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Sonetti «fratelli». Caro, Venier, Tasso

2000, Italique, III

I margini della tradizione a stampa della lirica di Torquato Tasso, l'appendice di « rime parte burlesche & parte gravi » situata a colmatura, variabile nella diacronia, delle edizioni cinquecentesche delle Rime piacevoli del Caporali e del Mauro (sempre associate al canzoniere dell'altro perugino Filippo Alberti) costituisce uno sviluppo singolare, o si dica patologico, del libro di poesia rinascimentale.  Lo scrutinio di tali insiemi aleatorî può tuttavia rivelarsi, come qui si intende mostrare, non privo di qualche interesse euristico, e favorire la restituzione di frammenti magari preziosi, e altrimenti dispersi, del milieu e della stessa storia interna della poesia tassiana. Entro tale tradizione « dispersa » conviene distinguere tre fasi principali : (a) nella prima, corrispondente al Raccolto d'alcune piacevoli rime, Parma, Eredi di Seth Viotti, 1582 (P), ed alle Rime piacevoli, Parma, s. e. (ma Viotti), 1584 (P), la sezione miscellanea si fregia di una sola trouvaille tassiana, ovvero il sonetto Tolse barbara gente il pregio a Roma (541), a Barbara Sanseverina ;  (b) nella seconda, rappresentata dalla stampa milanese delle Rime piacevoli, Pietro Trini, 1585 (M), al sonetto 582, descriptus dalle precedenti edizioni come gran parte delle altre rime di vari, se ne aggiungono altri tre dislocati nella sezione finale della raccolta : ossia La vincitrice e gloriosa Ispagna (952), Come il nocchier da gl'infiammati lampi (92), La bella e vaga man che le sonore (862); (c) una terza fase, infine, procede dalla fortunatissima Quarta impressione ferrarese delle Rime piacevoli (F), con addizione tassiana di quarantacinque testi, data in luce nel 1586 da Vittorio Baldini, che già nel 1582 aveva stampato, per gli uffici di Giovan Battista Guarini, una Scielta delle rime del Sig. Torquato Tasso,  mai avallata dall'autore.  Ora, nell'ambito della fase (a), la seconda stampa Viotti (P) si distingue per la presenza, accanto all'unicum tassiano, di una costellazione di testi alludente con singolare limpidezza (che già si perde, per soppressioni o dislocazioni, al livello di F) ad una fonte ferrarese immediatamente riconducibile al circolo del poeta. Vi si ritrovano, nell'ordine, i nomi di Giovan Battista Strozzi, con due sonetti (pp. 134-35) ; di Carlo Coccapani (pp. 220-21, tre sonetti) ; di Giovan Battista Guarini (pp. 221-22, due sonetti) ; di Ercole Varano (p. 259, un sonetto), esponente dell'Accademia Ferrarese e dedicatario di uno dei testi-chiave delle rime chigiane del Tasso, Mentre non anco il portoèatesparito, sonetto di resipiscenza che prepara la conclusione della Prima parte del canzoniere amoroso ;  ma anche, ed è quel che più interessa, due sonetti altrimenti ignoti di Stefano Santini, Tosto ch'in voi, mio Sol, questi occhi torsi e Sì che

Italique Poésie italienne de la Renaissance III | 2000 Varia Sonetti « fratelli ». Caro, Venier, Tasso Agostino Casu Edizione digitale URL: http://journals.openedition.org/italique/187 DOI: 10.4000/italique.187 ISSN: 1663-4438 Editore Librairie Droz Edizione cartacea Data di pubblicazione: 31 dicembre 2000 Paginazione: 45-87 ISBN: 2-600-00490-4 ISSN: 1423-3983 Notizia bibliografica digitale Agostino Casu, « Sonetti « fratelli ». Caro, Venier, Tasso », Italique [Online], III | 2000, online dal 06 octobre 2009, consultato il 01 mai 2019. URL : http://journals.openedition.org/italique/187 ; DOI : 10.4000/italique.187 © Tous droits réservés A C S O N E T T I « F R A T E L L I ». C A R O, V E N I E R, T A S S O I margini della tradizione a stampa della lirica di Torquato Tasso, l’appendice di « rime parte burlesche & parte gravi » situata a colmatura, variabile nella diacronia, delle edizioni cinquecentesche delle Rime piacevoli del Caporali e del Mauro (sempre associate al canzoniere dell’altro perugino Filippo Alberti) costituisce uno sviluppo singolare, o si dica patologico, del libro di poesia rinascimentale.  Lo scrutinio di tali insiemi aleatorî può tuttavia rivelarsi, come qui si intende mostrare, non privo di qualche interesse euristico, e favorire la restituzione di frammenti magari preziosi, e altrimenti dispersi, del milieu e della stessa storia interna della poesia tassiana. Entro tale tradizione « dispersa » conviene distinguere tre fasi principali : (a) nella prima, corrispondente al Raccolto d’alcune piacevoli rime, Parma, Eredi di Seth Viotti, 1582 (P), ed alle Rime piacevoli, Parma, s. e. (ma Viotti), 1584 (P), la sezione miscellanea si fregia di una sola trouvaille tassiana, ovvero il sonetto Tolse barbara gente il pregio a Roma (541), a Barbara Sanseverina ;  (b) nella seconda, rappresentata dalla stampa milanese delle Rime piacevoli, Pietro Trini, 1585 (M), al sonetto 582, descriptus dalle precedenti edizioni come gran parte delle altre rime di vari, se ne aggiungono altri tre dislocati nella sezione finale della raccolta : ossia La vincitrice e gloriosa Ispagna (952), Come il nocchier da gl’infiammati lampi (92), La bella e vaga man che le sonore (862) ; (c) una terza fase, infine, procede dalla fortunatissima Quarta impressione ferrarese delle Rime piacevoli (F), con addizione tassiana di quarantacinque testi, data in luce nel 1586 da Vittorio Baldini, che già nel 1582 aveva stampato, per gli uffici di Giovan Battista Guarini, una Scielta delle rime del Sig. Torquato Tasso,  mai avallata dall’autore.  Ora, nell’ambito della fase (a), la seconda stampa Viotti (P) si distingue per la presenza, accanto all’unicum tassiano, di una costellazione di testi alludente con singolare limpidezza (che già si perde, per soppressioni o dislocazioni, al livello di F) ad una fonte ferrarese immediatamente riconducibile al circolo del poeta. Vi si ritrovano, nell’ordine, i nomi di Giovan Battista Strozzi, con due sonetti (pp. 134-35) ; di Carlo Coccapani (pp. 220-21, tre sonetti) ; di Giovan Battista Guarini (pp. 221-22, due sonetti) ; di Ercole Varano (p. 259, un sonetto), esponente dell’Accademia Ferrarese e dedicatario di uno dei testi-chiave delle rime chigiane del Tasso, Mentre non anco il porto è a te sparito, sonetto di resipiscenza che prepara la conclusione della Prima parte del canzoniere amoroso ;  ma anche, ed è quel che più interessa, due sonetti altrimenti ignoti di Stefano Santini, Tosto ch’in voi, mio Sol, questi occhi torsi e Sì che A C morto in me stesso, in voi sol vissi (pp. 221-22) : e il primo sonetto del Coccapani, Tosto ch’a gli occhi miei, donna, s’offerse, è una puntuale riscrittura del primo di essi. Il nome di Stefano Santini (insieme a quello di Sperone Speroni, rappresentato in P da un sonetto, Nuova Aurora d’Amore in sulla sera, su cui occorrerà ritornare) eccede l’ambito (e l’epoca) ferrarese, rinviando inequivocabilmente al primo tempo dell’esperienza lirica tassiana. Compagno di studi di Torquato fin dagli anni bolognesi, quindi allievo con lui dello Studio patavino, il Santini, originario di Guastalla, si era precocemente accreditato presso la corte di Mantova : membro dell’Accademia degli Invaghiti, partecipava con la canzone Alma gentil, che dal bel nodo sciolta alla silloge in morte del cardinale Ercole Gonzaga  (alla quale doveva essere destinato anche l’epicedio composto dal Tasso, ossia la canzone 517 Già s’era intorno la novella udita e il sonetto 518 Quanto lo scettro e l’onorata spada), e con una corona di otto sonetti alle Rime di diversi per Lucrezia Gonzaga.  Il primo gennaio 1564, l’anno della morte, il Santini teneva l’orazione inaugurale dell’Accademia degli Eterei, stabilita in Padova presso la dimora di Scipione Gonzaga, nipote di Ercole (Oratio pro Aethereorum Academiae initio, Venezia, Bevilacqua, 1564) ;  e una lettera di recente rinvenimento (Mantova, Biblioteca Comunale, cod. H. IV. 8) ne pone ulteriormente in luce il ruolo privilegiato quale intermediario tra i cenacoli letterari di Mantova e Padova.  Nel 1567 dodici suoi sonetti, due canzoni e sei ottave liriche in acrostico apparivano postume nella stampa delle Rime de gli Academici Eterei, contenente anche, com’è noto, la prima forma del canzoniere tassiano.  Né si esclude che proprio al Tasso sia da attribuire una qualche cura delle rime dell’amico scomparso ; certo fu lui a pronunciarne l’elogio funebre in Accademia (conservatoci, mutilo, nel ms. II. 37 dell’Ariostea di Ferrara),  e non è affatto improbabile, come già voleva il Solerti,  che proprio in questa occasione componesse i sette sonetti obituari (519-525) conservati in unico nel manoscritto bolognese I, autorevole testimone della fase più alta della produzione tassiana.  All’interno della silloge accademica il tombeau del Santini sarà elevato, nella forma di un dittico di sonetti, da Giovan Battista Guarini.  I testi trasmessi da P sono insomma un caso di rime rifiutate, come si addice al loro spiccato carattere di esercizio formale : Tosto ch’in voi, mio Sol, questi occhi torsi non prima usi a mirar forme celesti, dal divino splendore in me fur desti pensieri ; onde d’amar, lasso, m’accorsi. 48 S «  ». C, V  T Tentò nel primo assalto il cor d’opporsi d’amor temendo i colpi aspri et infesti ; ma ogni schermo lasciò, poi che i modesti alti costumi, e ’l parlar saggio scorsi. Et meco altier : ¢ Con ch’altra scorta ¢ dissi ¢ poss’io, che di sì chiara e viva luce, al Ciel da terra più sicuro alzarmi ? ¢ Così a voi mi donai ; voi per mio duce elessi ; in voi sentii tutto mutarmi ; sì che morto in me stesso, in voi sol vissi. Sì che morto in me stesso, in voi sol vissi, poi ch’al benigno Ciel piacque mostrarmi ogni sua gloria in voi sol per bearmi, et perché ’l sommo ben qua giù sentissi. Ché se dal dì, ch’in voi quest’alma unissi, giamai d’essa godei privo trovarmi, godone or più, ch’in lei più chiaro parmi scorger d’alti pensier profondi abissi ; onde non fia che più ’l desir m’inforsi o mi svii dal camin ch’a Dio m’adduce, pur che ’l bel vostro lume Amor mi presti, tanto l’eterna parte in me riluce : sì a lei furo i miei sensi humili et presti tosto ch’in voi, mio sol, questi occhi torsi. Le due valve del dittico sono incardinate su un duplice artificio metrico : identità tra l’explicit del primo sonetto e l’incipit del secondo, mentre la chiusa di questo ripete circolarmente il capoverso di quello ; ripresa delle rime del primo sonetto nel secondo giusta la legge di rotazione ABBA ABBA CDE DEC → CEEC CEEC ADB DBA. La qualità delle desinenze (segnatamente issi e orsi) individua con certezza l’archetipo, e si tratta di una terna di sonetti del Caro : Donna, qual mi fess’io, qual mi sentissi quando primier in voi questi occhi apersi ridir non so : ma i vostri io non soffersi, ancor che di mirar a pena ardissi. Ben gli tenn’io nel bianco avorio fissi di quella mano, a cui me stesso offersi, et nel candido seno, ove gl’immersi : et gran cose nel cor tacendo dissi. 49 A C Arsi, alsi, osai, temei : speme e diletto presi di voi ; spregiai, posi in oblio tutte l’altre ch’io vidi prima e poi. Con ogni senso Amor, con ogni affetto mi fece vostro, e tal ch’io non desio e non penso e non sono altro che voi. In voi mi trasformai, di voi mi vissi dal dì che pria vi scorsi ; e vostri fêrsi i miei pensieri, et non da me diversi, sì vosco ogni atto, ogni potentia unissi. Tal per desio di voi da me partissi il cor, c’hebbe per gioia anco il dolersi ; fin che non piacque a’ miei fati perversi che da voi lunge et da me stesso gissi. Hor, lasso, e di me privo e de l’aspetto vostro, come son voi ? dove son io ? Solingo, et cieco, et fuor d’ambeduo noi ! Come sol col pensar s’empie il difetto di voi, di me, del doppio exilio mio ? Gran miracoli, Amor, son pur i tuoi ! Miracoli d’Amor : in due mi scissi quand’un mi fei ; di maggior luce aspersi veggio occulti i begli occhi, ch’a vedersi spargono i miei di tenebrosi ecclissi. Odo un silentio, a cui par non udissi dolce harmonia ; coi passi a voi conversi a me ritorno : et là ’v’io gli dispersi, tengo i miei sensi unitamente affissi. Fuor del mio, desiderando altro ricetto vo sempre, et mai non giungo, et se travio non è sì bel sentier che non m’annoi. Hor chi vide mai tante in un soggetto contrarie meraviglie ? Alato Dio, quanto in virtù de la mia donna puoi !  