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Editoriale

2019, SAMI NEWSLETTER 4

NEWSLETTER 4 NEWS LETTER AUTUNNO 2019 SAMI Società degli Archeologi Medievisti Italiani 1. EDITORIAL 2. CONVEGNO SAMI 3. PROGETTI 4. PUBBLICAZIONI 5. CALENDARIO 6. LA SAMI Quello appena trascorso è stato un ottobre particolarmente interessante e stimolante. Il convegno per celebrare il ‘compleanno’ della SAMI, tenutosi a Palazzo Massimo a Roma, è stato di enorme successo, per cui di seguito pubblichiamo le sintesi che ci sono pervenute nel tempo giusto per questa edizione della Newsletter. C’è stata una grande partecipazione di persone (ed alcune nuove iscrizioni alla Società), sia durante le relazioni aperte al pubblico nella mattinata, sia all’assemblea dei soci tenutasi nel pomeriggio. I nostri primi venticinque anni hanno visto nascere e crescere l’archeologia medievale in Italia e nel Mediterraneo, anche grazie alla SAMI che, così è diventata leader nello sviluppo scientifico dell’archeologia e nel coinvolgimento del pubblico. Purtroppo, alcune delle relazioni tenutesi a Roma hanno rilevato che il MIBAC (ora MIBACT) non è stato così innovativo e onnicomprensivo come, invece, permette la legge in gran parte del resto dell’Europa, dove la cultura è spesso più orientata verso la ricerca ed i conseguenti benefici per il grande pubblico, piuttosto che verso gli interessi di gruppi ristretti. Nel pomeriggio, l’assemblea ha votato all’unanimità alcune proposte che dovrebbero consentire un’adesione più aperta alla SAMI, in modo da rendere l’archeologia sempre più di interesse comune e di pubblica utilità. Perciò, l’anno prossimo dovremmo effettuare alcuni significativi cambiamenti. Mi fa piacere ricordare che il successo del convegno di Roma è stato in gran parte dovuto all’ospitalità del Museo Nazionale Romano e di Mirella Serlorenzi, nonché alle capacità organizzative di Vasco la Salvia. Sul fronte strettamente accademico, ottobre si è chiuso con una serie di convegni. A Bologna si è svolto il Convegno Internazionale “Abitare nel Mediterraneo tardoantico” (28-31 ottobre), organizzato dal Centro Interuniversitario di Studi sull’edilizia abitativa tardoantica nel Mediterraneo, al quale non ho potuto partecipare. Invece, ho partecipato al “Congrèss Perchement et réalités fortifiées en Méditerranée et en Europe (Vème-Xème siècles) – Formes, rythmes, fonctions et acteurs” tenutosi a Roquebrune-sur-Argens in Francia (20-25 ottobre), organizzato da Philippe Pergola ed i suoi collaboratori. È chiaro che i secoli tra la fine dell’Impero Romano in occidente e l’anno 1000, caratterizzata dalla comparsa di una pletora di siti fortificati, rappresentano una delle più importanti aree di ricerca in questo momento. Tra i temi principali esaminati vi sono state la Guerra greco-gotica di Giustiniano e la successiva espansione dei longobardi e di altri popoli in aree di ex dominio romano. È un peccato che, in contemporanea al congresso a Roquebrune, si sia tenuto un altro congresso con un tema simile (“L’eredità di Giustiniano: l’ultima guerra dell’Italia romana” 23-24 ottobre), organizzato da Hendrik Dey e Fabrizio Oppedisano alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Ovviamente, questo significa che ci deve essere più coordinamento fra gli studiosi. In effetti, uno dei ruoli principali della SAMI deve essere quello di riunire tutti gli specialisti, anche e forse soprattutto se hanno opinioni diverse. Solo attraverso la comunicazione e il confronto possiamo condurre e valorizzare i nostri interessi e studi nel terzo millennio. Dobbiamo rompere le barriere ed incoraggiare lo scambio intelligente di idee per ricostruire una storia italiana, europea e mondiale, sempre più convincente. Questo è uno degli obiettivi principali della nostra società. Paul Arthur 1 metodologici, in parte offerti dall’informatica. Nel contempo, però, l’archeologia medievale restava una disciplina fortemente ancorata ad alcuni specifici tematismi (città, castelli, monasteri etc.) e, soprattutto, tendeva a focalizzare i propri interessi sull’alto-medioevo (quando non la Tarda Antichità). Sul versante culturale, invece, l’ambizione dei fondatori e i loro obbiettivi si muovevano secondo una sottintesa strategia che contava su un’alleanza con i professionisti (in quel periodo le Ditte archeologiche, sorte negli anni ’80, si erano ormai consolidate), di riuscire ad istituire un rapporto diretto e paritetico con il MIBACT (forse questa l’ingenuità maggiore), infine di costruire una relazione stabile e proficua con il volontariato locale. Non a caso la SAMI nacque non come un organismo accademico (e questo aspetto ci venne quasi immediatamente rimproverato dai colleghi archeologi classici che, invece, fondarono di lì a poco la Consulta per l’Archeologia Classica), ma come uno spazio dove potessero confluire le varie anime che, in sedi ed Istituzioni diverse, avevano favorito o favorivano la crescita della disciplina. Che cosa è successo (se qualcosa è successo) nei venticinque anni che ci separano dalla Fondazione della SAMI ad oggi? Molto, ma certo non nella direzione che almeno i fondatori di quella Società auspicavano. Sul versante universitario sono sicuramente aumentate le sedi dove si insegna archeologia medievale e, di converso, anche gli insegnamenti hanno registrato un incremento, non sempre però nella direzione che molti di noi auspicavano. Ci sarebbe da tornare a riflettere, ad esempio, sui risultati portati dall’accorpamento tra SSD come quello dell’Archeologia medievale e dell’Archeologia Cristiana. Un accorpamento che è sembrato quasi naturale, vista la contiguità cronologica tra le due discipline, ma che ha solo lievemente scalfito le reciproche e rigide tradizioni accademiche e comunque non ha aiutato a produrre quella naturale transizione verso la formulazione di un’archeologia della post antichità unitaria e al passo con i tempi. Anche il sistema di reclutamento (ma qui il discorso vale per tutti i SSD) non ha prodotto i risultati sperati. Anzi (e c’era da prevederlo) questo sistema ha spostato sempre di più le decisioni verso le logiche corporativistiche dei singoli Atenei. Il rafforzamento degli organici degli Istituti di Tutela, poi, ha conosciuto momenti diversi, fra stasi (lunghe) e improvvise impennate (l’ultimo concorso per archeologi). Per quanto ritenga che una buona Tutela non passi da un aumento a dismisura degli organici (un leit motif che si sente evocato di frequente da parte dei difensori dello status quo), anche le stesse modalità con le quali si opera questo reclutamento sono rivelatrici e sintomatiche di come il Ministero immagini la figura del funzionario: un reclutamento che prevede una centralità ancora nella conoscenza della disciplina e non, piuttosto, nella verifica delle capacità gestionali ed organizzative del candidato. Il dettato che orienta questa scelta è ben chiaro e risiede, peraltro, nelle politiche delle ultime Direzioni Generali del Ministero, sempre più orientate all’autoreferenzialità (nella scelta e nella conduzione della ricerca). L’evoluzione del MIBACT, dunque, costituisce indiscutibilmente il punto maggiormente critico della nostra riflessione, perché è attraverso il Ministero che passa la ricerca (in termini anche autorizzativi). Naturalmente esso meriterebbe ben più spazio di quello che siamo costretti a dedicargli in questa circostanza. Semplificando, potremmo Per i 25 anni della SAMI: riflessioni dalla fondazione a oggi Sauro Gelichi (Università Ca’ Foscari Venezia) Forse qualcuno ricorderà che la SAMI venne fondata nel 1994, a venti anni di distanza esatti dalla nascita della Rivista Archeologia Medievale (1974). Le ricorrenze non sono mai casuali. Del resto i fondatori della SAMI erano stati, almeno in parte, gli ideatori di quella rivista (Riccardo Francovich e Tiziano Mannoni) e gli altri due fondatori (io e Gianpietro Brogiolo) eravamo entrati nella Rivista, anche se in momenti diversi, piuttosto precocemente. Dire dunque che la SAMI nasce come una costola di Archeologia Medievale corrisponde, credo sembra ombra di dubbio, alla verità. Tuttavia (è necessario aggiungere) la SAMI nasce soprattutto da una prospettiva maturata all’interno del fermento movimentista che animava Riccardo Francovich, in quegli anni ancora interessato a dare una fisionomia e uno sbocco ad una disciplina che stava lentamente cambiando pelle. L’archeologia medievale che si identificava nell’omonima rivista (al di là dei nuovi arrivi e