E. IGOR MINEO
NOBILTÀ ROMANA E NOBILTÀ ITALIANA (1300-1500)
PARALLELISMI E CONTRASTI
Ancora oggi il problema forse più rilevante della storia di Roma
in età bassomedievale, grosso modo dalla metà o dalla fine del Duecento in avanti, è quello della sua congruenza con quella degli altri
sistemi politici sviluppatisi in Italia negli stessi secoli : da qui la tentazione di adoperarla come cartina di tornasole del grado di coerenza dei modelli pensati per rappresentare il mondo delle città comunali da un lato, e quello delle monarchie dall’altro. In modo particolare il tema nobiliare, che non a caso sarà osservato qui soprattutto
nei suoi aspetti politici e istituzionali, può favorire una comparazione che aiuti a saggiare la consistenza dei modelli preesistenti. Non
tenterò dunque né un inquadramento descrittivo della nobiltà romana nel vasto mare delle aristocrazie della penisola, né un memorandum storiografico introduttivo ai più concreti contributi che seguiranno in questo volume. Vorrei provare invece a vedere se e come
l’inserimento stabile di Roma nella comparazione con aree più spiccatamente connotate (in senso comunale o monarchico) confermi la
coerenza dei caratteri di fondo di ciascuna di quelle aree o se invece
aiuti una loro possibile decostruzione; e, quindi, fino che punto gli
schemi interpretativi elaborati per gli ambiti comunali o quelli monarchici possono essere utilizzati nel contesto romano, e fino a che
punto la ricerca su Roma condizioni e trasformi ora il nostro modo
di pensare le aristocrazie non romane.
Questa impostazione presuppone accertamenti non scontati,
fondati su dati empirici che la storiografia ha ordinato e elaborato
in modo assai diseguale negli ultimi trent’anni. Presuppone in ogni
caso, come questo stesso convegno dimostra, un’acquisizione relativamente recente del caso romano al dibattito sulle aristocrazie tardomedievali, italiane e non italiane. Come si sa, i tentativi di lettura
unitaria della realtà italiana non sono frequenti, e negli ultimi trent’anni lo sono stati sempre di meno. Il tema della nobiltà – adopero
questo termine in un’accezione debole e imprecisata – non fa eccezione. Come oggetto storiografico la nobiltà italiana non esiste : essa
non si è configurata fin qui neppure quando l’area di osservazione si
è andata restringendo a contesti apparentemente più omogenei,
.
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quanto a istituzioni e culture politiche, come quello dell’Italia comunale. Le proposte di lettura unitaria emerse alla fine degli anni ’70
furono accolte dalla storiografia italiana con riserve più o meno severe, ma ciò che colpisce retrospettivamente nella discussione sui libri di Philip Jones e di Hagen Keller è lo scetticismo di fronte alla
possibilità stessa di una interpretazione relativa all’insieme dell’Italia centro-settentrionale : così ciò che di condiviso è emerso da allora è stato da un lato la difesa della centralità del tema cittadino e
dall’altro il tentativo di costruire un quadro di comparazione sufficientemente solido per sviluppi giudicati molto spesso dissimili. Solo di recente una ricerca come quella sul personale di governo itinerante ha fatto da base all’elaborazione di qualcosa che va molto al di
là della sintesi occasionale delle numerose ed eterogenee analisi locali e che si avvicina all’elaborazione di un modello : mi riferisco al
libro di Jean-Claude Maire Vigueur sulla militia comunale, che in
verità riguarda un’età – i secoli XII e XIII – e anche problemi che
precedono l’età e i problemi che qui prenderò in considerazione1. La
varietà delle dinamiche italiane si accentua ovviamente se includiamo nella comparazione anche le società meridionali : allora in effetti potrebbe apparire arduo rintracciare un filo conduttore sensato.
La possibile acquisizione poi del caso romano, a prima vista eccentrico rispetto sia ai diversi sviluppi tosco-padani, sia a quelli dei regni meridionali, farebbe crescere il grado di complessità di un ipotetico quadro comparativo? Proverò a dare qualche risposta nelle pagine che seguono : intanto va notato, come segno di un’integrazione
tuttora difficile, che, immagino non casualmente, neppure nelle letture generali più recenti e più innovative, come quella di Maire Vigueur, quella acquisizione c’è stata 2.