Le stesse rime occorrono qui tre volte nel medesimo ordine ; a differenza che in Santini, il rapporto di coblas capfinidas non comporta piena identità tra explicit e incipit successivo, né si ha identità tra primo e ultimo verso della serie : elementi invece obbligatori nel genere contiguo della corona di sonetti,  tutt’altro che estraneo, si è visto, alle preferenze metriche del Santini. In una lettera al Varchi risalente alla metà degli anni Trenta, il Caro dichiarava che i tre sonetti erano « fatti ad imitazione dei tre fratelli del 50 S «  ». C, V  T Petrarca » (ossia Rvf. 41-43, dove però l’identità delle rime è variata secondo una retrogradatio interna alle quartine e ai terzetti, ABBA ABBA CDC DCD → BAAB BAAB DCD CDC → ABBA ABBA CDC DCD), e tornava a sollecitare un giudizio da parte del destinatario e, per suo tramite, di Vittoria Colonna ;  e ancora nel 1560 un altro fiorentino, Lucantonio Ridolfi, esaltava i sonetti del Caro unendo alla lode dell’artificio la dichiarazione di un contenuto sapienziale : Io non mi maraviglio ¢ disse Aretefila, poi che vide Lucio tacersi ; ¢ se e’ si suol dire, che gli amanti cambiano tra loro i lor cuori, questo hora veggo, che non vuole altro dire, se non che ciascuno piglia, e riceve in sé il pensiero dell’anima amata da lui, e lascia il suo : e quivi discorre, e quivi opera : ciò è nell’amata : & essendo il pensiero nell’amata, non è nell’amante, non potendo essere in un medesimo stante in due luoghi. Di questi meravigliosissimi effetti, seguitò Lucio, dell’amore, secondo Platone, sono pieni tre bellissimi sonetti nati ad un corpo del dottissimo, e molto leggiadro M. Annibal Caro : il primo de’ quali incomincia : Donna qual mi fussi io, qual mi sentissi, quando primier in voi questi occhi apersi. Alle quali parole di Lucio aggiunse Aretefila : ¢ Io aveva già e veduti, e letti molti altri bellissimi componimenti del Caro, i quali me lo havevano in somma ammirazione & reverenza meritamente posto ; ma per certo quei tre sonetti dello amore del divinissimo Platone (come diceste) tutti ripieni, mi fecero (la prima volta che io gli lessi) e l’una, e l’altra verso così degno Autore in ben mille doppij crescere ; parendomi eglino miracolosi, non meno per la somma dottrina che in loro contengono, quanto per la leggiadria delle parole che in essi s’ode ; e per la grandissima arte, che in quelli si scorge, essendo tutti & tre colle medesime rime artifiziosamente tessuti.  La prima apparizione a stampa è però tardiva, nelle Rime di diversi nobili poeti toscani pubblicate a Venezia, per Ludovico Avanzo, nel 1565 (in due libri, designati d’ora in avanti come At  e At ).  Il curatore Dionigi Atanagi consacra ai tre sonetti, significativamente disposti all’inizio della sezione riservata al Caro (At , c. 1 r-v), un’amplissima nota di commento, sorta di definizione d’un vero e proprio sottogenere metrico :  Poiché questo [Donna, qual mi fess’io, qual mi sentissi] con gli altri due seguenti Son., pieni non più de’ miracoli de l’amore, che di quelli del divino ingegno del loro autore, come sono d’un soggetto stesso, et l’uno pende da l’altro, contra l’uso ordinario de gli altri Son., così sono tessuti delle medesime rime ; hanno i giovani 51 A C studiosi a sapere, che i Son. tra le altre loro proprietà hanno questa, che ciascuno ha il suo proprio argomento, con che si spatia, o si ristringe dentro i termini di  versi, de’ quali non esce : né l’uno giamai con la costruttione, o col sentimento passa ne l’altro : ma ognuno da sé solo, ad uso de gli epigrammi Latini, & Greci. Nondimeno alcuni eccellenti huomini, o per isperienza d’ingegno, o per poetica leggiadria, talvolta ne hanno legati insieme tre, sì come fece il Petrarca in quelli, che per ciò sono chiamati i tre fratelli, a similitudine de le tre Canzoni de gli occhi, ch’egli stesso chiamò sorelle, il primo de’ quali comincia Quando dal proprio sito si rimove & sì come hanno fatto molti de’ nostri tempi, hora tessendoli tutti et tre delle medesime rime, come in questi si vede haver fatto il C. Caro ; hora variandoli solo in questo, che le prime de’ quartetti, e de’ terzetti del . Son. sieno ne’ medesimi luoghi le seconde, del . Son. & le seconde sien prime : come fece il Petr. In più altre maniere i moderni, pigliando ardire, con legamento di rime, & senza, hanno intrecciati, & congiunti più sonetti insieme : le quali, per non allungarci troppo, lasciamo hora da parte.  Per l’Atanagi insomma l’esperimento del Caro, eccellente in sé, è produttivo di ulteriori applicazioni come conviene all’iniziativa di un caposcuola. Lo proverà, nei fatti, il moltiplicarsi di sonetti « fratelli » all’interno dell’antologia. Sia il caso della tenzone tra Giacomo Cenci e Alessandro Marzio (At , cc. 65r-v e 86v-87r), documento risalente agli anni romani della carriera di Dionigi Atanagi, epoca della sua collaborazione con Claudio Tolomei e l’Accademia della Poesia Nuova :  proposta e risposta si articolano ciascuna in tre sonetti sulle stesse desinenze erse, ore, anto, ete, ice (la prima consonante e assonante, col conseguente portato lessicale, con la rima B dei « fratelli » del Caro),  « i quali sei Sonetti essendo, nonostante la difficultà de le medesime rime, spiegati con tanto candore et leggiadria, fanno chiara fede a ciascuno, quanta fosse la prontezza et felicità di questi due nobilissimi ingegni ne la poesia Toscana ».  Nel caso di una coppia di sonetti di Benedetto Guidi, Dove la Senna e ’l Reno irriga e ’nfiora e Quivi sorge di gioia il proprio fonte (At , c. 24r-v), l’Atanagi si premura di segnalare come l’autore « incateni l’uno con l’altro, accordando il primo verso di questo [Quivi sorge di gioia il proprio fonte] con l’ultimo di quello [Dove la Senna, 14 « che quivi hanno la vena e ’l proprio fonte »] : che è uno dei nuovi modi, che i moderni hanno trovato di legare insieme l’un Sonetto con l’altro ». Ma l’acquisto più insigne è costituito dai tre sonetti « fratelli » di Domenico Venier (At , c. 46 r-v). Accogliendo la norma delle coblas capfinidas introdotta dal Caro, il poeta veneziano restaura il sistema di rotazione proprio dell’archetipo petrarchesco, secondo una progressione di « difficoltà » 52 S «  ». C, V  T che la Tavola puntualmente registra, segnalando l’« imitatione de’ tre fratelli del Petrarca, quanto a l’ordine de le rime », ma di « quelli del Caro [...] quanto a la materia, & stretto incatenamento [...]. Onde quanto s’è detto di quelli, intendasi anche detto di questi, così intorno a la proprietà de’ Sonetti, come intorno a le meraviglie, non più d’Amore, che de l’ingegno de l’autore, di che son pieni »  (dove il rinvio da luogo a luogo del commento ribadisce l’intento dimostrativo) : Fredda è Madonna sì, che ’l ghiaccio stesso men freddo sembra, e tuttavia l’ardente foco riscalda ogni gelata mente. Come l’è dunque il ciò poter concesso ? S’ella arde, e ’nfiamma ogni huom lungi e da presso, come in se stessa un tal calor non sente ? Se non è come ’l Sol, che parimente tutto riscalda, e non è caldo in esso. O pur Amor ¢ sì come suol talhora colpo di ferro in fredda selce e dura farne uscir foco a viva forza fòra ¢ tal, con gli strali ond’ei percote ogni hora quel cor di pietra e freddo oltre misura, foco ne tragge ond’altri arde e ’nnamora. E s’egli è ver, ch’Amor similemente tragga indi foco a nostro mal, confesso fallir, s’io bramo, e lui pregar non cesso, che pur sempre in quel cor suoi strali avente ; né so, perché piagarlo ognihor più tente, se pur non lascia un picciol segno impresso nel vivo marmo : ancor che ’n ciò depresso s’alzi per altro, e via maggior divente. Ché quanto più d’aprir ferendo cura quel cuor di sasso ¢ e men l’impiaga e fóra ¢ più foco Amor ne trahe d’alta ventura : poi ch’a quel foco, a quella fiamma pura tutte sue faci accender suol, qualhora d’arder ben mille e mille cor procura. Così là dove in saettar sì spesso, ma sempre indarno, il duro cor algente vien contra un solo a rimaner perdente, tanti n’acquista al vivo fuoco espresso. 53 A C Né fia giamai ch’Amor, l’arco giù messo, non la saetti ognihor via più sovente, s’ei divien più ferendo invan possente che se gli fosse il piagar lei permesso. E ben veggio hor che nol fa speme, allhora che scocca in lei, d’aprirle il sen, ma cura d’altri infiammar, ferirla adhora adhora. D’Amor nemica Amor giova e ristora tanto più, quanto al suo colpir più dura. Chi vide mai tal maraviglia anchora ? È uno degli episodi nevralgici della raccolta. Nella traditio dal manierismo « romano » del Caro al laboratorio di Domenico Venier è come implicita, sub specie metrica, la parabola stessa dell’Atanagi, che al declinare dell’astro farnesiano era stato accolto quale segretario nell’Accademia Veneziana fondata da Federico Badoer nel 1557 e avente nel Venier, che pure non vi fu mai nominalmente ascritto, uno dei promotori più autorevoli (così ad esempio Girolamo Molino, nell’invitare Bernardo Tasso a stampare l’Amadigi per i tipi dell’Accademia, poteva dichiararsi « pregato da questi Signori miei amici, e da diversi loro protettori ; tra’ quali è il Clarissimo M. Federigo Badoaro, e M. Domenico Veniero »).  A ben vedere, inoltre, la sezione riservata al Venier in At  ha carattere del tutto peculiare, e la strategia che l’antologista persegue ne è ulteriormente illuminata. Si tratta infatti di cinque componimenti in tutto (contro i trentuno del Venier presenti in At , che, come si vedrà, è anzitutto il libro dei veneziani),  ai tre « fratelli » accompagnandosi solo altri due sonetti, Non pò la forza et la vertù del core e Sì grave doglia il cor per voi sostene (At , cc. 46v-47r), tra loro connessi per una singolarità formale che il curatore, la cui mano si fa qui indistinguibile da quella dell’autore, illustra nel modo seguente : Non pò la forza, e la vertù del core. Questo è un Sonetto doppio, fatto ad imitatione di tre sonetti simili di Dante da Maiano : ma con questa differentia, & maggiore obligatione, che dove ogni verso ordinario di quelli include un verso straordinario di cinque sillabe, il quale s’accorda con la rima del verso ordinario precedente, fuorché il primo, il terzo & il quinto, dove o il detto verso di cinque sillabe non è, o non rima ; questo l’ha in tutti : & accorda la rima di quello, che è nel . verso del primo quaternario, con la rima di quello, che è nel quinto, cioè nel primo verso del secondo quaternario : & il medesimo fa, ma con diversa rima, di quello, che è nel primo verso del primo ternario, con quello, che è nel primo verso del secondo ternario [(x)A(a)B(b)A(a)B (x)A(a)B(b)A(a)B (y)C(c)D(d)C (y)D(d)C(c)D]. 54 S «  ». C, V  T Cosa non meno difficile, & faticosa, che maestrevole, & artificiosa. In che riuscendo il Signor Veniero sì felicemente, come si vede ; mi pare, che sia vero ciò, che un bello spirito in simile proposito disse di lui : cioè, che egli ne’ componimenti ordinarij vince gli altri, ne gli straordinarij vince se stesso. I sopraallegati Sonetti di Dante da Maiano, sono stampati nel libro de gli antichi poeti Toscani. L’uno de’ quali comincia. Lasso per ben servire. & c. [A(a)BA(a)B A(a)BA(a)B (b)C(c)D(d)E (e) C(c)D(d)E] L’altro, Cera amorosa, &c. [di schema identico] & sono a carte . b. Il terzo comincia, Lo meo gravoso etc. & è a car. . a. Avvertendo in questo ultimo, che il verso inchiuso ne l’ottavo, che dovea esser di cinque sillabe, come gli altri, non è se non di tre, & per ciò forse meno perfetto [A(a)BA(a)B A(a)BA(a)B (b)C(c)D(d)E (e) C(c)D(d)E]. Sì grave doglia il cor per voi sostene. Questo sonetto è composto con la medesima obligatione, che il precedente, se non che quello ha i quaternarij tessuti ad uso di strambotti, & questo accorda il quinto verso col quarto, come per lo più fanno i Sonetti [(x)A(a)B(b)A(a) B (x)B(b)A(a)B(b)A (y)C(c)D(d)C (y)D(d)C(c)D].  Dall’imitazione di un contemporaneo, e sia pure con la cauzione dell’aemulatio petrarchesca, si trascorre a quella di un antico della Giuntina,  esperita con singolare adesione alla patina stilistica dell’originale : così ad esempio in Non pò la forza e la vertù del core [:ardore :dolore] torna la rima A di Lo meo gravoso affanno e lo dolore [:ardore :core], e nel v. 5, « né s’huom rinforza ¢ e doppia il suo valore », rintocca « ma eo mi sforzo, e mostro gran baldore » (Lo meo gravoso, 7) ; inoltre rinforza, non petrarchesco, ha attestazioni arcaiche (ad esempio in Cino, Io non posso celar lo mio dolore, 7-8 « ma sovente mi rinforza lo foco, / parlando del dolor »), e del pari la reggenza di « né d’arder cesso, e s’arder men procaccio » (v. 12), ignota alla sintassi del Canzoniere, appare autorizzata dalla dantesca Io sento sì d’amor, 59 « però che s’io procaccio di valere ». Si tratta di un esercizio, prima che emulativo, filologico, cui non disdice la compagnia della canzone di Giovanni Maria Barbieri « tessuta a la maniera de’ Provenzali », Pioggia d’un bel pensier nell’alma mia, che appare a stampa proprio in At  per la prima volta,  « manifesto » di quei provenzalisti modenesi coi quali il Venier aveva condiviso indagini e scoperte (fu lui, ad esempio, che trasmise al Barbieri l’unico esemplare allora conosciuto del Donatz) ;  ovvero l’assunzione, quale reperto « de la purità naturale dell’antica lingua Toscana », della frottola Passando con pensier per un boschetto di Franco Sacchetti, data ad « incerto autore antico » (At , c. 206r). « Antichi » e « moderni » si trovavano per altro fianco a fianco in un progetto di pubblicazione, di schietto sapore « enciclopedico » e camilliano,  annunciato nella Somma delle opere dell’Accademia Veneziana : « Tutti 55 A C i sonetti de’ più approvati autori antichi, e moderni, ridotti sotto i suoi capi secondo la diversità delle materie in loro contenute ».  