delle dolorose dipartite che nel tempo che ne avevano contrassegnato le vicende) era ancora quella che aveva trovato una sua struttura programmatica proprio nei primi anni ’70 del secolo scorso e che si può sinteticamente riassumere in: una forte adesione ai dettati del marxismo e dunque un’attenzione specifica alla ‘cultura materiale’ (concetti esplicitati nell’editoriale del I numero della rivista, dove forte è l’influenza dei geografi storici liguri, in particolare di Massimo Quaini); una sintonia quasi perfetta (altra interessante e non casuale coincidenza) con il turbolento ‘enfant terrible’ dell’invero sonnolenta tradizione dell’archeologia classica italiana (Andrea Carandini); l’identificazione nel metodo (stratigrafico), recuperato in quegli anni, lo strumento principale della ricerca sul campo. Questo ‘fervore’ dell’ambiente accademico si accompagnava, sempre in quel periodo, ad una situazione politica che vedeva in campo forze sociali eredi delle principali tradizioni politiche post belliche (la liberale, la cristiana e la socialista) ancora particolarmente attive (e motivate) nel tentare di avviare il Paese verso quel completo cambiamento, sociale e culturale, che la modernità richiedeva. In questo frangente l’istituzione delle Regioni e del Ministero per i Beni Culturali e l’Ambiente avevano costituito due passaggi molto promettenti, perché riconoscevano nel decentramento (le Regioni appunto) e nel riconoscimento di una specificità del patrimonio culturale (il nuovo Ministero), i loro punti di forza. Passaggi promettenti che, tuttavia, non hanno avuto gli esisti sperati. Nel 1994, al momento della fondazione della SAMI, la situazione si stava evolvendo, sia sul piano scientifico che su quello politico culturale. Sul versante scientifico, la disciplina si stava lentamente riaggiornando, abbandonando le apodittiche posizione degli anni ’70 e tentando proficui spazi di interscambio e contaminazione con altre tradizioni disciplinari vicine. Inoltre, si approfondiva e sviluppava il rapporto con gli architetti restauratori e si cominciavano ad utilizzare, in maniera sempre più massiccia, i nuovi strumenti teorici e 2 dire che abbiamo assistito a due specifici indirizzi: da una parte una serie, abbastanza serrata, di riforme e pseudo riforme, che hanno smembrato, accorpato, ri-smembrato e ri-accorpato istituti e funzioni, lasciando giustamente interdetti i fruitori (i cittadini) ma anche gli stessi funzionari, costretti a muoversi in dedali di circolari (piuttosto che riscrivere la legge, si emanano circolari applicative spesso di dubbio valore giuridico). Dall’altra si è assistito ad un tentativo, neppure troppo nascosto, di avocare al Ministero (meglio alle strutture burocratiche del Ministero) le funzioni della ricerca, distorcendo il dettato originario della Legge 1089 (che di fatto costituisce, con qualche tolettatura lessicale, ancora il testo vigente) nonché il dettato costituzionale. I risultati sono sotto occhi di tutti. Non da ora siamo convinti che una buona riforma passi attraverso una riscrittura completa ed aggiornata della legge di tutela, anche se siamo nello stesso tempo consapevoli che questo difficilmente potrà avvenire (e infatti non è avvenuto) perché una nuova legge andrebbe sicuramente a ledere consolidati interessi e privilegi. In questa situazione l’archeologia professionale, uno dei risultati più importanti della rivoluzione degli anni ’70, dopo un periodo di espansione ha subito una battuta d’arresto, una decina di anni fa. Anche qui le ragioni di tale flessione sono molteplici, ma indiscutibilmente l’archeologia professionale paga soprattutto l’assenza di uno specifico stato giuridico e l’impossibilità di muoversi su un mercato che non è libero. La competizione quasi non esiste oppure si basa su principi che poco hanno a che vedere con la qualità della ricerca. Resta poi la circostanza che le Università non hanno fatto quasi nulla per ri-aggiornare la propria agenda formativa e dunque gli archeologi patentati usciti dagli Atenei non sempre sono in possesso di indiscusse competenze gestionali ed operative necessarie per condurre cantieri di scavo o ricerche sul campo. La SAMI si è mossa in questo contesto secondo alcune coordinate inaugurate fin dagli esordi (ad esempio i Congressi ogni tre anni), ha iniziato una collana di manuali che però è ferma da tempo, ha promosso (devo dire con successo) una collana che premia i migliori testi di giovani ricercatori (Premio Ottone d’Assia e Riccardo Francovich), ha inaugurato una stagione di premi per il migliore Museo/Parco Archeologico; infine, dal 2019, ha iniziato una newsletter che, ad oggi, esce con regolarità. Tuttavia le politiche che la Società ha perseguito in questi anni, pur condivisibili, hanno perso nel tempo il loro smalto originario, e certo non per demerito dei Presidenti né dei Soci, quanto perché il panorama nazionale stava lentamente cambiando. Sul piano scientifico l’archeologia medievale si trova oggi a dover prefigurare uno specifico disciplinare che identifica la sua ragion d’essere in uno spazio multidisciplinare. In questo spazio, cerca di far convivere la tradizione di una disciplina che resta ancora d’impianto fortemente storico-culturale con le sollecitazioni che le derivano da ricerche sempre più contestuali, con un impianto decisamente socio-antropologico e con una presenza determinante degli approcci che ci derivano dalla scienze biologiche (senza considerare tutta la componente legata allo sviluppo dell’informatica). Questa convinta adesione ad amplificare il tessuto connettivo delle fonti disponibili non sempre conduce l’archeologia medievale al di fuori dei ‘canoni’ tradizionali ma, certamente, intro- duce in essa elementi di disagio, spinte verso l’adesione ad una multiperiodalità all’interno della quale è solo il progetto che conta (più che la specificità disciplinare). Un fermento che potrebbe anche risultare utile se, nel contempo, l’archeologia medievale non si trovasse a convivere con altri settori disciplinari, più impermeabili al cambiamento, meno disponibili al dialogo. E se si trovasse a dialogare con una società civile che sembra sempre meno interessata al passato (non solo quello medievale) e con strutture di tutela sempre più avviate verso un infruttuoso solipsismo. Sauro Gelichi Perché abbiamo ancora bisogno della SAMI Gian Pietro Brogiolo (gia Università di Padova) Nell’attuale archeologia italiana, nella quale si confrontano Università, MiBACT e organizzazioni professionali, la SAMI costituisce il solo organismo nazionale nel quale i tre gruppi si possono ritrovare, evitando in tal modo un’autoreferenzialità sempre più corporativa. L’auspicio è che, in questa sede, si discuta di approcci, regole, principi e ruoli, aprendosi alla società, come era nell’intenzione dei fondatori. 1. Approcci Nella disciplina archeologica differenti approcci, metodi, strumenti si sono progressivamente aggiunti, arrivando a definire più archeologie che convivono oggi nell’accademia come nelle soprintendenze: archeologia delle COSE (archeologia storico artistica, soprattutto in ambito classico), delle SEQUENZE (archeologia stratigrafica, prevalente nell’archeologia di emergenza), dell’AMBIENTE e degli INDIVIDUI (grazie alle bioarcheologiche e alle analisi ambientali), dei PAESAGGI (affrontata in una prospettiva diacronica, sistemica e transdisciplinare). Tutte queste tendenze possono essere declinate a differenti scale, ma è soprattutto la complessità sistemica (che si propone una ricostruzione dell’evoluzione delle comunità storiche) ad intavolare con le comunità locali un dibattito alla pari di archeologia partecipativa dai risvolti economici e sociali. Una prospettiva che richiede peraltro la libertà della ricerca sul territorio, attualmente fortemente condizionata. Una pluralità di acheologie che cercano una legittimazione (e un ruolo sociale), in un quadro legislativo e normativo profondamente cambiato negli ultimi anni. 3 mercato del lavoro? E con quale offerta formativa: un percorso indifferenziato, come l’attuale (laurea triennale, magistrale, specializzazione, dottorato, ulteriori scuole del patrimonio) che produce quarantenni alla ricerca disperata di un lavoro, o differenti a seconda della professione desiderata? Una formazione basata sulle lezioni ex cattedra o sulla partecipazione a progetti di ricerca, aperta al longlife learning, con specifici corsi di aggiornamento per professionali e appassionati? Quale sistema di selezione dei docenti, per cooptazione dei più fedeli o a seguito di una carriera per merito, costruita in più sedi e non nella medesima all’ombra e al servizio di un singolo docente? Con quali modalità di valutazione, considerata la perversione dell’attuale (graduatorie di riviste inattendibili; contributi costruiti in serie, corretti ma vuoti di contenuto, inviati a raffica a più riviste; punteggi assegnati dunque per categorie formali e non per il valore)? E dunque con quale sistema di reclutamento, considerato che le abilitazioni nazionali non sono spesso servite a mettere in cattedra i migliori, in quanto le assunzioni sono state decise dalle singole università sulla base di altri criteri? 