1
Vedi le conclusioni di J.-C. Maire Vigueur a I podestà dell’Italia comunale.
Parte I. Reclutamento e circolazione degli ufficiali forestieri (fine XII sec.-metà
XIV sec.), Roma, 2000 (Coll. de l’École française de Rome, 268) II, p. 897-1099, in
particolare p. 1009-1099, e poi, dello stesso, Cavaliers et citoyens. Guerre, conflits
et société dans l’Italie communale, XIIe-XIIIe siècles, Parigi, 2003. Occorre ricordare anche due importanti interventi di P. Cammarosano, Il ricambio e l’evoluzione
di ceti dirigenti nel corso del XIII secolo, in Magnati e popolani nell’Italia comunale.
XV Convegno del Centro italiano di studi di storia e di arte, Pistoia 15-18 maggio
1995, Pistoia, 1997, p. 17-40; Id., Élites sociales et institutions politiques des villes
libres en Italie de la fin du XIIe au début du XIVe siècle, in Les élites urbaines au
Moyen Âge. XXVIIe Congrès de la Société des Historiens Médiévistes de l’enseignement supérieur public (Rome, mai 1996), Roma (Coll. de l’École française de Rome,
238) 1997, p. 193-200. L’unico tentativo di sintesi che abbracci anche la stagione
della crisi del sistema comunale è nel libro recente di R. Bordone, G. Castelnuovo, G. M Varanini, Le aristocrazie dai signori rurali al patriziato, Roma-Bari, 2004.
2
Occorre ricordare, a questo proposito, come altrove lo stesso studioso abbia sostenuto con forza la tesi della piena integrabilità di Roma nell’Italia comunale : J.-C. Maire Vigueur, Il comune romano, in A. Vauchez (a cura), Roma me-
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In cosa consiste questa presunta eccentricità, a prima vista?
Nella sovrapposizione di schemi diversi di inquadramento della società, diversi per provenienza e natura. Sono gli schemi che derivano dalla tradizione politica comunale nella quale le identità politiche e le configurazioni di potere sono tutte «interne» all’arena cittadina; e dalle diverse tradizioni monarchiche nelle quali le medesime
configurazioni sono molto condizionate dalla peculiarità del processo di costruzione degli stati monarchici e principeschi, e cioè, con riguardo specifico al nostro oggetto, dal ruolo che le pratiche del servizio assumono in tale processo. È una rozza semplificazione, ma
serve ad evocare una circostanza decisiva : e cioè che la peculiarità
della dinamica aristocratica romana, è data innanzitutto dallo sviluppo contestuale, per due secoli e mezzo, dello stato pontificio e del
comune di Roma.
Vedremo che verificare la sovrapposizione di schemi diversi, e
dunque di differenti stili di significazione della preminenza e di classificazione della gerarchia sociale, non significa tanto individuare
somiglianze e difformità rispetto ad astratti modelli (per quanto, in
pratica, tale esercizio non possa essere evitato) : dovrebbe significare piuttosto riuscire a rintracciare alcune delle concrete condizioni
di possibilità della preminenza, che in un discorso dedicato alla nobiltà e non in generale ai sistemi politici, riguardano innanzitutto le
forme di definizione, di rappresentazione e di legittimazione della
preminenza medesima.
Il problema della «nobiltà bipartita»
Collochiamoci all’incirca alla metà del XIV secolo e partiamo da
un dato ben noto. Come un po’ dappertutto in Italia, ma con più evidenza che altrove, a Roma convivono aristocrazie diverse. Questa
convivenza, che deriva, come ho accennato prima, dal singolare intreccio di sviluppi istituzionali eterogenei, riguarda presenze che appaiono ben differenziate già all’inizio del periodo che sto esaminando, a fine Duecento. Da un lato si affacciano i soggetti che le fonti
indicano con designazioni che sono di volta in volta, quelle di nobiles viri, o di milites, oppure, distintamente, di populares o pedites, designazioni dicotomiche che appartengono al vocabolario sociale comune alla gran parte delle città centro-settentrionali 3. Se pensiamo
a tali designazioni con l’occhio rivolto alla situazione sociale della fine del XIV secolo occorre dire che esse non appaiono particolardievale, Roma-Bari, 2001, p. 117-157; e anche nella sintesi di Bordone, Varanini e
Castelnuovo il caso romano rimane sostanzialmente ai margini.
