaga per terre incognite, alla mercé di impressioni arbitrarie e di soluzioni estemporanee”; e poco dopo si rimarca “l’inevitabile vaghezza dei requisiti 65 66 È opportuno rimarcare, da un punto di vista di teoria generale, quanto osservava in proposito CERINO CANOVA, Le impugnazioni civili. Struttura e funzione, Padova, 1973, anzitutto a p. 269: “l’iniziativa esclusiva dell’impugnante nella reintroduzione degli elementi cognitori non è conciliabile con l’idea di un rimedio avente lo stesso oggetto del precedente”; infatti, come precisato a p. 272: “l’iniziativa della parte (o di entrambe) non può essere la fonte esclusiva della cognizione in un gravame sullo stesso oggetto”. E ancora, a p. 590: “se l’appello avesse come suo oggetto singole questioni [ed è quanto oggi affermano anche le Sezioni Unite della Corte: v. Cass., sez. un., n. 11799/17], non si comprenderebbe la possibilità di riproporne altre ex art. 346”, aggiungendo, alla nota 60, che “nemmeno si spiegherebbe la possibilità che vi sia un riesame ex officio al di fuori dei motivi”. Corollario di questa impostazione è che quando l’oggetto del giudizio d’impugnazione è circoscritto dalla parte istante, ed in particolare dai motivi d’impugnazione (come la Corte afferma da più di trent’anni con riguardo al nostro giudizio di appello), l’oggetto immediato e diretto dello stesso giudizio d’impugnazione non può essere l’intero rapporto giuridico oggetto del giudizio di primo grado. Di ciò, oltre che di quanto si è qui evidenziato, non mi pare si sia tenuto adeguatamente conto laddove si è sostenuto che, ancora oggi, l’oggetto diretto dell’appello non sarebbe la (parte di) sentenza impugnata, come pure il nuovo art. 342 c.p.c. sembra indicare chiaramente, bensì lo stesso diritto/rapporto/domanda già oggetto del giudizio conclusosi con la sentenza impugnata (v., ad es., in tal senso, CARRATTA, Oggetto dell’appello ed evoluzione giurisprudenziale, in Il libro dell’anno del diritto 2019, reperibile sul web, al sito Treccani.it; NEGRI, Corollari non necessitati dell’onere di appello incidentale per il soccombente virtuale, in Giur. it., 2019, 1101 ss.), che invece le ragioni qui riassunte indicano costituire l’oggetto indiretto del giudizio di appello. Per un’ipotesi di ricostruzione intrinsecamente e gravemente contraddittoria, in cui si definisce l’appello un gravame, ma poi si descrive il suo funzionamento alla stregua di una impugnazione in senso stretto, con tanto di struttura bifasica e fase rescissoria solo eventuale, v. Cass., 24 febbraio 2004, n. 3664, in motivazione. Basti pensare a quell’orientamento per il quale, supponendo che il nostro appello fosse configurato come un gravame ed il nostro giudizio di cassazione come una impugnazione in senso stretto, riteneva che “parte di sentenza” corrispondesse a “decisione di domanda” in appello ed a “decisione di questione” in Cassazione (per riferimenti al riguardo v. POLI, I limiti oggettivi, cit., 10, all’interno della nota 6). V. anche quanto si dirà in proposito nel prossimo paragrafo. 134 “Parte di sentenza” e formazione del giudicato interno di «autonomia», «indipendenza», «propria individualità» della questione, contraltare dell’altrettanto generico concetto di «parte della sentenza» contenuto nell’art. 329, cpv. c.p.c.”. In realtà, le decisioni di questioni che possono rappresentare “parte di sentenza”, in quanto antecedenti logici necessari della decisione, idonee, ove modificate in sede d’impugnazione, a comportare un cambiamento, qualitativo o quantitativo, del dispositivo – e che per ciò determinano e strutturano la soccombenza – sono le stesse sia nella sentenza di primo grado, sia in quella di secondo, e sono agevolmente individuabili, oltre ad essere identificate anche dal codice di rito. Sul punto, infatti, si può contare oltre che su dati logici e sistematici, anche su consolidate elaborazioni giurisprudenziali, e perfino su un significativo addentellato di diritto positivo. Ma procediamo con ordine. Occorre anzitutto evitare confusione nell’uso dei concetti di “autonomia”, “indipendenza” e “dipendenza”, che assumono un ruolo centrale per comprendere il fenomeno dell’estensione della devoluzione alle parti di sentenza dipendenti da quelle censurate, di cui ci occuperemo tra breve. Ebbene, è necessario tener presente che il concetto di parte “autonoma” di sentenza può assumere due distinte accezioni e opera a due ben distinti livelli, che non vanno mai confusi: ad un primo livello, per parte “autonoma” di sentenza si intende l’affermazione del giudice idonea a costituire oggetto di giudicato interno per acquiescenza parziale. In questa accezione, la contrapposizione è tra: i) affermazione del giudice che, unitamente ad altre, rappresenta solo una delle argomentazioni della riassuntiva conclusione/statuizione, e quindi si palesa inidonea, considerata isolatamente, ad integrare la parte di sentenza ex art. 329, comma 2°, c.p.c.; e ii) affermazione-statuizione che, in sé considerata dunque “autonomamente”, può rappresentare parte di sentenza ex art. 329, comma 2°, c.p.c. Ad un secondo livello, il concetto di “autonomia” viene in gioco nella considerazione dei nessi di pregiudizialità-dipendenza che possono intercorrere tra le varie parti di sentenza ex art. 329, comma 2°, e 336, comma 1°, c.p.c. In questa prospettiva, è “autonoma” la parte di sentenza non incompatibile con e non “dipendente” da altre parti di sentenza ex art. 336 c.p.c. (ad es., è autonoma, non dipendente, la decisione sull’ an debeatur rispetto alla decisione sul quantum). Correlativamente, è “dipendente” la parte di sentenza che trova il suo fondamento nella parte di sentenza principale-pregiudiziale, e che pertanto subisce gli effetti espansivi interni ex art. 336, comma 1°, c.p.c. (nell’esempio, è dipendente, non autonoma, la decisione sul quantum debeatur rispetto alla decisione sull’an)67. Per quanto riguarda il possibile contenuto, l’ambito oggettivo della “autonoma questione”, possibile oggetto della “autonoma parte di sentenza”, ecco che soccorre – accanto ai rilievi di carattere sistematico in merito alla soccombenza e l’interesse ad impugnare, 67 In proposito, v. molto chiaramente Cass., 6 ottobre 2004, n. 19937, in motivazione. Se non si tengono nettamente distinti i due livelli, si rischia di ritenere che, in presenza di due affermazioni/statuizioni del giudice in rapporto di pregiudizialità/dipendenza, l’affermazione/statuizione dipendente non è e non può essere “parte di sentenza” in senso tecnico a norma degli art. 329, comma 2°, e 336 c.p.c. L’errore di tale impostazione appare evidente se solo si considera che, così ragionando, non sarebbero parti di sentenza in senso tecnico nemmeno le distinte decisioni di domande legate da pregiudizialità-dipendenza sostanziale. 135 Roberto Poli che abbiamo poc’anzi considerato – il diritto positivo: l’art. 360, comma 1°, c.p.c., a ben vedere, indica esattamente quali sono le questioni che, decise in modo anziché in un altro in sede d’impugnazione, possono determinare e strutturare la soccombenza. Queste sono, con la massima chiarezza possibile, le questioni: a) di giurisdizione; b) di competenza; c) di violazione o falsa applicazione di una norma di diritto (o dei contratti collettivi nazionali di lavoro); d) di nullità della sentenza o del procedimento; e) della esistenza e della rilevanza di un fatto storico, principale o secondario68. Si tratta, peraltro, delle stesse questioni che, in termini ellittici ma altrettanto inequivoci, indica anche l’art. 342 c.p.c. quale possibile oggetto del giudizio di appello: ricostruzione di un fatto (principale o secondario) e/o violazione di legge (sostanziale o processuale)69. In altre parole, una volta abbandonato il modello del gravame ed accolto quello della impugnazione a critica libera, il giudizio d’impugnazione non può avere ad oggetto che le “decisioni di questioni”, e le questioni rilevanti non possono non essere che quelle appena indicate: ricostruzione di un fatto (principale o secondario) e/o violazione di legge (sostanziale o processuale), nella formula ellittica dell’art. 342 c.p.c.; oppure nella formula meno contratta ma nella sostanza identica dell’art. 360 c.p.c. E tra le varie questioni di rito (giurisdizione, competenza, nullità), e di merito, di fatto (esistenza e rilevanza di un fatto, principale o secondario) e di diritto (violazione e falsa applicazione di norma di diritto), che possono venire in rilievo in sede d’impugnazione, non vi è alcun problema ad individuare quelle dotate di una “propria individualità” e per ciò “autonome” alla stregua del primo livello sopra definito. Infatti, dal punto di vista logico-sistematico, è “autonoma” ogni statuizione che risolva una questione di giurisdizione; o di competenza; o di violazione o falsa applicazione di una norma di diritto; o di nullità della sentenza o del procedimento; o di esistenza e rilevanza di un fatto storico, principale o secondario70. Dal punto di vista pratico-applicativo, per convincersi del fatto che non vi è alcun rischio di fare confusione in proposito, è sufficiente guardare al normale funzionamento del giudizio di cassazione dal 1942 ad oggi ed al funzionamento del giudizio di appello tutte 68 69 70 Non bisogna confondere le questioni possibile oggetto del giudizio di impugnazione (appello o giudizio di cassazione) con i motivi di impugnazione (appello o ricorso per cassazione): che l’art. 360, comma 1°, c.p.c. palesi, ancor prima dei motivi di ricorso, le questioni la cui soluzione in senso sfavorevole determina e struttura la soccombenza, appare chiaro considerando il n. 5: la questione è sempre quella della esistenza e rilevanza del fatto storico, principale o secondario; ciò che muta è il motivo, il vizio di motivazione o di giudizio che con lo stesso n. 5 si può far valere (omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, oppure omesso esame circa un fatto decisivo). In effetti, non è nemmeno astrattamente ipotizzabile un motivo specifico di appello, secondo i parametri richiesti dalla giurisprudenza, che non coinvolga quelle e solo quelle questioni che ho indicato nel testo. Ove poi eventualmente uno stesso fatto od una stessa questione di diritto siano prese in esame più volte nella stessa sentenza, le relative statuizioni costituiscono autonome parti di sentenza solo quando sussistano: b) l’autonomia di tale decisione nel contesto della sentenza rispetto ad altre decisioni, nel senso che la stessa si fonda su valutazioni, di fatto (e/o di diritto), almeno parzialmente distinte ed autonome rispetto a quelle poste a fondamento delle altre decisioni eventualmente presenti in sentenza; c) la decisività di tale decisione, ovvero la sua idoneità, se modificata in sede d’impugnazione, a determinare una definizione della controversia, nel dispositivo, diversa da quella adottata in primo grado (qualitativa o anche solo quantitativa). 