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NEWS
LETTER
AUTUNNO 2019
SAMI
Società degli Archeologi Medievisti Italiani
1. EDITORIAL
2. CONVEGNO SAMI
3. PROGETTI
4. PUBBLICAZIONI
5. CALENDARIO
6. LA SAMI
Quello appena trascorso è stato un ottobre particolarmente interessante e
stimolante.
Il convegno per celebrare il ‘compleanno’ della SAMI, tenutosi a Palazzo Massimo a Roma, è stato di enorme successo, per cui di seguito pubblichiamo
le sintesi che ci sono pervenute nel tempo giusto per questa edizione della
Newsletter. C’è stata una grande partecipazione di persone (ed alcune nuove
iscrizioni alla Società), sia durante le relazioni aperte al pubblico nella mattinata, sia all’assemblea dei soci tenutasi nel pomeriggio. I nostri primi venticinque
anni hanno visto nascere e crescere l’archeologia medievale in Italia e nel Mediterraneo, anche grazie alla SAMI che, così è diventata leader nello sviluppo
scientifico dell’archeologia e nel coinvolgimento del pubblico. Purtroppo, alcune delle relazioni tenutesi a Roma hanno rilevato che il MIBAC (ora MIBACT)
non è stato così innovativo e onnicomprensivo come, invece, permette la legge
in gran parte del resto dell’Europa, dove la cultura è spesso più orientata verso
la ricerca ed i conseguenti benefici per il grande pubblico, piuttosto che verso
gli interessi di gruppi ristretti. Nel pomeriggio, l’assemblea ha votato all’unanimità alcune proposte che dovrebbero consentire un’adesione più aperta alla
SAMI, in modo da rendere l’archeologia sempre più di interesse comune e
di pubblica utilità. Perciò, l’anno prossimo dovremmo effettuare alcuni significativi cambiamenti. Mi fa piacere ricordare che il successo del convegno di
Roma è stato in gran parte dovuto all’ospitalità del Museo Nazionale Romano
e di Mirella Serlorenzi, nonché alle capacità organizzative di Vasco la Salvia.
Sul fronte strettamente accademico, ottobre si è chiuso con una serie di
convegni. A Bologna si è svolto il Convegno Internazionale “Abitare nel Mediterraneo tardoantico” (28-31 ottobre), organizzato dal Centro Interuniversitario
di Studi sull’edilizia abitativa tardoantica nel Mediterraneo, al quale non ho
potuto partecipare. Invece, ho partecipato al “Congrèss Perchement et réalités fortifiées en Méditerranée et en Europe (Vème-Xème siècles) – Formes,
rythmes, fonctions et acteurs” tenutosi a Roquebrune-sur-Argens in Francia
(20-25 ottobre), organizzato da Philippe Pergola ed i suoi collaboratori. È chiaro che i secoli tra la fine dell’Impero Romano in occidente e l’anno 1000, caratterizzata dalla comparsa di una pletora di siti fortificati, rappresentano una
delle più importanti aree di ricerca in questo momento. Tra i temi principali
esaminati vi sono state la Guerra greco-gotica di Giustiniano e la successiva
espansione dei longobardi e di altri popoli in aree di ex dominio romano. È un
peccato che, in contemporanea al congresso a Roquebrune, si sia tenuto un
altro congresso con un tema simile (“L’eredità di Giustiniano: l’ultima guerra
dell’Italia romana” 23-24 ottobre), organizzato da Hendrik Dey e Fabrizio Oppedisano alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Ovviamente, questo significa
che ci deve essere più coordinamento fra gli studiosi. In effetti, uno dei ruoli
principali della SAMI deve essere quello di riunire tutti gli specialisti, anche e
forse soprattutto se hanno opinioni diverse. Solo attraverso la comunicazione
e il confronto possiamo condurre e valorizzare i nostri interessi e studi nel terzo
millennio. Dobbiamo rompere le barriere ed incoraggiare lo scambio intelligente di idee per ricostruire una storia italiana, europea e mondiale, sempre
più convincente. Questo è uno degli obiettivi principali della nostra società.
Paul Arthur
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metodologici, in parte offerti dall’informatica. Nel contempo, però, l’archeologia medievale restava una disciplina
fortemente ancorata ad alcuni specifici tematismi (città,
castelli, monasteri etc.) e, soprattutto, tendeva a focalizzare i propri interessi sull’alto-medioevo (quando non la
Tarda Antichità).
Sul versante culturale, invece, l’ambizione dei fondatori
e i loro obbiettivi si muovevano secondo una sottintesa
strategia che contava su un’alleanza con i professionisti
(in quel periodo le Ditte archeologiche, sorte negli anni
’80, si erano ormai consolidate), di riuscire ad istituire un
rapporto diretto e paritetico con il MIBACT (forse questa
l’ingenuità maggiore), infine di costruire una relazione
stabile e proficua con il volontariato locale. Non a caso
la SAMI nacque non come un organismo accademico (e
questo aspetto ci venne quasi immediatamente rimproverato dai colleghi archeologi classici che, invece, fondarono di lì a poco la Consulta per l’Archeologia Classica), ma
come uno spazio dove potessero confluire le varie anime
che, in sedi ed Istituzioni diverse, avevano favorito o favorivano la crescita della disciplina.
Che cosa è successo (se qualcosa è successo) nei
venticinque anni che ci separano dalla Fondazione della
SAMI ad oggi? Molto, ma certo non nella direzione che
almeno i fondatori di quella Società auspicavano.
Sul versante universitario sono sicuramente aumentate
le sedi dove si insegna archeologia medievale e, di converso, anche gli insegnamenti hanno registrato un incremento, non sempre però nella direzione che molti di noi
auspicavano. Ci sarebbe da tornare a riflettere, ad esempio, sui risultati portati dall’accorpamento tra SSD come
quello dell’Archeologia medievale e dell’Archeologia Cristiana. Un accorpamento che è sembrato quasi naturale,
vista la contiguità cronologica tra le due discipline, ma
che ha solo lievemente scalfito le reciproche e rigide tradizioni accademiche e comunque non ha aiutato a produrre quella naturale transizione verso la formulazione di
un’archeologia della post antichità unitaria e al passo con
i tempi. Anche il sistema di reclutamento (ma qui il discorso vale per tutti i SSD) non ha prodotto i risultati sperati.
Anzi (e c’era da prevederlo) questo sistema ha spostato
sempre di più le decisioni verso le logiche corporativistiche dei singoli Atenei. Il rafforzamento degli organici degli
Istituti di Tutela, poi, ha conosciuto momenti diversi, fra
stasi (lunghe) e improvvise impennate (l’ultimo concorso
per archeologi). Per quanto ritenga che una buona Tutela non passi da un aumento a dismisura degli organici
(un leit motif che si sente evocato di frequente da parte
dei difensori dello status quo), anche le stesse modalità
con le quali si opera questo reclutamento sono rivelatrici
e sintomatiche di come il Ministero immagini la figura del
funzionario: un reclutamento che prevede una centralità
ancora nella conoscenza della disciplina e non, piuttosto,
nella verifica delle capacità gestionali ed organizzative del
candidato. Il dettato che orienta questa scelta è ben chiaro e risiede, peraltro, nelle politiche delle ultime Direzioni
Generali del Ministero, sempre più orientate all’autoreferenzialità (nella scelta e nella conduzione della ricerca).
L’evoluzione del MIBACT, dunque, costituisce indiscutibilmente il punto maggiormente critico della nostra riflessione, perché è attraverso il Ministero che passa la ricerca
(in termini anche autorizzativi). Naturalmente esso meriterebbe ben più spazio di quello che siamo costretti a dedicargli in questa circostanza. Semplificando, potremmo
Per i 25 anni della SAMI: riflessioni
dalla fondazione a oggi
Sauro Gelichi (Università Ca’ Foscari Venezia)
Forse qualcuno ricorderà che la SAMI venne fondata
nel 1994, a venti anni di distanza esatti dalla nascita della
Rivista Archeologia Medievale (1974). Le ricorrenze non
sono mai casuali. Del resto i fondatori della SAMI erano
stati, almeno in parte, gli ideatori di quella rivista (Riccardo Francovich e Tiziano Mannoni) e gli altri due fondatori
(io e Gianpietro Brogiolo) eravamo entrati nella Rivista,
anche se in momenti diversi, piuttosto precocemente.
Dire dunque che la SAMI nasce come una costola di Archeologia Medievale corrisponde, credo sembra ombra
di dubbio, alla verità.
Tuttavia (è necessario aggiungere) la SAMI nasce soprattutto da una prospettiva maturata all’interno del fermento movimentista che animava Riccardo Francovich,
in quegli anni ancora interessato a dare una fisionomia e
uno sbocco ad una disciplina che stava lentamente cambiando pelle.