3
P. Cammarosano, Élites sociales... cit., J.-C. Maire Vigueur, Cavaliers et
citoyens... cit., p. 276-283.
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mente connotative : vedremo cioè che «nobiltà» e «popolo» divengono, forse più che altrove, etichette sempre più funzionali al gioco
politico comunale. Probabilmente questo è un po’ meno vero invece
nella prima metà del secolo, prima dell’esperimento di Cola di Rienzo e il successivo affermarsi dei regimi di stampo «popolare». Così
gli statuti del 1363, che in un panorama documentario drammaticamente carente svolgono una cruciale funzione informativa, distinguono milites e populares, riconoscendo tuttavia a entrambi i gruppi
il diritto di accedere alle cariche comunali 4. Dall’altro, nettamente
separati da questo vasto, complesso e mobile spazio di preminenza,
emergono i baroni, designati come magnates et potentiores nel medesimo testo statutario e come magnifici viri nel lessico notarile : vale
a dire i tredici o quattordici lignaggi «feudali» che si affermano al
vertice della società romana e laziale dalla fine del secolo XII 5. Questa elementare distinzione, ossia la bipartizione tra nobiltà baronale
e nobiltà «civica» che ha da sempre fatto parte del senso comune
storiografico su Roma tardomedievale 6, ha, almeno dalla metà del
Duecento, un significato molto forte : marca anzi profondamente il
paesaggio sociale romano. Questo non vuol dire che essa si rifletta
in una distribuzione rigida dei tratti caratterizzanti la superiorità. I
baroni devono la loro autorità alla crescita del potere pontificio, allo
strutturarsi del collegio cardinalizio, all’intensificarsi delle pratiche
nepotistiche 7, ma non sono una pura e semplice aristocrazia di servizio : sono potenti signori territoriali («baroni de castella», secondo
al celebre definizione dell’Anonimo), con possedimenti, feudi e castelli dislocati in un’area che va molto al di là del Lazio; nello stesso
tempo contendono ad altri gruppi l’egemonia all’interno della città e
delle sue istituzioni, controllando per lungo tempo il comune da cui,
a differenza dei milites, e secondo una logica propriamente antimagnatizia, risulteranno definitivamente esclusi alla metà del XIV secolo. Ma titolari di giurisdizioni, oltre che milites, possono essere
C. Re (a cura), Statuti della città di Roma, Roma, 1880, p. 217-222 (III, 35).
S. Carocci, Baroni di Roma. Dominazioni signorili e lignaggi aristocratici nel
Duecento e nel primo Trecento, Roma, 1993 (Coll. de l’École française de Rome,
181); M. Thumser, Rom und der römische Adel in der späten Stauferzeit, Tubinga,
1995; A. Rehberg, Kirche und Macht im römischen Trecento. Die Colonna und ihre
Klientel auf dem kurialen Pfründenmarkt (1278-1378), Tubinga, 1999.
6
E che Sandro Carocci ha molto contribuito a valorizzare, vedi soprattutto
Id., Una nobiltà bipartita. Rappresentazioni sociali e lignaggi preminenti a Roma
nel Duecento e nella prima metà del Trecento, in Bullettino dell’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 95, 1989, p. 1-52. Una esplicita proposta operativa di tripartizione, ma con la netta separazione dei baroni dalle altre due componenti, è
in A. Rehberg, Kirche und Macht... cit., p. 238-242.
7
S. Carocci, Il nepotismo nel medioevo. Papi, cardinali e famiglie nobili,
Roma, 1999.