2. Leggi e regole La riforma del 2016 ha introdotto la Soprintendenza unica, ispirandosi ad una concezione unitaria del patrimonio storico. Ha dunque ampliato il campo di gioco, obbligando gli archeologi a misurarsi con le esigenze di altri elementi del patrimonio. È stata peraltro una riforma del solo ministero, senza intervenire sulla questione chiave del ruolo dell’archeologia in una società profondamente diversa rispetto a quella del 2004, quando è stato emanato di Codice per i Beni Culturali. Forse è questo il motivo per cui anche i medievisti, nonostante fossero da sempre abituati ad una concezione concezione unitaria dei Beni Culturali (non a caso hanno sviluppato, accanto a quella stratigrafica, un’archeologia delle architetture e dei paesaggi), si sono divisi nel giudizio. Ancor più acceso è il dibattito in corso sul quadro normativo che ha visto, proprio quest’anno, ben tre interventi (le due circolari dell’ex direttore generale Famiglietti tra gennaio e febbrario e la prescrizione in calce alle concessioni di scavi rilasciate lo scorso mese da chi l’ha sostituito). Interventi che hanno suscitato una decisa presa di posizione della consulta universitaria e un’attenzione anche della SAMI. Come uscire da questa situazione? Credo che, a questo punto, oltre alla ratifica della convenzione di FARO, sia necessario un intervento legislativo che riconsideri le esigenze della ricerca. In tale prospettiva è urgente avviare una discussione che non può essere esclusiva del singolo gruppo corporativo e sulla quale la SAMI dovrebbe essere in prima linea, a sostegno di principi non negoziabili in quanto assicurati dalla Costituzione. 5. Quale futuro per l’archeologia italiana? Riserva di caccia e di scontro di gruppi sindacalizzati e interessati al proprio particulare? O aperta alla società che da semplice fruitrice deve essere coinvolta nella ricerca affinchè l’archeologia torni ad essere, come è stata in alcune regioni fino agli anni 70 del secolo scorso, un’attività praticata in continuità e integrata nelle scelte di pianificazione e di trasformazione del territorio? Il che significa anche reimpostare dal basso un impegno sociale, accogliendo la preoccupazione di fronte alla distruzione degli ecosistemi e ai cambiamenti climatici. Rinunciando ad un uso politico della storia imposto dall’alto (assunto in Italia in passato, ma ancora ben presente in molte nazioni, anche europee), come archelogi possiamo contribuire attraverso la studio delle COMUNITA’ LOCALI, eredi di un passato che, pur in un susseguirsi di calamità naturali, carestie, pestilenze e guerre, nella lunga durata è risultato alla fine SOSTENIBILE. 3. Quali principi riteniamo fondamentali e non negoziabili? La ricerca non invasiva (quella che non modifica la condizione del bene archeologico) deve essere libera, sottratta al doppio regime di concessione (previsto dalla legge ed ora sottoposto a vincoli assai stretti) o di autorizzazione (imposto dalle circolari MiBACT), il che significa poter utilizzare tutti gli strumenti (dai droni alle prospezioni geofisiche), necessari, di volta in volta, per le ricerche. In secondo luogo non deve essere condizionata la libertà di rendere pubbliche le informazioni (scritte o per immagini) raccolte da uno studioso sia con ricerche non invasive, sia con scavi in concessione, senza dover chiedere autorizzazioni o assensi. In una riforma legislativa, si dovrebbero altresì ripensare il ruolo dell’archeologia a partire dalle istituzioni (MiBACT, Regioni, Università, Enti locali) e dai gruppi professionali ma aperto anche al volontariato locale. Saranno i giovani, interessati alla difesa del pianeta, a decidere il futuro dell’archeologia? Non lo so, ma con loro dobbiamo dialogare per sopravvivere come archeologi e il tema della sostenibilità può garantirci un lasciapassare, consentendoci altresì di uscire dalla crisi delle discipline che studiano il nostro passato. È questo l’auspicio di chi ha preso coscienza che il futuro dell’archeologia dipende dalla capacità di reinventarsi in relazione ai cambiamenti in atto, sempre più rapidi e radicali. Tra questi, Cornelius Holtorf (svedese come Greta Thunberg: sarà un caso o sono entrambi espressione di una cultura impegnata nella difesa del pianeta?): oltre a discutere del ruolo del patrimonio e del contributo degli archeologi di fronte alle 4. Quali ruoli mmaginiamo per le istituzioni? MiBACT: deve continuare ad essere un istituto di ricerca o uno strumento della tutela e della valorizzazione? Deve proseguire ad assumere funzionari-ricercatori, come oggi sulla base dell’apertura dei concorsi a chi ha un dottorato, o manager della tutela e della valorizzazione formati con scuole di specializzazione organizzate a scala nazionale e con numero programmato sulla base dei posti disponibili nel MiBACT e negli enti locali? Ancora più complesse le domande che deve porsi l’UNIVERSITA’: oggi moltiplicatrice autoreferenziale di corsi di laurea aperti e postlaurea chiusi. Deve essere libera di svilupparsi per decisione dei singoli istituti o in base ad una programmazione nazionale che tenga conto del 4 sfide sociali odierne, ci invita a riflettere su un’archeologia a lungo termine, rivolta al futuro e in grado di agire consapevolmente per il bene delle prossime generazioni. Utopia? Forse, ma senza sogni non si costruisce il futuro, come ci insegna Massiliano Valerii nel suo interessante saggio (La notte di un’epoca). Un futuro nel quale anche la SAMI può continuare ad esercitare un ruolo di primo piano. difficile significa conoscenza lacunosa. Si usa spesso dire che il primo livello di difesa territoriale del nostro patrimonio archeologico sono le soprintendenze, che possiamo considerare nel loro potenziale ruolo di avamposto di difesa contro speculazioni, consumo del suolo, abusivismo, cementificazione, distruzione. Questo è vero solo in parte. Perché se è vero che i provvedimenti di tutela portano tutti una firma che parte da quella del funzionario territoriale, è vero pure che nei contesti operativi l’archeologo che osserva, controlla, sorveglia, e quindi tutela, non è quasi mai un archeologo dello Stato, ma un professionista libero o inquadrato in una forma di lavoro societario o cooperativo. Comunque, un professionista. Ed è quella la vera prima linea di difesa e di tutela del patrimonio. Le battaglie che l’Associazione Nazionale Archeologi conduce da anni per tutelare la figura professionale dell’archeologo, poiché viviamo in un settore profondamente competitivo e anche moderatamente astioso, sono a volte state rivendute come “difesa di corporazione”, “lobbismo”, e simili. Ma la verità è che difendere i professionisti, difendere il loro potere di contrattazione nei confronti del datore di lavoro, difendere il loro ambito di intervento specificando cosa fa e cosa non fa un archeologo, difendere i diritti di chi lavora in regime di lavoro autonomo e innalzare istanze che si chiamano “genitorialità”, “indennità di malattia”, “indennità di infortunio”, etc…, non è affatto difesa corporativa: è piuttosto la difesa della prima linea reale di tutela che nel nostro paese ogni giorno sui cantieri, negli studi di progettazione, ma anche nelle istituzioni, etc…, scende in campo per difendere i nostri beni comuni. “Più tutele per chi tutela” è un motto che dovrebbe diventare un auspicio per chiunque abbia a cuore il nostro patrimonio. Per tutto quanto finora scritto, per le difficoltà generiche dei professionisti nello svolgere il proprio lavoro, e per le difficoltà che si aggiungono alle esigenze di tutela quando l’oggetto da tutelare non appartiene ad un contesto classico, occorre allora fare una riflessione che investe il campo delle archeologie post-classiche in senso ampio. Dal momento che spesso la tutela