Quasi a ribadire un partito preso estetico, anche la sezione del Venier in At  si aprirà con un ulteriore esercizio arcaizzante (c. 7v) : Movi interno desio nato nel core di sì dolce cagion novellamente ; et più tosto che puoi ritrova Amore, che là ti scorga, ov’è ’l tuo ben presente. Ivi giunto, con lui securamente apri quel, che nascondi, a lei di fore : dille quant’è suo foco in te possente, poi che t’arse lontan del suo calore. Chiedi alcun refrigerio a la tua fiamma : et ciò fia ch’a quest’occhi un dì si mostre, ben che foco vicin più forte infiamma. Lascia poi dipartendo Amor con seco, che le ’mprima nel cor le ragion nostre : et speranza al tornar sen vegna teco ; che è, anzitutto, una variazione di Ballata, i’ vo’ che tu ritrovi Amore (Vita Nova, ,  [XII, 10]), di cui cfr. specialmente i vv. 5-10, « Tu vai, ballata, sì cortesemente, / che senza compagnia / dovresti in tutte parti avere ardire ; / ma se tu vuoli andar sicuramente / retrova l’Amor pria, / ché forse non è buon sanza lui gire » : ma il paradigma rimico attrae anche, al v. 4, un modulo ben cavalcantiano (cfr. Gli occhi di quella gentil foresetta, 25-26 « Ballata, quando tu sarai presente / a gentil donna, sai che tu dirai » ; Perch’i’ no spero di tornar giammai, 31-32 « Deh, ballatetta, dille sospirando / quando le se’ presente »), e per l’incipit si veda almeno la ballata In abito di saggia messaggiera (v. 2, « movi, ballata, senza gir tardando »), di attribuzione dantesca nella tradizione « veneziana » a cominciare dal codice Mezzabarba ¢ ma anche, più sottilmente, un’altra movenza della Vita Nova (,  [VIII, 3]), « Piangete, amanti, poi che piange Amore / udendo qual cagion lui fa plorare ». Allegazioni simili si potrebbero produrre per l’altro sonetto Entra per gli occhi in me, quand’io vi miro (c. 10v), mentre Sì gravoso tormento è quel ch’io porto, penultimo della serie (c. 15r), sarà certo « imitatione di quel Sonetto del Petrarca Quand’io son tutto volto in quella parte [Rvf. 18], ove tutte le rime sono de le parole stesse »,  ma la ricerca dell’aequivocatio in rima vi suscita, insieme, armoniche più remote, che si tratti del sonetto guittoniano Dolcezza alcuna o di voce o di sono, 9-12 « tante gravose doglie e pene 56 S «  ». C, V  T porto / e ’n viso ed in diviso com mi pare, / se di presso vi sono o di lontano ; / sempre mi trovo in tempestoso porto » (e una delle cadenze del sonetto venieriano è appunto « di tempesta in porto » [v. 5]), o di incipit quali il guittoniano La dolorosa mente ched eo porto (magari promosso anche dal derivante cominciamento dantesco) od il ciniano Lo intelletto d’amor ch’io solo porto. Rispetto al corpus maggiore accolto in At , il drappello di componimenti presentato in At  si configura insomma come un’antologia ‘‘ orientata ’’, saggio di quelle impuntature formali cui massimamente si affidava la fama dell’autore : né sorprende che proprio su questa raccolta-specimen si focalizzino le iniziative di emulazione, poniamo, di un Luigi Groto, che compone quattro sonetti « sopra le medesime rime, che perciò si chiamano i quattro fratelli, a imitatione del S. Annibal Caro »,  e persegue con analoga oltranza i due tipi, pure autorizzati dal Venier, del sonetto equivoco (Io che dal primo dì vaneggio e vago, « fatto con le medesime rime, a somiglianza di quello del Petrarca : Quand’io son tutto volto in quella parte »)  e del sonetto rimalmezzato, producendo con A un tempo temo, ardisco, ardo et agghiaccio un manufatto ragguardevole « non tanto per lo soggetto quanto per l’artificio ; perché in questo sono cinquantadue rime [...] perciocché ogni verso s’accorda quattro volte con quel verso, con cui suole e deve ordinariamente accordarsi nell’ultima rima » (risultato : [α][β][γ]A [ε][ζ][η]B [ε][ζ][η]B [α][β][γ]A [θ][ι][κ]A [λ][µ][ν]B [λ][µ][ν]B [θ][ι][κ]A [ξ][ο][π]C [ρ][σ][τ]D [φ][χ][ψ]E [ξ][ο][π]C [ρ][σ][τ]D [φ][χ][ψ]E),  dove l’impronta venieriana è già nell’incipit, così simile al celebre Non punse, arse, legò, stral, fiamma o laccio (a sua volta rifatto in Col bel, vivi, aurei, ciglio, occhio, capelli, « di tre corrispondenze perpetue per imitar da lontano il sonetto del Clar. M. Domenico Veniero ») ;  o di un Gabriele Fiamma, che così « avvertisce » il lettore commentando il proprio sonetto Al vivo sole, a quei celesti ardori, di schema (x)A(a)B(b)A(a)B(x) A(a)B(b)A(a)B (y)C(c)D(d)C (y)D(d)C(c)D come Non pò la forza del Venier : Questo modo di metter tante rime non sol nel fine, ma nel principio, e nel mezzo de’ versi, non è nuova inventione : percioché il Petrarca usò di por le rime nel mezzo de’ versi nella canzone : Io non vo’ più cantar, com’io soleva [Rvf. ], e nel mezzo delle stanze, come nella canzone Verdi panni sanguigni oscuri e persi [Rvf. ], & nel fine della canzone : Vergine bella, che di Sol vestita [Rvf. ], e l’Epicuro nella sua Cecaria fece molti versi assai leggiadri con le rime nel mezzo. Ma Dante da Maiano fece de’ sonetti con queste rime, non però regolari, come è questo dell’auttore : il quale ha seguito la via del Clariss. Veniero, che, riducendo questo 57 A C modo di rime alla maggior perfettione, che si possa, ne ha scritto due meravigliosi sonetti, tanto facili, e dolci, che l’obligo di tante rime non sol non fa riuscire il poema duro, ma par quasi che quelle parole siano fatte per quel concetto, sì che non si possa spiegar con altre. Comincia il primo sonetto suo : Non pò la forza, e la virtù del core, e ’l secondo : Si grave doglia il cor per voi sostene. De’ quali mostra l’artificio, e l’obligo, M. Dionigi Atanagi, che gli diede primieramente in luce.  Nel secondo volume Atanagi, il primato spettante a Domenico Venier si deduce dalla disposizione stessa degli autori (non più alfabetica come per il primo libro).  At  si apre infatti con sei componimenti di Sperone Speroni, tra cui il lungo carme in sciolti Mira cor mio quest’ampia alta cittate (At , cc. 1r-7r) ; seguono le trentuno rime del Venier (cc. 7v-15r) ; quindi, dopo un madrigale di Andrea Navagero (Arbitro eletto siedi, c. 15 v), una vasta raccolta delle rime di Claudio Tolomei (cinquantanove testi, cc. 16r-31r). L’ordine riflette un parametro che è insieme assiologico e ‘‘ storico ’’ : il primo posto tocca al massimo letterato della Repubblica, protettore ufficioso dell’Accademia Veneziana,  anzi auctor riconosciuto nella Somma delle opere da mandare in luce pubblicata dagli accademici nel 1558, includente sotto il capo della Poesia l’« Apologia dell’eccellentissimo M. Sperone Speroni in difesa de la sua Canace, con un dialogo del medesimo del modo di compor la tragedia » ;  il Venier segue immediatamente, primo dei lirici puri, e apre a distanza la serie dei veneziani, quasi una raccolta nella raccolta, che si accamperà al centro del volume :  e la contiguità col Navagero, prestigioso esponente dell’umanesimo veneziano di inizio secolo, gli si addice benissimo. Quindi, con processo a ritroso nel tempo, è la volta del maestro dell’Atanagi negli anni di Paolo III, « che posson dirsi tanti anni di secol d’oro ».  È una struttura calcolatissima, dove sembra dato intravedere il canone delle « poesie moderne » che l’Accademia Veneziana pure annunciava nella Somma delle opere, « scelte con diligenza in tutte le opere de’ più fioriti ingegni » ;  e ne sono ulteriore, tardivo riflesso le edizioni postume delle rime di accademici quali Giacomo Zane, per cura dello stesso Atanagi ;  Girolamo Fenarolo, con ampia appendice di rime funebri, il cui principale dedicatario è Domenico Venier ;  Girolamo Molino, per cura di Celio Magno a sua volta membro fondatore dell’Accademia Veneziana :  stampa il cui intento retrospettivo si acclara nella biografia del Molino redatta da Giovan Mario Verdizzotti, autore anche di sette rime funebri per l’edizione del Fenarolo, e già nel 1560 di un sonetto alle « anime gloriose » dell’Accademia, posto a chiusura della Topica di Giulio Camillo da lui curata.  * * * 58 S «  ». C, V  T L’esercizio ‘‘ disperso ’’ del Santini ritrae insomma una ben precisa fase culturale, collimante con la breve ma decisiva esperienza veneziana del giovane Tasso, che nel 1558 aveva lasciato Urbino al seguito del padre e dell’Atanagi, entrambi insigniti di un ruolo nell’Accademia della Fama. E proprio alla luce dei due sonetti del Santini s’intende appieno la ratio stilistica di un segmento della raccoltina tassiana inclusa in At  (cc. 187r-190r : tredici sonetti in tutto, che si indicheranno d’ora in poi come A I-XIII), che come quelli sembra testimoniare di una pratica condivisa e ludica, all’altezza del sodalizio « etereo », di curiosa metrici prettamente ‘‘ veneziani ’’ : AV La terra si copria d’horrido velo et le falde di neve a mille a mille cadeanle in grembo, onde a sé pria rapille sott’altra forma il Dio che nacque in Delo ; quand’ecco i’ scorgo in vivo foco il gielo cangiarsi, e ’n fiamme le cadenti stille, et qual gemma ch’al lume arda e sfaville splender le nubi et serenarsi il cielo. Mentre in altrui sì strani effetti anchora risguardo, in me li provo, e ’l ghiaccio sfarsi sento, et le nubi de’ miei duri sdegni. Allhor gridai : ¢ Deh, che ’l bel Sole, ond’arsi, s’appressa, et vanno innanzi a lui ta’ segni come va innanzi a l’altro Sol l’Aurora ¢. A VI Come va innanzi a l’altro Sol l’Aurora et da gli agi i mortali a l’opre invita, così que’ segni a la penosa vita mi richiamâr da la quiete allhora ; et qual nel suo venir l’Alba colora di purpureo splendor l’aria smarrita, tal la mia faccia, anchor che scolorita l’havesse il verno, rossa apparve fora ; e ’n quella guisa che il vermiglio suole cangiarsi in rancio quand’Apollo è giunto, mutò poi vista a l’apparir del Sole : sentissi intanto il cor dolce compunto da gli sguardi et dal suon de le parole che l’andaro a ferir quasi in un punto. 59 A C A VII Fulvio, qui posa il mio bel Sole, allhora che l’altro fa ne l’Ocean soggiorno ; qui poscia appar quand’apre Febo il giorno, Febo, che n’è di lei nunzio et aurora ; et quinci prima uscire il vid’io fora, di vermiglio splendor le membra adorno ; et se quei per ministre ha l’Ore intorno, questi Amore et le Gratie ha seco ognora. Or com’è che qui presso a chi vi guarda s’offran di fior sì vaghe forme et nove, né sian arsi da lui qual solfo et esca ? Lasso, egli dolce i fior’ nutre et rinfresca con la vertù che da’ begli occhi piove, et solo avvien che i cor’ distrugga et arda ! È un esercizio che converrà ormai ascrivere al genere dei sonetti « fratelli » : la similitudine del corso solare e delle ‘‘ fasi ’’ dell’apparizione dell’amata ritorna il tema simbolico e narrativo dell’archetipo petrarchesco, che qui si recupera invero alle ragioni di un piccolo canzoniere amoroso ; il gioco delle connessioni metrico-retoriche si fa, rispetto ai modelli finora incontrati, più libero : l’explicit del primo sonetto è ripreso identicamente nell’incipit del secondo, ma non si dà aggancio tra questo e il successivo ; tutti e tre i testi condividono il paradigma rimico in ora, con l’ulteriore vincolo dell’iterazione in rima di aurora. Ma si noti anche « bel Sole », « senhal » comune a La terra si copria, 12 ed a Fulvio, qui posa, 1 (e associabile a Lucrezia Bendidio in ragione dell’altro sonetto a Fulvio Viani, Mira, Fulvio, quel Sol di nuovo apparso [10], 11 « e di Lucrezia ’l nome incide e segna »), o la correlazione da « ta’ segni » di quello (v. 13) a « que’ segni » di questo (v. 3). E se in La terra si copria d’horrido velo il motivo petrarchesco è declinato secondo l’esempio di un fortunato sonetto dell’Ariosto, Chiuso era il sol da un tenebroso velo (già imitato da Bernardo Tasso in un dittico del secondo libro degli Amori, XXXIV Già s’avicina con la vaga fronte e XXXV Se la nebbia di sdegni, che sovente),  il paradigma rimico comune ai tre « fratelli » riflette un’ulteriore, rara costellazione di testi, tutti rinvenibili entro il perimetro della raccolta Atanagi. Il « senhal » aurora, sempre in posizione di rima, si trova infatti nel dittico di sonetti a Ersilia Cortese che chiude la sezione speroniana di At  (c. 7r), Chi è costei, che come nuova Aurora e Nuova Aurora