L’archeologia medievale che si identificava nell’omonima rivista (al di là dei nuovi arrivi e delle dolorose dipartite
che nel tempo che ne avevano contrassegnato le vicende) era ancora quella che aveva trovato una sua struttura
programmatica proprio nei primi anni ’70 del secolo scorso e che si può sinteticamente riassumere in: una forte
adesione ai dettati del marxismo e dunque un’attenzione
specifica alla ‘cultura materiale’ (concetti esplicitati nell’editoriale del I numero della rivista, dove forte è l’influenza
dei geografi storici liguri, in particolare di Massimo Quaini); una sintonia quasi perfetta (altra interessante e non
casuale coincidenza) con il turbolento ‘enfant terrible’
dell’invero sonnolenta tradizione dell’archeologia classica italiana (Andrea Carandini); l’identificazione nel metodo (stratigrafico), recuperato in quegli anni, lo strumento
principale della ricerca sul campo.
Questo ‘fervore’ dell’ambiente accademico si accompagnava, sempre in quel periodo, ad una situazione politica che vedeva in campo forze sociali eredi delle principali
tradizioni politiche post belliche (la liberale, la cristiana e
la socialista) ancora particolarmente attive (e motivate) nel
tentare di avviare il Paese verso quel completo cambiamento, sociale e culturale, che la modernità richiedeva.
In questo frangente l’istituzione delle Regioni e del Ministero per i Beni Culturali e l’Ambiente avevano costituito
due passaggi molto promettenti, perché riconoscevano
nel decentramento (le Regioni appunto) e nel riconoscimento di una specificità del patrimonio culturale (il nuovo
Ministero), i loro punti di forza. Passaggi promettenti che,
tuttavia, non hanno avuto gli esisti sperati.
Nel 1994, al momento della fondazione della SAMI, la
situazione si stava evolvendo, sia sul piano scientifico che
su quello politico culturale.
Sul versante scientifico, la disciplina si stava lentamente riaggiornando, abbandonando le apodittiche posizione
degli anni ’70 e tentando proficui spazi di interscambio
e contaminazione con altre tradizioni disciplinari vicine.
Inoltre, si approfondiva e sviluppava il rapporto con gli
architetti restauratori e si cominciavano ad utilizzare, in
maniera sempre più massiccia, i nuovi strumenti teorici e
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dire che abbiamo assistito a due specifici indirizzi: da una
parte una serie, abbastanza serrata, di riforme e pseudo
riforme, che hanno smembrato, accorpato, ri-smembrato
e ri-accorpato istituti e funzioni, lasciando giustamente
interdetti i fruitori (i cittadini) ma anche gli stessi funzionari, costretti a muoversi in dedali di circolari (piuttosto
che riscrivere la legge, si emanano circolari applicative
spesso di dubbio valore giuridico). Dall’altra si è assistito
ad un tentativo, neppure troppo nascosto, di avocare al
Ministero (meglio alle strutture burocratiche del Ministero)
le funzioni della ricerca, distorcendo il dettato originario
della Legge 1089 (che di fatto costituisce, con qualche
tolettatura lessicale, ancora il testo vigente) nonché il dettato costituzionale. I risultati sono sotto occhi di tutti. Non
da ora siamo convinti che una buona riforma passi attraverso una riscrittura completa ed aggiornata della legge
di tutela, anche se siamo nello stesso tempo consapevoli
che questo difficilmente potrà avvenire (e infatti non è avvenuto) perché una nuova legge andrebbe sicuramente a
ledere consolidati interessi e privilegi.
In questa situazione l’archeologia professionale, uno
dei risultati più importanti della rivoluzione degli anni ’70,
dopo un periodo di espansione ha subito una battuta d’arresto, una decina di anni fa. Anche qui le ragioni di tale
flessione sono molteplici, ma indiscutibilmente l’archeologia professionale paga soprattutto l’assenza
di uno specifico stato giuridico e l’impossibilità
di muoversi su un mercato che non è libero. La
competizione quasi non esiste oppure si basa su principi
che poco hanno a che vedere con la qualità della ricerca.
Resta poi la circostanza che le Università non hanno fatto
quasi nulla per ri-aggiornare la propria agenda formativa
e dunque gli archeologi patentati usciti dagli Atenei non
sempre sono in possesso di indiscusse competenze gestionali ed operative necessarie per condurre cantieri di
scavo o ricerche sul campo.
La SAMI si è mossa in questo contesto secondo alcune
coordinate inaugurate fin dagli esordi (ad esempio i Congressi ogni tre anni), ha iniziato una collana di manuali
che però è ferma da tempo, ha promosso (devo dire con
successo) una collana che premia i migliori testi di giovani ricercatori (Premio Ottone d’Assia e Riccardo Francovich), ha inaugurato una stagione di premi per il migliore
Museo/Parco Archeologico; infine, dal 2019, ha iniziato
una newsletter che, ad oggi, esce con regolarità. Tuttavia
le politiche che la Società ha perseguito in questi anni,
pur condivisibili, hanno perso nel tempo il loro smalto originario, e certo non per demerito dei Presidenti né dei
Soci, quanto perché il panorama nazionale stava lentamente cambiando.
Sul piano scientifico l’archeologia medievale si trova oggi a dover prefigurare uno specifico disciplinare
che identifica la sua ragion d’essere in uno spazio multidisciplinare. In questo spazio, cerca di far convivere la
tradizione di una disciplina che resta ancora d’impianto
fortemente storico-culturale con le sollecitazioni che le
derivano da ricerche sempre più contestuali, con un impianto decisamente socio-antropologico e con una presenza determinante degli approcci che ci derivano dalla
scienze biologiche (senza considerare tutta la componente legata allo sviluppo dell’informatica). Questa convinta
adesione ad amplificare il tessuto connettivo delle fonti
disponibili non sempre conduce l’archeologia medievale
al di fuori dei ‘canoni’ tradizionali ma, certamente, intro-
duce in essa elementi di disagio, spinte verso l’adesione
ad una multiperiodalità all’interno della quale è solo il progetto che conta (più che la specificità disciplinare).
Un fermento che potrebbe anche risultare utile se, nel
contempo, l’archeologia medievale non si trovasse a
convivere con altri settori disciplinari, più impermeabili al
cambiamento, meno disponibili al dialogo.
E se si trovasse a dialogare
con una società civile che
sembra sempre meno
interessata al passato (non solo quello
medievale) e con
strutture di tutela
sempre più avviate
verso un infruttuoso
solipsismo.
Sauro Gelichi
Perché abbiamo ancora bisogno della
SAMI
Gian Pietro Brogiolo (gia Università di Padova)
Nell’attuale archeologia italiana, nella quale si confrontano Università, MiBACT e organizzazioni professionali,
la SAMI costituisce il solo organismo nazionale nel quale i tre gruppi si possono ritrovare, evitando in tal modo
un’autoreferenzialità sempre più corporativa. L’auspicio è
che, in questa sede, si discuta di approcci, regole, principi e ruoli, aprendosi alla società, come era nell’intenzione
dei fondatori.
1. Approcci
Nella disciplina archeologica differenti approcci, metodi,
strumenti si sono progressivamente aggiunti, arrivando a
definire più archeologie che convivono oggi nell’accademia come nelle soprintendenze: archeologia delle COSE
(archeologia storico artistica, soprattutto in ambito classico), delle SEQUENZE (archeologia stratigrafica, prevalente nell’archeologia di emergenza), dell’AMBIENTE e
degli INDIVIDUI (grazie alle bioarcheologiche e alle analisi
ambientali), dei PAESAGGI (affrontata in una prospettiva
diacronica, sistemica e transdisciplinare).
Tutte queste tendenze possono essere declinate a differenti scale, ma è soprattutto la complessità sistemica
(che si propone una ricostruzione dell’evoluzione delle
comunità storiche) ad intavolare con le comunità locali un
dibattito alla pari di archeologia partecipativa dai risvolti
economici e sociali. Una prospettiva che richiede peraltro
la libertà della ricerca sul territorio, attualmente fortemente condizionata.
Una pluralità di acheologie che cercano una legittimazione (e un ruolo sociale), in un quadro legislativo e normativo profondamente cambiato negli ultimi anni.
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mercato del lavoro? E con quale offerta formativa: un
percorso indifferenziato, come l’attuale (laurea triennale,
magistrale, specializzazione, dottorato, ulteriori scuole del patrimonio) che produce quarantenni alla ricerca
disperata di un lavoro, o differenti a seconda della professione desiderata? Una formazione basata sulle lezioni
ex cattedra o sulla partecipazione a progetti di ricerca,
aperta al longlife learning, con specifici corsi di aggiornamento per professionali e appassionati?
Quale sistema di selezione dei docenti, per cooptazione dei più fedeli o a seguito di una carriera per merito,
costruita in più sedi e non nella medesima all’ombra e
al servizio di un singolo docente? Con quali modalità di
valutazione, considerata la perversione dell’attuale (graduatorie di riviste inattendibili; contributi costruiti in serie,
corretti ma vuoti di contenuto, inviati a raffica a più riviste; punteggi assegnati dunque per categorie formali e
non per il valore)? E dunque con quale sistema di reclutamento, considerato che le abilitazioni nazionali non sono
spesso servite a mettere in cattedra i migliori, in quanto le
assunzioni sono state decise dalle singole università sulla
base di altri criteri?