136 “Parte di sentenza” e formazione del giudicato interno le volte in cui correttamente è stata riconosciuta la formazione del giudicato interno sulle decisioni di questioni così individuate71. “Parte di sentenza” è dunque “decisione di questione”, e “per “questione” deve intendersi, come esattamente evidenziato dalle pronunce della Corte nn. 17037 e 11574/16, “ogni punto controverso: a) sull’esistenza o inesistenza di un fatto, principale o secondario72; b) sull’individuazione e applicazione di una norma di diritto sostanziale; c) sull’individuazione e sull’applicazione (cioè sull’effetto) di una norma di diritto processuale; parte di sentenza sarà allora la statuizione su ciascuno dei punti controversi, così definiti, che sorgono all’interno di un giudizio”73. Detto ancora con maggiore precisione, “parte di sentenza” idonea al giudicato interno ex art. 329, c.p.v., c.p.c. è la decisione che risolve una o più delle seguenti questioni, ove decisiva (vale a dire ove idonea, se modificata in sede d’impugnazione, a comportare una modifica qualitativa o quantitativa del dispositivo): a) giurisdizione; b) competenza; c) violazione o falsa applicazione di una norma di diritto; d) nullità della sentenza o del procedimento; e) esistenza e rilevanza di un fatto storico, principale o secondario74. In conclusione, possiamo osservare che il modello di impugnazione a cognizione limitata alle decisioni di questioni censurate con i motivi, nel quale i motivi stessi svolgono un ruolo essenziale allo scopo del mezzo d’impugnazione, sembra decisamente più in linea con i principi del giusto processo rispetto all’esaminato modello del gravame. Infatti, nel modello a cognizione limitata dai motivi: i) si valorizza adeguatamente l’attività decisoria spesa in primo grado, che mantiene efficacia endoprocessuale anche nelle fasi d’impugnazione in mancanza di specifiche censure ad opera della parte interessata; ii) si indirizza l’attività difensiva della parte appellata e l’attività di cognizione del giudice di secondo grado esclusivamente nei confronti delle decisioni di questioni censurate con i motivi d’impugnazione dalla parte interessata. In base a questa impostazione, pertanto, si assicura la fase di impugnazione alla “essenziale realizzazione contraddittoria della tutela richiesta”, quale piena e coerente espressione dei principi dispositivo, della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, della soccombenza e dell’interesse ad impugnare, nel necessario perseguimento delle esigenze 71 72 73 74 Vedi tutte le pronunce richiamate retro, all’interno delle note 51-57. In proposito non appare pertanto condivisibile Cass., 2 ottobre 2015, n. 19709, secondo la quale “soltanto per i fatti principali il riesame dell’accertamento risultante dalla sentenza impugnata è subordinato alla proposizione di specifiche censure, in mancanza delle quali opera la preclusione derivante dal giudicato interno, mentre per quelli secondari, utilizzati dal giudice di primo grado in funzione della prova dei fatti costitutivi della domanda, l’avvenuta impugnazione dell’accertamento riguardante questi ultimi comporta la riapertura del dibattito processuale anche in riferimento ai primi” (seguita da Cass., 16 marzo 2016, n. 5247). Così Cass., 11 agosto 2016, n. 17037 e Cass., 6 giugno 2016, n. 11574. In questo modo auspico di aver adeguatamente replicato al mio amico Nicola Rascio, il quale aveva osservato che il concetto di “parte di sentenza” da me proposto, “comporta indubbie difficoltà applicative, se non anche margini di discrezionalità, difficilmente controllabili” (RASCIO, L’oggetto del giudizio di appello, in Dir e giur. 2008, 182; seguito da RUGGIERI, Pronuncia oggettivamente complessa e onere di impugnazione, Torino 2020, 13). Peraltro, come spero di aver dimostrato in questo studio, a ben più ampi margini di discrezionalità, assai difficilmente controllabili, si va incontro adottando il criterio della fattispecie nella sua interezza (lo testimonia efficacemente, a tacer d’altro, l’esame della giurisprudenza). 137 Roberto Poli di ordinato, sollecito, economico, “certo” – in breve, razionale ed efficiente, “giusto” – svolgimento del giudizio di impugnazione75. 7. La devoluzione delle “parti di sentenza” dipendenti da quelle oggetto di impugnazione diretta. Una ulteriore conferma della fondatezza di questo terzo orientamento la si ritrae dal fenomeno dell’estensione dell’impugnazione (e quindi della devoluzione) alle parti di sentenza dipendenti da quelle direttamente censurate con i motivi d’impugnazione, fenomeno che può essere correttamente ricostruito e spiegato solo applicando adeguatamente il concetto di “parte di sentenza”. Per comprendere tale fenomeno occorre anzitutto richiamare le due accezioni, i due livelli in cui viene in considerazione il concetto di “autonoma” parte di sentenza, di cui prima abbiamo detto76. Ebbene, il modo corretto d’intendere il c.d. effetto devolutivo allargato alle parti di sentenza dipendenti è il seguente: quando due decisioni che costitui- 75 76 Sempre Nicola Rascio ha sostenuto che violazioni del contraddittorio e del diritto di difesa sarebbero possibili anche nel sistema da me proposto, “perché neppure la massima frantumazione della parte di sentenza inibisce al giudice di appello, «nell’ambito delle questioni riaperte, di fondare le decisioni su ragioni … diverse da quelle svolte dall’impugnante nell’ambito delle specifiche censure proposte»; e di estendere il suo esame alle statuizioni dipendenti da quelle impugnate, sia pure «nei soli limiti del condizionamento»” (così RASCIO, op. ult. cit., 182, richiamando le mie parole). A me pare tuttavia che tali rilievi non colgano nel segno. Sotto il primo profilo, perché una cosa sono le “decisioni di questioni”, nel senso chiarito, che vincolano il giudice dell’impugnazione ove non colpite da motivi di censura, ben altro sono le ragioni, in fatto ed in diritto, vale a dire le argomentazioni, in fatto ed in diritto, che il giudice utilizza per motivare, per giustificare le specifiche “decisioni di questioni”, nel senso chiarito; argomentazioni che non vincolano mai il giudice dell’impugnazione, proprio perché non costituiscono “decisioni di questioni” in senso tecnico, sempre nel senso chiarito (sul punto, con maggior dettaglio, v. POLI, Le Sezioni Unite sulla specificità dei motivi di ricorso per cassazione, in Riv. dir. proc. 2014, 183 ss.). Sotto il secondo profilo, perché anche ove vi fosse questo rischio, nel sistema da me proposto esso sarebbe di gran lunga inferiore rispetto a quello che si correrebbe nel sistema che intende per “questione” l’intera fattispecie, sicché già da questo punto di vista andrebbe preferito il primo sistema. Ma si può anche dubitare del fatto che nel primo sistema, da me difeso, si rischino violazioni del contraddittorio: infatti, qui, per un verso, la questione dipendente è sempre devoluta a seguito dell’attività della parte ed al momento della proposizione dell’impugnazione (e non per iniziativa del giudice ed in un momento non predeterminabile); per l’altro verso, come ricordato anche da Nicola Rascio, è devoluta nei soli limiti del condizionamento, ragion per cui il destinatario dell’impugnazione ben può difendersi anche in ordine alla “parte di sentenza” dipendente sin dal suo atto di costituzione nel giudizio d’impugnazione; e ciò senza considerare che, in molti casi – come emerge dagli esempi riportati infra, nel testo all’altezza delle note 77-81, e nelle note stesse –, il giudice non deve esprimere alcuna “decisione” in senso tecnico sulla “parte di sentenza” dipendente, ma solo adeguare la decisione di questa alla decisione data alla “parte di sentenza” pregiudiziale, quale effetto che deriva direttamente dalla legge, e non dalla discrezionalità del giudice, ex art. 336, comma 1°, c.p.c. (v., per maggiori dettagli in proposito, infra, § 7). Invece, nel sistema qui contrastato (che identifica la “questione” con un’intera fattispecie) il rischio della violazione del contraddittorio e del principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato sussistono con ogni certezza, come abbiamo visto nel testo, e non sono sufficienti a risolverli gli schemi previsti dagli artt. 183-359, 384 (così, invece, ritiene RASCIO, op. ult. cit., 182) e oggi 101, comma 2°, c.p.c. (v., ad es., Cass. 12 giugno 2020, n. 11308), sia perché entrambe le parti dovrebbero comunque apparecchiare uno sforzo difensivo illimitato, per l’eventualità che il giudice dell’impugnazione ritenga di dover pervenire ad una diversa ricostruzione dei fatti o ad una diversa individuazione e/o interpretazione delle norma applicabili alla fattispecie; sia perché il potere del giudice dell’impugnazione finirebbe inevitabilmente per essere esercitato in sede di decisione (ed in particolare in sede di redazione della motivazione), dando luogo ad un inaccettabile, e tendenzialmente infinito, andirivieni tra fase di trattazione (ed istruzione, per poter offrire prova contraria?), per consentire il contraddittorio sul punto, e fase decisoria della controversia (così già, con ulteriori argomentazioni, in POLI, I limiti oggettivi, cit., 425-429, testo e note, spec. nota 784). V. retro, § 6. 138 “Parte di sentenza” e formazione del giudicato interno scono autonome parti di sentenza ex art. 329, cpv., c.p.c. (quindi nella prima accezione) sono collegate tra loro da un nesso di pregiudizialità-dipendenza, ex art. 336, comma 1°, c.p.c. (quindi una parte di sentenza non è autonoma, bensì dipendente, ma nella seconda accezione), l’impugnazione proposta con motivi specifici avverso la decisione principalepregiudiziale77 (rimettendo in discussione una o più delle singole premesse di fatto e di diritto che sono alla base della decisione dipendente), si pone come immediata impugnazione anche (del fondamento e pertanto) della stessa decisione dipendente78, sì che questa è immediatamente devoluta alla cognizione del giudice dell’impugnazione79; solo che questi – attesa la rilevanza, nella dinamica dell’impugnazione, anche della decisione della singola questione così definita, e non solo della decisione della domanda (fattispecie nella sua interezza) – potrà riesaminarla non direttamente e con pienezza di poteri di cognizione, come se fosse stata direttamente impugnata con specifiche censure80, bensì nei soli limiti del nesso di condizionamento, del nesso di pregiudizialità dipendenza che lega le due parti di sentenza81. Vale a dire nel senso che detto giudice dell’impugnazione potrà esercitare il suo potere decisorio sulla decisione dipendente nei soli limiti strettamente necessari ad adeguare quest’ultima alla diversa soluzione data alla prima decisione, principale-pregiudiziale, in applicazione dell’effetto espansivo interno ex art. 336, comma 1°, c.p.c.82. 