d’Amore in sulla sera : a loro volta non scindibili dai due del Caro Et qual fu mai, da che si gira il Sole / di te più vaga et più serena Aurora e Già tra Venere e ’l Sol pura et 60 S «  ». C, V  T lucente / sorgea l’Aurora del mar d’Adria fuori, accolti in At  sempre a chiusa della rispettiva sezione d’autore (c. 9r-v), e già connotati da taluni dei forti dantismi (indotti da Purg. 2, 1-9) che occorreranno nella prova tassiana. Ma per più altri aspetti la raccolta A si connota come un esercizio tutto interno all’orizzonte di poetica (e di attinenze personali) degli accademici veneziani, e solo a partire da quello si fa pienamente leggibile. Si veda per esempio il sonetto a Benedetto Varchi (A IX) : L’hidra novella che di tosco forse già Megera nudrìo nel seno immondo, ch’al fine uscita dal tartareo fondo prima là tra’ Germani horribil sorse, et quindi poi con piè veloce scorse velen spargendo da più bocche il mondo, et gli empi capi e ’l guardo furibondo contra ’l gran Giove minacciando torse, hor, dal tuo Lenzi vinta, i tempî sacri gli cede, et fugge, et scorge a terra sparse mille sue teste, onde si cruccia et freme. Tu, perché ’l tempo sì gran fatto insieme con tanti altri non furi, in dotte carte a l’immortalità, Varchi, consacri. Il giovane Tasso allude qui al sonetto Chiaro Cappello, hor che l’inuitto, & sacro col quale il Varchi « Invitava M. Bernardo Cappello, magnifico, & gravissimo poeta, a celebrare il valore, & la prudenza di Monsignor Lorenzo Lenzi, Vescovo di Fermo, & Vicelegato d’Auignone, & insieme di Monsignor di Sorbellone, in difesa di quella città, & stato contra l’essercito de gli Ugonotti »  (fatti del luglio 1562), conservato in At  insieme alla risposta Varchi, e’ mi duol, et me ne struggo, et smacro (cc. 30r-v). Come anche dichiara un locus a modestia nella lettera con cui L’hidra novella veniva inoltrato al Varchi (1565), Torquato si pone insomma come terzo e paritario interlocutore di uno scambio illustre : « la prego bene, quanto più caldamente posso, che non mi voglia imputare ad arroganza l’avere scritto in materia ne la quale tante composizioni di tanti grandi uomini si vedranno » ;  e significativamente osa citare, proprio nei versi di chiusura, il celebre sonetto al Varchi di Pietro Bembo, « Varchi, le vostre pure carte e belle, / che vergate talor per onorarmi, / più che metalli di Mirone e marmi / di Fidia mi son care [...] eterna fama spero di aver con elle » (Rime, CXXXI 1-8). Ma insieme L’hidra novella riecheggia, con surenchère un po’ 61 A C scolastica di tessere virgiliane (Aen. XII, 846-49 ; I, 221 e 295-96), un sonetto del Fenarolo, altro sottoscrittore degli statuti fondativi dell’Accademia Veneziana, composto « per la legatione al concilio di Monsig. Hercole [Gonzaga] Car. di Mantova » (quindi risalente al 1561) ed incluso a sua volta in At  (c. 140v) ; se ne veda la fronte : Già potranno i Leon feroci alteri con l’empie squadre di sanguigni mostri ne’ più riposati et solitari chiostri ruggir, dispersi i crudi lor pensieri, et se stessi sbranar rabbiosi et feri con l’avid’unghie e’ sitibondi rostri, che sperando immollar ne’ petti nostri tra’ Germani arrotâr, Galli et Iberi. In modo analogo, il sonetto tassiano a Guidobaldo Della Rovere (A X) trova il suo modello, all’evidenza, nel sonetto di apertura delle Rime di Luca Contile (Venezia, Sansovino, 1560) :  AX Come s’human pensier di giunger tenta al luogo oltra cui nulla esser s’intende, quanto di via più avanza et più si stende tanto spazio maggior gli s’appresenta, onde meravigliando il corso allenta ché ’l fin del suo viaggio ei non comprende, et vinto a l’alta impresa al fin si rende che ’l suo veloce ardir tarda et sgomenta ; così, s’ei vuol trovar termine o meta de l’infinito valor tuo che questa terrena chiostra in ogni parte adorna, perché molto s’affanni a lui pur resta sempre via più de l’opra : onde s’acqueta et dal preso cammino il piè distorna. [Contile, Rime, I] Qual occhio che nel Sol perde la vista a sé debil ritorna, e nulla vede, onde ne l’alte e luminose prede del suo picciol valor tutto s’attrista : tal è la mia virtù, mancando, trista nel chiaro oggetto ch’ogni lume eccede, onde nasce bellezza, e dove riede, 62 S «  ». C, V  T ch’in cielo, in terra no, tal don s’acquista. Dunque lodar potrà lingua mortale bellezza eterna, sì ch’a par s’intenda alto splendor per basso stil terreno ? Io cantarò, ma (desir mio !) che vale, se non è che per gratia Dio n’accenda, breve favilla presso al Ciel sereno ? Metterà conto appena ricordare come nella raccolta del Contile, commentata da Francesco Patrizi, sia da riconoscere il manifesto più esplicito, nel campo della lirica volgare, della poetica sapienziale e platonizzante dell’Accademia Veneziana, cui appartenevano l’autore, il commentatore e il curatore Francesco Sansovino ;  e che proprio la Parte prima delle Rime di Luca Contile, canzoniere encomiastico di cinquanta sonetti in lode di Isabella Gonzaga d’Avalos, costituisce il modello formale della raccolta per Margherita di Valois (48 sonetti e due canzoni) contenuta nel quarto libro delle Rime di Bernardo Tasso, antico sodale e corrispondente del poeta senese (ed alla stessa misura si informerà poi il canzoniere in morte di Porzia, di 49 sonetti e una canzone, nel quinto libro delle Rime). L’eco del canzoniere « filosofico » del Contile sarà per altro ben avvertibile in varie delle rime pubblicate da Torquato nella raccolta degli Eterei (d’ora in avanti E, con numerazione romana dei componimenti tassiani). Si confronti almeno E XXXIX, 5-7 « Ch’ogni nebbia mortal, che ’l senso accoglie / sgombrar potea da le più fosche menti / l’armonia dolce » con De’ vostri almi occhi la ridente luce, 3-7 « che ’l suo primo splendor, che ’l senso adombra / rinato in voi al primo ben conduce. // Nel volto un raggio insieme ancor riluce, / sì che dal petto mio ratto disgombra / le tenebre »  (da cui anche l’altro sonetto giovanile Questa rara bellezza opra è de l’alma [36], 6-7 « o raggio e duce / ch’al vero sole, onde partì, conduce [:traluce :luce] ») ; od anche E XII, 12-14 « Già novo Glauco in ampio mar mi spazio / d’immensa gioia ; e ’l mio mortale stato / posto in oblio, divina forma i’ prendo » con Contrasta spesso la terrestre vista, 12-14 « allhora io sento i moti miei mortali / celesti farsi, e questa bassa valle / farsi cielo, e celeste humana spoglia »,  apoteosi quasi identicamente evocata, sempre in finale di sonetto. * * * I tre « fratelli » della prima raccolta resteranno esclusi dal canzoniere apparso nelle Rime de gli Academici Eterei. La nuova silloge conserva in tutto solo quattro dei sonetti pubblicati presso l’Atanagi, ovvero il sonetto In questi colli, in queste istesse rive (A XI → E XXXV) ; il sonetto 63 A C proemiale Su l’ampia fronte il crespo oro lucente, che slitta in seconda posizione (A I → E II) ; nonché il seguente dittico : A XII (→ E X) Re de gli altri, superbo altero fiume, che qualhora esci dal tuo regno et vaghi, atterri ciò ch’opporsi a te presume, et l’ime valli et l’alte piagge allaghi ; vedi che’ Dei marini il lor costume serbando, i Dei sempre di preda vaghi, rapito han lei ch’era tua gloria et lume, quasi il tributo usato hor non gli appaghi. Deh tuoi seguaci homai contra ’l tiranno Adria solleva, et pria ch’ad altro aspiri racquista il Sol che ’n queste sponde nacque. Osa pur, ché mill’occhi a te daranno mille fiumi in soccorso, et co’ sospiri ferventi al mar torrem le forze et l’acque. . qualhor E ; . che i E ; . e de’ sospiri E ; . il foco al mar torrà la forza e l’acque E A XIII (→ E XI) I freddi et muti pesci avezzi homai ad arder sono, et a parlar d’amore, et tu Anfitrite, et tu Nettuno, hor sai come rara bellezza allacci il core, da che ’n voi lieto spiega i dolci rai il Sol che fu di queste sponde honore, il chiaro Sol cui più devete assai ch’a l’altro uscito del sen vostro fore. Ché quegli ingrato, a cui non ben soviene com’è da voi cortesemente accolto, v’invola il meglio et lassa il salso e ’l greve ; ma questi con le luci alme et serene v’affina et purga et rende il dolce e ’l leve, et molto più vi dà che non v’è tolto, . e tu Nettuno, e tu Anfitrite E ; . un core E dove accanto al parallelismo metrico-lessicale che intercorre fra i due explicit, « al mar torrem le forze et l’acque » (A XII, 14) e « et molto più vi dà che 64 S «  ». C, V  T non v’è tolto » (A XIII, 14), nonché fra A XII, 11 « racquista il Sol che ’n queste sponde nacque » e A XIII, 6 « il Sol che fu di queste sponde honore », è anche da notare la specularità fra i due impossibilia (entrambi, si vedrà, canonici e « databili » ad un ben preciso clima letterario) che rispettivamente chiudono ed aprono i due sonetti : tanto più che il postillato ambrosiano Ts, intermedio tra la fase E ed il Chigiano (da qui in poi C),  correggendo il finale di A XII in « ed i sospiri / arder potranno al mar la forza e l’acque » instaurerà un vero e proprio rapporto di coblas capfinidas con l’incipit successivo, « I freddi et muti pesci avezzi homai / ad arder sono » (A XIII). Privi di argomento nella Tavola di At, i due sonetti si corredano in E di una piccola « razo », intesa ad esaltarne la scansione narrativa : [E X] Scrisse questo sonetto nella partenza d’una persona amata la quale di Ferrara se n’era ita in Venezia, esortando poeticamente il Po a voler ricuperare ciò che dal mare gli era stato involato. [E XI] Mentre la sua donna dimorava in Venezia scrisse questo sonetto narrando poeticamente gli effetti ch’ella operava nel mare. Si tratta di un motivo elegiaco, accostabile ai propemptica di Ovidio (Am. II, 11) e Properzio (Carm. I, 8a), evocazioni del viaggio per mare dell’amata. Del primo vale specialmente l’esortazione ai venti perché riconducano la donna al poeta (37-42 « Vade memor nostri, vento reditura secundo ; / inpleat illa tuos fortior aura sinus. / Tum mare in haec magnus proclinet litora Nereus, / huc venti spectent, huc agat Eurus aquas ! / Ipsa roges, Zephyri veniant in lintea soli / ipsa tua moveas turgida vela manu ») ; del secondo, il voto che la partenza sia impedita dallo scatenarsi delle forze naturali (9-11 « o utinam hibernae duplicentur tempora brumae, / et sit iners tardis navita Vergiliis / nec tibi Tyrrhena solvatur funis harena »), da cui muove anche l’inventio del sonetto LVIII del Sannazaro, modello prossimo, in più di una sede, del dettato tassiano : Eolo, se mai con vento irato e fèro ti vide il mondo e pien d’iniquo sdegno, dimostra or la tua forza, arte et ingegno, e cuopri il ciel con manto orrido e nero. E tu, Nettuno, in chi, piangendo, io spero, risveglia or le tempeste del tuo regno, né consentir c’un vile e fragil legno calche il tridente tuo superbo altero, 65 A C e poi c’al Cielo et a Natura piacque per miracol mostrarne un vivo sole, c’or nel tolgan per voi li vénti e l’acque. Ma ai dolci raggi, al suon de le parole, goda la terra ove per grazia nacque, e, come suol, produca erbe e viole.  