archeologica procede a partire dal rinvenimento di strutture o parti di esse il cui valore è immediatamente comprensibile (come già detto) tanto per chi scava (l’archeologo) quanto per chi realizza un’opera e deve terminare velocemente, è innegabile che per alcuni fenomeni tipici dell’archeologia post-classica spesso il post-classico semplicemente sfugge alle maglie della tutela per la sua intrinseca evanescenza (ed è questo un fenomeno che ovviamente riguarda anche i contesti pre-classici, in particolare quelli preistorici). Questa è una realtà con la quale deve fare i conti chi studia il post-classico a partire dal dato materiale, e ancora di più chi nel post-classico si ostina ad indagare contesti come quelli rurali, che sono il massimo dell’evanescenza. Oggi, come detto, la situazione è in miglioramento, ma la perdita di informazioni dagli scavi del passato è un elemento da tenere in considerazione per chiunque si occupi di ricostruzione di contesti e paesaggi post-classici. La mancanza di dati da un contesto deve quindi essere di volta in volta oggetto di considerazione critica partendo, con onestà, dall’analisi della qualità delle indagini pregresse. Nel 2014 la rivista Archeologia Medievale ha pubblicato un volume speciale dedicato ai 40 anni della rivista, e per estensione a quarant’anni di ricerca e di espansione delle discipline post-classiche in Italia. Quando l’accade- Gian Pietro Brogiolo La professione e l’archeologia post-classica in Italia Alessandro Garrisi (ANA) Per sviluppare un ragionamento utile ad inquadrare il rapporto tra professione e archeologia (o archeologie) post-classica in Italia, è inevitabile entrare nel dettaglio delle questioni professionali degli archeologi italiani, anche alla luce delle recenti normative (come il D.M. 244/2019) che ne muteranno alcuni aspetti. In Italia si tende dividere le archeologie per fasce cronologiche (preistorica, protostorica, classica, post-classica, medievale, post-medievale) prima che per classi culturali (classica – di nuovo, cristiana, bizantina, islamica). È storicamente netta la prevalenza nel paese di archeologi che si formano in area classica, anche se negli anni l’ampliamento dell’offerta didattica verso settori scientificodisciplinari diversi ha modificato i rapporti tra le diverse specializzazioni degli archeologi. In particolar modo negli ultimi decenni c’è stata una fase di crescita (forse già in fase di arresto) di archeologi genericamente identificati come “medievisti”, variamente afferenti alle diverse discipline che compongono le archeologie post-classiche. Se tra gli archeologi quindi la consapevolezza del valore del post-classico è una realtà consolidata, il processo di penetrazione della medesima consapevolezza nel pubblico più vasto procede invece più lentamente (o, per i più pessimisti, non procede affatto). Una delle principali difficoltà che incontra l’archeologo che lavora nelle centinaia di scavi programmati, di emergenza, nelle assistenze varie alla realizzazione di nuovi manufatti, è quella di garantire la tutela del patrimonio imponendo la propria volontà nel fermare o rallentare i lavori (il che per le ditte esecutrici significa aumento dei costi) a fronte di un ritrovamento il cui valore non è per tutti immediatamente percettibile. Di fronte a una bella strada basolata, è facile far capire al capo cantiere la necessità del fermo dei lavori. Ma di fronte alle povere rimanenze di un ovile medievale, oltre alla capacità (e alla sensibilità) dell’archeologo di riconoscerne il valore di conoscenza, l’esito della richiesta di fermare i lavori è tutt’altro che scontata. Questo, che in apparenza è un elemento di colore, in realtà è un grave problema di tutela per tutto il patrimonio post-classico: sebbene la situazione sia in progressivo miglioramento anno dopo anno, non è esagerato dire che se la tutela è il primo passo verso la conoscenza, tutela 5 con quali progetti? A essere in crisi è in definitiva un modello costruito tra Otto e Novecento, che, pur rappresentando una tradizione gloriosa, e nonostante le profonde trasformazioni e innovazioni degli ultimi decenni, rischia di non essere più in grado di rispondere alle sfide del futuro, se non saprà rinnovarsi. In Italia la distanza tra archeologi e società è andata progressivamente crescendo. Gli addetti ai lavori si sentono ‘accerchiati’ da una maggioranza sentita come potenzialmente ostile. Basti considerare le polemiche, anche di questi giorni, contro le associazioni di volontariato. La Convenzione della Valletta, nata nel contesto della giusta rivendicazione della professione dell’archeologo, ha rappresentato un traguardo importante, anche se ormai è un po’ ‘datata’ in alcuni suoi aspetti e andrebbe rivista anche alla luce di altre Convenzioni europee (in particolare la Convenzione di Faro). Soprattutto è stata ultimamente interpretata in maniera eccessivamente burocratica e restrittiva, tanto da produrre circolari ministeriali che, ad esempio, vietano ogni forma di partecipazione agli scavi di volontari (che ovviamente devono sempre operare sotto la direzione e il controllo di specialisti), limitano alcune forme di educazione e sensibilizzazione rivolte al pubblico e contrastano fortemente le attività scientifiche e didattiche delle università. Molto lavoro resta ancora da fare per riconoscere pienamente la professione dell’archeologo, per garantirne un riconoscimento sociale, per migliorare la formazione universitaria e permanente. Purtroppo, l’ancora grave mancanza di lavoro (e la prevalenza del lavoro precario, poco garantito e spesso sottopagato) nel settore dell’archeologia, e più in generale dei Beni culturali, provoca non solo una diffusa insoddisfazione e un clima di incertezza, ma sollecita anche diffidenze e rancori e provoca chiusure, oltre a favorire una grave contrapposizione verso le associazioni di volontariato. Effettivamente, in una situazione caotica, nell’ancora mancata definizione delle figure professionali dei Beni culturali e dei relativi requisiti, il volontariato rischia di essere, o almeno di apparire, sostitutivo del lavoro professionale e non, come invece dovrebbe essere, integrativo e di supporto. Non bisogna nascondere – e anzi bisogna denunciare – un uso spesso improprio del volontariato. Ma ritengo che sia un clamoroso errore contestare le associazioni di volontariato, che a livello nazionale e locale, svolgono una funzione straordinariamente importante per sensibilizzare la cittadinanza attiva, la classe politica e l’intera opinione pubblica ai temi del patrimonio culturale, in tal modo contribuendo non solo alla sua conoscenza, tutela e valorizzazione ma anche alla creazione di migliori condizioni per sviluppare lo stesso lavoro nel campo della cultura. Non entro qui nel merito di che cosa si debba intendere per AP, ma mi preme sottolineare che non può essere identificata riduttivamente solo con la comunicazionedivulgazione o con la sacrosanta apertura dei cantieri di scavo: insomma progettare e organizzare una serie di attività con i cittadini e fare una buona comunicazione non basta per fare AP, che ha obiettivi molto più ampi, estesi ai temi del lavoro, della professione, della libertà di ricerca e del libero accesso e libera circolazione dei dati, dell’economia, dello sviluppo sostenibile, della politica. Sul rapporto tra AP e Medioevo G. Vannini, M. Nucciotti e C. Bonacchi hanno già pubblicato un contributo per il fascicolo del quarantennale di ‘Archeologia Medievale’, al mia, anche di recente, ha indagato il tema dello sviluppo dell’archeologia medievale in Italia, al di là delle argomentazioni teoriche sulla periodizzazione, la separazione cronologica, la globalità e la complessità, che non sono oggetto di questo intervento, è (ri)emersa una sorta di amarezza sulla considerazione in cui l’archeologia medievale è tenuta nella tutela. Da presidente di un’associazione professionale trovo però curioso che non ci si sia posto pubblicamente il problema per esempio della formazione del professionista che poi a fare la tutela ci va davvero. Se consideriamo gli archeologi in Italia, secondo dati statistici che per una serie di validi motivi sono approssimativi, ma comunque genericamente affidabili, circa il 20% dei laureati (un dato probabilmente per eccesso) trova lavoro nell’accademia (università, enti di ricerca) e nel settore pubblico della tutela (Ministero, enti locali) mentre il restante 80% è costretto a trovare altre strade (professionismo, musei, terzo settore) con un alto tasso di abbandono già entro i primi 10 anni dalla laurea. Nasce quindi un sospetto: in Italia il 20% dei futuri archeologi riceve una formazione adeguata, utile e professionalizzante, mentre l’80% degli allievi dovrà percorrere una strada per la quale per lo più non è né formato scientificamente, né preparato psicologicamente. Se tale è la situazione, quello che per la tutela (in termini generici) è un grave problema, da affrontare con decisione a partire dal ripensamento dell’offerta formativa universitaria, per il post-classico assume i contorni di una vera e propria emergenza. Alesandro Garrisi L’Archeologia Pubblica e il Medioevo Giuliano Volpe (Università di Foggia) L’Archeologia Pubblica (AP) ha guadagnato negli ultimi anni grande notorietà anche nel nostro Paese, molto più tardi che altrove, soprattutto nel mondo anglosassone, nel quale la Public Archaeology ha mosso i primi passi già negli anni Settanta del secolo scorso. L’Archeologia Pubblica tocca nel profondo il significato stesso dell’archeologia oggi. Sento, anzi, di poter affermare che senza l’apporto che solo l’AP può garantire è tutta l’archeologia a rischiare di andare definitivamente in crisi, nel mondo globalizzato, nel pieno di una crisi che non è solo congiunturale e non tocca solo la sfera economico-finanziaria. Quale ruolo possono svolgere l’archeologia e gli archeologi in questo contesto di profondi cambiamenti? Gli archeologi sono pienamente consapevoli del ruolo che potrebbero svolgere? Con quali idee, con quali strumenti, 6 quale rinvio. È ovvio, peraltro, che sarebbe improprio parlare di AP ‘medievale’, ma, a tempo stesso, credo di poter affermare che l’Archeologia Medievale italiana è stata ed è la componente forse più attiva nel campo dell’AP. Lo è per una sorta di ‘denominazione di origine’, legata in particolare alla straordinaria figura di Riccardo Francovich, che, come hanno giustamente sottolineato M. Valenti e G. Bianchi, è stato un pioniere dell’AP, senza che ne conoscesse nemmeno la denominazione, perché ha sempre inteso la sua opera di ricercatore al servizio della società, con una costante attenzione alla comunicazione, conservazione, valorizzazione e gestione del patrimonio archeologico. Una fase importante di sperimentazione di nuove forme di rapporto con il pubblico si ebbe nella fervida stagione dell’archeologia urbana negli anni 70-80. Altro pioniere è stato Gian Pietro Brogiolo, da tempo molto attivo nel campo dell’AP (ora anche per mezzo della rivista Post-Classical Archaeologies che a questi temi ha sempre dedicato ampio spazio), e che già negli anni Settanta si batteva per il decentramento nel campo dell’archeologia, per il ruolo dei musei locali e anche dei volontari e per la partecipazione dal basso delle comunità. Analogo impegno si deve a un altro fondatore e ex presidente della SAMI, Sauro Gelichi che anche recentemente ha proposto una riflessione sui temi dell’AP. A G. Vannini e al gruppo dell’Università di Firenze si deve la prima impostazione di specifici progetti, tra cui la mostra, la prima interamente ispirata ai principi dell’AP, ‘Da Petra a Shawbak. Archeologia di una frontiera’, in occasione della quale si inaugurò un ‘laboratorio’ di ricerca e dedicato all’Archeologia Pubblica, il primo workshop di ‘Archeologia Pubblica in Toscana: un progetto e una proposta’, tenuto a Firenze nel 2010, cui ha fatto seguito, sempre a Firenze nel 2012, il ‘Primo Congresso di Archeologia Pubblica in Italia’. Uno degli aspetti sempre, giustamente, sottolineato dal gruppo fiorentino riguarda l’analisi sociologica del pubblico, o meglio dei pubblici, senza la quale nessun progetto di Archeologia Pubblica può avere successo. Il primo PRIN-Progetto di rilevante interesse nazionale, finanziato dal MIUR, specificamente dedicato all’Archeologia Pubblica dal titolo Archeologia al futuro. Teoria e prassi dell’archeologia pubblica per la conoscenza, tutela e valorizzazione, la partecipazione, la coesione sociale e lo sviluppo sostenibile, diretto da chi vi parla, vede prevalentemente coinvolte equipe universitarie di archeologia medievale. Le prime due tesi di dottorato in Archeologia Pubblica da poco discusse all’Università di Pisa da F. Ripanti (2019) e all’Università di Padova da F. Benetti (2019) sono entrambe state seguite da nostri colleghi medievisti, rispettivamente E. Zanini e A. Chavarria. Numerosi sono poi i progetti di AP attivati da vari gruppi medievistici. Mi limito a citarne solo alcuni: lo scavo di Vignale; i vari progetti sardi dei colleghi Milanese, Spanu e Pinna; i progetti di archeologia dell’età contemporanea a Altamura (G. De Felice) e a Monforte San Giorgio (E. Zanini). Particolare rilievo rivestono i progetti di archeologia partecipata coordinati da G.P. Brogiolo e A. Chavarria e condotti in vari territori dell’Italia nord-orientale, anche sotto il profilo metodologico, soprattutto perché non si tratta solo di ‘community archaeology’ ma soprattutto di ‘archaeology for communities’. L’Archeologia Pubblica italiana dovrebbe, in conclusione, saper individuare un suo percorso autonomo, uscendo definitivamente dall’età dell’innocenza e affrontando la maturità, con la progettazione di una strategia di ampio respiro. Dovremmo cioè lavorare alla costruzione di una via italiana all’AP. Giuliano Volpe Archeologia medievale, tarda antichità e gli studi sulle chiese Fabrizio Bisonti (Università degli Studi Roma Tre) Un romanzo della fine degli anni ’70 del secolo scorso, oggi quasi introvabile ma, al tempo, un bestseller, sia pure a livello nazionale, usciva con il titolo bruciante: Veder l’erba dalla parte delle radici. Si trattava di una ironica metafora per rappresentare una drammatica esperienza: quella di Davide Lajolo, già deputato del Partito Comunista Italiano e Direttore per un decennio de L’Unità. Ebbene, l’autore del romanzo autobiografico si trovò – in piena coscienza – a guardare in faccia la morte, per un infarto che lo costrinse a sfogliare le pagine della sua vita – immobile in una stanza d’albergo – alla ricerca delle radici. Penso spesso a quella esperienza drammatica e penso alla sua metafora, che riconduce, ogni volta, a cercare di indagare le origini delle cose. E questo anche nella mia professione di archeologo, di iconografo, di storico del cristianesimo antico. E, dunque, se penso alle chiese, corro subito alle strutture incipitarie, ai sensi, alle funzioni, alle tipologie – sfuggenti e/o incomprese – dei più antichi luoghi di culto cristiano. Per questo mi è sempre risultato utile rileggere un breve affondo di Romano Penna, indiscusso esperto del tempo di Paolo, sulle chiese domestiche così come si configuravano alle origini del Cristianesimo1.Qualcuno si preoccuperà per questa retromarcia che dalle chiese primitiva arriva alle chiese del primo cristianesimo, quando gli edifici di culto si riconfigurano e mostrano le mille funzioni stratificate su questi luoghi genericamente aggreganti e polifunzionali. Ma – a mio modo di vedere – senza e aldilà delle astuzie delle competenze e delle conoscenze, che ho sedimentato nel tempo, occorre scrutare il senso generale delle chiese, risalendo agli antefatti e ai fatti, alla preistoria e alla storia di questi luoghi, che costellano il tempo della tarda antichità e del medioevo. Non temo, dunque, di tornare a parlare delle “chiese domestiche”, cioè del raccogliersi dei cristiani dopo la Pasqua in assemblea o ekklesía all’interno di case private nei vari luoghi di residenza. Ricordiamo che il termi7 ne ekklesía non è mai impiegato nella grecità pagana per designare un’assemblea religiosa, ma soltanto politica. L’impiego cristiano del termine deriva dal linguaggio dei LXX, dove si traduce normalmente l’ebraico qāhāl “moltitudine radunata”, i quali lo impiegano appunto per designare la convocazione o l’adunanza del popolo di Israele per venerare il suo Dio. Già per quanto riguarda Gerusalemme si legge che i cristiani “spezzano il pane di casa in casa” (Atti degli Apostoli 2, 46), cioè assumevano il loro pasto cultuale (probabilmente quello eucaristico) in ambito domestico, fuori dal luogo tradizionalmente sacro del Tempio, peraltro ancora riservato alla preghiera. Una di queste case poteva ben essere quella di Maria, madre di Giovanni detto Marco, dove Pietro si rifugiò dopo la liberazione dal carcere e dove “si trovava un buon numero di persone raccolte in preghiera” (Atti degli Apostoli 12, 12). Si può ipotizzare che anche a