77 78 79 80 81 82 Si pensi alla parte di sentenza che ha riconosciuto mansioni superiori al lavoratore per un anno; oppure, considerando un altro esempio, alla parte di sentenza che ha determinato un certo ammontare del danno. Si pensi alla parte di sentenza che ha determinato le differenze retributive per 1000 euro al mese; oppure, nel secondo esempio della nota precedente, che ha determinato gli accessori sulla sorte capitale liquidata (rivalutazione monetaria ed interessi compensativi sulla somma rivalutata). E ciò in virtù del principio sistematico per cui non si può chiedere al giudice dell’impugnazione una nuova decisione sulla questione pregiudiziale senza investirlo necessariamente della cognizione di quella dipendente (maggiori ragguagli in POLI, I limiti oggettivi; cit., 25 ss.). E quindi non potrà, per esempio, rivedere i criteri della retribuzione mensile; ovvero, nel secondo esempio, modificare il termine iniziale o quello finale di decorrenza, o il criterio di calcolo degli interessi sulla somma rivalutata, che rappresentano autonome questioni, oggetto di autonome parti di sentenza (nella prima accezione). Così, ove il giudice dell’impugnazione abbia ridotto a dieci le mensilità in cui sono state svolte mansioni superiori (parte di sentenza principale-pregiudiziale), lo stesso dovrà ridurre da 12000 a 10000 l’ammontare delle differenze retributive dovute, lasciando immutati i criteri di calcolo (parte di sentenza dipendente); ovvero, nel secondo esempio considerato, ove il giudice abbia ridotto l’ammontare del danno (parte di sentenza pregiudiziale-principale), dovrà altresì ridurre gli accessori nella stessa proporzione nella quale è stata ridotta la sorte capitale, lasciando immutati i criteri di calcolo (parte di sentenza dipendente). In proposito, con maggior dettaglio, v. POLI, Sul potere del giudice di appello di determinare gli accessori dei crediti pecuniari, in Foro it. 2009, 3483 ss.; ID., Mancata impugnazione della statuizione sugli accessori del credito di valore e poteri del giudice d’appello, in Giust. civ. 2002, 2577 ss. La necessità di tenere distinti i due aspetti – quello delle condizioni in presenza delle quali un’affermazione del giudice può costituire “parte di sentenza” in senso tecnico; e quello del c.d. effetto devolutivo allargato alle “parti si sentenza” dipendenti da quella oggetto diretto dell’impugnazione – si apprezza compiutamente distinguendo tra le ipotesi di rigetto e le ipotesi di accoglimento dell’impugnazione e, con riguardo a quest’ultima ipotesi, tenendo presente i limiti di cognizione e decisione che incontra il giudice dell’impugnazione con riguardo alla parte di sentenza dipendente. Infatti, se non c’è impugnazione specifica anche della parte dipendente, il giudice non è mai libero – quale che sia l’esito del gravame – di riesaminare direttamente e pienamente tale parte dipendente. In dettaglio, e premesso che con l’impugnazione della parte principale/pregiudiziale è immediatamente sottratta al giudicato interno, sia pure nei limiti del condizionamento, anche la parte dipendente: a) se l’impugnazione è respinta, il giudice non ha alcun potere di decisione sulla parte di sentenza dipendente (mentre sarebbe libero di riesaminarla e deciderla ove non la si ritenesse “parte di sentenza” in senso tecnico ex art. 329, comma 2°, c.p.c.); b) se l’impugnazione è accolta, il giudice può solo conformare la decisione dipendente alla diversa soluzione data alla questione principale, nei ristretti limiti del nesso di condizionamento tra le due decisioni (mentre sarebbe libero di riesaminarla e deciderla ove non la si ritenesse “parte di sentenza” in 139 Roberto Poli In questi esatti termini si esprime, del tutto correttamente, la prevalente giurisprudenza sul punto83. Erra invece palesemente quella giurisprudenza che, adottando per il concetto di questione lo schema fatto-norma-effetto, e riempiendo questo schema con la fattispecie considerata nella sua interezza – laddove afferma che la parte di sentenza dipendente, non impugnata, può essere modificata anche nel caso in cui sia respinta l’impugnazione proposta solo nei confronti della parte di sentenza principale-pregiudiziale – finisce per riconoscere inammissibilmente lo stesso, identico pieno e libero potere di decisione del giudice dell’impugnazione sulla parte di sentenza dipendente in due situazioni profondamente diverse: a) quella in cui la parte di sentenza dipendente è stata oggetto di diretta e specifica impugnazione; e b) quella in cui l’impugnazione specifica è stata diretta esclusivamente nei confronti della parte principale-pregiudiziale84. In sintesi e per riassumere: proposta impugnazione solo avverso una parte di sentenza: a) le parti di sentenza che rappresentano i necessari antecedenti logici passano in giudicato interno, ex art. 329, cpv., c.p.c.; b) la parte di sentenza colpita dall’impugnazione è direttamente devoluta alla cognizione del giudice superiore, che può immediatamente e direttamente riesaminarla, sia pure nei limiti del motivo o dei motivi proposti; c) le parti di sentenza dipendenti da quella colpita dall’impugnazione sono anch’esse devolute alla cognizione del giudice superiore, ma indirettamente e nei soli limiti del condizionamento, vale a dire nei soli limiti strettamente necessari ad adeguare – per la sistematica, necessaria coerenza delle decisioni, ex art. 336, comma 1°, c.p.c. – la decisione della questione dipendente alla decisione data alla questione pregiudiziale; d) pertanto, se l’impugnazione 83 84 senso tecnico ex art. 329, comma 2°, c.p.c.). V., ad es., Cass., 4 aprile 2019, n. 9321; Cass., 1 dicembre 2015, n. 24439; Cass., 6 ottobre 2004, n. 19937; nonché Cass., 6 luglio 2020, n. 13870 e Cass., 19 agosto 2003, n. 12176, sui rapporti tra an e quantum debeatur. V. molto chiaramente ed esplicitamente Cass., 26 settembre 2019, n. 23985, con ampi ulteriori richiami; v. anche, sostanzialmente negli stessi termini, Cass., 3 gennaio 2020, n. 33; Cass., 19 dicembre 2019, n. 34026, per i rapporti di pregiudizialità-dipendenza tra aspetti di fatto e qualificazione giuridica; Cass., 4 aprile 2019, n. 9321; Cass., 13 aprile 2018, n. 9202; Cass., 12 aprile 2018, n. 9064; Cass., 1 dicembre 2015, n. 24439 e Cass. 30 novembre 2015, nn. 24382, 24381, 24380 e 24379, anche queste tutte molto chiare ed esplicite; Cass., 22 dicembre 2009, n. 26985; Cass. 11 giugno 2008, n. 15483; Con la massima chiarezza possibile sul punto sin da Cass., 6 ottobre 2004, n. 19937: “La decisione dell’impugnazione sulla questione principale può comportare la modificazione, in virtù del cosiddetto ‘effetto espansivo interno’ anche della questione dipendente (nella specie, riguardante gli accessori del credito), pur se autonoma e non investita da specifica censura; tale ‘modificabilità’ dei capi di sentenza autonomi ma dipendenti da altro capo, costituendo un’eccezione al principio della formazione del giudicato in mancanza di impugnazione, va applicata con estremo rigore, dovendosi perciò escludere che l’impugnazione della statuizione sulla questione principale rimetta in ogni caso in discussione la decisione sulla questione dipendente, attribuendo perciò sempre al giudice dell’impugnazione il potere di deciderla nuovamente e autonomamente, posto che ciò potrà e dovrà accadere solo ove sia imposto dal tenore della decisione relativa all’impugnazione principale, ossia quando tale ultima decisione si ponga in contrasto con quella sulla questione dipendente. In tal caso, la direzione e i limiti dell’intervento consentito al giudice dell’impugnazione sulla statuizione dipendente non colpita da impugnazione non potranno che dedursi, con estremo rigore, delle necessità di coerenza imposte dalla decisione sulla questione principale e dai motivi posti a sostegno della medesima”. V., in particolare, Cass., sez. un., 27 ottobre 2016, n. 21691; più di recente, negli stessi termini, Cass., 27 luglio 2020, n. 15976; Cass., 1 giugno 2020, n. 10398; solo apparentemente anche Cass., 25 giugno 2020, n. 12649, Cass., 22 maggio 2020, n. 9484; Cass., 15 settembre 2009, n. 19870, perché in tali casi l’impugnazione era stata in parte accolta. V. anche Cass., 17 aprile 2019, n. 10760, ove, in base allo schema fatto-norma-effetto, erroneamente si ritiene che l’impugnazione di una parte di sentenza dipendente (tempestività del disconoscimento della scrittura) rimetta in discussione la parte di sentenza principale-pregiudiziale (ritenuta applicabilità alla fattispecie delle norme in tema di disconoscimento e successiva verificazione della scrittura privata). Contra, e correttamente, per l’autonomia della condanna risarcitoria, Cass., 3 aprile 2014, n. 7893. 140 “Parte di sentenza” e formazione del giudicato interno proposta solo avverso la parte di sentenza principale-pregiudiziale è respinta, la parte di sentenza dipendente non può in alcun caso essere modificata85. 8. La devoluzione delle cause dipendenti a norma dell’art. 331, primo comma, c.p.c. I concetti di “parte di sentenza” e “decisione di questione” che ho qui difeso e ribadito consentono altresì di individuare i presupposti ed i limiti della devoluzione al giudice dell’impugnazione delle cause dipendenti – ex art. 331, comma 1°, c.p.c. – da quelle direttamente colpite dai motivi di censura86. 