2. Leggi e regole
La riforma del 2016 ha introdotto la Soprintendenza
unica, ispirandosi ad una concezione unitaria del patrimonio storico. Ha dunque ampliato il campo di gioco,
obbligando gli archeologi a misurarsi con le esigenze di
altri elementi del patrimonio. È stata peraltro una riforma del solo ministero, senza intervenire sulla questione
chiave del ruolo dell’archeologia in una società profondamente diversa rispetto a quella del 2004, quando è stato
emanato di Codice per i Beni Culturali. Forse è questo il
motivo per cui anche i medievisti, nonostante fossero da
sempre abituati ad una concezione concezione unitaria
dei Beni Culturali (non a caso hanno sviluppato, accanto
a quella stratigrafica, un’archeologia delle architetture e
dei paesaggi), si sono divisi nel giudizio. Ancor più acceso è il dibattito in corso sul quadro normativo che ha
visto, proprio quest’anno, ben tre interventi (le due circolari dell’ex direttore generale Famiglietti tra gennaio e febbrario e la prescrizione in calce alle concessioni di scavi
rilasciate lo scorso mese da chi l’ha sostituito). Interventi
che hanno suscitato una decisa presa di posizione della
consulta universitaria e un’attenzione anche della SAMI.
Come uscire da questa situazione? Credo che, a questo
punto, oltre alla ratifica della convenzione di FARO, sia
necessario un intervento legislativo che riconsideri le esigenze della ricerca. In tale prospettiva è urgente avviare
una discussione che non può essere esclusiva del singolo
gruppo corporativo e sulla quale la SAMI dovrebbe essere
in prima linea, a sostegno di principi non negoziabili in
quanto assicurati dalla Costituzione.
5. Quale futuro per l’archeologia italiana?
Riserva di caccia e di scontro di gruppi sindacalizzati
e interessati al proprio particulare? O aperta alla società che da semplice fruitrice deve essere coinvolta nella
ricerca affinchè l’archeologia torni ad essere, come è stata in alcune regioni fino agli anni 70 del secolo scorso,
un’attività praticata in continuità e integrata nelle scelte di
pianificazione e di trasformazione del territorio? Il che significa anche reimpostare dal basso un impegno sociale,
accogliendo la preoccupazione di fronte alla distruzione
degli ecosistemi e ai cambiamenti climatici.
Rinunciando ad un uso politico della storia imposto
dall’alto (assunto in Italia in passato, ma ancora ben presente in molte nazioni, anche europee), come archelogi
possiamo contribuire attraverso la studio delle COMUNITA’ LOCALI, eredi di un passato che, pur in un susseguirsi
di calamità naturali, carestie, pestilenze e guerre, nella
lunga durata è risultato alla fine SOSTENIBILE.
3. Quali principi riteniamo fondamentali e non negoziabili?
La ricerca non invasiva (quella che non modifica la condizione del bene archeologico) deve essere libera, sottratta al doppio regime di concessione (previsto dalla legge
ed ora sottoposto a vincoli assai stretti) o di autorizzazione (imposto dalle circolari MiBACT), il che significa poter utilizzare tutti gli strumenti (dai droni alle prospezioni
geofisiche), necessari, di volta in volta, per le ricerche. In
secondo luogo non deve essere condizionata la libertà
di rendere pubbliche le informazioni (scritte o per immagini) raccolte da uno studioso sia con ricerche non invasive, sia con scavi in concessione, senza dover chiedere
autorizzazioni o assensi. In una riforma legislativa, si dovrebbero altresì ripensare il ruolo dell’archeologia a partire
dalle istituzioni (MiBACT, Regioni, Università, Enti locali) e
dai gruppi professionali ma aperto anche al volontariato
locale.
Saranno i giovani, interessati alla difesa del pianeta, a
decidere il futuro dell’archeologia? Non lo so, ma con loro
dobbiamo dialogare per sopravvivere come archeologi e
il tema della sostenibilità può garantirci un lasciapassare,
consentendoci altresì di uscire dalla crisi delle discipline
che studiano il nostro passato.
È questo l’auspicio di chi ha preso coscienza che il futuro
dell’archeologia dipende dalla capacità di reinventarsi in
relazione ai cambiamenti in atto,
sempre più rapidi e radicali. Tra questi, Cornelius
Holtorf (svedese come
Greta Thunberg: sarà
un caso o sono entrambi espressione
di una cultura impegnata nella difesa del pianeta?):
oltre a discutere del
ruolo del patrimonio
e del contributo degli
archeologi di fronte alle
4. Quali ruoli mmaginiamo per le istituzioni?
MiBACT: deve continuare ad essere un istituto di ricerca
o uno strumento della tutela e della valorizzazione? Deve
proseguire ad assumere funzionari-ricercatori, come oggi
sulla base dell’apertura dei concorsi a chi ha un dottorato,
o manager della tutela e della valorizzazione formati con
scuole di specializzazione organizzate a scala nazionale e
con numero programmato sulla base dei posti disponibili
nel MiBACT e negli enti locali?
Ancora più complesse le domande che deve porsi l’UNIVERSITA’: oggi moltiplicatrice autoreferenziale di corsi di laurea aperti e postlaurea chiusi. Deve essere libera
di svilupparsi per decisione dei singoli istituti o in base
ad una programmazione nazionale che tenga conto del
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sfide sociali odierne, ci invita a riflettere su un’archeologia a lungo termine, rivolta al futuro e in grado di agire
consapevolmente per il bene delle prossime generazioni.
Utopia? Forse, ma senza sogni non si costruisce il futuro,
come ci insegna Massiliano Valerii nel suo interessante
saggio (La notte di un’epoca). Un futuro nel quale anche
la SAMI può continuare ad esercitare un ruolo di primo
piano.
difficile significa conoscenza lacunosa. Si usa spesso dire
che il primo livello di difesa territoriale del nostro patrimonio archeologico sono le soprintendenze, che possiamo
considerare nel loro potenziale ruolo di avamposto di difesa contro speculazioni, consumo del suolo, abusivismo,
cementificazione, distruzione. Questo è vero solo in parte.
Perché se è vero che i provvedimenti di tutela portano tutti una firma che parte da quella del funzionario territoriale,
è vero pure che nei contesti operativi l’archeologo che
osserva, controlla, sorveglia, e quindi tutela, non è quasi
mai un archeologo dello Stato, ma un professionista libero o inquadrato in una forma di lavoro societario o cooperativo. Comunque, un professionista. Ed è quella la vera
prima linea di difesa e di tutela del patrimonio. Le battaglie che l’Associazione Nazionale Archeologi conduce da
anni per tutelare la figura professionale dell’archeologo,
poiché viviamo in un settore profondamente competitivo
e anche moderatamente astioso, sono a volte state rivendute come “difesa di corporazione”, “lobbismo”, e simili.
Ma la verità è che difendere i professionisti, difendere il
loro potere di contrattazione nei confronti del datore di
lavoro, difendere il loro ambito di intervento specificando
cosa fa e cosa non fa un archeologo, difendere i diritti di
chi lavora in regime di lavoro autonomo e innalzare istanze che si chiamano “genitorialità”, “indennità di malattia”,
“indennità di infortunio”, etc…, non è affatto difesa corporativa: è piuttosto la difesa della prima linea reale di tutela
che nel nostro paese ogni giorno sui cantieri, negli studi
di progettazione, ma anche nelle istituzioni, etc…, scende
in campo per difendere i nostri beni comuni. “Più tutele
per chi tutela” è un motto che dovrebbe diventare un auspicio per chiunque abbia a cuore il nostro patrimonio.
Per tutto quanto finora scritto, per le difficoltà generiche
dei professionisti nello svolgere il proprio lavoro, e per le
difficoltà che si aggiungono alle esigenze di tutela quando l’oggetto da tutelare non appartiene ad un contesto
classico, occorre allora fare una riflessione che investe il
campo delle archeologie post-classiche in senso ampio.
Dal momento che spesso la tutela archeologica procede
a partire dal rinvenimento di strutture o parti di esse il cui
valore è immediatamente comprensibile (come già detto)
tanto per chi scava (l’archeologo) quanto per chi realizza
un’opera e deve terminare velocemente, è innegabile che
per alcuni fenomeni tipici dell’archeologia post-classica
spesso il post-classico semplicemente sfugge alle maglie
della tutela per la sua intrinseca evanescenza (ed è questo un fenomeno che ovviamente riguarda anche i contesti pre-classici, in particolare quelli preistorici). Questa
è una realtà con la quale deve fare i conti chi studia il
post-classico a partire dal dato materiale, e ancora di più
chi nel post-classico si ostina ad indagare contesti come
quelli rurali, che sono il massimo dell’evanescenza.