Cesarea Marittima la casa di Filippo, uno della cerchia di Stefano, servisse allo stesso scopo. Questi veloci cenni ci parlano di comunità piccole e frammentate, per lo più riferite a proprietari di ceti medio-alti. E queste sono le vere e proprie domus ecclesiae. Possiamo osservare che storicamente quelle esperienze di piccole chiese domestiche – come è meglio definirle per evitare confusioni e luoghi comuni – non hanno superato di fatto i primi due secoli. Quando dal gruppo, dalla comunità, più o meno importante per numero e autorevolezza, si passa al luogo, il discorso – per gli archeologi – diviene complesso, sfuggente e assai sdrucciolevole. Alle affabulazioni del passato, infatti, si associano, anche ai nostri giorni le scoperte proposte come scoop, ovvero come primato, affidando a chiese – per lo più bizantine o appena più antiche – cronologia paleocristiana o addirittura l’etichetta – sempre attraente per i media – degli edifici cristiani più antichi dell’impero. Fermiamoci adesso all’edificio di culto cristiano di Dura Europos, questo sì molto antico, e riferibile – come pare sicuro – alla prima metà del III secolo, se prestiamo attenzione alla successione degli eventi, che sigillarono nel 256 la colonia romana2. Eppure, anche in questo caso, occorre sbarazzarci della definizione domus ecclesiae perché la ristrutturazione della casa romana comporta un evidente passo avanti, riguardo all’antico concetto di chiesa domestica, di cui si diceva in apertura. Il piccolo edificio, infatti, non ha più niente di estemporaneo, ma già propone un’articolazione, che coagula, in una unica realtà, i luoghi dell’eucarestia e del battesimo, quest’ultimo certificato dall’organismovasca e dall’ineludibile programma decorativo. Ho già avuto modo di disegnare il tracciato che dalle inafferrabili domus ecclesiae, ingiudicabili, perché senza alcun arredo e/o decorazione, in quanto sedi occasionali del culto, conduce a primi embrionali edifici di culto. Dopo il caso emblematico di Dura Europos, si deve saltare al complesso teodoriano di Aquileia, che propone, per il tempo dei Costantinidi, una manifestazione monumentale espansa ed esplosa, con tre aule concatenate, di cui due pavimentate con mosaici, in parte neutrali, in parte cristiani. Ed anche qui, nella fabbrica genetica, il battistero è incluso gelosamente entro le aule3. Eppure anche in questi complessi “balbuzienti”, in quanto a strutture e a definizione architettonica, è già possibile indovinare un percorso liturgico, che accompa- gnava il cristiano dalla sede della scuola del catecumenato, all’ambiente battesimale e/o a quello crismale, sino all’aula riservata all’eucarestia. Un itinerario, che spiega e decodifica gli spazi dell’edificio di culto nel frangente che, dai Costantinidi, arriva al momento bizantino ed oltre. E, parallelamente, l’archeologo deve saper discernere le funzioni, mettendo a frutto il prezioso giacimento delle fonti scritte, a cominciare dagli Acta che descrivono le basiliche di Cirta ancora in età dioclezianea, alla testimonianza di Eusebio per Tiro, a Lattanzio per Nicomedia, agli Acta del concilio di Elvira per la decorazione delle chiese, per non parlare del prezioso nel complicato Liber Pontificalis romano, che apre la discussione, ora sopita eppur nevralgica per molto tempo, che intreccia le domus ecclesiae fantasma con le chiese-tituli della capitale4. Se, con un salto mortale, passiamo dai dati documentari a quelli propriamente archeologici, le chiese sono state guardate dagli archeologi cristiani come monumenti immersi in un connettivo vuoto e gli studi del passato prossimo, se saltiamo le valutazioni complessive del passato remoto e un dibattito più sensibile alla considerazione dell’oggetto prezioso e misterioso delle catacombe, stracolmo di sottoquestioni mai ripulite del tutto da un approccio ipersemantico, approdiamo agli studi esemplari e implacabili delle chiese romane del Krautheimer5, che già affianca le valutazioni architettoniche a quelle critiche delle fonti per Roma, e a quelli, invece più storici e mediamente contestualizzati, del Deichmann per Ravenna6. Il salto mortale ci accompagna agli anni centrali del secolo scorso e a un dopoguerra ancora toccato dall’attitudine verso le esplorazioni, come suggeriscono quelle fortunate della necropoli vaticana e, intanto, si affacciava all’orizzonte la figura monumentale del Marrou7, che concepì l’Antiquité Tardive, mentre in Germania si duplicava l’idea con la definizione dello Spätantike, già nella testa del Dölger e in Italia con quella della Tarda Antichità specialmente nel pensiero del Bianchi Bandinelli. I tre titoli non rappresentano altrettante fotocopie di concetti e, assai spesso, come è intuitivo per quella stagione, l’archeologia, la storia e la storia dell’arte si confondono. Fu così che l’Antiquitè Tardive di Marrou partorì le ricerche del Grabar che, muovendosi dai santuari martiriali8, corse verso l’iconografia cristiana9. Ma Février, Pietri e Duval, allievi della scuola francese, rispettivamente in maniera eclettica, storica ed archeologica, concepirono il progetto semplice e rivoluzionario della Topographie Chretienne per le città della Gallia, preparando lo storico Congresso Internazionale di Archeologia Cristiana del 198610, che ci permette di tornare a casa, per approdare alla relazione sulle cattedrali in Italia, di Testini, Pani Ermini e Cantino Wataghin11, il quale aprì, già in sede di Congresso, un dibattito, mai completamente sopito, sulla cristianizzazione della città, ma anche sugli spazi toccati da questo fenomeno e sul difficile rapporto tra i luoghi della morte, del culto e delle istituzioni. Una piccola rivoluzione si era innescata e si era espansa nell’Alto Medioevo quando a Spoleto, proprio negli anni ‘80, una Settimana era stata dedicata alla Cristianizzazione ecclesiastica delle campagne. Si stavano gettando le basi per una storia della cristianizzazione, che valicava la barriera tradizionale fissata, fino a quel momento, al pontificato di Gregorio Magno (540-640)12. La nostra cavalcata mi costringe a rimandare alle fotografie di Philippe Pergola e di Vincenzo Fiocchi Nico8 lai, rispettivamente in occasione del Primo Congresso di Archeologia Medievale del 199713 e dei Quarant’anni di Archeologia Medievale del 201414, per ripercorrere il tracciato, forse troppo lento, che ha visto camminare parallelamente un’antica e una giovane disciplina un Antico e un Nuovo Testamento. I dibattiti, molti confronti, qualche scontro furono superati da alcune importanti prove generali, come quando, in maniera polifonica, Gelichi e Fiocchi Nicolai disegnarono la carta dei battisteri e delle chiese rurali nel 200115, e ancora Fiocchi Nicolai, Cantino Wataghin e Volpe posarono l’attenzione sugli aspetti della cristianizzazione degli agglomerati secondari nel 200716 e sempre Fiocchi Nicolai e Sannazaro cercarono i caratteri e le funzioni dei santuari rurali nel 201217. Dagli ultimi Congressi Nazionali di Archeologia Cristiana, che già propongono evidenti contatti tra le due archeologie, catapultiamoci al Congresso Internazionale romano del 2016, quando Guyon, Baratte, Cantino Wataghin e Heijmans disegnano il quadro della diffusione del Cristianesimo e delle sue incidenze topografiche sulla città e le campagne dell’Occidente costantiniano18, riportandoci nel cuore dell’ultima antichità e aprendo la strada ad alcune relazioni puntuali ed esemplari come quella che permette ad Ebanista di fare ordine sull’origine del gruppo episcopale partenopeo, lavorando su un monumento menzionato dal Liber Pontificalis romano e reso irriconoscibile dagli sterri devastanti del passato19. Qui, fonti e resti monumentali sono guardati in un faccia a faccia serrato, che lascia indovinare una cassetta degli attrezzi della ricerca, che non dimentica l’approccio della tradizione, ma che apre gli occhi sulle nuove vie dell’interpretazione. D’altra parte è questo il tempo in cui nessuno guarda più con supponenza e/o indifferenza l’avvento delle nuove archeologie: dal quella della complessità a quella globale, da quella pubblica a quella della valorizzazione. E intanto le operazioni stratigrafiche, ineludibili e sempre più sofisticate, si intrecciano non solo e non tanto con le risultanze dell’Archeologia dei Paesaggi e della Produzione, ma anche con quella di una più consapevole Archeologia dell’Architettura. Proprio di recente, mi è capitato di assistere ad un divertente siparietto, seguito ad una folgorante