85 86 Quindi, impugnata solo la parte principale-pregiudiziale, non si può sostenere che la parte dipendente sia direttamente e pienamente riesaminabile, perché questo effetto consegue solo alla impugnazione diretta della parte dipendente; e nemmeno si può sostenere che la parte dipendente passi in giudicato interno e che questo giudicato sia risolutivamente condizionato all’accoglimento dell’impugnazione sulla parte principale. Infatti, se la parte dipendente fosse passata in giudicato (sia pur risolutivamente condizionato), vorrebbe dire che la stessa non sarebbe stata devoluta alla cognizione del giudice superiore. Per cui, una volta risolto il giudicato in ragione dell’accoglimento dell’impugnazione sulla parte principale, non si comprende chi, come e quando potrebbe provocare la devoluzione della parte dipendente al giudice dell’impugnazione, tenuto conto che una devoluzione automatica non pare sostenibile, perché in conflitto con l’intero sistema che riserva sempre alla parte la disponibilità dell’oggetto del giudizio d’impugnazione. Inoltre, pure ammessa (e non concessa) la devoluzione automatica, non si comprenderebbe come limitare il potere decisorio nei soli limiti del nesso di condizionamento, sicché anche questa ipotesi finirebbe per essere inammissibilmente assimilata alla diversa ipotesi in cui la parte di sentenza dipendente è direttamente censurata, l’unica ipotesi nella quale il giudice è libero di esaminare e decidere nuovamente e direttamente la questione dipendente. Si è sostenuto che la “dipendenza” tra cause di cui all’art. 331, seconda ipotesi, c.p.c., deve essere valutata caso per caso, con un’indagine volta a verificare, in funzione preventiva, le ipotesi di incompatibilità, alla stregua del diritto sostanziale, tra la (potenziale) pronuncia di accoglimento dell’impugnazione e le statuizioni non impugnate della sentenza che ha chiuso il grado precedente, prendendo in considerazione il modo in cui si atteggia l’impugnazione proposta e non già il suo esito, sub specie di effetti del giudicato, come invece avveniva, in funzione di rimedio alla mancata integrazione del contraddittorio, a norma dell’art. 471 del codice del 1865 (v. RICCI, Il litisconsorzio nelle fasi d’impugnazione, Milano, 2005, 125 ss., 291 ss.). Secondo una diversa impostazione, al centro dell’art. 331 c.p.c. si pone piuttosto un’esigenza di evitare conflitti pratici di giudicati nell’ambito di processi cumulativi, i quali possono ben prescindere dalla potenziale idoneità dell’una decisione a manifestare effetti di accertamento conformante sull’altra in caso di separato svolgimento delle cause (MERLIN, Inscindibilità dei giudizi e riproposizione di domande fra litisconsorti nelle fasi di gravame, in Riv. dir. proc. 2013, 1290 ss., spec. 1311; in termini analoghi v. MENCHINI, Chiamata in garanzia e scindibilità o inscindibilità dei giudizi: a proposito di sezioni unite n. 24707 del 2015, in Scritti offerti dagli allievi a Francesco Paolo Luiso per il suo settantesimo compleanno, Torino, 2017, 233 ss., spec. 242, lavoro cui si riferiscono le citazioni che seguono nel prosieguo del presente scritto). A mio avviso, anzitutto va ricordato che la soluzione dei casi concreti è condizionata: (i) dall’esito del giudizio di primo grado; (ii) dalla parte che propone l’impugnazione; (iii) dalla “parte di sentenza” (decisione di questione) colpita dai motivi d’impugnazione; (iv) dai motivi d’impugnazione proposti, e quindi (v) dai possibili esiti del giudizio d’impugnazione (principio ormai acquisito in dottrina, ma senza dare adeguata rilevanza al concetto di “parte di sentenza” come “decisione di questione”: da ultimo, v LUISO, Diritto processuale civile, II, Milano, 2019, 331; GAMBINERI, Garanzia e processo, I-II, Milano, 2002, 585 ss.). Ciò ricordato, occorre tener presente: a) che al fine di individuare la “dipendenza” tra cause rilevante occorre guardare al nesso tra la “parte di sentenza” (decisione di questione) oggetto diretto dell’impugnazione, e tutte le altre decisioni, non oggetto d’impugnazione, che dalla prima sono logicamente condizionate, sia dal punto di vista processuale della decidibilità, sia da quello sostanziale del contenuto, sia da quello della mera incompatibilità logica tra le statuizioni del giudice (anche tra motivazione e dispositivo), nel senso che la modifica di una renderebbe priva di base logica l’altra (sulla rilevanza della dipendenza anche meramente logica, sia pure senza valorizzare adeguatamente la “decisione di questione”, v. LUISO, op. cit., 332; CONSOLO, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, Padova, 2012, 112 ss.); b) che, pertanto, la devoluzione della causa dipendente avviene nei soli limiti del nesso di condizionamento, vale a dire – ove l’impugnazione sia accolta – nei ristretti limiti necessari ad adeguare la decisione delle “parti di sentenza” dipendenti alla diversa decisione data alla “parte di sentenza” (decisione di questione) oggetto diretto dell’impugnazione. In giurisprudenza, sul tema, v. l’importante Cass., sez. un., 4 dicembre 2015, n. 24707, in Giur. it. 2016, 580 ss., con note di CARRATTA, Requiem per la distinzione fra garanzia propria e impropria in sede processuale e di CONSOLO, BACCAGLINI e GODIO, Le Sez. un. e il venir meno della distinzione tra 141 Roberto Poli La ratio della ora richiamata disposizione, e quindi il coinvolgimento in sede d’impugnazione della causa dipendente, si spiega in relazione al fenomeno, di cui abbiamo appena detto, dell’estensione dell’impugnazione alle decisioni dipendenti a norma del combinato disposto degli artt. 329, comma 2° e 336, comma 1°, c.p.c.: la devoluzione al giudice superiore anche della decisione della causa dipendente, pur se non direttamente interessata dall’impugnazione, impone il coinvolgimento di coloro che ne furono parte nella precedente fase87. Infatti, in base a tale c.d. effetto devolutivo allargato, una volta impugnata la singola statuizione – cioè la parte di sentenza/decisione di questione – contenuta nella decisione (della causa) potenzialmente pregiudiziale, se sussiste il nesso di condizionamento anche la decisione (della causa) dipendente è coinvolta nell’impugnazione, ma solo nei limiti del condizionamento stesso: ove sussistente, il carattere condizionante della (singola statuizione contenuta nella) decisione pregiudiziale determina, da un lato, l’applicazione dell’art. 331, dall’altro, i limiti entro i quali l’impugnazione della decisione pregiudiziale coinvolge anche, in ipotesi di difetto di impugnazione incidentale delle parti, la decisione dipendente88. Vediamo partitamente le ipotesi principali. A) Così, ad es., nell’ipotesi di cumulo di cause dipendenti per garanzia, in caso di accoglimento della domanda principale e di quella del debitore garantito: A1) l’impugnazione di quest’ultimo della decisione pregiudiziale rimetterà immediatamente in discussione anche la decisione della causa dipendente con il garante, pur in mancanza di specifica impugnazione da parte di quest’ultimo, per cui si applica l’art. 331 c.p.c. e l’impugnazione deve essere notificata anche a lui89. Tuttavia, in tal caso la devoluzione avverrà nei soliti limiti del condizionamento, nel senso che tale decisione non sarà liberamente riesaminabile dal giudice dell’impugnazione, come nel caso in cui fosse stata direttamente impugnata dal garante, bensì – in caso di accoglimento dei motivi di censura ed in applicazione dell’art. 336, comma 1°, c.p.c. – solo nei limiti strettamente necessari ad adeguare la decisione 87 88 89 “garanzia propria” e “garanzia impropria”: cosa muta (e cosa no) nella dinamica processuale; in Foro it. 2016, I, 2195 ss., con note di GAMBINERI, Una sentenza storica in tema di chiamata in garanzia e di PROTO PISANI, Appunti sui profili processuali della garanzia; in Riv. dir. proc. 2016, 827 ss., con nota di TISCINI, Garanzia propria e impropria: una distinzione superata; in Nuova giur. civ. 2016, 541 ss., con nota di PASSANANTE, Litisconsorzio processuale nel giudizio di gravame e chiamata in garanzia; in Giusto proc. civ. 2016, 1071 ss., con nota di MENCHINI, Chiamata in garanzia e scindibilità o inscindibilità dei giudizi: a proposito di sez. un. n. 24707 del 2015. Cfr. CONSOLO, Le impugnazioni delle sentenze e dei lodi, cit., 111-112; PROTO PISANI, Appunti sui profili processuali della garanzia, cit., 2205 ss. PROTO PISANI, Appunti sui profili processuali della garanzia, cit., 2206. Per Cass., sez. un., 4 dicembre 2015, n. 24707, cit., si applica l’art. 331 c.p.c., “non tanto perché la statuizione sul rapporto di garanzia sia dipendente da quella sul rapporto principale”, ma “perché è inscindibile la causa sul rapporto principale”, fermo che “essendo la statuizione relativa al rapporto di garanzia una statuizione necessariamente condizionata a quella sul rapporto principale, essa, come non ha mancato di osservare una dottrina, sarebbe caducabile, nel caso di accoglimento dell’impugnazione, ai sensi dell’art. 336 c.p.c., comma 1°. E ciò tenuto conto che la relativa parte di sentenza sarebbe dipendente da quella caducata riguardo al rapporto principale nel contraddittorio del garante”. V. anche CONSOLO, BACCAGLINI e GODIO, Le Sez. un. e il venir meno della distinzione tra “garanzia propria” e “garanzia impropria”, cit., 602, ove si precisa che questo schema non opererà in caso di domanda relativa al rapporto di garanzia non condizionata: la statuizione sulla domanda non condizionata, si afferma, potrà essere infatti rimossa solo a fronte di una specifica impugnazione al riguardo ad opera della parte soccombente, e non verrà caducata (né andrà assorbita) a seguito della riforma della parte di sentenza sulla domanda principale, dalla quale non è strutturalmente dipendente. 