Specialmente properziano, inoltre, è il tema della concupiscenza suscitata nelle divinità del mare (Carm. II, 26a, 13-16 « quod si forte tuos vidisset Glaucus ocellos, / esses Ionii facta puella maris, / et tibi ob invidiam Nereides increpitarent, / candida Nesaee, caerula Cymothoe » ; e cfr. App. Verg., Ciris, 391-96 « Complures illam nymphae mirantur in undis, / miratur pater Oceanus et candida Tethys / et cupidas secum rapiens Galatea sorores, / illam etiam iunctis magnum quae piscibus aequor / et glauco bipedum curru metitur equorum / Leucothea parvusque dea cum matre Palaemon »), sempre esperito attraverso la mediazione del classicismo napoletano, e anzitutto delle Egloghe pescatorie del Rota. Ad esempio l’incipit di A XIII, « I freddi et muti pesci avezzi homai / ad arder sono, et a parlar d’amore », se da un lato allude a una celebre iperbole oraziana (Carm. IV, 3, 19-20 « O mutis quoque piscibus / donatura cycni, si libeat, sonum »), presuppone anche un tópos « pescatorio » fruito in Rota, Egloga IV, 18 « i pesci in mezzo l’acque e l’acque infiamma »  sulla scorta di Sannazaro, sonetto IV Se fama al mondo mai sonora e bella, 12-13 « mi vedresti al tuo nido in mezzo l’acque / arder » ed Eclogae II, 25 « quaeque vel mediis Neptunum torreat undis »  (da cui anche Rota, Egloga II, 41-42 « dal bel lume s’infiamma / Nettuno, et arde nel più basso gorgo ») ; mentre l’immagine affine che chiude il sonetto precedente, A XIII, 12-14 « Osa pur, ché mill’occhi a te daranno / mille fiumi in soccorso, et co’ sospiri / ferventi al mar torrem le forze et l’acque » richiama un luogo della seconda Pescatoria del Rota, « et accrescer ognor l’onde col fiume / di questi occhi dolenti, e co’ sospiri / arder l’acque l’arena i sassi e l’alga » (vv. 24-26), ma anche la chiusa di un sonetto di Bernardo Tasso, Ecco, reale e glorioso monte (Amori, libro terzo, XXIII), 12-14 « E i miei sospir ne le tue rive sparsi, / del foco del mio cor caldi e cocenti, / infiammaron d’amore i sassi e l’erbe ». Sul piano delle opzioni formali, la ripresa del dittico Re de gli altri ¢ I freddi et muti pesci farà sistema, in E, col ricorso privilegiato alla concatenazione metrico-retorica e lessicale dei componimenti, tanto che si potrebbe caratterizzare la raccolta « eterea » come una sorta di canzoniere ‘‘ geometrico ’’ prima che narrativo. Sia il caso del sonetto introduttivo di A, Su l’ampia fronte ’l crespo oro lucente, che nella silloge « eterea » occupa il secondo posto (E II). Ad esso 66 S «  ». C, V  T tien dietro, nella nuova compagine, il sonetto Ninfa, onde lieto è di Diana il coro (E III), che in apertura della seconda quartina (5 « Ondeggiavano sparsi i bei crin d’oro ») ne riprende il movimento incipitario, « Su l’ampia fronte il crespo oro lucente / sparso ondeggiava », variando inoltre la clausola « et l’aura del parlar cortese et saggio / fra le rose spirar s’udia sovente » (Su l’ampia fronte, 7-8) in « et l’aura del parlar dolce ristoro / era del foco che da li occhi usciva », nella stessa posizione metrica. Il nuovo sonetto proemiale, Havean gli atti leggiadri e ’l vago aspetto (E I), si connette a sua volta con Su l’ampia fronte riformulando, ai vv. 9-11 « quand’ecco novo canto il cor percosse / e spirò nel suo foco ; e ’n lui più ardenti / rendé le fiamme da’ be’ lumi accese », il tema « sinestesico » su cui era giocata la pointe finale di quello, che ancora si evocherà in un luogo del dialogo Il Minturno (1592) quasi a simbolo degli « ardiri » della poetica giovanile : [M] Udiste mai questi versi ? Io, che forma celeste in terra scorsi, rinchiusi i lumi e dissi : ¢ Ahi, com’è stolto sguardo ch’in lei sia d’affisarsi ardito ! ¢ Ma de l’altro periglio non m’accorsi, ché mi fu per gli orecchi il cor ferito e i detti andaro ove non giunse il volto. [A I (→ E II) Su l’ampia fronte, -] [R] Sono i versi, se non m’inganno, di Torquato, figliuolo del signor Bernardo Tasso, ch’in anni giovenili ha mossa di sé molta espettazione. [M] Sottile senza dubbio è l’avedimento del giovine, co ’l quale ci ammonisce a fuggir non solamente con gli occhi rinchiusi ma con gli orecchi : ma egli, incappato ne le reti d’Amore e punto da’ suoi strali, non è presto a la fuga.  Ancora : tra E IV, 12-14 « E già, s’a’ certi segni il ver conosco, / vicino è il Sol che le mie notti aggiorna, / et veggio Amor che me l’addita et mostra », ed E V, iniziante « Veggio, quando tal vista Amor m’impetra / sovra l’uso mortal Madonna alzarsi », intercorre una ripresa capfinida da explicit a incipit (e si noti l’applicazione del deittico) ; i sonetti E VIII-IX (A i servigi d’Amor ministro eletto e Chiaro cristallo a la mia donna offersi) formano una coppia sul tema dello specchio, equivalente a quella petrarchesca (Rvf. 45-46, giusta Ovidio, Am. II, 18) e saldata anche dalla rispondenza tra VIII, 11 « m’aventò al cor più d’un pungente strale » e IX, 67 A C 10-11 « et di che duri strali / questa bellezza mia l’alma saette », con lo stesso lessema in posizione rimica ; e del pari petrarchesco è il motivo comune (vecchiaia e canizie dell’amata e del poeta : cfr. Rvf. 12, 317) che fa dei sonetti E XVII-XIX quasi tre « fratelli », attraversati da un fitto reticolo di corrispondenze formali, a cominciare dalla similarità dei capoversi : [E XVII] [E XVIII] [E XIX] Vedrò da gli anni in mia vendetta anchora Quando havran queste luci e queste chiome Quando vedrò nel verno il crine sparso, ma senza trascurare il ritorno della stessa rima A in XVIII e XIX, che comporta sia la ripresa di rimanti (spenti, accenti), sia il parallelismo antonimico tra XVIII, 2 « faville ardenti » e XIX, 2 « pruine algenti » (e Ts, instaurando a XVII, 14 la variante « rinovellarsi qual Fenice in foco » [← « quasi in rogo Fenice rinovarsi » E], livellerà la rima E sulla rima C del sonetto XIX, con aggancio lessicale da explicit a explicit [cfr. XIX, 14 « risplenderà più chiaro il mio bel foco »]) ; o ancora gli echi di XVII, 6 « sparger il verno poi nevi e pruine » in XIX, 1-2 « nel verno il crine sparso / aver di neve », o di XVIII, 9-10 « e quasi in specchio, che ’l difetto emende / de gli anni » in XIX, 12-13 « e quasi fiamma, che vigore e lume / ne l’estremo riprenda ». E più colpisce come il trittico XVII-XIX occupi a sua volta il centro di una struttura ad anello formata dai sonetti XVI e XX, che si richiamano a distanza per varie implicazioni metrico-lessicali ; si comparino le due fronti : [E XVI] [E XX] Chi di non pure fiamme acceso ha ’l core Chi chiuder brama a’ pensier vili il core e lor ministra esca terrena immonda, apra in voi gli occhi, e i doni in mille sparsi chiuda l’incendio in parte ima e profonda, uniti in voi contempli : e ’n lui crearsi sì che favilla non n’appaia fore. sentirà nove voglie e novo amore. Ma chi infiammato d’un celeste ardore Ma se scender nel seno estremo ardore d’ogni macchia mortal si purga e monda, sente da’ lumi di pietà sì scarsi, ragion non è che ’l nobil foco asconda non s’arretri o difenda, ove in ritrarsi chiuso nel sen ; né tu ’l consenti, Amore. non è salute, o in far difesa honore. Il modello soggiacente è nell’avvio di due componimenti di Giovanni Guidiccioni : XXXI, 1-3 « O voi che sotto l’amorose insegne / combattendo vincete i pensier’ bassi, / Mirate questa mia » e LI 1-5 « Chi desia di veder dove s’adora [...] // venga a mirar costei » ;  ma l’intento « spirituale » dell’archetipo si declina qui, pour cause, secondo l’acceso platonismo di due sonetti consecutivi delle Rime di Luca Contile : O de l’humana vita alti 68 S «  ». C, V  T intelletti, 2-5 « deh se bramate contempar il cielo [...] // guardate d’una donna gli alti effetti » e La luce de’ duo bei Soli lucenti, 5-8 « Sono in tai lumi quelli oggetti spenti / che mi fean l’alma neghittosa e molle, / sì che per questi ogni pensier si tolle / da quei fieri desii nel senso ardenti ».  * * * I due sonetti « pescatorii » di A saranno recuperati, quasi vent’anni dopo l’allestimento delle rime « eteree », anche all’interno del canzoniere Chigiano (C LV [Re de gli altri] ¢ LVI [I freddi et muti pesci]). Secondo una strategia variamente perseguita in più luoghi della nuova raccolta, sul dittico originario si innesta una struttura narrativa più complessa : il viaggio della donna a Comacchio, che in C sostituisce Venezia nell’argomento di LV, è anticipato in quello di LIV Cercate i fondi e le secrete vene, dove « Nell’andata della sua Donna a Comacchio, invita poeticamente le Nimfe ad honorarla », e prosegue in LVII Palustri valli et arenosi lidi, dove « Prima chiede a’ lidi et a’ porti del mare che gli insegnino ove la sua donna sia a pescare, poi mostra di veder tirar la rete ». Ma più ancora della continuità tematica appare significativa, e immediatamente avvertibile, la cifra di stile cui si attengono i due nuovi sonetti di « cornice » (C LIV appariva già nella stampa Zabata delle Rime ;  C LVII è inattestato anteriormente alla redazione del Chigiano, e forse composto per l’occasione), e a tale affinità di maniera (segnatamente nel ricorso all’allegoria continuata) pare alludere, negli argomenti, la rispondenza da « invita poeticamente » (LIV) a « essortandolo poeticamente » (LV), a « descrive con modi poetici » (LVI). Si riproduce qui la stesura base del Chigiano (Ca), riportando in seconda colonna le principali lezioni corrigenti del manoscritto (Cb) e in apparato genetico (per LIV) alcune varianti della stampa Baldini (), esemplare immediato di C giusta la dimostrazione iselliana :  C LIV Cercate i fondi e le più interne vene → Cercate i fondi e le secrete vene Cb de l’ampia terra, o Ninfe, e ciò ch’asconda di pretioso il mar ch’intorno inonda i salsi lidi, o sparso è tra l’arene → i salsi lidi e le minute arene Cb e portatelo a lei, che tal se ’n viene ne la voce e nel volto a questa sponda qual vedeste la Dea che di feconda spuma già nacque, o pur dolci Sirene. Ma di coralli e d’or, di perle e d’ostri qual sarà don, che per ischivo gusto paga di sé medesma ella non sdegni, 69 A C se non han pregio i vostri immensi Regni, o straniero o natio, ch’in spazio angusto ella molto più bello in sé no ’l mostri ? → i vostri antichi Regni Cb . del Mare, o Ninfe, e tutto ciò ch’asconde  ; . di pretioso entro le nobil onde ; . il gran Nettuno, o sparso è tra l’arene  ; . ella molto più bello in sé nato nol mostri  C LVII Horridi scogli et arenosi lidi, aure serene, acque tranquille e quete, marini armenti, e voi che fatti havete a verno più soave i cari nidi, elci frondose, amici porti e fidi, chi tra le pescatrici accorte e liete dove hanno tesa con Amor la rete, sarà ch’i passi erranti hor drizzi e guidi ? Veggio la donna, anzi la vita mia e ’l fune avolto a la sua bianca mano che trar l’alme co’ pesci anchor potria, e ’l dolce lume lampeggiar lontano, e mentre il bianco piè baciar desia le bagna il mar lembo ceruleo in vano. → Palustri valli et arenosi lidi Cb . baciar ricalcato su lavar ; . lezione instaurata (e successivamente cassata) nell’interlinea inferiore ; in rigo il verso incompiuto e cassato le bagna il mar l’aurato lembo, nell’interlinea superiore la lezione corrigente intermedia e bagna il mar l’argente[o], pure incompiuta e cassata. I due testi giustapposti al dittico originario evocano il medesimo orizzonte di modelli letterari ; quel che più conta, le varianti instaurative di C risultano convergenti verso tale ‘‘ sincronia ’’ ideale. Per il primo sonetto sarà da citare, anzitutto, il simile avvio di uno di Bernardo, nel quarto libro delle Rime (XLV) : O perla orïental bianca e rotonda e d’altro ornata che di gemme e d’oro, che pòi far parer vil quanto tesoro il gran padre Ocean nel seno asconda, la cui alma gentil sempre feconda germoglia varii fior, che ’l crine loro spiegando verso il Ciel lieto e decoro fan che d’ogni virtù la terra abonda ; 70 S «  ». C, V  T ma anche, poniamo, il sonetto Ninfe, che in questi chiari alti cristalli (Amori, primo libro, CXXXVII), 10-11 « chiudete / nel più secreto vostro erboso fondo », all’origine della variante « Cercate i fondi le più interne vene » Ca → « le secrete vene » Cb (LIV, 1) ; così, nello stesso sonetto, la lezione corrigente del v. 4 « i salsi lidi e le minute arene » (Cb) si riallinea al sistema espressivo delle Pescatorie del Rota (VII, 83-84 « che annoverar sarebbe / tutte di Libia le minute arene », e cfr. già Sannazaro, Arcadia, XII, « alcune Ninfe [...] che con bianchi e sottilissimi cribri cernivano oro separandolo da le minute arene »), cui appartiene anche il motivo del dono « di coralli e d’or, di perle e d’ostri » (v. 9 : cfr. Rota, Egloga X, 102-103 « et un monile / contesto avrai di perle e di coralli », ma anche Sannazaro, Ecloga I, 82-83 « et tibi septenis pendebunt ostrea sertis / ostrea muricibus variata, albisque lapillis »). A sua volta, la metafora dei « marini armenti » di LVII, 3 sembra procedere dall’Egloga piscatoria di Bernardo Tasso (Amori, II, CIX), vv. 75-76 « tanta greggia [...] ne’ prati be’ de la marina », mentre gli « arenosi lidi » del v. 1 trovano riscontro nella Favola di Ero e Leandro (terzo libro degli Amori), 467 « verso i lidi arenosi andando a volo » (e cfr. le stanze Se ben di nove stelle del quarto libro, 6-7 « ne suona / ancora il lido e l’arenosa sponda ») ; come alla maniera di Bernardo appartiene l’acquisto, sempre incipitario, di « Palustri valli » (Cb), dalla canzone Dunque così per tempo, alma gentile (quinto libro, CLXXXV), 40-43 « mentre de’ tuoi begli occhi il vago sole / spiegava i raggi suoi fecondi e chiari / sopra queste palustri oscure valli / rideva intorno il ciel, la terra e i mari », cui attingeva già il primo sonetto del dittico Atanagi, Re de gli altri, 5-6 « da che ’n voi lieto spiega i dolci rai / il Sol che fu di queste sponde honore ». Fra i moventi del Tasso redattore del Chigiano si manifesta dunque una sorta di pietas ‘‘ storica ’’, o senz’altro filologica, che farà la sua prova anche nel recupero, dopo l’esclusione dalle rime « eteree », di uno dei sonetti « fratelli » della raccolta Atanagi, La terra si copria d’horrido velo (A V → C XXXIV), posto a contatto con altro tematicamente affine, L’alma vostra beltà, che dolcemente (C XXXV), così che la metamorfosi esperita nel primo, 10-11 « il freddo cor sentia cangiarsi / e la nebbia sparir de’ miei disdegni » (testo C) si rinnovi nel secondo, « L’alma vostra beltà [...] in questa nubilosa e fredda bruma / scalda la mia gelata e pigra mente » (vv. 1, 3-4), con parallelismo ulteriormente sancito dal sistema degli argomenti in prosa, che dichiarano, nell’ordine, « Essendo la terra coperta di neve [...] vide passare la sua donna et in passando parve che si rasserenasse il tempo » e « Dice a la sua donna d’esser acceso dalla sua beltà nella maggiore asprezza del verno ». E non è un caso che il Chigiano accolga a brevissima distanza anche il sonetto, già « etereo », Sentiva io già correr di morte il gielo (C 71 A C XXXVII ← E XXVII). Si tratta di una variazione sul sonetto ariosteo Chiuso era il sol da un tenebroso velo, che è anche, come si è visto, il modello immediato di La terra si copria : talché esercizi successivi su uno stesso tema formale (e, nella diacronia delle raccolte, alternativi) si ricompongono in serie nel continuum diegetico del nuovo canzoniere. Agostino Casu 72 S «  ». C, V  T . La fitta tradizione a stampa delle Rime piacevoli anteriore alla fine del secolo si articola nei seguenti tipi principali : P = RACCOLTO  D’ALCVNE  PIACEVOLI  RIME  [marca tipogr.]  