Oggi, come detto, la situazione è in miglioramento, ma
la perdita di informazioni dagli scavi del passato è un elemento da tenere in considerazione per chiunque si occupi
di ricostruzione di contesti e paesaggi post-classici. La
mancanza di dati da un contesto deve quindi essere di
volta in volta oggetto di considerazione critica partendo,
con onestà, dall’analisi della qualità delle indagini pregresse.
Nel 2014 la rivista Archeologia Medievale ha pubblicato un volume speciale dedicato ai 40 anni della rivista, e
per estensione a quarant’anni di ricerca e di espansione
delle discipline post-classiche in Italia. Quando l’accade-
Gian Pietro Brogiolo
La professione e l’archeologia
post-classica in Italia
Alessandro Garrisi (ANA)
Per sviluppare un ragionamento utile ad inquadrare il
rapporto tra professione e archeologia (o archeologie)
post-classica in Italia, è inevitabile entrare nel dettaglio delle questioni professionali degli archeologi italiani, anche alla luce delle recenti normative (come il D.M.
244/2019) che ne muteranno alcuni aspetti.
In Italia si tende dividere le archeologie per fasce cronologiche (preistorica, protostorica, classica, post-classica,
medievale, post-medievale) prima che per classi culturali (classica – di nuovo, cristiana, bizantina, islamica). È
storicamente netta la prevalenza nel paese di archeologi
che si formano in area classica, anche se negli anni l’ampliamento dell’offerta didattica verso settori scientificodisciplinari diversi ha modificato i rapporti tra le diverse
specializzazioni degli archeologi.
In particolar modo negli ultimi decenni c’è stata una
fase di crescita (forse già in fase di arresto) di archeologi
genericamente identificati come “medievisti”, variamente
afferenti alle diverse discipline che compongono le archeologie post-classiche.
Se tra gli archeologi quindi la consapevolezza del valore
del post-classico è una realtà consolidata, il processo di
penetrazione della medesima consapevolezza nel pubblico più vasto procede invece più lentamente (o, per i più
pessimisti, non procede affatto).
Una delle principali difficoltà che incontra l’archeologo
che lavora nelle centinaia di scavi programmati, di emergenza, nelle assistenze varie alla realizzazione di nuovi
manufatti, è quella di garantire la tutela del patrimonio imponendo la propria volontà nel fermare o rallentare i lavori
(il che per le ditte esecutrici significa aumento dei costi)
a fronte di un ritrovamento il cui valore non è per tutti immediatamente percettibile. Di fronte a una bella strada
basolata, è facile far capire al capo cantiere la necessità
del fermo dei lavori. Ma di fronte alle povere rimanenze di
un ovile medievale, oltre alla capacità (e alla sensibilità)
dell’archeologo di riconoscerne il valore di conoscenza,
l’esito della richiesta di fermare i lavori è tutt’altro che
scontata.
Questo, che in apparenza è un elemento di colore, in
realtà è un grave problema di tutela per tutto il patrimonio
post-classico: sebbene la situazione sia in progressivo
miglioramento anno dopo anno, non è esagerato dire che
se la tutela è il primo passo verso la conoscenza, tutela
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con quali progetti? A essere in crisi è in definitiva un modello costruito tra Otto e Novecento, che, pur rappresentando una tradizione gloriosa, e nonostante le profonde
trasformazioni e innovazioni degli ultimi decenni, rischia
di non essere più in grado di rispondere alle sfide del futuro, se non saprà rinnovarsi.
In Italia la distanza tra archeologi e società è andata
progressivamente crescendo. Gli addetti ai lavori si sentono ‘accerchiati’ da una maggioranza sentita come potenzialmente ostile. Basti considerare le polemiche, anche di questi giorni, contro le associazioni di volontariato.
La Convenzione della Valletta, nata nel contesto della giusta rivendicazione della professione dell’archeologo, ha
rappresentato un traguardo importante, anche se ormai è
un po’ ‘datata’ in alcuni suoi aspetti e andrebbe rivista anche alla luce di altre Convenzioni europee (in particolare
la Convenzione di Faro). Soprattutto è stata ultimamente interpretata in maniera eccessivamente burocratica e
restrittiva, tanto da produrre circolari ministeriali che, ad
esempio, vietano ogni forma di partecipazione agli scavi
di volontari (che ovviamente devono sempre operare sotto la direzione e il controllo di specialisti), limitano alcune
forme di educazione e sensibilizzazione rivolte al pubblico e contrastano fortemente le attività scientifiche e didattiche delle università.
Molto lavoro resta ancora da fare per riconoscere pienamente la professione dell’archeologo, per garantirne
un riconoscimento sociale, per migliorare la formazione
universitaria e permanente. Purtroppo, l’ancora grave
mancanza di lavoro (e la prevalenza del lavoro precario,
poco garantito e spesso sottopagato) nel settore dell’archeologia, e più in generale dei Beni culturali, provoca
non solo una diffusa insoddisfazione e un clima di incertezza, ma sollecita anche diffidenze e rancori e provoca
chiusure, oltre a favorire una grave contrapposizione verso le associazioni di volontariato. Effettivamente, in una
situazione caotica, nell’ancora mancata definizione delle
figure professionali dei Beni culturali e dei relativi requisiti, il volontariato rischia di essere, o almeno di apparire,
sostitutivo del lavoro professionale e non, come invece
dovrebbe essere, integrativo e di supporto. Non bisogna
nascondere – e anzi bisogna denunciare – un uso spesso
improprio del volontariato. Ma ritengo che sia un clamoroso errore contestare le associazioni di volontariato, che
a livello nazionale e locale, svolgono una funzione straordinariamente importante per sensibilizzare la cittadinanza attiva, la classe politica e l’intera opinione pubblica ai
temi del patrimonio culturale, in tal modo contribuendo
non solo alla sua conoscenza, tutela e valorizzazione ma
anche alla creazione di migliori condizioni per sviluppare
lo stesso lavoro nel campo della cultura.
Non entro qui nel merito di che cosa si debba intendere
per AP, ma mi preme sottolineare che non può essere
identificata riduttivamente solo con la comunicazionedivulgazione o con la sacrosanta apertura dei cantieri di
scavo: insomma progettare e organizzare una serie di attività con i cittadini e fare una buona comunicazione non
basta per fare AP, che ha obiettivi molto più ampi, estesi
ai temi del lavoro, della professione, della libertà di ricerca
e del libero accesso e libera circolazione dei dati, dell’economia, dello sviluppo sostenibile, della politica.
Sul rapporto tra AP e Medioevo G. Vannini, M. Nucciotti
e C. Bonacchi hanno già pubblicato un contributo per il
fascicolo del quarantennale di ‘Archeologia Medievale’, al
mia, anche di recente, ha indagato il tema dello sviluppo
dell’archeologia medievale in Italia, al di là delle argomentazioni teoriche sulla periodizzazione, la separazione
cronologica, la globalità e la complessità, che non sono
oggetto di questo intervento, è (ri)emersa una sorta di
amarezza sulla considerazione in cui l’archeologia medievale è tenuta nella tutela. Da presidente di un’associazione professionale trovo però curioso che non ci si
sia posto pubblicamente il problema per esempio della
formazione del professionista che poi a fare la tutela ci va
davvero. Se consideriamo gli archeologi in Italia, secondo
dati statistici che per una serie di validi motivi sono approssimativi, ma comunque genericamente affidabili, circa il 20% dei laureati (un dato probabilmente per eccesso) trova lavoro nell’accademia (università, enti di ricerca)
e nel settore pubblico della tutela (Ministero, enti locali)
mentre il restante 80% è costretto a trovare altre strade
(professionismo, musei, terzo settore) con un alto tasso
di abbandono già entro i primi 10 anni dalla laurea. Nasce
quindi un sospetto: in Italia il 20%
dei futuri archeologi riceve
una formazione adeguata, utile e professionalizzante, mentre l’80%
degli allievi dovrà
percorrere una strada per la quale per
lo più non è né formato
scientificamente, né preparato
psicologicamente.
Se tale è la situazione, quello che per la
tutela (in termini generici) è
un grave problema, da affrontare con decisione a partire dal ripensamento dell’offerta
formativa universitaria, per il post-classico assume i contorni di una vera e propria emergenza.
Alesandro Garrisi
L’Archeologia Pubblica e il Medioevo
Giuliano Volpe (Università di Foggia)
L’Archeologia Pubblica (AP) ha guadagnato negli ultimi
anni grande notorietà anche nel nostro Paese, molto più
tardi che altrove, soprattutto nel mondo anglosassone,
nel quale la Public Archaeology ha mosso i primi passi
già negli anni Settanta del secolo scorso.
L’Archeologia Pubblica tocca nel profondo il significato
stesso dell’archeologia oggi. Sento, anzi, di poter affermare che senza l’apporto che solo l’AP può garantire è
tutta l’archeologia a rischiare di andare definitivamente in
crisi, nel mondo globalizzato, nel pieno di una crisi che
non è solo congiunturale e non tocca solo la sfera economico-finanziaria.