presentazione che Giovanna Bianchi ci ha donato con poche e chiare parole sulla basilica della Natività a Betlemme. Ebbene, per una buona mezz’ora si è discussa se la disciplina conosciuta nelle Università come Archeologia dell’Architettura, non potesse forse essere meglio definita come Archeologia del costruito o degli elevati o di chissà cosa altro. Quando il dibattito si dimena sulle definizioni vuol dire che la sostanza è stata metabolizzata. E significa che l’archeologia delle chiese assume una fisionomia multiforme, ma riconoscibile da tutti e che l’ambizioso volume di Chavarria Arnau, di una decina di anni orsono, colloca in un habitat critico condiviso, anche se non ecumenico, pronto a guardare le chiese con occhio mobile e sguardo lungo, che dalla tarda antichità si proietta su tutto il Medio Evo20. L’estuario critico dove confluiscono vecchie nuove esperienze, antichi e innovativi approcci, letture fresche e tradizionali, può essere riconosciuto nel grande progetto europeo del CARE (Corpus Architecturae Religiosae Europeae IV-X saec.), che in Italia ha visto l’Università di Padova come teatro delle prove generali, già nel 2000, di una schedatura sistematica dell’edilizia ecclesiastica tra il IV e il X secolo, che dalla Croazia, sta dilagando in Svizzera, in Germania, in Francia, in Spagna, in Inghilterra. Fabrizio Bisconti 1 R. PENNA, Vangelo e Inculturazione. Studi sul rapporto tra rivelazione e cultura nel Nuovo Testamento, Cinisello Balsamo 2001. C. H. KRAELING, The Excavations at Dura-Europos: Final Report VIII, 2. The Christian Building, New Haven 1967. F. BISCONTI, L’abside piena, l’abside vuota. Arredi e decorazioni al tempo dei Costantinidi, in L’officina dello sguardo. Scritti in onore di M. Andaloro, a cura di G. BORDI I. CARLETTINI, M. L. FOBELLI, M. R. MENNA e P. POGLIANI, Roma 2015, pp. 229-236. 4 N. DUVAL, s.v. Edificio di culto, in Nuovo Dizionario Patristico e di Antichità Cristiane, a cura di A. DI BERARDINO, Genova 2006, coll. 1547-1577. 5 R. KRAUTHEIMER, S. CORBETT, A.K. FRAZER, W. FRANKL, Corpus Basilicarum Christianarum Romae. Le basiliche critstiane antiche di Roma (sec. 4.-9.), Città del Vaticano 1937-1977. 6 F. W. DEICHMANN, Ravenna. Hauptstadt des spätantiken Abendlandes, Wiesbaden 1974-1989. 7 H. I. MARROU, Décadence romaine ou antiquité tardive?, Paris 1977. 8 A. GRABAR, Martyrium: recherches sur le culte des reliques et l’art chrétien antique, Paris 1943-1946. 9 A. GRABAR, Les voies de la création en iconographie chrétienne: Antiquité et Moyen Age, Paris 1979. 10 Actes du XIe Congrès International d’Archéologie Chrétienne (Lyon, Vienne, Grenoble, Genève et Aoste 21-28 septembre 1986), Città del Vaticano 1989. 11 P. TESTINI, G. CANTINO WATAGHIN, L. PANI ERMINI, La cattedrale in Italia, in Actes du XIe Congrès International d’Archéologie Chrétienne (Lyon, Vienne, Grenoble, Genève et Aoste 21-28 septembre 1986), Città del Vaticano 1989, pp. 5-232. 12 Cristianizzazione ed organizzazione ecclesiastica delle campagne nell’alto Medioevo: espansione e resistenze, Settimane di Studio del Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo, XXVIII (Spoleto 10-16 aprile 1980), Spoleto 1982. 13 P. PERGOLA, Un’archeologia cristiana per il 2000, in Primo Congresso Nazionale di Archeologia Medievale (Pisa, 29-31 maggio 1997), Firenze 1997, pp. 16-19. 14 V. FIOCCHI NICOLAI, Archeologia Medievale e Archeologia Cristiana: due discipline a confronto, in Archeologia Medievale, Numero Speciale, 2014, pp. 21-31. 15 V. FIOCCHI NICOLAI, S. GELICHI, Battisteri e chiese rurali (IV-VII secolo), in L’edificio battesimale in Italia: aspetti e problemi, Atti dell’VIII Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana (Genova, Sarzana, Albenga, Finale Ligure, Ventimiglia 21-26 settembre 1998), Bordighera 2001, pp. 303-384. 16 G. CANTINO WATAGHIN, V. FIOCCHI NICOLAI, G. VOLPE, Aspetti della cristianizzazione degli agglomerati secondari, in La cristianizzazione in Italia fra tardoantico e altomedioevo, Atti del IX Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana (Agrigento 20-25 novembre 2004), Palermo 2007, pp. 85-134. 17 V. FIOCCHI NICOLAI, M. SANNAZARO, Santuari rurali: caratteri e funzioni, in Martiri, santi, patroni: per una archeologia della devozione, Atti del X Congresso Nazionale di Archeologia Cristiana (Università della Calabria, 15-18 settembre 2012), Cosenza 2012, pp. 199-229. 18 J. GUYON, F. BARATTE, G. CANTINO WATAGHIN, M. HEIJMANS, La diffusion du Christianisme et ses incidences topographiques sur les villes et les campagnes de l’Occident constantinien, in Costantino e i costantinidi. L’innovazione costantiniana, le sue radici e i suoi sviluppi, Acta XVI Congressus Internationalis Archaeologiae Christianae ( Romae, 22.-29.9.2013), Città del Vaticano 2016, pp. 3-123. 19 C. EBANISTA, Eodem tempore fecit Constantinus Augustus basilicam in civitatem Neapolim: nuovi dati sull’origine del gruppo episcopale partenopeo, in Costantino e i costantinidi. L’innovazione costantiniana, le sue radici e i suoi sviluppi, Acta XVI Congressus Internationalis Archaeologiae Christianae ( Romae, 22.29.9.2013), Città del Vaticano 2016, pp. 125-172. 20 A. CHAVARRÍA ARNAU, Archeologia delle chiese: dalle origini all’anno Mille, Roma 2009. 2 2 9 Coordinamento scientifico: Alexandra Chavarria Arnau Il progetto si propone di catalogare e analizzare i contesti funerari come evidenza storica di prim’ordine per ricostruire le caratteristiche fisiche della popolazione tardoantica e altomedievale, e l’organizzazione del popolamento, l’organizzazione sociale e le scelte ideologico-culturali. Il progetto prevede: 1. la schedatura sistematica dei complessi funerari con una scheda inserita in un sistema GIS sulla quale vengano registrate le seguenti informazioni; (a) area cimiteriale (dimensioni, limiti, struttura interna, attività che vi si svolgevano oltre a quella funeraria; (b) struttura e posizione delle tombe; (c) evidenze di ritualità (modi deposizione, tracce di riti al momento della deposizione e nel tempo); (d) eventuali corredi; (e) modi di trasmissione della memoria; (f) antropologia e paleopatologia. 2. analisi dei cimiteri utilizzando gli strumenti dell’archeologia del paesaggio (dal remote sensing allo studio del parcellare ecc) per capire la distribuzione delle aree funerarie, il loro significato, rapporto con il paesaggio e con gli insediamenti; 3. analisi paleobiologiche (con studio degli isotopi stabili) degli scheletri di alcuni cimiteri campione, al fine di individuare nuove informazioni sullo stile di vita e i movimenti migratori degli individui sepolti. 4. analisi antropologiche dei materiali scheletrici. E’ ONLINE la piattaforma CAMIS GEODATABSE dove sono state caricate e si possono visualizzare ed interrogare schede simplificate della schedatura del progetto CAMIS http://arcmed.lettere.unipd.it/CatMedievale/CAMIS_home. VIRTUAL RESTORATION EXPERIENCE RICOGNIZIONE ARCHEOLOGIA MADAY Giuseppe Donvito, Massimo Limoncelli, Maria Potenza, Roberto Rotondo, Giovanni Di Vito, Claudio Donato. l progetto non ha previsto un restauro materico, ma solo ricostruzioni virtuali operate a partire dalle copie digitali delle decorazioni pittoriche superstiti, che vengono proiettate, tramite un’innovativa tecnica di videomapping, all’interno dell’ambiente rupestre, al fine di creare un’esperienza immersiva a diretto contatto con l’originale. Le proiezioni illustrano non solo gli apparati decorativi nella loro interezza e al momento della loro creazione, ma anche le diverse fasi di escavazione del monumento mediante un racconto effettuato solo tramite immagini e musica. L’intervento, durato 2 anni, ha previsto molteplici fasi di studio grazie al lavoro di diverse professionalità: un rilievo 3D, una mappatura fotografica a luce normale e UV per cogliere dettagli non più percepibili a occhio nudo, un’analisi stratigrafica per individuare la sequenza evolutiva della struttura architettonica e una ricerca iconografica per integrare i dipinti più lacunosi. http://www.lamadantico.it/it/attivita/virtual-restoration-experience-118.html Coordinamento scientifico: Vasco La Salvia Per il secondo anno consecutivo l’Università di Chieti svolgerà una missione di ricognizione archeologica presso Maday, distretto di Kannur, Kerala (India) coofinanziata dal MAE (Direzione scientifica Prof. V. La Salvia e responsabile Ricognizione e GIS Dr. M. Moderato). Il contesto geo-topografico racconta di una zona conosciuta attraverso le fonti scritte (tardo-antiche, medievali ed islamiche) come un’area centrale nella rete dei traffici commerciali trans-oceanici fra Mediterraneo, Africa Orientale, Penisola Arabica e sub-continente indiano. L’area in oggetto, attualmente vede presente una fiorente comunità multi religiosa (indù, musulmani e cristiani). La piccola collina di Madayipara, sul quale si trova un fortilizio di epoca pre-coloniale (voluto dalla famiglia aristocratica dei Kolathiri), domina la cittadina di Pazhayangadi sulla riva settentrionale del fiume Kuppam, a nord della città di Kannur, sede amministrativa del Distretto di Kannur in Kerala. Da questa zona provengono dati ceramici di notevole importanza che confermano come questa zona almeno a partire dal VI secolo fosse coinvolta in traffici tanto con l’occidente (specie per le zone dell’attuale Yemen e Iran) e estremo oriente (Cina). Il centro di Maday sembra essere stato uno dei porti cardine del commercio “malabarico”. La fondazione mitica del sito viene attribuita dal poema epico Mushikavamsa al re Vallabha II; il poema viene scritto all’incirca nell’undicesimo secolo e la fondazione dell’insediamento di piena età medievale potrebbe risalire al secolo precedente; la presenza tuttavia di forti contatti commerciali e delle comunità religiose ebraiche e musulmane induce a ipotizzare per lo meno la precoce presenza di un emporio commerciale. Le ricognizioni non intensive effettuate sulla piana di fronte all’ingresso del forte hanno permesso di valutare in maniera preliminare la cronologia delle frequentazioni nell’area in questione. [email protected] 10 PUBBLICAZIONI PROGETTO CAMIS di ricerca PROGETTI Migrazioni, clan, culture: archeologia, genetica e isotopi stabili Autori: Caterina Giostra (a cura di) Anno di stampa: 2019 ISBN: 9788899547363 €40,00 Economia e Territorio: L’Adriatico centrale tra tarda Antichità e alto Medioevo Autore: Enrico Cirelli, Enrico Giorgi, Giuseppe Lepore. Anno di stampa: 2019 ISBN: 9781407316659 € 144,97 Ricostruire e narrare. L’esperienza dei Musei archeologici all’aperto Autori: Marco Valentii Anno di stampa: 2019 ISBN: 9788872288917 €16,00 L’archeodromo di Poggibonsi Autori: Marco Valenti Anno di stampa: 2019 ISBN: 9788872289013 €70,00 Vallio Terme. Paesaggi e insediamenti dalla Preistoria a oggi Autori: Vari Anno di stampa: 2019 ISBN: 9788885524705 €40,00 Storia di Salò e dintorni. Infrastrutture, insediamenti, economia. Autori: Gian Pietro Brogiolo (a cura di) Anno di stampa: 2019 ISBN: 9788899547356 €58,00 Alle origini della pieve di San Lorenzo. Storia e archeologia del costruito e del contesto Autori: Enrico Cavada (a cura di) Anno di stampa: 2019 ISBN: 9788877024770 €40,00 11 La figura di Athena dall’età antica al tardoantico Autore:G. Germanà, A. Giudice (a cura di) Anno di stampa: 2019 ISBN: 8863182272 €16,00 CALENDARIO SEMINARIO 7-9 novembre Università Ca’ Foscari Venezia IX Seminario Internazionale del Centro Interuniversitario per la Storia e l’Archeologia dell’Alto Medioevo La mascolinità nell’alto medioevo: tradizione e innovazione, 450–1050 http://saame.it/wp-content/uploads/2019/11/borri-2019-11-07-prog.pdf CONVEGNO 2019 ottobre 22-23 novembre Edinburgo Historical Inertia: Continuity in the Face of Change 500-1500 CE. 3rd Annual Edinburgh International Graduate Conference in Late Antique, Islamic and Byzantine Studies https://ernst-herzfeld-gesellschaft. com/3rd-annual-edinburgh-internationalgraduate-conference-in-late-antiqueislamic-and-byzantine-studies/ novembre 10 dicembre Thessaloniki, 23-25 april 2020 Postgraduate and early caree conference in medieval archaeology https://www.fasticongressuum. com/single-post/2019/08/30/ CALL-15092019-International-conference-of-postgraduate-students-ofHistory-and-Archaeology-Interpretingidentities-in-the-Eastern-Mediterranean-and-the-Black-Sea---Thessaloniki-Greece CONVEGNO 16-18 dicembre Londra TAG (Theoretical Archaeology Group) 2019-Power, Knowledge and the Past https://www.ucl.ac.uk/archaeology/newsevents/conferences/tag-2019 dicembre MOSTRA CALL FOR PAPERS Aprile 2020 Squillace (CZ) Kastra, kephalia kai phylakteria. I sistemi di difesa dell’Italia bizantina (secoli VI - XI) [email protected] Novembre 2019-Novembre 2020 MAG-Riva del Garda (Tn) Il sacro e il quotidiano. II villaggio tardoantico a San Martino ai Campi A cura di Cristina Dal Rì, Achillina Granata, Nicoletta Pisu http://www.museoaltogarda.it/it/mostre/ anteprima/exhibits/exhibit/il_sacro_e_il_ quotidiano_ii_villaggio_tardoantico_a_ san_martino_ai_campi/ CONVEGNO 27-29 novembre 2019 Roma, EEHAR-CSIC Tusculum 25 anni. Scavi e ricerche della EEHAR https://www.eehar.csic.es/ CALL FOR PAPERS eventi CALL FOR PAPERS SEMINARIO 12 dicembre Venezia, Isola di San Servolo Past and present local communities in an archaeological perspective [email protected] 2020 gennaio febbraio e ancora... CONVEGNO 7-8 febbraio Arezzo Il paesaggio pietrificato. La storia sociale dell’Europa tra X e XIII secolo attraverso l’archeologia del cosrtruito. [email protected] Maggio V Incontro per l’Archeologia Barbarica Presenze barbariche in Italia e regioni contermini tra fine IV e V secolo www.archeologiabarbarica.it CONVEGNO CALL FOR PAPERS 27 IRCLAMA Colloquium 29-31 maggio 2020 Liturgical installations and their sculpture (4-15 c.) and a special session: Elements for the chronology of early medieval sculpture: monuments dated by documented criteria and not by style Deadline: 15 novembre [email protected] CONVEGNO Firenze, 21-23 febbraio TourismA 2020 In occasione del grande evento TourismA (Salone di Archeologia e Turismo Culturale) si terranno più sessioni e iniziative organizzate da membri della SAMI 29 giugno-4 luglio Larnaca (Cipro) XXII Coloquio internazionale di Glittografia Stone stories across europe: study and valorization of stones’ marks and signs https://www.facebook.com/TecomaServices/ CONVEGNO 11 giugno Pisa “Storie (di) Ceramiche” Call for papers: inizi 2020 7 novembre Budapest EAA 2020-NETWORKING https://submissions.e-a-a.org/eaa2020/ 12 CONVEGNO 13 La SAMI (Società degli Archeologi Medievisti Italiani), fondata nel 1994 da personalità di primo piano dell’archeologia medievale e della ricerca in generale, quali Gianpietro Brogiolo, Riccardo Francovich, Sauro Gelichi, Tiziano Mannoni, è attualmente composta da oltre 700 membri. E’ una società priva di scopi di lucro, che si prefigge la finalità di costituire un punto di incontro e di confronto tra gli archeologi medievisti italiani, accademici e non, di studiare le fonti materiali di epoca postclassica e pre-industriale e di promuovere tutte le iniziative volte all’indagine e alla valorizzazione del patrimonio archeologico di età medievale sul territorio nazionale. Benefici: - Condivisione di interessi per l’archeologia medievale - Diritto di voto - Borse di studio per ricerche rilevanti - Newsletter - Diritto di presentare relazioni per pubblicazione negli atti dei Congressi SAMI - Sconto preferenziale sugli atti dei Congressi SAMI - 20% di sconto sulle pubblicazioni dell’Insegna del Giglio, Edipuglia, Viella e SAP The SAMI (Società degli Archeologi Medievisti Italiani), was founded in 1994 by prominent personalities of medieval archaeology and research, such as Gianpietro Brogiolo, Riccardo Francovich, Sauro Gelichi, Tiziano Mannoni, and is currently composed of over 700 members. It is non-profit society, with the aim of furthering exchange between Italian medieval archaeologists, both academic and non-academic, in the study of post-classical and pre-industrial material culture, and promoting all initiatives aimed at the enhancement of the heritage of the Middle Ages in Italy. Benefits: - Sharing of interests in medieval archaeology - The right to vote - Research grants for significant projects - Newsletter - The right to present articles for publication in the SAMI Congress volumes - Preferential discount for the SAMI Congress volumes - 20% discount on all publications by the Insegna del Giglio, Edipuglia, Viella and SAP http://archeologiamedievale.unisi.it/sami/societa https: www.facebook.com/SamiDirettivo/ Per inviare informazioni utili da inserire nella prossima newsletter scrivere a: [email protected] Per nuove iscrizioni/for new subscriptions: http://archeologiamedievale.unisi.it/sami/iscrizionealla-sami ALTRE SOCIETA’ DI ARCHEOLOGIA MEDIEVALE IN EUROPA Society of Medieval Archaeology https://medievalarchaeology.co.uk/ Association française d’archéologie mérovingienne https://www.afamassociation.fr/ 14 SAMI la