4
5
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anche, specie nel Duecento, sia pure ad un livello ben inferiore, i nobiles viri implicati direttamente nel governo del comune. Senza contare che in quest’area, caratterizzata dall’accesso alle cariche comunali e dalla possibilità di divenire cavalieri, rientrano figure legate
esplicitamente alle pratiche mercantili e all’attività, tipica di Roma,
dell’imprenditore agricolo. Questi e altri tratti tipologici fondamentali relativi al riconoscimento sociale della superiorità (come lo stile
di vita e la pubblica fama) non possono dunque essere collocati in
una gerarchia di rilevanze dotata di significato costante : è proprio il
variare di questa gerarchia, anzi, a segnalarci non solo quali meccanismi ricorrono più frequentemente nella costruzione della «nobiltà» ma anche come varia il loro significato concreto. Si tratta allora
di analizzare la bipartizione fondamentale, per dir così, da fuori,
senza darla per scontata, come avrebbe fatto qualunque osservatore
«interno» al contesto, e come talora fanno gli storici. Qui interessa
invece non tanto insistere sui fattori sociali di contrapposizione, che
sono del tutto chiari, quanto provare a capire cosa c’è di peculiare in
questa articolazione : può essere utile per questo seguire gli usi della
terminologia della preminenza e della gerarchizzazione, la quale deriva in parte dal funzionamento di precisi circuiti di comunicazione
con realtà esterne e quindi da fenomeni di importazione culturale.
I baroni
Cominciamo dal baronato. A maggior ragione dopo la fine del
Duecento, con l’affermazione angioina in Italia meridionale, l’accostamento di alcune famiglie baronali romane alla feudalità meridionale appare immediato, ma anche foriero di equivoci. Le gravi lacune nella conoscenza dell’aristocrazia signorile meridionale ci impediscono di dire molto, ma il paragone con la Sicilia offre già qualche
utile punto di riflessione. È evidente infatti che nonostante che la
fonte dell’autorità del barone romano sia indiscutibilmente il papa,
il rapporto con quest’ultimo non è sovrapponibile a quello che lega i
baroni meridionali alla monarchia, sia a quella siciliana che a quella
napoletana. A designare il grande signore romano come barone è
l’indiscussa superiorità sociale fondata sull’esercizio di giurisdizioni
territoriali e non un preciso vincolo feudale 8 ; d’altra parte i baroni
medesimi godevano, specialmente nel Trecento, di una autonomia e
di una forza, all’interno delle loro signorie a composizione largamente allodiale 9, che non hanno riscontro tra i signori siciliani e,
8
Id., Vassalli del papa. Note per la storia della feudalità pontificia (XI-XVI), in
G. Barone, L. Capo, S. Gasparri (a cura), Studi sul Medioevo per Girolamo Arnaldi, Roma, 2001, p. 55-90, in particolare p. 65-69.
9
Id., Baroni di Roma... cit., p. 89-97, 105-154.
.
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forse, neanche tra quelli napoletani10. I baroni possono diventare
feudatari del re di Napoli, acquisire oltreché feudi anche cariche e
benefici ecclesiastici nel regnum11, ma non per questo muta il loro
profilo istituzionale e la loro fisionomia sociale.
Signori territoriali, familiares del papa, vassalli del re, ma non
solo. L’origine della forza dei baroni si intreccia con la nascita e lo
sviluppo del comune romano; cambiare prospettiva e guardare direttamente alla storia di quest’ultimo non significa necessariamente
spostarsi in un altro spazio sociale. Così, se guardiamo ai baroni dal
punto di vista della città comunale, la loro vicenda si lega al problema dello sviluppo comunale da almeno tre punti vista che distinguiamo per comodità benché riportino tutti ad un unico fenomeno.
Quella vicenda rafforza una prospettiva generale, quella dello sviluppo endogeno, cioè distinto da remote origini signorili, di tutte le aristocrazie urbane, comprese quelle più eminenti12 ; d’altra parte indica chiaramente gli effetti che la costruzione comunale aveva sul rinnovamento aristocratico e sulla nascita di nuovi soggetti (gli stessi
baroni, ad esempio); e sottolinea infine il problema della continuità
nell’occupazione degli uffici pubblici, anzi del massimo ufficio pubblico del comune (il senatorato nel nostro caso), come strumento di
rafforzamento dell’egemonia. Sui primi due punti, affrontati altrove
in questo volume, non mi soffermo; essi tuttavia sono molto legati
all’ultimo. L’origine fortemente urbana di tutte le aristocrazie romane, lignaggi baronali compresi13, contribuisce a spiegare infatti perché l’occupazione e poi il monopolio della massima carica del Campidoglio tra la metà del XIII secolo e la metà del XIV rivesta un ruolo centrale nelle strategie di questi ultimi; e contribuisce forse a
spiegare pure, anche se con minore precisione, guardando le cose da
10
Solo per la Sicilia vedi E. I. Mineo, Nobiltà di stato. Famiglie e identità aristocratiche nel tardo medioevo. La Sicilia, Roma, 2001, p. 167-175.