Quale ruolo possono svolgere l’archeologia e gli archeologi in questo contesto di profondi cambiamenti? Gli
archeologi sono pienamente consapevoli del ruolo che
potrebbero svolgere? Con quali idee, con quali strumenti,
6
quale rinvio. È ovvio, peraltro, che sarebbe improprio parlare di AP ‘medievale’, ma, a tempo stesso, credo di poter
affermare che l’Archeologia Medievale italiana è stata ed
è la componente forse più attiva nel campo dell’AP. Lo
è per una sorta di ‘denominazione di origine’, legata in
particolare alla straordinaria figura di Riccardo Francovich, che, come hanno giustamente sottolineato M. Valenti e G. Bianchi, è stato un pioniere dell’AP, senza che
ne conoscesse nemmeno la denominazione, perché ha
sempre inteso la sua opera di ricercatore al servizio della
società, con una costante attenzione alla comunicazione,
conservazione, valorizzazione e gestione del patrimonio
archeologico.
Una fase importante di sperimentazione di nuove forme
di rapporto con il pubblico si ebbe nella fervida stagione
dell’archeologia urbana negli anni 70-80.
Altro pioniere è stato Gian Pietro Brogiolo, da tempo
molto attivo nel campo dell’AP (ora anche per mezzo
della rivista Post-Classical Archaeologies che a questi
temi ha sempre dedicato ampio spazio), e che già negli
anni Settanta si batteva per il decentramento nel campo
dell’archeologia, per il ruolo dei musei locali e anche dei
volontari e per la partecipazione dal basso delle comunità. Analogo impegno si deve a un altro fondatore e ex
presidente della SAMI, Sauro Gelichi che anche recentemente ha proposto una riflessione sui temi dell’AP.
A G. Vannini e al gruppo dell’Università di Firenze si
deve la prima impostazione di specifici progetti, tra cui
la mostra, la prima interamente ispirata ai principi dell’AP,
‘Da Petra a Shawbak. Archeologia di una frontiera’, in occasione della quale si inaugurò un ‘laboratorio’ di ricerca
e dedicato all’Archeologia Pubblica, il primo workshop
di ‘Archeologia Pubblica in Toscana: un progetto e una
proposta’, tenuto a Firenze nel 2010, cui ha fatto seguito, sempre a Firenze nel 2012, il ‘Primo Congresso di Archeologia Pubblica in Italia’. Uno degli aspetti sempre,
giustamente, sottolineato dal gruppo fiorentino riguarda
l’analisi sociologica del pubblico, o meglio dei pubblici,
senza la quale nessun progetto di Archeologia Pubblica
può avere successo.
Il primo PRIN-Progetto di rilevante interesse nazionale,
finanziato dal MIUR, specificamente dedicato all’Archeologia Pubblica dal titolo Archeologia al futuro. Teoria e
prassi dell’archeologia pubblica per la conoscenza, tutela
e valorizzazione, la partecipazione, la coesione sociale e
lo sviluppo sostenibile, diretto da chi vi parla, vede prevalentemente coinvolte equipe universitarie di archeologia
medievale.
Le prime due tesi di dottorato in Archeologia Pubblica da poco discusse all’Università di Pisa da F. Ripanti
(2019) e all’Università di Padova da F. Benetti (2019)
sono entrambe state seguite da nostri
colleghi medievisti,
rispettivamente E.
Zanini e A. Chavarria.
Numerosi sono
poi i progetti di
AP attivati da vari
gruppi medievistici. Mi limito a citarne
solo alcuni: lo scavo di
Vignale; i vari progetti sardi dei colleghi Milanese, Spanu
e Pinna; i progetti di archeologia dell’età contemporanea
a Altamura (G. De Felice) e a Monforte San Giorgio (E.
Zanini). Particolare rilievo rivestono i progetti di archeologia partecipata coordinati da G.P. Brogiolo e A. Chavarria
e condotti in vari territori dell’Italia nord-orientale, anche
sotto il profilo metodologico, soprattutto perché non si
tratta solo di ‘community archaeology’ ma soprattutto di
‘archaeology for communities’.
L’Archeologia Pubblica italiana dovrebbe, in conclusione, saper individuare un suo percorso autonomo, uscendo definitivamente dall’età dell’innocenza e affrontando
la maturità, con la progettazione di una strategia di ampio
respiro. Dovremmo cioè lavorare alla costruzione di una
via italiana all’AP.
Giuliano Volpe
Archeologia medievale, tarda antichità e
gli studi sulle chiese
Fabrizio Bisonti (Università degli Studi Roma Tre)
Un romanzo della fine degli anni ’70 del secolo scorso, oggi quasi introvabile ma, al tempo, un bestseller, sia
pure a livello nazionale, usciva con il titolo bruciante: Veder l’erba dalla parte delle radici. Si trattava di una ironica
metafora per rappresentare una drammatica esperienza:
quella di Davide Lajolo, già deputato del Partito Comunista Italiano e Direttore per un decennio de L’Unità. Ebbene, l’autore del romanzo autobiografico si trovò – in piena
coscienza – a guardare in faccia la morte, per un infarto
che lo costrinse a sfogliare le pagine della sua vita – immobile in una stanza d’albergo – alla ricerca delle radici.
Penso spesso a quella esperienza drammatica e penso
alla sua metafora, che riconduce, ogni volta, a cercare di
indagare le origini delle cose. E questo anche nella mia
professione di archeologo, di iconografo, di storico del
cristianesimo antico.
E, dunque, se penso alle chiese, corro subito alle strutture incipitarie, ai sensi, alle funzioni, alle tipologie – sfuggenti e/o incomprese – dei più antichi luoghi di culto cristiano.
Per questo mi è sempre risultato utile rileggere un breve
affondo di Romano Penna, indiscusso esperto del tempo
di Paolo, sulle chiese domestiche così come si configuravano alle origini del Cristianesimo1.Qualcuno si preoccuperà per questa retromarcia che dalle chiese primitiva
arriva alle chiese del primo cristianesimo, quando gli edifici di culto si riconfigurano e mostrano le mille funzioni
stratificate su questi luoghi genericamente aggreganti e
polifunzionali. Ma – a mio modo di vedere – senza e aldilà delle astuzie delle competenze e delle conoscenze,
che ho sedimentato nel tempo, occorre scrutare il senso
generale delle chiese, risalendo agli antefatti e ai fatti, alla
preistoria e alla storia di questi luoghi, che costellano il
tempo della tarda antichità e del medioevo.
Non temo, dunque, di tornare a parlare delle “chiese
domestiche”, cioè del raccogliersi dei cristiani dopo la
Pasqua in assemblea o ekklesía all’interno di case private nei vari luoghi di residenza. Ricordiamo che il termi7
ne ekklesía non è mai impiegato nella grecità pagana per
designare un’assemblea religiosa, ma soltanto politica.
L’impiego cristiano del termine deriva dal linguaggio dei
LXX, dove si traduce normalmente l’ebraico qāhāl “moltitudine radunata”, i quali lo impiegano appunto per designare la convocazione o l’adunanza del popolo di Israele
per venerare il suo Dio.
Già per quanto riguarda Gerusalemme si legge che i cristiani “spezzano il pane di casa in casa” (Atti degli Apostoli 2, 46), cioè assumevano il loro pasto cultuale (probabilmente quello eucaristico) in ambito domestico, fuori dal
luogo tradizionalmente sacro del Tempio, peraltro ancora
riservato alla preghiera. Una di queste case poteva ben
essere quella di Maria, madre di Giovanni detto Marco,
dove Pietro si rifugiò dopo la liberazione dal carcere e
dove “si trovava un buon numero di persone raccolte in
preghiera” (Atti degli Apostoli 12, 12). Si può ipotizzare
che anche a Cesarea Marittima la casa di Filippo, uno della cerchia di Stefano, servisse allo stesso scopo.
Questi veloci cenni ci parlano di comunità piccole e
frammentate, per lo più riferite a proprietari di ceti medio-alti. E queste sono le vere e proprie domus ecclesiae.
Possiamo osservare che storicamente quelle esperienze
di piccole chiese domestiche – come è meglio definirle
per evitare confusioni e luoghi comuni – non hanno superato di fatto i primi due secoli.
Quando dal gruppo, dalla comunità, più o meno importante per numero e autorevolezza, si passa al luogo, il
discorso – per gli archeologi – diviene complesso, sfuggente e assai sdrucciolevole. Alle affabulazioni del passato, infatti, si associano, anche ai nostri giorni le scoperte
proposte come scoop, ovvero come primato, affidando a
chiese – per lo più bizantine o appena più antiche – cronologia paleocristiana o addirittura l’etichetta – sempre
attraente per i media – degli edifici cristiani più antichi
dell’impero.
Fermiamoci adesso all’edificio di culto cristiano di Dura
Europos, questo sì molto antico, e riferibile – come pare
sicuro – alla prima metà del III secolo, se prestiamo attenzione alla successione degli eventi, che sigillarono nel
256 la colonia romana2.