142 “Parte di sentenza” e formazione del giudicato interno della causa dipendente alla diversa soluzione data alla singola (decisione di) questione contenuta nella decisione pregiudiziale: si pensi ad una riduzione del quantum debeatur, in ipotesi di accoglimento solo parziale dell’impugnazione90. Se, invece, l’impugnazione è accolta totalmente e la domanda principale viene interamente respinta, il nesso di condizionamento tra le due domande – qui di natura processuale, in ordine alla decidibilità/non decidibilità della dipendente – comporta la dichiarazione di assorbimento della domanda dipendente di garanzia91. A2) Nel caso in cui sia invece solo il garante ad impugnare la sentenza resa sulla domanda principale e sulla domanda di garanzia occorre ancora distinguere: A2a) se il garante muove contestazioni relative esclusivamente al rapporto di garanzia, nessuna “parte di sentenza” (“decisione di questione”) della causa principale-pregiudiziale è coinvolta: pertanto, si scioglie il nesso di condizionamento (di dipendenza) e si applica l’art. 332 c.p.c., con la conseguenza che la decisione sulla domanda principale non sarà automaticamente coinvolta nel giudizio d’impugnazione e, quale ulteriore conseguenza, passerà in giudicato, in mancanza di impugnazione incidentale, anche tardiva, del garantito92. A2b) Ben più complessa è l’ipotesi in cui il garante impugni censurando “parti di sentenza” relative alla decisione che ha riconosciuto il diritto dell’attore principale nel rapporto con il garantito. Si è detto che questa ipotesi andrebbe ricondotta sotto l’ambito di applicazione dell’art. 332 c.p.c., giacché, se l’impugnazione coinvolge unicamente il rapporto dipendente (o, il che è lo stesso, se il garante è legittimato ad impugnare soltanto la pronuncia sul rapporto dipendente), non si vede come questa impugnazione possa coinvolgere anche il rapporto pregiudiziale, se non nei limiti in cui la sua cognizione incidentale incide sull’esistenza o modo d’essere del rapporto dipendente93. Secondo altri, invece, in questo caso, pur mancando un vincolo necessario che colleghi sul piano sostanziale il rapporto dipendente con quello principale, è il legame processuale creato tra le due cause in primo grado che implica che una nuova decisione sul rapporto dipendente non possa essere assunta senza rivisitare la decisione sul rapporto principale, dato che proprio quest’ultimo rapporto è messo in discussione quale motivo di revisione della decisione dipendente. Al fine di garantire l’omogeneità delle decisioni anche in questo caso si applicherà dunque, secondo la ricostruzione ora in esame, l’art. 331 c.p.c., coinvolgendo l’impugnazione del 90 91 92 93 Se non si ragiona intendendo il concetto di “parte di sentenza” come “decisione di questione”, e quindi limitando la devoluzione delle “parti di sentenza” nei limiti del condizionamento, non si riesce a spiegare perché, in caso di accoglimento parziale dell’impugnazione, il giudice non è libero di riesaminare la domanda dipendente, come se questa fosse stata oggetto diretto d’impugnazione, ma può solo adeguare la decisione della causa dipendente alla diversa soluzione data alla singola (decisione di) questione contenuta nella decisione pregiudiziale, ex art. 336, comma 1°, c.p.c., come esemplificato nel testo (riduzione proporzionale del quantum debeatur). Cfr. CONSOLO, Le impugnazioni, cit., 113-114, ove si aggiunge che la devoluzione ai fini della dichiarazione di assorbimento diverrà attuale per il solo caso che sia rovesciata dal giudice d’appello la decisione della causa principale-pregiudiziale. Al riguardo, pur cambiando assai poco nella sostanza, mi pare preferibile sostenere che le parti di sentenza dipendenti sono devolute immediatamente nel giudizio d’impugnazione (al momento dell’impugnazione stessa, e così infatti sottratte al giudicato), sia pure nei limiti del condizionamento, mentre i poteri di cognizione e decisione su tali parti dipendenti possono operare, giusta l’art. 336, comma 1°, c.p.c., solo al momento in cui vi sia stata la riforma delle parti di sentenza direttamente colpite dai motivi di impugnazione. PROTO PISANI, Appunti, cit., 2206. Così PROTO PISANI, Appunti, cit., 2206; GAMBINERI, Una sentenza storica, cit., 2199; MENCHINI, Chiamata in garanzia, cit., 241 ss. 143 Roberto Poli garante necessariamente anche la decisione del rapporto principale94. Peraltro, “è palese che il capo di decisione di accoglimento dell’azione di garanzia, ancorché non impugnato direttamente, in quanto capo dipendente dall’accoglimento dell’azione relativa al rapporto principale, resterà caducato ai sensi dell’art. 336 c.p.c., comma 1°, in quanto dipendente, dall’accoglimento dell’impugnazione svolta sul rapporto principale”95. Ribadita la notevole complessità del tema in esame, ed una volta che si riconosca il potere del garante di rimettere in discussione il rapporto principale, sia pure in ragione dei suoi riflessi su quello di garanzia, questa seconda soluzione appare preferibile96. 94 95 96 Così SALVANESCHI, Le impugnazioni in generale, in Diritto processuale civile, diretto da DITTRICH, II, Torino, 2019, 2582, riassumendo la motivazione di Cass., sez. un., 4 dicembre 2015, n. 24707, cit.; in senso adesivo a tale pronuncia anche CONSOLO, BACCAGLINI e GODIO, Le Sez. un. e il venir meno della distinzione tra “garanzia propria” e “garanzia impropria”, cit., 602. Così Cass., sez. un., 4 dicembre 2015, n. 24707, cit. Queste, in sintesi, le ragioni: a) anche fra coloro che caldeggiano la prima soluzione, qui non condivisa, si afferma che, nell’ipotesi di chiamata limitata al solo aspetto dell’estensione soggettiva dell’accertamento del rapporto principale, senza contestuale proposizione della domanda di garanzia, sia che impugni la sentenza uno dei titolari del rapporto controverso, sia che impugni il garante, quest’ultimo è sempre titolare di una serie di poteri volti ad influire sul regolamento definitivo della situazione sostanziale dedotta in causa, i quali poteri non possono essere eliminati in itinere per determinazione di una delle parti originarie, di quella, cioè, che, impugnando, omettesse di chiamare nella fase d’impugnazione il terzo; inoltre, una scissione degli accertamenti circa i rapporti tra attore e convenuto e tra garantito e garante contraddice lo scopo della chiamata, che è quello di dare vita ad un’unica disciplina del rapporto principale, capace di vincolare tutti i soggetti coinvolti (così MENCHINI, Chiamata in garanzia, cit., 239). Ebbene, se nella fattispecie ora considerata il garante è titolare di tali poteri, non si vede come gli stessi possano venir meno nella diversa fattispecie in cui, con la chiamata, il garantito esercita la pretesa di garanzia, determinando un cumulo, oltre che soggettivo, oggettivo. Infatti, la domanda di garanzia si aggiunge alla fattispecie del cumulo solo soggettivo, ma non la assorbe, ed il garante mira in entrambi i casi ad evitare l’opponibilità di una decisione su una questione pregiudiziale di merito (esistenza del rapporto di molestia), dalla cui risoluzione dipende la decisione della controversia dipendente (così MENCHINI, op. cit., 240 e 242). Pertanto, in caso di cumulo anche oggettivo, vuoi che i poteri del garante siano riconducibili alla legittimazione straordinaria del garante stesso rispetto alla lite principale, vuoi che essi siano riconducibili alla legittimazione ordinaria rispetto alla causa di garanzia, detti poteri non possono che produrre (almeno) i medesimi effetti che producono nelle ipotesi di cumulo solo soggettivo, tra i quali quello, in caso di accoglimento della sua impugnazione, di travolgere l’accertamento principale anche nei confronti del garantito. b) A questa conclusione conduce, pur prescindendo dal discutibile richiamo alla figura dell’unica “causa inscindibile” – poiché qui in effetti siamo in presenza di un cumulo oggettivo di cause – anche un diverso percorso argomentativo, evocato, come abbiamo visto, sia pure in una prospettiva leggermente diversa, pure dalla Suprema Corte: se, anche in caso di cumulo oggettivo, si riconosce al garante il potere di impugnare la decisione sul rapporto principale (potere che riconoscono PROTO PISANI, MENCHINI e GAMBINERI), si riconosce evidentemente che il garante stesso rimetta in discussione una “parte di sentenza” (decisione di questione) pregiudiziale rispetto alla (parte della) decisione che ha riconosciuto la responsabilità del convenuto principale (si pensi alla prova del nesso causale o alla prova del danno). Orbene, in base al principio generale in virtù del quale se è impugnata la “parte di sentenza” pregiudiziale, le altre “parti di sentenza” che da quella dipendono non possono rimanere estranee al giudizio d’impugnazione (da ultimo v. CONSOLO, Le impugnazioni delle sentenze, cit., 111-112), ed in base all’art. 336, comma 1°, c.p.c., l’accoglimento dell’impugnazione del garante estende i suoi effetti alle parti di sentenza dipendenti, travolgendo anche l’affermazione di responsabilità del garantito. Anche le incongruenze in cui s’incorre adottando la ricostruzione qui non condivisa confortano la soluzione che mi pare preferibile: c) se si applicasse l’art. 332 c.p.c. il garante che impugna censurando il modo di essere del rapporto pregiudiziale (di molestia) potrebbe evitare di coinvolgere l’attore principale nel giudizio d’impugnazione, sicché questo giudizio potrebbe svolgersi ed essere deciso solo nei confronti del garantito: ma, se così fosse, laddove il garante sostenesse ad esempio, con i motivi di impugnazione, che in primo grado non era stata offerta prova sufficiente del nesso di causalità, o dei danni asseritamente subiti dall’attore principale, chi sarebbe su tali motivi il suo contraddittore nel giudizio d’impugnazione? Certo non potrebbe essere il garantito, salvo ipotizzare – ma l’ipotesi sarebbe da respingere per palese assurdità – che il garantito debba sostenere, per ottenere la conferma in sede d’impugnazione della condanna del garante nel rapporto di garanzia, che il nesso di causalità tra la sua condotta ed il danno effettivamente sussiste e che sussistono anche i danni lamentati dall’attore (peraltro contraddicendo pienamente quanto dal medesimo garantito sostenuto in primo grado). È vero che il garantito potrebbe proporre impugnazione incidentale, anche tardiva, avverso la decisione del rapporto principale di molestia, ma la sussistenza di questo potere – cui il garantito potrebbe anche decidere di rinunciare – non condiziona lo svolgimento e la decisione del rapporto principale negli inaccettabili termini che abbiamo visto, in caso d’impugnazione del garante e di applicazione dell’art. 332 c.p.c., per cui questa soluzione deve essere scartata. d) Inoltre, ove si applicasse l’art. 332 c.p.c. e non venisse coinvolto l’attore principale nel giudizio d’impugnazione, in caso di accoglimento dell’impugnazione del garante, senza 144 “Parte di sentenza” e formazione del giudicato interno Ebbene, se si riconosce al garante il potere di rimettere in discussione il rapporto principale, è necessario distinguere ulteriormente: A2b1) se l’impugnazione è accolta, la decisione sul rapporto pregiudiziale ha effetto anche nei confronti dell’attore originario e del garantito, e questa decisione estende i suoi effetti, a norma dell’art. 336, comma 1°, c.p.c., anche sulla decisione dipendente relativa al rapporto di garanzia, ma nei soli limiti del condizionamento, vale a dire solo per quanto è richiesto al fine di adeguare la decisione del rapporto dipendente alla diversa decisione data al rapporto pregiudiziale97. A2b2) Se l’impugnazione è respinta: A2b2a) e il garante aveva proposto motivi d’impugnazione anche avverso “parti di sentenza” relative al rapporto dipendente, il giudice dell’impugnazione si occuperà di questi motivi, e la fattispecie presenta le stesse caratteristiche dell’ipotesi sub A2a. A2b2b) Se l’impugnazione è respinta e il garante non aveva proposto motivi d’impugnazione anche avverso “parti di sentenza” relative al rapporto dipendente, il giudice dell’impugnazione non potrà occuparsi in alcun modo delle “parti di sentenza” relative alla decisione del rapporto dipendente di garanzia. B1) Ancora, in caso di rigetto della domanda principale e di dichiarazione di assorbimento della domanda di garanzia nel giudizio di primo grado, l’impugnazione da parte dell’attore della decisione sulla causa principale comporta, per il nesso di dipendenza processuale, l’applicazione dell’art. 331 c.p.c. e la devoluzione allargata della sola decisione di assorbimento (relativa alla causa di garanzia), in ciò esaurendosi l’incidenza del nesso di condizionamento, con conseguente onere di riproposizione della domanda di garanzia, ex art. 346 c.p.c., in capo al garantito, ove questi voglia una pronuncia in proposito subordinatamente all’ accoglimento dell’ impugnazione proposta dall’attore98. 