11
In particolare sugli Orsini vassalli del re di Napoli vedi F. Allegrezza, Organizzazione del potere e dinamiche familiari. Gli Orsini dal Duecento agli inizi del
Quattrocento, Roma, 1998, p. 43-70, 104-110.
12
È un giudizio sintetico che è impossibile articolare in questa sede. Esso dà
per noto che quella prospettiva sia stata ritenuta non adatta, ad esempio, alle vicende di alcune città lombarde e piemontesi : qui mi limito a rilevare come l’acquisizione del caso romano corrobori una linea interpretativa sostenuta recentemente, tra gli altri – e limitandomi ai contributi di carattere generale –, da Paolo
Cammarosano e Jean-Claude Maire Vigueur.
13
Sul comune come fattore di rinnovamento aristocratico e sull’origine interna allo spazio urbano di alcuni dei maggiori lignaggi baronali vedi S. Carocci,
Baroni di Roma... cit., p. 24-29; in sintesi vedi M. Vendittelli, Élite citadine : Rome aux XIIe-XIIIe siècles, in Les élites urbaines... cit., p. 183-191; S. CarocciM. Vendittelli, Società ed economia (1050-1420), in A. Vauchez (a cura), Storia di
Roma... cit., p. 79-89.
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un punto di vista interno alla loro storia, la propensione a non chiudersi mai in una prospettiva puramente signorile, ma al contrario a
difendere finché possibile l’egemonia all’interno dell’arena politica
comunale, e a cercare per questo di sviluppare, sia pure da posizioni
di forza, relazioni intense con il resto delle élites urbane14.
È probabilmente possibile dunque accostare la formazione del
baronato a fenomeni consimili di selezione aristocratica all’interno
delle società comunali del Duecento. Anche i lignaggi baronali provengono, come è stato più volte sottolineato, soprattutto da JeanClaude Maire Vigueur e Marco Vendittelli15, dall’interno di una aristocrazia urbana, militare e mercantile insieme, dominante nel primo secolo del Comune romano, tra metà XII e metà XIII secolo. E
anche essi assunsero i tratti propri di quei nuclei aristocratici ristretti che poi sarebbero stati definiti magnatizi in diverse città, come, ad esempio, Siena, Genova, o, Asti (diciamo, in breve, l’esercizio
di funzioni militari e il connesso stile di vita, la vocazione «naturale» a governare, la propensione neosignorile)16.
Anche qui non è mio compito approfondire : ricordare la provenienza del baronato serve a valorizzare un punto centrale nel mio
discorso, e cioè che nella prima metà del XIV secolo il parallelismo,
tra Roma e altre città comunali, venne gradualmente meno, e proprio a causa di un mutamento di ruolo dei lignaggi baronali. Questi
ultimi conobbero infatti un processo di emancipazione dalla loro
matrice cittadina (cittadina in quanto comunale), determinato da
molti fattori : il rafforzamento dei loro lineamenti signorili (in controtendenza rispetto alle dinamiche politiche di molti comuni centro-settentrionali); l’intensificazione della loro identità curiale e l’accentuarsi del respiro regionale e sovraregionale dell’azione di molti
14
Sulla politica clientelare alla fine del Trecento vedi A. Esch, Bonifaz IX.
und der Kirchenstaat, Tubinga, 1969, cap. IV, e, sistematicamente a proposito dei
Colonna, i lavori di A. Rehberg, Kirche und Macht, e Id., Familien aus Rom und
die Colonna auf dem kurialen Pfründenmarkt (1278-1348/78) in Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken, 78, 1998, p. 1-122; 79, 1999,
p. 99-214.
15
Cfr. M. Vendittelli, Élite citadine... cit., J.-C. Maire Vigueur, Il comune romano... cit., p. 123; P. Cammarosano, Il ricambio... cit., p. 36. Ma già S. Carocci,
Una nobiltà... cit., p. 48-52 aveva individuato il nodo.