Eppure, anche in questo caso, occorre sbarazzarci della definizione domus ecclesiae perché la ristrutturazione
della casa romana comporta un evidente passo avanti,
riguardo all’antico concetto di chiesa domestica, di cui
si diceva in apertura. Il piccolo edificio, infatti, non ha più
niente di estemporaneo, ma già propone un’articolazione,
che coagula, in una unica realtà, i luoghi dell’eucarestia
e del battesimo, quest’ultimo certificato dall’organismovasca e dall’ineludibile programma decorativo.
Ho già avuto modo di disegnare il tracciato che dalle
inafferrabili domus ecclesiae, ingiudicabili, perché senza
alcun arredo e/o decorazione, in quanto sedi occasionali
del culto, conduce a primi embrionali edifici di culto.
Dopo il caso emblematico di Dura Europos, si deve saltare al complesso teodoriano di Aquileia, che propone,
per il tempo dei Costantinidi, una manifestazione monumentale espansa ed esplosa, con tre aule concatenate,
di cui due pavimentate con mosaici, in parte neutrali, in
parte cristiani. Ed anche qui, nella fabbrica genetica, il
battistero è incluso gelosamente entro le aule3.
Eppure anche in questi complessi “balbuzienti”, in
quanto a strutture e a definizione architettonica, è già
possibile indovinare un percorso liturgico, che accompa-
gnava il cristiano dalla sede della scuola del catecumenato, all’ambiente battesimale e/o a quello crismale, sino
all’aula riservata all’eucarestia. Un itinerario, che spiega
e decodifica gli spazi dell’edificio di culto nel frangente
che, dai Costantinidi, arriva al momento bizantino ed oltre. E, parallelamente, l’archeologo deve saper discernere
le funzioni, mettendo a frutto il prezioso giacimento delle
fonti scritte, a cominciare dagli Acta che descrivono le
basiliche di Cirta ancora in età dioclezianea, alla testimonianza di Eusebio per Tiro, a Lattanzio per Nicomedia,
agli Acta del concilio di Elvira per la decorazione delle
chiese, per non parlare del prezioso nel complicato Liber
Pontificalis romano, che apre la discussione, ora sopita
eppur nevralgica per molto tempo, che intreccia le domus
ecclesiae fantasma con le chiese-tituli della capitale4.
Se, con un salto mortale, passiamo dai dati documentari a quelli propriamente archeologici, le chiese sono
state guardate dagli archeologi cristiani come monumenti immersi in un connettivo vuoto e gli studi del passato
prossimo, se saltiamo le valutazioni complessive del passato remoto e un dibattito più sensibile alla considerazione dell’oggetto prezioso e misterioso delle catacombe,
stracolmo di sottoquestioni mai ripulite del tutto da un approccio ipersemantico, approdiamo agli studi esemplari
e implacabili delle chiese romane del Krautheimer5, che
già affianca le valutazioni architettoniche a quelle critiche
delle fonti per Roma, e a quelli, invece più storici e mediamente contestualizzati, del Deichmann per Ravenna6.
Il salto mortale ci accompagna agli anni centrali del secolo scorso e a un dopoguerra ancora toccato dall’attitudine verso le esplorazioni, come suggeriscono quelle
fortunate della necropoli vaticana e, intanto, si affacciava
all’orizzonte la figura monumentale del Marrou7, che concepì l’Antiquité Tardive, mentre in Germania si duplicava
l’idea con la definizione dello Spätantike, già nella testa
del Dölger e in Italia con quella della Tarda Antichità specialmente nel pensiero del Bianchi Bandinelli. I tre titoli non rappresentano altrettante fotocopie di concetti e,
assai spesso, come è intuitivo per quella stagione, l’archeologia, la storia e la storia dell’arte si confondono. Fu
così che l’Antiquitè Tardive di Marrou partorì le ricerche
del Grabar che, muovendosi dai santuari martiriali8, corse
verso l’iconografia cristiana9. Ma Février, Pietri e Duval,
allievi della scuola francese, rispettivamente in maniera
eclettica, storica ed archeologica, concepirono il progetto semplice e rivoluzionario della Topographie Chretienne
per le città della Gallia, preparando lo storico Congresso
Internazionale di Archeologia Cristiana del 198610, che ci
permette di tornare a casa, per approdare alla relazione
sulle cattedrali in Italia, di Testini, Pani Ermini e Cantino
Wataghin11, il quale aprì, già in sede di Congresso, un dibattito, mai completamente sopito, sulla cristianizzazione
della città, ma anche sugli spazi toccati da questo fenomeno e sul difficile rapporto tra i luoghi della morte, del
culto e delle istituzioni.
Una piccola rivoluzione si era innescata e si era espansa
nell’Alto Medioevo quando a Spoleto, proprio negli anni
‘80, una Settimana era stata dedicata alla Cristianizzazione ecclesiastica delle campagne. Si stavano gettando le
basi per una storia della cristianizzazione, che valicava la
barriera tradizionale fissata, fino a quel momento, al pontificato di Gregorio Magno (540-640)12.
La nostra cavalcata mi costringe a rimandare alle fotografie di Philippe Pergola e di Vincenzo Fiocchi Nico8
lai, rispettivamente in occasione del Primo Congresso di
Archeologia Medievale del 199713 e dei Quarant’anni di
Archeologia Medievale del 201414, per ripercorrere il tracciato, forse troppo lento, che ha visto camminare parallelamente un’antica e una giovane disciplina un Antico e
un Nuovo Testamento. I dibattiti, molti confronti, qualche
scontro furono superati da alcune importanti prove generali, come quando, in maniera polifonica, Gelichi e Fiocchi
Nicolai disegnarono la carta dei battisteri e delle chiese
rurali nel 200115, e ancora Fiocchi Nicolai, Cantino Wataghin e Volpe posarono l’attenzione sugli aspetti della
cristianizzazione degli agglomerati secondari nel 200716 e
sempre Fiocchi Nicolai e Sannazaro cercarono i caratteri
e le funzioni dei santuari rurali nel 201217.
Dagli ultimi Congressi Nazionali di Archeologia Cristiana, che già propongono evidenti contatti tra le due
archeologie, catapultiamoci al Congresso Internazionale
romano del 2016, quando Guyon, Baratte, Cantino Wataghin e Heijmans disegnano il quadro della diffusione
del Cristianesimo e delle sue incidenze topografiche sulla
città e le campagne dell’Occidente costantiniano18, riportandoci nel cuore dell’ultima antichità e aprendo la strada
ad alcune relazioni puntuali ed esemplari come quella che
permette ad Ebanista di fare ordine sull’origine del gruppo episcopale partenopeo, lavorando su un monumento
menzionato dal Liber Pontificalis romano e reso irriconoscibile dagli sterri devastanti del passato19. Qui, fonti e
resti monumentali sono guardati in un faccia a faccia serrato, che lascia indovinare una cassetta degli attrezzi della ricerca, che non dimentica l’approccio della tradizione,
ma che apre gli occhi sulle nuove vie dell’interpretazione.
D’altra parte è questo il tempo in cui nessuno guarda più con supponenza e/o indifferenza l’avvento delle
nuove archeologie: dal quella della complessità a quella
globale, da quella pubblica a quella della valorizzazione.
E intanto le operazioni stratigrafiche, ineludibili e sempre
più sofisticate, si intrecciano non solo e non tanto con le
risultanze dell’Archeologia dei Paesaggi e della Produzione, ma anche con quella di una più consapevole Archeologia dell’Architettura.
Proprio di recente, mi è capitato di assistere ad un divertente siparietto, seguito ad una folgorante presentazione che Giovanna Bianchi ci ha donato con poche e
chiare parole sulla basilica della Natività a Betlemme. Ebbene, per una buona mezz’ora si è discussa se la disciplina conosciuta nelle Università come Archeologia dell’Architettura, non potesse forse essere meglio definita come
Archeologia del costruito o degli elevati o di chissà cosa
altro. Quando il dibattito si dimena sulle definizioni vuol
dire che la sostanza è stata metabolizzata.
E significa che l’archeologia delle chiese assume
una fisionomia multiforme, ma riconoscibile da tutti e che
l’ambizioso volume di Chavarria
Arnau, di una
decina di anni orsono, colloca in
un habitat critico
condiviso, anche
se non ecumenico,
pronto a guardare le
chiese con occhio mobile e sguardo lungo, che dalla tarda antichità si proietta su tutto il Medio Evo20.
L’estuario critico dove confluiscono vecchie nuove
esperienze, antichi e innovativi approcci, letture fresche
e tradizionali, può essere riconosciuto nel grande progetto europeo del CARE (Corpus Architecturae Religiosae
Europeae IV-X saec.), che in Italia ha visto l’Università di
Padova come teatro delle prove generali, già nel 2000, di
una schedatura sistematica dell’edilizia ecclesiastica tra il
IV e il X secolo, che dalla Croazia, sta dilagando in Svizzera, in Germania, in Francia, in Spagna, in Inghilterra.
Fabrizio Bisconti
1
R. PENNA, Vangelo e Inculturazione. Studi sul rapporto tra rivelazione e cultura nel Nuovo
Testamento, Cinisello Balsamo 2001.