In Parma. Per gli Heredi di Seth Viotto.  Con licenza de’ Superiori. . [], , [] p. ; °. P = RIME  PIACEVOLI  DI M. CESARE  CAPORALI DA  Perugia,  Accresciute da altre sue non più  stampate ;  Et con l’aggionta d’alcune parte burle-  sche, & parte graui di diuersi nobi-  lissimi ingegni ; che nella prima im-  pressione di questa Opera non si  leggono.  Alla molto Ill.re Sig.ra la Sig.ra Lucretia  Scotta Anguisciola.  Contessa di San Polo.  [marca tipogr.]  IN PARMA.  Con licenza de’ Superiori, et con Priuilegio.  M. D. LXXXIIII. [],  p. ; °. M = LE  PIACEVOLI  RIME DI  CESARE CAPORALI  PERVGINO  Di nuouo in questa terza impressione  accresciute d’altre graui, per l’adietro  non più date in luce,  AL MOLT’ILL. SIG. GIO.  Geronimo Marino, Marchese di  Castelnuouo  [marca tipogr.]  IN MILANO.  Per Pietro Trini. MDLXXXV. [], , [] p. ; °. F = RIME  PIACEVOLI  DI CESARE CAPORALI,  DEL MAVRO, ET  d’altri Auttori.  ACCRESCIVTE IN QVE -  sta quarta impressione di molte  Rime graui, & burlesche  DEL SIG. TORQUATO TASSO,  E di diuersi nobiliss. Ingegni.  Al M. Ill. S. Francesco Bittignuoli Bressa.  [marca tipogr.]  IN FERRARA,  Per Vittorio Baldini Stampator Ducale  Con licenza de’ Superiori. .  p. ; °. V = RIME  PIACEVOLI  DI CESARE CAPORALI  DEL MAVRO, ET  d’altri Auttori.  ACCRESCIUTE IN QUESTA  quarta impressione di molte Rime  graui, & burlesche.  DEL SIG. TORQ. TASSO,  E di diuersi nobilissimi Ingegni.  Al M. Ill. S. Francesco Bittignuoli Bressa.  Con licenza de’ Superiori.  [marca tipogr.]  IN VENETIA,  Presso Gio. Battista Bonfadini, .  p. ; °. V = LE  PIACEVOLI  RIME  DI M. CESARE  CAPORALI,  PERVGINO.  Con una Aggiunta di molte altre Rime,  fatte da diuersi Eccellentissimi  & belli ingegni.  [marca tipogr.]  IN VINEGIA,  PRESSO GIORGIO ANGELIERI  M. D. LXXXIX.  c. ; °. F = RIME  PIACEVOLI  DI CESARE CAPORALI,  DEL MAVRO, ET  d’altri Auttori.  ACCRESCIVTE IN QVESTA  Sesta impressione di molte Rime graui, &  burlesche del Sig. Torquato Tasso, del  Sig. Annibal Caro, & di diuersi  nobilissimi ingegni.  AL MOLTO MAG. SIGNOR  LODOVICO RIGHETTI.  [marca tipogr.]  IN FERRARA,  Appresso Benedetto Mammarello. .  Con licenza de’ Superiori. [],  p. ; °. Segnatamente risultano descriptae : di F la stampa Parma, Viotti,  ; di F la stampa Ferrara, Mammarelli,  ; di V le stampe Venezia, Cornetti,  e Venezia, Vincenzi, . Le stampe recensite dal Solerti quali testimoni di cose tassiane sono M (indicata come ), F () e V (a) : cfr. T T, Le rime, edizione critica sopra i manoscritti e le antiche stampe a c. di A. Solerti, Bologna, Romagnoli-Dall’Acqua, -, I, pp. -, -). Con speciale riguardo alla sezione di rime di vari contenuta in ciascuna edizione (e alla sezione tassiana che si instaura a partire da F), si è allestita la seguente tavola sinottica ; per i testi comuni a più stampe si adotta come ordinamento di base quello di P. P     P  M F   V V F  r          v r   [rime di C C] [rime di S M] [rime di G M] [rime di F A] P. P. Padre Santo, da Christo [.] Tu cui l’eterno Padre 73 A C P                P M F V V F [.] Carlo d’Austria [.] Sacratissimo Re [.] Deponete, per Dio A. S. Io ti rendo Signor C. M. Mirando l’alta C. Z. Voi che mai G. B. S. La bella man A. P. Era quel dolce sereno A. O. Quando riede la notte [.] Partir conviemmi [.] Chi lo sa [.] Candida, tersa [.] Albergo di pianto [.] Perché sol di speranza [id.] Contrari effetti (a)                                                   r r r       v        v r             r r v v r v r                      v v r r v v v               G. G. L’alto d’Ostro lucente [.] Merita veramente A. O. Ove il bel fianco [.] Quasi vermiglia rosa [.] Perché sol di speranza [.] Nel Ligustico seno [.] Mira, Lelia gentil [.] Nel bel volto di Lelia A. P. Era ne la stagion T. T. Tolse barbara gente A. G. Nel bel grembo di Flora G. B. S. Lasso, ch’io piango [.] Donna gentil, se dolce S S. Nova Aurora C.  C. Pensai portar [.] Qual secco nubiloso ardor O. F Non mi duol di morire M. N. Voi che coll’intelletto G. M. O spirto veramente G. C Lavossi Amore I S. Se mai fosti Amor vago A. P. Quando a formar di voi [.] Sotto forma mortal [.] Empia fu la pietà [.] Opra saggio Pittore [.] De la verde età vostra [.] Di barbariche mill’opime spoglie 74 S «  ». C, V  T P           P                                     M F           V        V v v v r r r r F                                         v r r v r r v v v r v r v v r v r r r v v v                         r  v                        [.] Mira Fili, ecco ’l ciel [.] Filli cara [.] Dunque Aminta mio caro [.] Sacro beato nume [.] Villa, cui sembra vile [.] Amor, se vuoi ch’io porti [.] Qual dopo l’ombra [.] Nato d’Heroi magnanimo [.] Saggio signor cui si devrebbe [.] Ahi perché segui [.] Baci, sospiri, e voci [.] Pietà di mille Amanti B.  F. Con negra benda il Ciel [.] Trare alme a luce [.] Alza l’altera sua splendida fronte [.] Vostre arti in van sono à celarvi V. T. Bacio dolce cagion D’I. Quando la speme [.] Fra belle Donne [.] Donna, la bella mano [.] Stavasi Amor [.] Quando la luce vince [.] Chiedendo un bacio G. B. G. O nel silentio tuo [.] Da mille pianti D’I. Poi che più volte invano F. C. Standomi sol E. V. Cura d’Amor nemica C. C. Tosto ch’a gli occhi [.] Amor, ond’è, ch’io viva [.] Son questi belli occhi S S. Tosto ch’in voi [.] Si che morto in me stesso D’I. In mortal Donna [.] Questi occhi, queste guancie I S. Donna, il cui viso N.  A. Dunque dal Fato P. C. Poscia che ’l gran Perseo [.] Alma mia bella [.] Al duro piè [.] A Scipio, a Bruto [.] Già non si conveniva D’. Vissi servo d’Amor [.] Donna. a cui più 75 A C P   P M F V V F [.] Questa selvaggia A. F. Lavossi Amore [explicit P]       r r v    D’. Al bel minio del viso. [.] Allegrezza gentile [.] Gioia non allegrezza               v r r r r v v        (b) C. C. Bella è la diva mia A. R. Poi che donna ti piace I N. Fingo di non amare C. D R. Baci amorosi, e caro [.] Dolci, soavi e cari [.] Rose, che l’arte invidiosa ammira [.] Mentre vaga angioletta.                                                       r r v r r v v r r v v r r v v r r v v r r v v r r v v                            T T Ciò che Morte rallenta La Testudine. Mentre per farvi honore L’anno son io O Primavera in giovenil sembiante Spesso men cari son teatri e scole Per la figlia di Cosmo accogli & orna Alma città, dove inalzar sovente Hor ch’i re da l’Occaso, over da l’Orto Quel ch’à le chiavi, ond’apre il Cielo La Regina del mar Dentro l’arte e ’l valore Hoggi è dal Cielo un disiato pegno Alma real, che mentre a Dio rivolta Per adornare un’alma il Re del Cielo Non potea stilo assomigliare in parte Drizzò ne l’Oriente il re di Pella Quanto il forte Avo tuo di luce prese Voi di merti, e di gratie Arme e rote veggio io, d’alto valore S’al valor, che mostrasti Spirto gentil, che in dolci Vinte l’estrane genti, e le rubelle Che lece a me cui son le vie precise Le vittorie de gli Avi, e le corone Italia del suo puro alto Idioma Horatio è morto, e di bellezza il fiore Alma gentil per calle pio ritorni  76 S «  ». C, V  T P P  M F                   V                   V v r r v v r r v r r r v v v r r v v F                           r r r v                        Quel che la Musa a te spirò talhora Il nome antico a gran ragion famoso Chi di me canta, hor che di gloria Roma serrò già con gli amati figli Giancarlo amasti, hor ami Non pugna l’arte, e la natura a prova Cadde Madonna, & io li diedi aita Questa, ch’è fredda Marco, che d’Avi gloriosi al mondo Marco, il vostro destrier Natura mille pregi al Franco tolse Amai vicino, hor ardo, e le faville Ha gigli, e rose, e bei rubini, & oro Come de l’aureo Sole è sparsa intorno Deh nuvoletta Mentre a questa mia Diva Lontano dal mio core Caccia amorosa. Questa vita è la selva [explicit P] Come cristallo in monte Già fu pena il morire Esculapio barbuto, e giovinetto Signor Mosto, il vostr’orto [explicit V] Così anni il ciel vi dia Un fanciul già mi tolse, e forse al viso Venga a le vostre nozze Barberano Barberano Signor, le vostre nozze Come ne l’Ocean, s’oscura e ’nfesta Tanto le gatte son moltiplicate Sembro al vestir un cittadin de’ boschi [explicit F, V] (c) (a) Segue, fino a p. , una sezione di adespote esclusiva di P. (b) Segue una sezione dedicata a G. B e altri, esclusiva di M, ed è quella terminale ; vi sono contenuti anche tre sonetti del T, La vincitrice e gloriosa Ispagna (p. ), Come il nocchier dagl’infiammati lampi (p. ), La bella e vaga man che le sonore (p. ). (c) Seguono, solo in F, rime burlesche del Caro e di altri, sino alla fine della stampa. . Si cita secondo la numerazione solertiana, ripresa nell’edizione delle Rime curata da B. Maier (Milano, Rizzoli, ,  voll.), quindi in T. T, Le rime, a c. di B. Basile, Roma, ,  voll. . Siglata  dal Solerti ; per la parte dell’edizione Baldini nella storia delle rime cfr. almeno L. Caretti, Studi sulle rime del Tasso, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura,   e D. Isella, 77 A C Il codice Chigiano L VIII 302 e i suoi rapporti con le stampe, in Studi di filologia e letteratura italiana offerti a Carlo Dionisotti, Milano-Napoli, Ricciardi, , pp. -. . Cfr. L. Caretti, Studi cit., pp. -. . Cfr. T. T, Rime d’amore (secondo il cod. Chigiano L VIII 302), a c. di F. Gavazzeni, M. Leva, V. Martignone, Ferrara-Modena, Panini, , p.  (LXXVI). . Cfr. Componimenti volgari et latini di diversi et eccellenti autori in morte di Monsignore Hercole Gonzaga, Cardinal di Mantova, Mantova, Giacomo Ruffinelli, , c. v. . Cfr. Rime di diversi nobilissimi et eccellentissimi autori in lode dell’Illustrissima Signora, la Signora Donna Lucretia Gonzaga Marchesana, Bologna, Giovanni Rossi, , pp. - (la corona inizia Quell’alma luce che di fuor dimostra). La raccolta, promossa nell’ambiente dell’Accademia bolognese degli Umorosi, è preceduta da una lettera prefatoria del Dormi (scil. Cornelio Cattaneo [† ], canonico regolare di S. Salvatore in Bologna), datata  ottobre , che nomina Ludovico Domenichi e Giovanni Betussi quali patrocinatori dell’iniziativa. Contiene, del Santini, anche un sonetto di risposta al Dormi, Ben ch’io mi stia su queste herbose rive (p. ). . Sull’Accademia degli Eterei si vedano almeno : Pitture del D, Padova, Gratioso Percaccino, , cc.  segg. ; S G C. Commentariorum rerum suarum libri tres, Romae, apud Salomonium, pp.  segg. (ora anche in edizione anastatica, con trad. it. : S. G, Autobiografia, Modena, Panini, ) ; G. Gennari, Saggio storico sopra le Accademie di Padova, in Saggi scientifici e letterari dell’Accademia di Padova, Padova, , I, pp. XIIILXXI, alle pp. XXIX-LXI ; P. A. Serassi, La vita di Torquato Tasso, Bergamo, Locatelli,  (ora anche in ristampa anastatica, ivi, Baroni, s.d.), pp. - ; V. Rossi, Battista Guarini e il ‘Pastor fido’. Studio biografico-critico con documenti inediti, Torino, Loescher, , pp. - ; A. Malmignati, Il Tasso a Padova, Padova, Prosperini,  (rec. di A. Solerti in « Giornale storico della letteratura italiana »,  [], pp. - e di V. Crescini in « Zeitschrift für romanische Philologie »,  [], pp. -) ; A. Solerti, Vita di Torquato Tasso, I, pp. - e - ; M. Maylender, Storia delle Accademie d’Italia, Bologna, Forni, II, pp. - ; A. Daniele, Il Tasso e l’Accademia degli Eterei, in Id., Capitoli tassiani, Padova, Antenore, , pp. -. . Cfr. E. Selmi, Una lettera di Stefano Santini, « Studi tassiani »,  (), pp. -. . Cfr. Rime de gli Academici Eterei, a c. di G. Auzzas e M. Pastore Stocchi. Introduzione di A. Daniele, Padova, ,  ; e limitatamente alla porzione tassiana della stampa, L. Caretti, Versi giovanili di Torquato Tasso, in Id., Studi cit., pp. -, quindi in T T, Rime ‘eteree’, a cura di L. Caretti, Parma, Zara, . Per la storia della raccolta sono essenziali i contributi di V. De Maldè, Il postillato Manuzio (Amz) delle « Rime ». Contributo alla storia dell’editoria e della tradizione tassiana, in Studi di letteratura italiana offerti a Dante Isella, Napoli, , pp. - ; M. Zaccarello, Appunti sulle Eteree del Tasso, « Rivista di Letteratura Italiana »,  (), pp. - ; M. Magliani, Sull’edizione delle Rime de gli Academici Eterei del 1567, « Atti e Memorie dell’Accademia Patavina di Scienze Lettere ed Arti », , parte III (-), pp. -. . Cfr. T. T, Le prose diverse, nuovamente raccolte ed emendate da C. Guasti, Firenze, Le Monnier, , II, pp. -. . Cfr. T. T, Le rime, ed. cit., III, p. . . Circa la struttura e la posizione tradizionale di I (Bologna, Biblioteca Universitaria, ms. ) cfr. T. T, Le rime cit., I, pp. - ; V. De Maldè, La tradizione delle Rime 78 S «  ». C, V  T tassiane tra storia e leggenda, « Filologia e critica »,  (), pp. -, alle pp. - ; e l’Introduzione di V. Martignone a T. T, Rime d’amore, ed. cit., pp. XXI-XXXIX e passim. . Cfr. Rime de gli Academici Eterei, ed. cit., p.  ; incipit Quel ch’or quasi sepolto in sasso angusto e Ben fôra qual dal sol neve percossa. . De le rime di diversi nobili poeti toscani raccolte da M. D A, Venezia, Ludovico Avanzo, , c. r-v. . Per la tipologia e la storia della corona di sonetti cinquecentesca la trattazione principe rimane quella di G. M. C, Commentari intorno alla sua istoria della volgar poesia, Venezia, Basegio, , vol. I, lib. III, cap.  Delle Corone, e d’ogni altra spezie di più Sonetti legati insieme, pp. - (a corollario il cap. , pp. -, discorre D’altri legamenti, e concatenamenti di Poesie). Il Crescimbeni pone le origini del genere negli esemplari pubblicati dall’A (Poeti antichi, Napoli, D’Alecci, ) ossia Folgòre, Cenne da la Chitarra, Fazio degli Uberti. La classificazione del materiale raccolto è però ‘‘ sincronica ’’, e procede anzitutto secondo un parametro quantitativo : da un lato il Muzzarelli « dilatando la maniera », svolge una stessa materia per venticinque sonetti consecutivi (e ignoti già al Crescimbeni, che si attiene alla testimonianza del Brieve discorso di G R annesso al Sesto libro delle rime di diversi eccellenti autori, Venezia, Al Segno del Pozzo, cc. r-r) ; dall’altro il Caro che, limitandosi a tre, « restringe [...] la maniera ». Per queste varietà il Crescimbeni preferisce parlare di « sonetti legati » o di « catena » (termine che riserva anche a Rvf. -) : « corona » indica specialmente la concatenazione di nove o dodici o quindici sonetti, vincolati appunto alla norma di « incominciare il sonetto seguente coll’ultimo verso dell’antecedente, e l’ultimo sonetto chiuderlo col primo verso del primo », applicata per la prima volta, sulla misura di dodici sonetti, nell’Apologia di Annibal Caro, Parma, Seth Viotti, , prima occorrenza a stampa della dizione « corona » di sonetti, che il Crescimbeni tuttavia non cita. Sicuramente più alto nella cronologia (e lo segnalano gli annotatori all’edizione  dei Commentari, p. , seguiti da F. S. Q, Della storia, e della ragione d’ogni poesia, II, Milano, Agnelli, , p. ) risulta solo l’esperimento di G G S, il cui Thesoro de Sacra Scrittura sopra le rime del Petrarcha, Venezia, Comin da Trino, , si fregia di una Prefatione dell’opera in sonetti XXI tra sé retrogradi (cc. A r-B r), « nella quale non solo in desinenza di tutti i Sonetti son sempre le medesime voci, ma ancora, siccome tutti i Sonetti de’ numeri dispari incominciano co’ Quadernarj, e finiscono co’ Terzetti secondo l’uso, così tutti que’ de’ numeri pari incominciano co’ Terzetti e finiscono co’ Quadernari [secondo l’incatenamento ABBA ABBA CDC DCD → CDC DCD ABBA ABBA → ABBA ABBA CDC DCD ecc.] ; conchiudendo poi il ventunesimo e ultimo Sonetto con un mezzo Sonetto composto di un Quadernario e di una Terzina : cosa per vero dire stravagante, e scempiata » (F. S. Q, loc. cit.). . Cfr. A. C, Lettere familiari, a c. di A. Greco, Firenze, Sansoni, , I, pp. - (a Benedetto Varchi, agosto ) : « Mattio [Franzesi] mi dice di avervi mandati tutti e tre li miei [sonetti] a la detta Marchesa [Vittoria Colonna], che gli ho fatti ad imitazione dei tre fratelli del Petrarca. Voi non accusate, se non uno, e la risposta dell’Ombroso, quale è un sanese de l’Academia de gl’Intronati, Secretario di Santa Fiore, che mi rispose in vece de la Signora e non me ne fece troppo piacere, perché la Signora avea promesso di risponder lei. Avvisate quel che vi pare di tutti insieme, e di ciascuno da sé, che si disputa qual sia, o meglio, o manco tristo d’essi ». . Aretefila, dialogo di L R. Nel quale da una parte sono quelle ragioni allegate, le quali affermano, lo amore di corporal bellezza ancora per la via dell’udire pervenire al cuore, et dall’altra, quelle che vogliono lui havere solamente per gl’occhi l’entrata sua : colla sentenza sopra cotal quistione, Lione, Guglielmo Rovillio, , pp. -. 79 A C . Per la struttura e la storia della raccolta si veda il contributo di S. Bigi, Le Rime di diversi a cura di Dionigi Atanagi, in Il libro di poesia dal copista al tipografo, a c. di M. Santagata e A. Quondam, Ferrara-Modena, Panini, , pp. -. . Nella tassonomia del C, che qui si fonda principalmente sulla nota dell’Atanagi, il trittico di sonetti è associato alla corona come specie al suo genere : « Per lo contrario alcuni altri, che la maniera restringer vollero, si obbligarono a tesser tutti i sonetti della catena delle medesime rime, come sono quei tre d’Annibal Caro impressi tra le sue Rime, il primo de’ quali comincia Donna qual mi fuss’io, qual mi sentissi. Oltre alle predette, ne fecero anche d’altre sorte, come osservò l’Atanagi nella Tavola del primo Libro della sua Raccolta » (G. M. C, Commentari cit., p. ). . At , Tavola, cc. Gg v-Gg r. . L’Atanagi fu, con venticinque componimenti, tra i massimi contributori della raccolta dei Versi et regole della nuova poesia toscana allestita dal Tolomei, Roma, Blado,  (si veda l’edizione anastatica, con ampia introduzione di M. Mancini, Roma, Vecchiarelli, ). Sui riflessi in At della « poesia nuova » tolomeiana (e in generale del classicismo romano) cfr. S. Bigi, Le Rime di diversi cit., p. . . Incipit : Vinse Signor tutte le genti Perse ; Ben debb’io render gratie a chi v’offerse ; Stille d’inchiostri non fur mai si asperse (G C, At , c.  r-v) ; Quando, Amor, bella donna il cor m’aperse ; Le mie rime d’assentio sol cosperse ; Tante eccellentie in voi, Donna, cosperse (A M, At , cc. v-r). . At , Tavola, c. Cc r. . At , Tavola, c. Aa r. . Cfr. B. T, Lettere, II, Padova, Comino, , p.  (lettera del Molino al Tasso del  gennaio ) ; corsivo mio. Notizie e documenti sull’Accademia Veneziana, chiusa per decreto del Senato nel , si trovano in G. F, Biblioteca dell’eloquenza italiana, con le annotazioni del Sig. A. Z, Venezia, Pasquali, , II, p.  ; D. M. Pellegrini, Breve dissertazione previa al Sommario dell’Accademia Veneta della Fama, « Giornale della italiana letteratura », Padova, , -, pp. -, -, - ; G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Venezia, Fontana, , VII, , pp. - ; G. Rossi, Scoperta di due documenti relativi all’antica Accademia della Fama, in Esercitazioni scientifico-letterarie dell’Ateneo di Venezia, Alvisopoli,  ; A. A. Renouard, Annales de l’imprimerie des Aldes, ou histoire des trois Manuce, Paris,  , pp. -, - ; M. Maylender, Storia cit., V, pp. -. Fondamentali i contributi recenti di P. L. Rose, The Accademia Venetiana. Science and Culture in Renaissance Venice, « Studi veneziani »,  (), pp. - ; P. Pagan, Sulla Accademia « Venetiana » o « della Fama », « Atti dell’Istituto veneto di scienze, lettere ed arti »,  (-), pp. - ; B. Marx, Die Stadt als Buch. Anmerkungen zur Accademia Venetiana und zu Francesco Sansovino, « Studi. Schriftenreihe des Deutschen Studienzentrums in Venedig »,  (), pp. - ; e specialmente gli studi di Lina Bolzoni : L’Accademia Veneziana : splendore e decadenza di una utopia enciclopedica, in Università, Accademie e Società scientifiche in Italia e in Germania dal Cinquecento al Settecento, a c. di L. Boehm e E. Raimondi, Bologna, il Mulino, , pp. - ; Il « Badoaro » di F. Patrizi e l’Accademia veneziana della Fama, « Giornale storico della letteratura italiana »,  (), pp. - ; Variazioni tardocinquecentesche sull’ ‘ut pictura poësis’ : la « Topica » del Camillo, il Verdizzotti e l’Accademia Veneziana, in Scritti in onore di Eugenio Garin, Pisa, Scuola Normale Superiore, , pp. - ; ‘Rendere visibile il sapere’. L’Accademia Veneziana fra modernità e utopia, in Italian Academies of the Sixteenth Century. Edited by D. S Chambers and F. Quiviger, London, The Warburg Institute, , pp. - (=Ead., La stanza della memoria. Modelli letterari e iconografici nell’età della stampa, Torino, Einaudi, , pp. -). 80 S «  ». C, V  T . Per la tradizione delle rime di Domenico Venier cfr. A. Balduino, Petrarchismo veneto e tradizione manoscritta, in Petrarca, Venezia e il Veneto, a c. di G. Padoan, Firenze, Olschki, , pp. -. All’edizione critica attende ora Monica Bianco, cui devo non poche illuminazioni. . At , Tavola, cc. Aa r. Si riporta di seguito il testo dei due componimenti : Non pò la forza ¢ e la vertù del core far contr’Amore ¢ in noi schermo o difesa : ché riman presa, ¢ e dal suo fero ardore con gran dolore ¢ alfin l’anima accesa. Né, s’huom rinforza ¢ e doppia il suo valore per far minore ¢ in sé la fiamma appresa, men grande è resa : ¢ anzi ’l primier calore divien maggiore, ¢ e fa crescer l’offesa. Ciò sepp’io stesso, ¢ allor che tutto sciolto caddi pur cólto ¢ a l’amoroso laccio, et tutto ghiaccio ¢ il cor m’arse un bel volto. Né d’arder cesso : ¢ e s’arder men procaccio minor non faccio ¢ il foco in me raccolto, anzi più molto ¢ i’ mi distruggo et sfaccio. Sì grave doglia ¢ il cor per voi sostene ch’a perir vène : ¢ Amor più d’anno in anno doppia il mio danno, ¢ e fermo in ciò mantene lo stil, che tene, ¢ il crudo empio tiranno. Contra mia voglia, ¢ ohimé !, forza et inganno seguir mel fanno ; ¢ e l’alma è fuor di spene ch’ognihor non pene : ¢ anz’i martîr verranno, per troppo affanno, ¢ a trarla un dì di pene. Né, se per morte ¢ al duol fero e pungente che in vita sente ¢ il duol sottrar la deve, punto più leve ¢ in sé vòl ch’ei divente : anzi più forte ¢ ognihor lieta il riceve, perch’a sì greve ¢ aspro martir possente cada repente, ¢ e n’haggia il fin più breve. . Cfr. Sonetti e canzoni di diversi antichi autori toscani, Firenze, Giunti,  (ed. anastatica con introduzione e indici di D. De Robertis, Firenze, Le Lettere, ). . Cfr. At , c. r, e Tavola, cc. Ii v : « La città di Modona ha sempre prodotto, & tuttavia produce di molti nobilissimi ingegni : de’ quali a niuno altro inferiore parmi l’autore di questa Canzone, tessuta da lui a la maniera de’ Provenzali, in lode de la Regina di Francia, & di Scotia, moglie del Re Francesco II. con tanta purità, et dolcezza di stile, che non meno per questo, che per la novità, la reputo degna d’essere & lodata, et ammirata da chiunque ha gusto di poesia ». La canzone del Barbieri è di sei coblas unissonans a schema AbCDEFgH più congedo WXyZ, con identità delle parole-rima DE in tutte le stanze : come notava già Debenedetti, il modello è poi la stanza di Rvf.  Verdi panni, AbCDEFg (cong. Xy), aumentata di un verso (cfr. S. Debenedetti, Gli studi provenzali in Italia nel Cinquecento [], Padova, Antenore,  , pp. -). . Per Domenico Venier provenzalista (e metricista : il ms. Ambrosiano D.  inf. conserva segnatamente un suo abbozzo sulle Regole delle desinenze nelle poesie di Peire d’Alverne) si veda sempre S. Debenedetti, Gli studi cit., pp. , -, -, . 81 A C . Per la ricezione dell’opera di Giulio Camillo Delmino nell’ambiente dell’Accademia Veneziana cfr. L. Bolzoni, Variazioni tardocinquecentesche cit. . Somma delle opere che in tutte le scienze et arti più nobili, et in varie lingue ha da mandare in luce l’Accademia Venetiana, Venezia, Nell’Accademia Venetiana, , c. P r. . At , Tavola, c. Kk v. . Cfr. Delle rime di L G C ’H, Venezia, Fabio e Agostino Zoppini, , pp. - ; la citazione è da p. . Gli incipit sono Se ’n gratia alcuna mai queste contrade ; Chi pingere, ombreggiar può tal beltade ; Cotal beltà sola tra Gange e Gade ; Quinci già per cotesta volontade. Altri quattro sonetti (pp. - : Colmo di colpe e di buon’opre scemo ; Ogni opra, ogni parola, ogni pensiero ; Al mio danno veloce, a l’util lento ; L’alma ribelle e ingrata non presume) risultano « fatti con le medesime cadenze variando però quelle dei Quartetti in quelle dei Terzetti » (p. ), secondo la norma ABBA ABBA CDC DCD → BAAB BAAB DCD CDC → CDDA CDDA ABA BAB → DCCD DCCD BAB ABA. . Cfr. ibid., pp.  (testo),  (commento). . Cfr. ibid., pp.  (testo),  (commento). . Cfr. ibid., pp.  (testo),  (commento). . Cfr. Rime Spirituali del R. D. G F, canonico regolare Lateranense, Venezia, Francesco de’ Franceschi, , pp. -. . L’ordinamento alfabetico, estraneo alla serie giolitina, è adottato dapprima nei Fiori delle rime de’ poeti illustri, nuovamente raccolti e illustrati da G R, Venezia, Giovan Battista e Melchior Sessa fratelli, . Si sofferma a giustificarlo l’epistola dedicatoria : « io ho poi nell’ordinar gli autori, voluto venirli mettendo per l’ordine stesso dell’Alfabeto, perché la malignità di molti, che si stanno fuori senza far nulla del loro, et cicalan sempre momescamente nelle cose altrui, gli farebbono trovare nudrimento alla loro invidia, con cinguettar che non si fosse ben tenuta la dignità de’ meriti in metter l’uno prima che l’altro. Onde essendo così per l’ordine dell’Alfabeto non havrà alcuno da metter questa magra zizania nel cervello, o ne la lingua di sé o d’altri, quasi che chi dà in luce un volume di cose tutte perfette, possa (com’io soglio dire in tali occasioni) ridurre i libri in forma rotonda, perché l’uno non istia doppo l’altro ; o quasi che chi habbia detto esser tutti buoni, intenda che di quel tutto egli ha per buono solamente il principio, et non l’altre parti » (c. ** r) ; ed alfabetico è anche l’ordine della prima raccolta curata dall’Atanagi, le Rime di diversi nobilissimi et eccellentissimi autori in morte della Signora Irene delle Signore di Spilimbergo, Venezia, Domenico e Giovan Battista Guerra, . Nella nota Dionigi Atanagi a’ lettori in testa ad At , il mutato criterio di ordinamento si attribuisce alle contingenze della stampa : « Perché alcuno si potrebbe meravigliare, & forse anche dolere così de l’ordine tenuto in porre gli autori di queste Rime l’uno doppo l’altro, come del modo vario usato nell’ortografia, parendo, che nell’uno non si sia servato il decoro, & ne l’altro si sia proceduto senza alcuna regola ; hanno i discreti lettori a sapere, quanto a l’ordine, che nel primo libro, per tor via quelle occasioni di maraviglie, & doglienze gli autori fur posti per ordine d’alfabeto. Il che non s’è potuto, né voluto fare nel secondo : perché si toglievano insieme le occasioni del poter compiacer molti gentilhuomini, a’ quali s’era dato intentione d’aspettar le lor rime, le quali sarebbono rimase addietro, se non fossero venute in tempo da porle a’ luoghi loro : dove ponendole secondo che ci sono venute a le mani, senza riguardo, o pensiero d’honorar più questo che quello, habbiamo havuto commodità di servire ciascuno infino a l’ultimo foglio » (c. A r-v). 82 S «  ». C, V  T . Cfr. ad esempio la lettera con cui B T ragguaglia lo Speroni intorno all’esito di una sua lezione in Accademia : « Io son stato questi duo giorni occupato intorno al Ragionamento della Teologia, che jeri con grandissimo concorso, applauso, e commendazione di tutti si lesse nell’Accademia, ai Prelati che si trovavano nella Città, al Clar. Navagero, ed altri senatori, ed a sei principali mercanti di tutte le nazioni : il che spero che siccome ha portato una grandissima riputazione all’Accademia, che sia ancora per recarle molto utile » (B. T, Lettere cit., II, -). . Somma delle opere cit., c. P r. Gli scritti speroniani in difesa della Canace, ovvero l’Apologia e le Lezioni tenute davanti all’Accademia degli Elevati nel dicembre , non apparvero mai a stampa : cfr. S. S, Canace e Scritti in sua difesa ¢ G. B. G C, Scritti contro la Canace, a c. di C. Roaf, Bologna, Commissione per i testi di lingua, , spec. le pp. XXXVII-XL. . La rappresentanza maggiore dei veneziani forma una serie compatta da c. r a c. r, e poi di nuovo da c. r in poi. A quasi tutti gli autori la Tavola dedica una sorta di presentazione, eventualmente dislocata nel commento a testi di corrispondenza. Le cifre in seconda colonna indicano il numero di componimenti per autore : P G  r-b G G  r-v L V  v-r L’autore di questi tre sonetti è un giovane gentilhuomo Venetiano, nipote del Clariss. M. Domenico Veniero : il quale camminando per l’orme del Zio, col valor de l’ingegno, & con la leggiadria dello stile supera & gli anni, & la speranza, benché grande, di lui conceputa. C M  v-v Nel novo seggio, in cui Giustitia posto. A M. Pietro Gradinico, gentilhuomo Venetiano, oltre al molto suo valore ne la Poesia Toscana, ornato di tutte quelle chiare virtù, da le quali è lodato in questo Sonetto, & di più altre. Qual Febo già ripien d’alto diletto. A M. Hieronimo Molino, valoroso, & honorato gentilhomo Venetiano, & grande poeta Toscano, se bene egli per troppa modestia non ne fa professione. A M  r-r Questo gentile spirito era fratello di M. Celio : et mancò ultimamente in età di  anni, trovandosi Secretario del Sereniss. Dominio Venetiano col Clariss. Proveditor de l’armata M. Filippo Bragadino, con molto dispiacere di ciascuno, che il conosceva, per la speranza grande, che dava di riuscire ogni giorno più valoroso. O G  v-r 83 A C M V  r-r Ca’ Veniero, com’è una de le più nobili famiglie di Venetia, così sempre ha prodotto, et hora più che mai produce quanti huomini, tanti nobili, et generosi spiriti, adorni d’ogni bella virtù così d’animo, come d’ingegno : de’ quali uno tra’ più lodati è il Magnifico M. Marco, autore de’ seguenti ben culti, & leggiadri Sonetti. T M  v-r Fu M. Tomasso fratello del Mag. M. Giac. Mocenigo, nobile par di fratelli, & di gentilhuomini Venetiani, non meno di lui culto, & leggiadro Poeta, & d’ogni gentil costume, & virtù dotato. S E  v-r L’autore de’ seguenti Sonetti, è gentilhuomo Venetiano honorato, & come l’opere sue testificano, buon filosofo Platonico, & buon Poeta. G F  r-r Monsig. Fenaruolo, autore de’ seguenti Sonetti, vivacissimo ingegno, et in ogni materia presto parlatore, & arguto, piacevole, & pieno di motti, si diletta di tutti gli studij liberali, massimamente di poesia, ne’ quali ha fatto sì gran processo : che ragionevolmente si può dire una de le non minori luci de la gloria Venetiana. * M M  r-r, v Benalio, quando Amor col forte braccio. M. Giulio Benalio, a cui il Molino risponde con questo Son., fu figliuolo de la chiara memoria di M. Giacomo Benalio, del quale, come habbiam detto di sopra ne la Tavola, sono in questo Lib. quelle tre divine Canzoni in laude de la beata Vergine. Questi, oltre a la bontà, & gentilezza de’ suoi costumi, essercitando l’ingegno ne gli studij de le buone arti, & in particolare de la Poesia, ne’ quali così giovane, come è, ha fatto tanto profitto, che homai concorre co’ più essercitati maestri, mostra chiaramente, sé esser rimaso herede non meno de le virtù paterne, che de la facultà, et del nome. 84 S «  ». C, V  T G B  r Benché lunge da stral, da foco, e laccio. A M. Marco Molino, giovane gentilhuomo Venetiano, in cui molte chiare virtù, mentre sono ancora nel fiore, hanno cominciato a produrre nobilissimi frutti d’honore, & di gloria : essendo egli in particolare eloquente, et d’ingegn molto favorito da le muse Toscane, et d’animo pieno di nobile cortesia, & di liberalità generosa. A C  v-r L’autore de’ sopra allegati Sonetti è gentilhuomo Venetiano d’honorate qualità, & vago, & gentil poeta. r-r Ecco del glorioso arbor di Giove. Questo sonetto fu fatto da l’autore (che è uno de’ nobili ingegni Venetiani, & che oltre a l’altre sue belle opere, scrive con alto stile in versi & Latini, et Toscani l’origine di Venetia) a l’Illustrissimo Sig. Francesco Maria de la Rovere, Principe d’Urbino, quando sua Eccellentia venne in Venetia, l’anno . Mosso a ciò da le parole de l’unico M. Titiano, dal quale haveva inteso, come questo nobilissimo Signore oltre a gli altri honorati studij, si dilettava grandemente per suo diporto, & piacere di quello de la pittura, del quale il Verdizzotti parimente si diletta. G. M V  . Cfr. At , Tavola, c. Ll  v. . Cfr. Somma delle opere cit., c. P r. . Cfr. Rime di M. G Z, Venezia, Domenico e Giovan Battista Guerra, , su cui cfr. G. Rabitti, Un caso di edizione postuma : le Rime di Giacomo Zane, in Il libro di poesia cit., pp. - ; alla stessa studiosa si deve anche l’edizione critica : G. Z, Rime, Padova, Antenore, . . Cfr. Rime di Mons. G F, Venezia, Giorgio Angelieri, . La lettera dedicatoria, a Federigo Cornaro vescovo di Bergamo, è di Roberto Figolino nipote dell’autore (cc. a r-a v). La sezione delle Rime di diversi in morte di Monsignor Fenaruolo si trova alle cc v-v e include i seguenti autori : Domenico Venier (un sonetto) ; Pietro Gradenico ( sonetti, di cui uno a Domenico Venier) ; Orsatto Giustinian (un sonetto, al Venier) ; Ottaviano Maggi (un sonetto, al Venier) ; Giovan Mario Verdizzotti ( sonetti, l’ultimo dei quali al Venier) ; Marco Stocchi ( sonetti, di cui uno al Venier) ; Diomede Borghesi (un sonetto) ; Hostilio Verghicci ( sonetti, di cui uno al Verdizzotti) ; Pietro Arigonio ( sonetti, di cui uno al Venier) ; Girolamo Poro (un sonetto) ; Don Cesare Carafa (un sonetto) ; Marc’Antonio Martinengo (un sonetto, in cui si nominano il Venier e il Molino) ; Camillo Beltrame ( sonetti) ; segue una sezione di poeti latini : Cornelio Amalteo ; Michele Braccetti ; Niccolò Stoppio ; Ludovico Ronconi ; Bernardino Crisolfo ; Palmerio Scardente ; Giovenale Ancina ; Vallerandus a Rivo ; Ruggero Tritonio ; Francesco Ancisa (un epigramma al Venier) ; Galeotto Pagani (un epigramma al Venier). 85 A C . Cfr. Rime di M. G M, Venezia, s. e., . . Cfr. L. Bolzoni, Variazioni tardocinquecentesche cit., pp. -. . Cfr., anche per le citazioni successive, B. T, Rime, a c. di D. Chiodo e V. Martignone, Torino, RES, . . Cfr. At , Tavola, c. Aa r. . Cfr. T. T, Lettere, a c. di C. Guasti, Firenze, Le Monnier, -, I, p.  (no ),  ottobre  : « Nessuna eredità né maggiore né più onorata mi potrebbe lasciare mio padre, che le molte amicizie ch’egli s’ha in in lungo corso d’anni, conversando con virtuosi, acquistato. Fra le quali non ne deve essere alcuna più stimata di quella di Vostra Signoria, sendo ella tale che in bontà di costumi e di lettere a null’altro è giudicata inferiore. Però ho risoluto con questa, e con un sonetto che gli mando, cominciare sin da ora ad entrarne in possessione : né forse mi sarei arrischiato tanto, se la fama de la sua cortesia non m’avesse porto ardire. La prego bene, quanto più caldamente posso, che non mi voglia imputare ad arroganza l’avere scritto in materia ne la quale tante composizioni di tanti grandi uomini si vedranno : ché di ciò è stato solo cagione il desiderio che ho di mostrarle l’affezione e l’osservanza che le porto. E le bacio le mani ». Nel  Bernardo e Torquato avevano preso parte alla raccolta, allestita dal Varchi, delle Rime di diversi eccellentissimi autori fatte nella morte dell’Illustriss. & Eccell. Duchessa di Fiorenza & Siena, & degli Illustriss. Signori suoi figliuoli, Ferrara, Panizza (il Tassino vi contribuiva col sonetto Com’è d’un dì sereno aperto segno, non recensito dal Solerti). . Cfr. Le rime di Messer L C, divise in tre parti, con discorsi, et argomenti di M. F P, et M. A B, Venezia, Francesco Sansovino et compagni, , c. r (Parte prima, I). . Cfr. E. Garin, Sulla retorica del Patrizi, « Giornale critico della filosofia italiana »,  (), pp. - ; R. Scrivano, Luca Contile e Francesco Patrizi, in Id., Cultura e letteratura del Cinquecento, Roma, Bulzoni, , pp. - ; L. Bolzoni, L’universo dei poemi possibili. Studi su Francesco Patrizi da Cherso, Roma, Bulzoni, , p.  e passim. Per la parte del Sansovino nella vicenda dell’Accademia Veneziana cfr. in particolare B. Marx, Die Stadt als Buch cit. . Cfr. L. C, Le rime, ed. cit., c. r (Parte prima, XII). . Cfr. L. C, Le rime, ed. cit., c. r (Parte prima, VIII). . Sulla posizione tradizionale di Ts (Milano, Biblioteca Ambrosiana, S. P. , sigla solertiana Ar), postillato autografo della stampa Baldini (), si rinvia a D. Isella, Il codice Chigiano cit. ed alle annotazioni di V. Martignone nell’Introduzione a T. T, Rime d’amore cit. . Cfr. I. S, Opere volgari, a c. di A. Mauro, Bari, Laterza, . . Cfr. B. R, Egloghe pescatorie, a c. di D. Chiodo, Torino, RES, . . Cfr. I. S, Opera omnia latine scripta, Venetiis, apud Franciscum de Franciscis Senensem, . . Cfr. T. T, Dialoghi, edizione critica a c. di E. Raimondi, Firenze, Sansoni, , II, p. . 86 S «  ». C, V  T . Cfr. G. G-F. B, Rime, a c. di E. Chiorboli, Bari, Laterza, . . Cfr. L. C, Le rime, ed. cit., cc. v-r (Parte prima, XIX-XX). . Cfr. Scelta di rime di diversi eccellenti poeti [...] Parte seconda, Genova, Zabata,  (sigla solertiana ), p. . Il componimento è ripreso nelle due stampe aldine della Parte prima delle Rime, Venezia,  () e  () ; quindi nella Scielta di rime di Vittorio Baldini, Ferrara,  (). . Cfr. D. Isella, Il codice Chigiano cit. 87