16
Per Siena e i suoi «casati» vedi A. Giorgi, Il conflitto magnati/popolani nelle
campagne : il caso senese, in Magnati e popolani ... cit., p. 137-211; per Genova e le
sue quatuor gentes (Spinola, Doria, Grimaldi, Fieschi), vedi G. Petti Balbi, Magnati e popolani in area ligure, ibid., p. 249; per Asti e per l’aristocrazia degli hospicia a vocazione neosignorile vedi R. Bordone, Progetti nobiliari del ceto dirigente del comune di Asti al tramonto, in R. Bordone-G. Sergi (a cura), Progetti e dinamiche nella società comunale italiana, Napoli, 1995, p. 279-326, in particolare,
p. 311-326.
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50
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dei loro esponenti. Rispetto a questo punto occorre infatti dire che
crebbe nel Trecento, all’interno del baronato, l’investimento nella
carriera politico-amministrativa nell’ambito dello stato della chiesa
(anche dopo il trasferimento del papato ad Avignone), e dunque la
tendenza, che nell’età dell’Albornoz in alcuni casi si accentua, a occupare uffici pubblici come i rettorati delle province e i vicariati di
alcune città17 ; pesò infine, non occorre dimenticarlo, anche una sfavorevole congiuntura politica, aperta nel 1347 dalla prima affermazione di Cola di Rienzo. Su questo ultimo punto torneremo più
avanti. Intanto va sottolineato come tale complesso fenomeno di
emancipazione, in parte voluto, in parte subito, si delinei con chiarezza nel corso del XIV secolo – cioè quando il comune romano è
ancora ben vivo – e come poi in quello successivo si intrecci con lo
sviluppo della corte pontificia come corte italiana e internazionale
assai più che romana, e come tutto ciò determini la graduale distinzione tra la dinamica aristocratica tardocomunale di molte città
centrosettentrionali e quella che caratterizza nello stesso periodo la
città di Roma. Emerge in altre parole una specifica insufficienza
dello schema ordinario di inquadramento delle dinamiche politiche
– ed aristocratiche – delle società pieno e tardocomunali, e cioè dello
schema magnati/popolani18.
La sua validità, se applicato alla Roma del Trecento, riguarda la
ricezione da parte di alcuni dei governi popolari che si succedono
dalla metà e soprattutto dalla fine del Duecento, delle procedure antimagnatizie adottate in alcune città, dalle misure di esclusione alla
redazione di liste vere e proprie di magnati : un esempio ben noto è
quello dell’importazione nel 1338 degli Ordinamenti di giustizia fiorentini19. Riguarda cioè – ed è certo importante – lo stile del conflitto
politico, di sapore, in effetti, molto comunale, e un involucro normativo e istituzionale. Non riguarda però, mi sembra, la natura profonda del conflitto e della contrapposizione politica, per cui la logica
della differenziazione tra campo magnatizio e campo popolare si at-
17
Ancora sul caso emblematico degli Orsini vedi Allegrezza, Orsini... cit.,
p. 104-108.
18
Un primo inquadramento in G. Castelnuovo, L’identità politica delle nobiltà cittadine (inizio XIII-inizio XVI secolo), in Bordone, Castelnuovo, Varanini, Le
aristocrazie cit., p. 209-215. Sulla realtà romana vedi in particolare S. Carocci,
Comuni, nobiltà e papato nel Lazio, in Magnati e popolani... cit., p. 213-241, J.C. Maire Vigueur, Il comune... cit., p. 141-147.
19
In un caso è esplicita l’assunzione del sistema costituzionale fiorentino come modello, esattamente quando, nel 1338, il «popolo» di Roma chiede – la fonte
è Villani – con un’ambasceria una copia degli Ordinamenti di giustizia, vedi
E. Duprè Theseider, Roma dal Comune di Popolo alla signoria pontificia, Bologna,
1952, p. 504 s.; vedi anche S. Carocci, Comuni... cit., p. 239.
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taglia difficilmente allo scenario romano trecentesco, almeno a proposito dell’equiparazione magnati/baroni, e per almeno due ordini
di ragioni.