C. H. KRAELING, The Excavations at Dura-Europos: Final Report VIII, 2. The
Christian Building, New Haven 1967.
F. BISCONTI, L’abside piena, l’abside vuota. Arredi e decorazioni al tempo dei
Costantinidi, in L’officina dello sguardo. Scritti in onore di M. Andaloro, a cura di
G. BORDI I. CARLETTINI, M. L. FOBELLI, M. R. MENNA e P. POGLIANI, Roma
2015, pp. 229-236.
4
N. DUVAL, s.v. Edificio di culto, in Nuovo Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, a cura di A. DI BERARDINO, Genova 2006, coll. 1547-1577.
5
R. KRAUTHEIMER, S. CORBETT, A.K. FRAZER, W. FRANKL, Corpus Basilicarum
Christianarum Romae. Le basiliche critstiane antiche di Roma (sec. 4.-9.), Città del
Vaticano 1937-1977.
6
F. W. DEICHMANN, Ravenna. Hauptstadt des spätantiken Abendlandes, Wiesbaden 1974-1989.
7
H. I. MARROU, Décadence romaine ou antiquité tardive?, Paris 1977.
8
A. GRABAR, Martyrium: recherches sur le culte des reliques et l’art chrétien antique, Paris 1943-1946.
9
A. GRABAR, Les voies de la création en iconographie chrétienne: Antiquité et
Moyen Age, Paris 1979.
10
Actes du XIe Congrès International d’Archéologie Chrétienne (Lyon, Vienne, Grenoble, Genève et Aoste 21-28 septembre 1986), Città del Vaticano 1989.
11
P. TESTINI, G. CANTINO WATAGHIN, L. PANI ERMINI, La cattedrale in Italia,
in Actes du XIe Congrès International d’Archéologie Chrétienne (Lyon, Vienne,
Grenoble, Genève et Aoste 21-28 septembre 1986), Città del Vaticano 1989, pp.
5-232.
12
Cristianizzazione ed organizzazione ecclesiastica delle campagne nell’alto Medioevo: espansione e resistenze, Settimane di Studio del Centro Italiano di Studi
sull’Alto Medioevo, XXVIII (Spoleto 10-16 aprile 1980), Spoleto 1982.
13
P. PERGOLA, Un’archeologia cristiana per il 2000, in Primo Congresso Nazionale
di Archeologia Medievale (Pisa, 29-31 maggio 1997), Firenze 1997, pp. 16-19.
14
V. FIOCCHI NICOLAI, Archeologia Medievale e Archeologia Cristiana: due discipline a confronto, in Archeologia Medievale, Numero Speciale, 2014, pp. 21-31.
15
V. FIOCCHI NICOLAI, S. GELICHI, Battisteri e chiese rurali (IV-VII secolo), in L’edificio battesimale in Italia: aspetti e problemi, Atti dell’VIII Congresso Nazionale di
Archeologia Cristiana (Genova, Sarzana, Albenga, Finale Ligure, Ventimiglia 21-26
settembre 1998), Bordighera 2001, pp. 303-384.
16
G. CANTINO WATAGHIN, V. FIOCCHI NICOLAI, G. VOLPE, Aspetti della cristianizzazione degli agglomerati secondari, in La cristianizzazione in Italia fra tardoantico e altomedioevo, Atti del IX Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana
(Agrigento 20-25 novembre 2004), Palermo 2007, pp. 85-134.
17
V. FIOCCHI NICOLAI, M. SANNAZARO, Santuari rurali: caratteri e funzioni, in
Martiri, santi, patroni: per una archeologia della devozione, Atti del X Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana (Università della Calabria, 15-18 settembre
2012), Cosenza 2012, pp. 199-229.
18
J. GUYON, F. BARATTE, G. CANTINO WATAGHIN, M. HEIJMANS, La diffusion
du Christianisme et ses incidences topographiques sur les villes et les campagnes
de l’Occident constantinien, in Costantino e i costantinidi. L’innovazione costantiniana, le sue radici e i suoi sviluppi, Acta XVI Congressus Internationalis Archaeologiae Christianae ( Romae, 22.-29.9.2013), Città del Vaticano 2016, pp. 3-123.
19
C. EBANISTA, Eodem tempore fecit Constantinus Augustus basilicam in civitatem Neapolim: nuovi dati sull’origine del gruppo episcopale partenopeo, in Costantino e i costantinidi. L’innovazione costantiniana, le sue radici e i suoi sviluppi,
Acta XVI Congressus Internationalis Archaeologiae Christianae ( Romae, 22.29.9.2013), Città del Vaticano 2016, pp. 125-172.
20
A. CHAVARRÍA ARNAU, Archeologia delle chiese: dalle origini all’anno Mille,
Roma 2009.
2
2
9
Coordinamento scientifico: Alexandra Chavarria Arnau
Il progetto si propone di catalogare e analizzare i contesti funerari come evidenza storica di prim’ordine per ricostruire le
caratteristiche fisiche della popolazione tardoantica e altomedievale, e l’organizzazione del popolamento, l’organizzazione
sociale e le scelte ideologico-culturali. Il progetto prevede:
1. la schedatura sistematica dei complessi funerari con una
scheda inserita in un sistema GIS sulla quale vengano registrate le seguenti informazioni; (a) area cimiteriale (dimensioni, limiti, struttura interna, attività che vi si svolgevano oltre a quella
funeraria; (b) struttura e posizione delle tombe; (c) evidenze
di ritualità (modi deposizione, tracce di riti al momento della deposizione e nel tempo); (d) eventuali corredi; (e) modi di
trasmissione della memoria; (f) antropologia e paleopatologia.
2. analisi dei cimiteri utilizzando gli strumenti dell’archeologia
del paesaggio (dal remote sensing allo studio del parcellare
ecc) per capire la distribuzione delle aree funerarie, il loro significato, rapporto con il paesaggio e con gli insediamenti;
3. analisi paleobiologiche (con studio degli isotopi stabili) degli
scheletri di alcuni cimiteri campione, al fine di individuare nuove informazioni sullo stile di vita e i movimenti migratori degli
individui sepolti.
4. analisi antropologiche dei materiali scheletrici.
E’ ONLINE la piattaforma CAMIS GEODATABSE dove sono
state caricate e si possono visualizzare ed interrogare schede
simplificate della schedatura del progetto CAMIS
http://arcmed.lettere.unipd.it/CatMedievale/CAMIS_home.
VIRTUAL RESTORATION EXPERIENCE RICOGNIZIONE ARCHEOLOGIA MADAY
Giuseppe Donvito, Massimo Limoncelli, Maria Potenza, Roberto Rotondo, Giovanni Di Vito, Claudio Donato.
l progetto non ha previsto un restauro materico, ma solo ricostruzioni
virtuali operate a partire
dalle copie digitali delle
decorazioni
pittoriche
superstiti, che vengono
proiettate, tramite un’innovativa tecnica di videomapping, all’interno
dell’ambiente rupestre,
al fine di creare un’esperienza immersiva a diretto contatto con l’originale.
Le proiezioni illustrano non solo gli apparati decorativi nella
loro interezza e al momento della loro creazione, ma anche le
diverse fasi di escavazione del monumento mediante un racconto effettuato solo tramite immagini e musica.
L’intervento, durato 2 anni, ha previsto molteplici fasi di studio grazie al lavoro di diverse professionalità: un rilievo 3D,
una mappatura fotografica a luce normale e UV per cogliere
dettagli non più percepibili a occhio nudo, un’analisi stratigrafica per individuare la sequenza evolutiva della struttura architettonica e una ricerca iconografica per integrare i dipinti più
lacunosi.
http://www.lamadantico.it/it/attivita/virtual-restoration-experience-118.html
Coordinamento scientifico: Vasco La Salvia
Per il secondo anno consecutivo l’Università di Chieti svolgerà una missione di
ricognizione archeologica presso Maday, distretto di Kannur, Kerala (India) coofinanziata dal MAE (Direzione scientifica Prof. V. La Salvia e responsabile Ricognizione e GIS Dr. M. Moderato). Il contesto geo-topografico racconta di una zona
conosciuta attraverso le fonti scritte (tardo-antiche, medievali ed islamiche) come
un’area centrale nella rete dei traffici commerciali trans-oceanici fra Mediterraneo,
Africa Orientale, Penisola Arabica e sub-continente indiano. L’area in oggetto, attualmente vede presente una fiorente comunità multi religiosa (indù, musulmani e
cristiani). La piccola collina di Madayipara, sul quale si trova un fortilizio di epoca
pre-coloniale (voluto dalla famiglia aristocratica dei Kolathiri), domina la cittadina
di Pazhayangadi sulla riva settentrionale del fiume Kuppam, a nord della città di
Kannur, sede amministrativa del Distretto di Kannur in Kerala. Da questa zona
provengono dati ceramici di notevole importanza che confermano come questa
zona almeno a partire dal VI secolo fosse coinvolta in traffici tanto con l’occidente
(specie per le zone dell’attuale Yemen e Iran) e estremo oriente (Cina). Il centro di
Maday sembra essere stato uno dei porti cardine del commercio “malabarico”. La
fondazione mitica del sito viene attribuita dal poema epico Mushikavamsa al re
Vallabha II; il poema viene scritto all’incirca nell’undicesimo secolo e la fondazione
dell’insediamento di piena età medievale potrebbe risalire al secolo precedente; la
presenza tuttavia di forti contatti commerciali e delle comunità religiose ebraiche
e musulmane induce a ipotizzare per lo meno la precoce presenza di un emporio
commerciale. Le ricognizioni non intensive effettuate sulla piana di fronte all’ingresso del forte hanno permesso di valutare in maniera preliminare la cronologia
delle frequentazioni nell’area in questione.