97 98 che questa decisione possa riverberarsi a vantaggio del garantito, avremmo un risultato complessivo dei vari giudizi originariamente cumulati palesemente incongruo in cui, con riguardo alla medesima fattispecie sostanziale, l’obbligato principale sarebbe tenuto al pagamento verso l’attore principale danneggiato, ed il chiamato in garanzia invece non sarebbe tenuto a manlevare l’obbligato, benché la vicenda storica sia esattamente la stessa. E ciò perché una identica questione – ad es., la sussistenza del nesso di causalità – è stata decisa in modo contraddittorio in diverse fasi e fra diverse parti: si tratterebbe, in buona sostanza, di un frazionamento della decisione non poco in rotta di collisione con la ratio dell’art. 331 c.p.c. (v. con grande chiarezza su questo punto LUISO, Diritto processuale civile, II, cit., 334-336; cfr. altresì SALVANESCHI, Le impugnazioni in generale, cit., 2574 ss.; CONSOLO, Le impugnazioni, cit., 111; sull’esigenza dell’ordinamento, in caso di rapporti di garanzia, di favorire il simultaneus processus e l’armonia delle decisioni, v. CARRATTA, Requiem per la distinzione, cit., 589, 590-591; sul ruolo del cumulo tra azione di molestia e di manleva, quale mezzo al fine di decisioni omogenee, v. anche TISCINI, Garanzia propria e impropria, cit., 836). E sempre che il garante non abbia censurato la decisione anche con riferimento alle parti di sentenza relative esclusivamente al rapporto dipendente, ché in tale ultimo caso il giudice dell’impugnazione si occuperà evidentemente anche di queste censure, ove non assorbite ed ancora rilevanti, come nel caso di accoglimento solo parziale dell’impugnazione avverso la decisione relativa al rapporto principale-pregiudiziale. Cass., sez. un., 4 dicembre 2015, n. 24707, cit.; GAMBINERI, Garanzia e processo, II, cit., 607 ss.; PROTO PISANI, Appunti, cit., 2207; CONSOLO, BACCAGLINI e GODIO, op. cit., 601, secondo i quali, come anche per la Suprema Corte, la riproposizione potrà avvenire anche ad opera del garante, il quale abbia proposto domanda relativa al rapporto di garanzia, condizionata all’accoglimento della domanda principale. Anche questa ipotesi è sicuramente problematica e tuttavia la soluzione indicata nel testo, benché meno lineare di come possa apparire, a mio avviso deve essere omologata. In senso contrario si è osservato che “l’allargamento soggettivo della legittimazione è la conseguenza diretta di quello oggettivo: tutti i capi della pronuncia di primo grado sono devoluti al grado superiore e, di conseguenza, tutti i litisconsorti debbono essere chiamati a contraddire. Pertanto, non ha senso imporre all’impugnante principale l’onere di notificazione a tutte le parti, il cui assolvimento è di frequente assai gravoso, sanzionandone l’inadempimento addirittura con l’inammissibilità della impugnazione, se poi l’arricchimento oggettivo del giudizio in premessa 145 Roberto Poli B2) Piuttosto complessa è anche l’ipotesi in cui al rigetto della domanda principale dovesse invece far seguito la decisione nel merito (e non l’assorbimento) della domanda di garanzia, vale a dire nel caso in cui le domande sul rapporto di garanzia (ad es. di nullità/ non nullità, o di esclusione del sinistro dalla copertura assicurativa) fossero state proposte in via non condizionata all’accoglimento della domanda principale. Secondo una prima ricostruzione, se l’attore originario impugna la decisione a lui sfavorevole, in mancanza di un conflitto pratico di decisioni, ove l’impugnazione venisse accolta, non viene coinvolta alcuna decisione dipendente, ai sensi dell’art. 331 c.p.c., sia nel caso in cui la decisione sulla domanda dipendente sia conseguenziale a quella sulla principale, sia quando, a prescindere dall’esito negativo di questa, il giudice di primo grado abbia o escluso il diritto di manleva o riconosciuto l’esistenza del rapporto di garanzia99. Diversamente, si altresì è sostenuto che occorre distinguere: se il giudice di primo grado ha negato il diritto di regresso e l’attore impugna e ottiene dal giudice dell’impugnazione il risarcimento che ha chiesto, questa decisione non è incompatibile con la negazione dell’obbligo di regresso, la quale non si fonda nell’inesistenza dell’obbligo principale, ma riguarda i presupposti particolari e specifici del diritto di regresso (si applica pertanto l’art. 99 predicato in termini di necessità diviene in realtà un’eventualità, poiché è proprio e solo la controparte a poter decidere, una volta integrato il contraddittorio, se riproporre la sua domanda o se semplicemente lasciarla cadere (così MENCHINI, Chiamata in garanzia, cit., 246, sulla scia di MERLIN, Inscindibilità dei giudizi e riproposizione di domande fra litisconsorti nelle fasi di gravame, in Riv. dir. proc. 2013, 1290 ss., spec. 1294; in tali termini v. anche RICCI, Il litisconsorzio, cit., 322, nota 44). In realtà queste osservazioni, senz’altro plausibili in sé considerate, non sembrano tener conto del fatto che, nell’ipotesi ora esaminata, la “parte di sentenza” (di primo grado) principale è la decisione che ha respinto la domanda principale, mentre la “parte di sentenza” dipendente è esclusivamente quella che, per effetto della decisione principale, ha dichiarato assorbita la domanda subordinata dipendente (sulla quale pertanto manca qualsiasi decisione, qualsiasi “parte di sentenza”). Pertanto, l’unica “parte di sentenza” dipendente, che può essere automaticamente devoluta nel giudizio d’impugnazione, a seguito dell’impugnazione da parte dell’attore della decisione (principale) sulla domanda principale, è la “parte di sentenza” che ha dichiarato assorbita la decisione sulla domanda dipendente di garanzia (sulla pronuncia di “assorbimento” come “parte di sentenza” a carattere decisorio in rito, da ultimo MERLIN, Inscindibilità dei giudizi, cit., 1296 ss., ove altri richiami, nelle note 15 ss.). E ciò puntualmente avviene, sicché “tutti i capi della pronuncia di primo grado sono devoluti al grado superiore e, di conseguenza, tutti i litisconsorti debbono essere chiamati a contraddire” (così MENCHINI, op. loc. ultt. citt.); e tanto basta per l’applicazione dell’art. 331 c.p.c. (anche perché il garante non è del tutto indifferente alla decisione di assorbimento/ non assorbimento della domanda di garanzia). In questa situazione, poi, “in un processo dominato dall’impulso di parte, soltanto in presenza della riproposizione della domanda nei confronti del garante ex art. 346 c.p.c.” segue altresì il rapporto di garanzia (così PROTO PISANI, Appunti, cit., 2207). Infatti, con l’impugnazione della decisione principale, viene messo immediatamente in discussione anche il fondamento della dipendente, ovvero della decisione che ha dichiarato l’“assorbimento”, la quale, proprio perché tale – per le ragioni poc’anzi indicate – deve ritenersi (altrettanto) immediatamente sottratta al giudicato e devoluta alla cognizione del giudice superiore. Poiché anche qui la devoluzione avviene nei limiti del condizionamento, l’effetto dell’accoglimento dell’impugnazione non può andare oltre la caducazione della dipendente che aveva dichiarato l’assorbimento, ai sensi dell’art. 336, comma 1°, c.p.c.: non si ha cioè automatica devoluzione della domanda (processualmente) dipendente – la domanda proposta in via condizionata all’accoglimento della principale, in merito alla quale pertanto non vi è potere decisorio “automatico” del giudice –, bensì solo della parte di sentenza dipendente, che in questo caso è quella, come detto, che aveva dichiarato l’assorbimento. In altre parole, a seguito dell’accoglimento dell’impugnazione (nei confronti della “parte di sentenza” principale), la decisione della domanda principale risulta ormai di segno non assorbente e – caducata ex art. 336, comma 1°, la dichiarazione di assorbimento –, si producono per la prima volta le condizioni necessarie per la pronuncia sul merito della pretesa rimasta precedentemente assorbita (chiarissimo sul punto, benché senza richiamarsi all’art. 336, comma 1°, c.p.c., LUISO, Diritto processuale civile, II, cit., 337-338). Ma ciò vuol dire che affinché il giudice del gravame possa pronunciarsi sulla domanda successiva, è necessario che questa sia espressamente riproposta dal garantito a norma dell’art. 346 c.p.c. Tanto è vero che si riconosce pianamente che il garantito potrebbe essersi “disaffezionato” alla domanda assorbita, e reputare opportuno non coltivarla ulteriormente, anche in relazione agli oneri difensivi e di spesa (cfr. MERLIN, Inscindibilità dei giudizi, cit., 1306). Cfr. MENCHINI, Chiamata in garanzia, cit., 247-249, ove anche altri richiami, pro e contra. 146 “Parte di sentenza” e formazione del giudicato interno 332 c.p.c.); se, invece, in primo grado è stato accertato (sia pur potenzialmente) il diritto di regresso e l’attore impugna verso il garantito il rapporto principale, allora il garante – il cui obbligo è stato, sia pur ipoteticamente, accertato – deve essere parte del processo, ex art. 331 c.p.c. Infatti, nei confronti del garante fa stato la pronuncia impugnata, con cui si stabilisce che l’attore ha torto. Se questi vuole modificare la decisione, bisogna che chiami in giudizio colui, nei cui confronti essa è efficace100. Secondo altri ancora, in questi casi, fermo che l’attore dovrà indirizzare la sua impugnazione della decisione sul rapporto principale tanto contro il garante che contro il garantito – per cui è da credere che il riferimento sia in ogni caso all’art. 331 c.p.c. –, ciò non toglie che chi tra questi due risulti soccombente nella causa relativa al rapporto di garanzia, “dovrà egli pure impugnare, magari in via incidentale ex art. 333 c.p.c., la relativa statuizione. Poiché non vi è qui assorbimento, ma vera e propria statuizione meritale (e dunque soccombenza) l’istituto della riproposizione è posto fuori campo”101. A me pare che, con l’impugnazione da parte dell’attore della decisione sulla domanda principale, si rimetta in discussione l’esistenza del rapporto di molestia, sia nell’an sia nel quantum, vale a dire in ordine ad elementi in grado di condizionare – quali veri e propri elementi costitutivi del rapporto di garanzia – l’esistenza e il contenuto del rapporto dipendente di garanzia102; sicché, almeno per l’ipotesi in cui il diritto di regresso è stato (potenzialmente) riconosciuto in primo grado, l’impugnazione dell’attore dovrebbe trascinare anche la decisione dipendente, con conseguente applicazione dell’art. 331 c.p.c. e correlato obbligo di coinvolgere anche il garante nel giudizio d’impugnazione103. Nel caso in cui il rapporto di garanzia è stato escluso in primo grado per specifiche ragioni proprie, l’accoglimento dell’impugnazione dell’attore non sembra determinare conflitti con le decisioni relative al rapporto di garanzia, nemmeno con riguardo alle rispettive motivazioni104, sicché dovrebbe trovare applicazione l’art. 332 c.p.c. Vi è invece sostanziale uniformità nel ritenere che, se impugna solo il garante o solo il garantito, a seconda di chi sia risultato soccombente sulla domanda proposta in via non 100 Così LUISO, Diritto processuale civile, II, cit., 339. Così CONSOLO, BACCAGLINI e GODIO, op. cit., 601; v. anche Cass., sez. un., 4 dicembre 2015, n. 24707, cit. 102 Nella garanzia vi è una azione avente ad oggetto un diritto “condizionato nell’esistenza e nell’ammontare al diritto oggetto originario del giudizio” (GAMBINERI, Garanzia e processo, I, cit., 178). 103 Va da sé che, anche in queste ipotesi, la devoluzione del rapporto dipendente avverrà nei soli limiti del nesso di condizionamento, vale a dire nei limiti necessari ad adeguare, ex art. 336, comma 1°, c.p.c., le “parti di sentenza” sul contenuto del rapporto dipendente alle decisioni (“parti di sentenza”) sull’esistenza e sul modo di essere del rapporto principale rese in sede d’impugnazione. 104 E ciò in quanto l’obbligo di regresso è stato escluso non perché non esisteva il diritto principale, ma perché non esistevano i presupposti particolari del diritto di regresso (così LUISO, Diritto processuale civile, II, cit., 339). L’unica differenza rintracciabile tra le due pronunce rese nei diversi gradi su una medesima questione, in caso di accoglimento dell’impugnazione dell’attore, risiede evidentemente nelle decisioni sulla esistenza e sul modo di essere del rapporto principale di molestia, decisioni di segno diverso nella prima pronuncia (ed anzi del tutto assente quella sul modo di essere del rapporto principale). Ma mentre questa differenza rileva ove sia stato riconosciuto il diritto di garanzia, perché quest’ultimo è inciso dalla esistenza e dalla configurazione del rapporto principale, affermate nel giudizio d’impugnazione, nel caso in cui sia stato accertato che mancano comunque i presupposti del diritto di garanzia, le differenti decisioni sulla esistenza e sul modo di essere del rapporto principale di molestia non sono in grado di trascinare nelle fasi d’impugnazione la decisione sul rapporto dipendente, perché il contenuto di questa non può essere modificato né inciso – proprio per la sua indipendenza – da quelle. 101 147 Roberto Poli condizionata sul rapporto di garanzia, si applica l’art. 332 c.p.c., perché si scioglie il nesso di condizionamento fra domanda principale e domanda di garanzia, l’unica coinvolta nell’impugnazione. C) Infine, in caso di accoglimento della domanda principale e rigetto della domanda di garanzia in primo grado, si ritiene che: C1) l’impugnazione da parte del debitore garantito della sola decisione sulla domanda principale non coinvolgerà, nemmeno indirettamente, la causa dipendente, per la cui devoluzione al giudice superiore sarà necessaria un’apposita impugnazione da parte dello stesso debitore garantito, e si applica l’art. 332 c.p.c.105. La soluzione forse non è sempre così lineare: rispetto al carattere generale di siffatta ricostruzione andrebbero distinte le ipotesi, che peraltro dovrebbero essere non infrequenti, in cui la domanda di garanzia è espressamente subordinata/condizionata all’accoglimento della domanda principale – il quale accoglimento dovrebbe operare come condizione di decidibilità della domanda subordinata – e non siano state proposte in primo grado domande sul rapporto di garanzia non condizionate all’accoglimento della domanda principale stessa. Nelle ipotesi ora in considerazione, infatti, l’eventuale accoglimento dell’impugnazione del garantito dovrebbe comportare, in virtù del nesso di condizionamento ed ex art. 336, comma 1°, c.p.c., da un lato, il venir meno delle condizioni di decidibilità della domanda subordinata; dall’altro, la dichiarazione di assorbimento della parte di sentenza dipendente (che ha deciso sul rapporto di garanzia), con la conseguenza che dovrebbe trovare applicazione l’art. 331 c.p.c.106. C2) Se invece l’impugnazione è proposta solo nei confronti del garante, per l’ammissibilità di una impugnazione incidentale (eventualmente tardiva) condizionata di quest’ulti- 105 Cass., sez. un., 4 dicembre 2015, n. 24707, cit.; LUISO, Diritto processuale civile, II, cit., 337; PROTO PISANI, Appunti, cit., 2207; CONSOLO, BACCAGLINI e GODIO, op. cit., 601. 106 In queste ipotesi la decidibilità del rapporto dipendente di garanzia è condizionata dal contenuto del rapporto principale. Se il garantito impugna nei confronti del danneggiato il rapporto principale, deve chiamare in causa anche il garante, se vuole che abbia efficacia nei suoi confronti il diverso contenuto del rapporto principale che si vuole ottenere in sede d’impugnazione: diverso contenuto nel senso della non decidibilità della domanda dipendente. Più correttamente: la dipendenza del rapporto garantito-garante dal rapporto principale danneggiato-garantito, per quanto riguarda la decidibilità del primo dipendente, comporta il coinvolgimento di quest’ultimo se è impugnato il modo di essere del rapporto principale. Pertanto, in queste ipotesi, tenuto conto dell’art. 336, comma 1°, c.p.c., si applica l’art. 331 c.p.c. Si ipotizzi, tornando al caso che qui interessa della domanda di garanzia, che il garantito soccombente impugni (i) sia la decisione sulla domanda principale, contestando l’esistenza del suo debito e concludendo, come in primo grado, per l’accoglimento dell’impugnazione e, solo in via subordinata, per l’accoglimento della domanda di garanzia; (ii) sia la decisione della domanda di garanzia, con motivi specifici ad essa relativi: ebbene qui, l’accoglimento dell’impugnazione avverso la decisione della domanda principale, e la conseguente riforma in senso assorbente della decisione stessa, dovrebbe coinvolgere la parte di sentenza dipendente di rigetto della domanda subordinata di garanzia, imponendone la conseguente riforma ad opera di una dichiarazione di assorbimento, resa necessaria dal (sopravvenuto) impedimento ad una decisione di merito. E ciò, anche in linea con la funzione della garanzia processuale, di “semplice proposizione eventuale ed anticipata dell’azione di regresso”, tenuto conto del fatto che l’accoglimento della domanda principale rappresenta una condizione per beneficiare degli effetti del rapporto assicurativo (v. CARRATTA, Requiem per la distinzione, cit., 589, 591), atteso che, come abbiamo già ricordato poc’anzi in nota, nella garanzia vi è una azione avente ad oggetto un diritto “condizionato nell’esistenza e nell’ammontare al diritto oggetto originario del giudizio” (GAMBINERI, Garanzia e processo, I, cit., 178; PROTO PISANI, Appunti, cit., 2201: “La domanda di garanzia è domanda eventuale o subordinata, che in tanto sarà esaminata, in quanto venga accolta la domanda principale; se questa viene rigettata, la domanda di regresso viene semplicemente ‘assorbita’, cioè non esaminata”; v. anche MENCHINI, La struttura (oggettiva e soggettiva) del giudizio d’impugnazione in caso di chiamata in garanzia dell’assicuratore per la responsabilità civile, in Giusto proc. civ., 2012, 1087 ss., spec. 1089-1090, 1092-1096: “la pretesa di regresso ha quale fatto costitutivo l’esistenza dell’obbligazione risarcitoria e nasce soltanto dopo che sia intervenuta la soccombenza del garantito nella lite principale”). 148 “Parte di sentenza” e formazione del giudicato interno mo, per rimettere in discussione il rapporto pregiudiziale con l’attore principale, e per le relative conseguenze, vale a mio avviso quanto affermato per l’ipotesi sub A2b107 108. A questo punto del discorso è forse possibile tentare di indicare una regola tendenzialmente generale sui presupposti e sui limiti dell’effetto devolutivo allargato alle cause dipendenti – ex art. 331, comma 1°, c.p.c. – da quelle direttamente colpite dai motivi di censura: ogni volta che con l’impugnazione è direttamente rimessa in discussione una “parte di sentenza” (decisione di questione) relativa alla decisione della causa principalepregiudiziale, la cui modifica in sede d’impugnazione implica una conseguenza logica sulla decidibilità, sulla esistenza o sul contenuto del rapporto oggetto della decisione dipendente, la causa che ha ad oggetto quel rapporto dipendente è sottratta al giudicato e ricompresa nell’oggetto del giudizio d’impugnazione. La ricomprensione nell’oggetto del giudizio d’impugnazione è rigidamente limitata dalla natura e dal contenuto del nesso di dipendenza (condizionamento); vale a dire che si determina nei limiti strettamente necessari ad adeguare la decisione sul modo di essere del rapporto dipendente alla diversa decisione resa in sede d’impugnazione sul modo di essere del rapporto principalepregiudiziale. “Causa dipendente”, a norma dell’art. 331 c.p.c., è quella che ha ad oggetto un rapporto logicamente dipendente dal modo di essere della decisione sul rapporto principale-pregiudiziale. La dipendenza logica può riguardare: la decidibilità, l’esistenza e il contenuto del rapporto dipendente. 