[email protected]
10
PUBBLICAZIONI
PROGETTO CAMIS
di ricerca
PROGETTI
Migrazioni, clan, culture:
archeologia, genetica e
isotopi stabili
Autori: Caterina Giostra (a
cura di)
Anno di stampa: 2019
ISBN: 9788899547363
€40,00
Economia e Territorio:
L’Adriatico centrale tra
tarda Antichità e alto
Medioevo
Autore: Enrico Cirelli,
Enrico Giorgi, Giuseppe
Lepore.
Anno di stampa: 2019
ISBN: 9781407316659
€ 144,97
Ricostruire e narrare.
L’esperienza dei
Musei archeologici
all’aperto
Autori: Marco Valentii
Anno di stampa: 2019
ISBN: 9788872288917
€16,00
L’archeodromo di Poggibonsi
Autori: Marco Valenti
Anno di stampa: 2019
ISBN: 9788872289013
€70,00
Vallio Terme. Paesaggi
e insediamenti dalla
Preistoria a oggi
Autori: Vari
Anno di stampa: 2019
ISBN: 9788885524705
€40,00
Storia di Salò e dintorni.
Infrastrutture, insediamenti, economia.
Autori: Gian Pietro Brogiolo (a cura di)
Anno di stampa: 2019
ISBN: 9788899547356
€58,00
Alle origini della pieve di San Lorenzo.
Storia e archeologia
del costruito e del
contesto
Autori: Enrico Cavada
(a cura di)
Anno di stampa: 2019
ISBN: 9788877024770
€40,00
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La figura di Athena
dall’età antica al tardoantico
Autore:G. Germanà, A.
Giudice (a cura di)
Anno di stampa: 2019
ISBN: 8863182272
€16,00
CALENDARIO
SEMINARIO
7-9 novembre
Università Ca’ Foscari Venezia
IX Seminario Internazionale del Centro
Interuniversitario per la Storia e l’Archeologia dell’Alto Medioevo
La mascolinità nell’alto medioevo:
tradizione e innovazione, 450–1050
http://saame.it/wp-content/uploads/2019/11/borri-2019-11-07-prog.pdf
CONVEGNO
2019
ottobre
22-23 novembre
Edinburgo
Historical Inertia: Continuity in the
Face of Change 500-1500 CE.
3rd Annual Edinburgh International Graduate Conference in Late Antique, Islamic
and Byzantine Studies
https://ernst-herzfeld-gesellschaft.
com/3rd-annual-edinburgh-internationalgraduate-conference-in-late-antiqueislamic-and-byzantine-studies/
novembre
10 dicembre
Thessaloniki, 23-25 april 2020
Postgraduate and early caree conference in medieval archaeology
https://www.fasticongressuum.
com/single-post/2019/08/30/
CALL-15092019-International-conference-of-postgraduate-students-ofHistory-and-Archaeology-Interpretingidentities-in-the-Eastern-Mediterranean-and-the-Black-Sea---Thessaloniki-Greece
CONVEGNO
16-18 dicembre
Londra
TAG (Theoretical Archaeology Group)
2019-Power, Knowledge and the Past
https://www.ucl.ac.uk/archaeology/newsevents/conferences/tag-2019
dicembre
MOSTRA
CALL FOR PAPERS
Aprile 2020
Squillace (CZ)
Kastra, kephalia kai phylakteria. I sistemi di difesa dell’Italia bizantina (secoli
VI - XI)
[email protected]
Novembre 2019-Novembre 2020
MAG-Riva del Garda (Tn)
Il sacro e il quotidiano. II villaggio tardoantico a San Martino ai Campi
A cura di Cristina Dal Rì, Achillina Granata, Nicoletta Pisu
http://www.museoaltogarda.it/it/mostre/
anteprima/exhibits/exhibit/il_sacro_e_il_
quotidiano_ii_villaggio_tardoantico_a_
san_martino_ai_campi/
CONVEGNO
27-29 novembre 2019
Roma, EEHAR-CSIC
Tusculum 25 anni. Scavi e ricerche
della EEHAR
https://www.eehar.csic.es/
CALL FOR PAPERS
eventi
CALL FOR PAPERS
SEMINARIO
12 dicembre
Venezia, Isola di San Servolo
Past and present local communities in
an archaeological perspective
[email protected]
2020
gennaio
febbraio
e ancora...
CONVEGNO
7-8 febbraio
Arezzo
Il paesaggio pietrificato. La storia
sociale dell’Europa tra X e XIII secolo
attraverso l’archeologia del cosrtruito.
[email protected]
Maggio
V Incontro per l’Archeologia Barbarica
Presenze barbariche in Italia e regioni
contermini tra fine IV e V secolo
www.archeologiabarbarica.it
CONVEGNO
CALL FOR PAPERS
27 IRCLAMA Colloquium
29-31 maggio 2020
Liturgical installations and their sculpture (4-15 c.) and a special session:
Elements for the chronology of early
medieval sculpture: monuments dated by
documented criteria and not by style
Deadline: 15 novembre
[email protected]
CONVEGNO
Firenze, 21-23 febbraio
TourismA 2020
In occasione del grande evento TourismA
(Salone di Archeologia e Turismo Culturale) si terranno più sessioni e iniziative
organizzate da membri della SAMI
29 giugno-4 luglio
Larnaca (Cipro)
XXII Coloquio internazionale di Glittografia
Stone stories across europe: study and
valorization of stones’ marks and signs
https://www.facebook.com/TecomaServices/
CONVEGNO
11 giugno
Pisa
“Storie (di) Ceramiche”
Call for papers: inizi 2020
7 novembre
Budapest
EAA 2020-NETWORKING
https://submissions.e-a-a.org/eaa2020/
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CONVEGNO
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La SAMI (Società degli Archeologi Medievisti Italiani), fondata nel 1994 da personalità di primo piano dell’archeologia
medievale e della ricerca in generale, quali
Gianpietro Brogiolo, Riccardo Francovich,
Sauro Gelichi, Tiziano Mannoni, è attualmente composta da oltre 700 membri.
E’ una società priva di scopi di lucro, che
si prefigge la finalità di costituire un punto
di incontro e di confronto tra gli archeologi medievisti italiani, accademici e non,
di studiare le fonti materiali di epoca postclassica e pre-industriale e di promuovere
tutte le iniziative volte all’indagine e alla
valorizzazione del patrimonio archeologico di età medievale sul territorio nazionale.
Benefici:
- Condivisione di interessi per l’archeologia medievale
- Diritto di voto
- Borse di studio per ricerche rilevanti
- Newsletter
- Diritto di presentare relazioni per pubblicazione negli atti dei Congressi SAMI
- Sconto preferenziale sugli atti dei Congressi SAMI
- 20% di sconto sulle pubblicazioni
dell’Insegna del Giglio, Edipuglia, Viella e
SAP
The SAMI (Società degli Archeologi Medievisti Italiani), was founded in 1994 by
prominent personalities of medieval archaeology and research, such as Gianpietro Brogiolo, Riccardo Francovich, Sauro
Gelichi, Tiziano Mannoni, and is currently
composed of over 700 members.
It is non-profit society, with the aim of
furthering exchange between Italian medieval archaeologists, both academic and
non-academic, in the study of post-classical and pre-industrial material culture,
and promoting all initiatives aimed at the
enhancement of the heritage of the Middle
Ages in Italy.
Benefits:
- Sharing of interests in medieval archaeology
- The right to vote
- Research grants for significant projects
- Newsletter
- The right to present articles for publication in the SAMI Congress volumes
- Preferential discount for the SAMI Congress volumes
- 20% discount on all publications by the
Insegna del Giglio, Edipuglia, Viella and
SAP
http://archeologiamedievale.unisi.it/sami/societa
https: www.facebook.com/SamiDirettivo/
Per inviare informazioni utili da inserire nella prossima newsletter scrivere a:
[email protected]
Per nuove iscrizioni/for new subscriptions: http://archeologiamedievale.unisi.it/sami/iscrizionealla-sami
ALTRE SOCIETA’ DI ARCHEOLOGIA MEDIEVALE IN EUROPA
Society of Medieval Archaeology
https://medievalarchaeology.co.uk/
Association française d’archéologie mérovingienne
https://www.afamassociation.fr/
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SAMI
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