9. Il divieto di reformatio in peius. La ricostruzione del sistema delle impugnazioni qui difesa consente infine di spiegare perfettamente anche il c.d. divieto di reformatio in peius, che diversamente resta privo di una giustificazione sistematica coerente109. Invero, se il giudicato interno endoprocessuale si forma su ciascuna decisione – avente ad oggetto singole questioni in senso tecnico –, non investita da uno specifico motivo d’impugnazione, se ne desume in primo luogo che l’esame del giudice superiore non può 107 Cfr. LUISO, Diritto processuale civile, II, cit., 337. Per PROTO PISANI, Appunti, cit., al garante deve essere consentita la facoltà di rimettere in discussione, in via di impugnazione anche tardiva condizionata, il rapporto pregiudiziale per contestare in via subordinata quello dipendente di garanzia, per quanto l’accertamento del rapporto pregiudiziale avverrà solo incidenter tantum; per MENCHINI, Chiamata in garanzia, cit., 241, all’interno della nota 27, diversamente, il garante può rimettere in discussione il modo di essere del rapporto principale, nei suoi rapporti con il garantito, riproponendo, in via subordinata, le relative contestazioni ed eccezioni, non essendo necessario né possibile che il garante formuli impugnazione incidentale nei confronti dell’attore originario, al fine di provocare la riforma della parte di sentenza relativa alla pretesa di molestia, posto che la contestazione circa l’esistenza di questa può avvenire nel giudizio d’impugnazione concernente la causa di garanzia e con effetti limitati ai rapporti tra garante e garantito. 108 La ricostruzione qui presentata è del pari valida, mutato ciò che si deve, anche per le fattispecie nelle quali al rapporto di pregiudizialità-dipendenza che lega la causa principale a quella dipendente di garanzia si aggiunge l’elemento del legame diretto tra l’attore principale ed il convenuto della causa dipendente, rapporto che, a sua volta, è pregiudiziale rispetto al rapporto principale (su tali fattispecie v. PROTO PISANI, Appunti, cit., 2207; SALVANESCHI, Le impugnazioni in generale, cit., 2585-2586 e, ivi, 2584-2585 per le ipotesi di connessione per alternatività). 109 Per un più ampio e dettagliato discorso al riguardo, v. POLI, I limiti oggettivi, cit., 570 ss. 149 Roberto Poli svolgersi se non sulle questioni risolte sfavorevolmente all’appellante che siano state rimesse in discussione con l’impugnazione stessa; e questa prima conclusione già restringe quasi completamente gli spazi per una reformatio in peius, giacché esclude la possibilità di riesame d’ufficio di una specifica questione in senso tecnico risolta in senso sfavorevole all’appellato in primo grado. Resta da verificare se, nell’ambito della specifica questione in senso tecnico di cui sia stato chiesto il riesame in sede d’impugnazione, il giudice di questa fase abbia il potere di determinare comunque un ulteriore vantaggio per l’appellato, anche nell’inerzia di questi. Si ipotizzi, ad esempio, che il giudice di primo grado abbia condannato il convenuto al pagamento di un credito di valuta, con rivalutazione monetaria ed interessi calcolati sulla somma via via rivalutata, dalla domanda giudiziale al saldo; su impugnazione dell’attore, il quale – impugnando specificamente la statuizione che ha fissato il criterio di calcolo degli interessi, disponendo che questi vanno calcolati sulla somma via via rivalutata – sostiene che gli interessi devono essere calcolati sulla somma interamente rivalutata, può il giudice superiore, nel silenzio dell’appellato, statuire che gli interessi si devono calcolare sull’importo originario del credito, non rivalutato, dalla domanda al saldo? Ebbene, sulla base della ricostruzione qui proposta, abbiamo visto che con l’impugnazione si chiede sempre la verifica dell’esistenza di una violazione della legge di formazione del provvedimento; violazione che, una volta riconosciuta, apre il giudizio sul rapporto, da tenersi di regola nello stesso giudizio di appello, eccezionalmente in sede di legittimità. Se questo è vero, allora quella verifica è destinata a chiudersi con una sentenza: a) di accoglimento dell’impugnazione, quando il motivo è fondato e causa efficiente del dispositivo; b) di rigetto dell’impugnazione e correzione della motivazione, quando il motivo è fondato ma non ‘‘causale’’; c) di rigetto dell’impugnazione, quando il motivo è infondato; d) di inammissibilità dell’impugnazione (o di un singolo motivo), per difetto d’interesse, quando il motivo è fondato, nel senso che la violazione di legge sussiste, ma la parte impugnante non ha interesse a farla valere perché la sentenza sul punto è a lui favorevole. Ragionando alla stregua di quest’ultima ipotesi, sembra doversi escludere che il giudice dell’impugnazione possa pervenire ad una determinazione dell’ammontare dovuto ancora più vantaggiosa per l’appellato, nonostante il silenzio di questi. In siffatti precisi termini sembra ragionare anche la giurisprudenza più recente110. 110 Cfr., in proposito, l’importante pronuncia di Cass. 8 novembre 2013, n. 25244; più di recente, negli stessi termini, Cass. 3 dicembre 2020, n. 27704; con grande chiarezza anche Cass. 16 novembre 2020, n. 25877; Cass. 6 ottobre 2020, n. 21504; Cass. 17 febbraio 2020, n. 3896; Cass. 26 settembre 2019, n. 23895; v. anche Cass. 29 ottobre 2019, n. 27606; Cass. 12 dicembre 2018, n. 32160; Cass. 20 dicembre 2017, n. 30624; Cass. 11 dicembre 2017, n. 29601; Cass. 28 settembre 2016, n. 19190; Cass. 16 marzo 2016, n. 5247, sia pure non condivisibile dove ha escluso la formazione del giudicato interno sulla questione della natura edificabile del bene; Cass. 18 marzo 2015, n. 5343. 150 “Parte di sentenza” e formazione del giudicato interno 10. Conclusioni. Concludo osservando che sul punto appare necessario un intervento delle Sezioni Unite, poiché non vi è “orientamento” peggiore della presenza di tre orientamenti eterogenei ed incompatibili, come nell’attuale situazione111. Tra i vari criteri utilizzati dalla Corte, a me pare che quello che fa riferimento alle questioni di: i) giurisdizione; ii) competenza; iii) violazione o falsa applicazione di una norma di diritto; iv) nullità della sentenza o del procedimento; v) esistenza e rilevanza di un fatto storico, principale o secondario, e quindi agli antecedenti logici necessari della decisione contenuta nel dispositivo – antecedenti di rito e di merito, ed in quest’ultimo caso, di fatto e di diritto – debba essere preferito per una serie di ragioni. Infatti, detto criterio: a) si fonda su serie ed attendibili ragioni giustificative, di carattere logico, esegetico, sistematico e di opportunità112; b) si pone maggiormente in linea con i principi del giusto processo113; c) è l’unico coerente con gli orientamenti di legittimità sulla specificità dei motivi, nonché sulla struttura e sulla funzione del giudizio di appello, dianzi richiamati114; oltre che con i principi dispositivo e della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, che operano anche in sede d’impugnazione; d) non presenta i numerosi inconvenienti e le gravi incongruenze che caratterizzano gli altri due orientamenti esaminati, ed anzi consente un ordinato, puntuale, sollecito – in una parola, “efficiente” – svolgimento dei giudizi d’impugnazione115. Inoltre, e non si tratta di un aspetto secondario, in base al criterio qui proposto, ‘‘parte di sentenza’’ assume il medesimo significato relativamente all’accertamento dell’an e del quantum debeatur; nelle sentenze definitive e nelle non definitive; nei giudizi ordinari e speciali, ivi inclusi i giudizi arbitrali, rituali ed irrituali; con riferimento al giudizio di appello e di cassazione; nei processi civile, penale, amministrativo e tributario. Infine, ma non certo per importanza, il giudizio di appello strutturato come una impugnazione in senso stretto a critica libera – ed inserito nella logica della formazione pro- 111 Anche per scongiurare il sospetto che la Corte riempia variamente il concetto di “parte di sentenza” a seconda del tipo di decisione finale che, in relazione agli specifici e concreti casi sottoposti al suo sindacato, voglia prendere sulla impugnazione. 112 In proposito rinvio a POLI, I limiti oggettivi, cit., passim, cui rimando anche per tutti gli opportuni approfondimenti che non è stato possibile richiamare in questa sede. All’impostazione e alle soluzioni qui proposte aderiscono ora del resto i tre recenti studi monografici sul giudizio di appello: GAMBINERI, Appello, in Commentario del Codice di Procedura Civile a cura di CHIARLONI, Torino, 2018, 225 ss., 253 ss.; DI MARZIO, L’appello civile, Milano, 2018, 22 ss.; TEDOLDI, L’appello civile, Torino, 2016, 156-157; e già in precedenza, autorevolmente, PROTO PISANI, Note sull’appello civile, in Foro it. 2008, V, 257 ss. 113 Cfr. POLI, Giusto processo e oggetto del giudizio di appello, in Riv. dir. proc. 2010, 48 ss. 114 Il criterio ora riaffermato garantisce assai meglio degli altri due qui criticati gli obbiettivi che pure Nicola Rascio ritiene vadano perseguiti con il giudizio di appello (RASCIO, L’oggetto del giudizio di appello, cit., 179-180, ove si osserva che “intensità ed estensione del controllo sono variabili tra loro inversamente proporzionali”). Peraltro, solo utilizzando il criterio qui riaffermato, e non anche gli altri due criticati, si può del tutto coerentemente sostenere che “imporre all’appellante di individuare errori del primo giudice che, con valutazione ex ante, giustificherebbero il capovolgimento della decisione sulla domanda, contribuisce all’affinamento della composizione giudiziale della lite, escludendo dal riesame le questioni per le quali la parte non sia in grado di svolgere censure idonee e indirizzando l’opera del giudice chiamato alla nuova decisione” (RASCIO, op. ult. cit., 187). 115 Sulla caducazione del giudicato interno sulle decisioni di questioni in caso di estinzione del giudizio di rinvio v. POLI, I limiti oggettivi, cit., 563; in giurisprudenza, v. Cass. 13 maggio 2020, n. 8891. 151 Roberto Poli gressiva della cosa giudicata – può svolgere al meglio le funzioni sia di garanzia soggettiva dell’impugnazione, perché consente all’appellante di scegliere quali (decisioni di) questioni far riesaminare al giudice dell’impugnazione (in ipotesi anche tutte); sia di miglior filtro al giudizio della Suprema Corte, perché questa si dovrà occupare solo delle (decisioni di) questioni che non siano già coperte dal giudicato interno (art. 329, comma 2º, c.p.c.) o altrimenti precluse (art. 346 c.p.c.). 152