Diversamente da altre realtà, la designazione magnatizia (o popolare), e la connessa ascrizione ad un ambito di famiglie o di individui che può essere formalizzato, in momenti di acuto scontro politico, con la redazione di norme antimagnatizie, di liste di proscrizione ecc., in nessun modo, a Roma, può pensarsi come una
designazione temporanea o strumentale al gioco politico; e quindi la
transitività e la relatività dello statuto magnatizio, che pare segnare
il sistema politico tardocomunale in realtà come Firenze e Bologna 20, la possibilità «di essere inseriti o di venire espunti a seconda
delle scelte politiche delle autorità comunali» 21 da una lista di magnati, sono tutti fenomeni irreperibili nel contesto romano, nel quale invece quel medesimo statuto mantiene i caratteri di un abito attribuibile, in modo apparentemente oggettivo, ai soli lignaggi baronali. Ciò significa che, mentre, come ha notato Carocci 22, lo schema
ordinario prevede che i cosiddetti magnati, per dir così, subiscano
l’identificazione, a Roma, al contrario, la fascia superiore della società politica si autodefinisce prima e indipendentemente dall’apertura della procedura di esclusione dal gioco politico comunale, che,
come è noto, è formalmente sancita dagli Statuti del 1363 ma che
era stata tentata più volte in precedenza, fin dal primo esperimento
«popolare» del senatore bolognese Brancaleone degli Andalò (12531257). L’altra ragione di difficile applicabilità dello schema magnatipopolani alla realtà romana consiste allora proprio in questa peculiare rigidità della gerarchia aristocratica che si va formando nella
prima metà del XIII secolo, una rigidità determinata dalla divaricazione sociale sempre più netta tra il livello baronale e il resto delle
élites. Ancora la vicenda della esclusione antimagnatizia mostra co20
Con approcci molto diversi, ma convergenti, i contributi di C. Klapisch su
Firenze : in particolare Id., Kinship and politics in fourteenth-century Florence, in
D. I. Kertzer, R. Saller (ed.) The family in Italy from Antiquity to the present, New
Haven-Londra, 1991, p. 208-228, Id., Honneur de noble, renommée de puissant : la
définition des magnats italiens (1280-1400), in Médiévales, 24, 1993, p. 81-100, Id.,
Vrais et faux magnats. L’application des Ordonnances de justice au XIVe siècle, in
Magnati e popolani... cit., p. 243-272, e, recentemente, il libro di G. Milani su Bologna, L’esclusione dal Comune. Conflitti e bandi politici a Bologna e in altre città
italiane tra XII e XIV secolo, Roma, 2003, in particolare cap. VI e p. 377-398. Rimangono fondamentali le ricerche di G. Fasoli, Ricerche sulla legislazione antimagnatizia in Italia, in Rivista di storia del diritto italiano, 12, 1939, p. 86-133, 240309 e le considerazioni di E. Cristiani a partire dal caso pisano, Id., Nobiltà e popolo nel comune di Pisa. Dalle origini del podestariato alla signoria dei Donoratico,
Napoli, 1962, p. 72-94.
21
G. Castelnuovo, L’identità politica... cit., p. 213.
22
S. Carocci, Una nobiltà... cit., p. 46.
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52
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me gli elenchi nominativi di soggetti toccati da misure di controllo e
di ritorsione, che forse già esistevano alla fine del Duecento, comprendessero solo i lignaggi baronali, mai nomi di semplici milites o
nobiles viri : benché quest’ultimo segmento aristocratico appaia distinto, ancora nel 1363, dal mondo «popolare», esso non subì alcun
processo di «magnatizzazione» 23. La norma statutaria ci fa capire
bene in che ambiente ci troviamo : coloro che sono individuati per
l’attività e lo stile di vita militari (milites sive de genere militis) sono
accomunati a quelli che dispongono di un reddito superiore alle
2000 libbre 24 ; la ricchezza poteva spingere, oggettivamente, nella fascia dei nobiles viri, ma non valeva in alcun modo a introdurre nella
cerchia esclusiva dei baroni. E chi non era affiliato a costoro non
correva rischi di essere posto ai margini dell’arena politica, fosse o
non fosse miles.
Tutto ciò favorì una profonda rottura all’interno di un contesto
aristocratico particolarmente articolato e lo sganciamento del baronato – nelle fasi mature di questo processo – dai meccanismi della
legittimazione comunale del potere. Tale sganciamento fu evidentemente subito dal baronato nella fase della massima affermazione
dei regimi di popolo, da Cola di Rienzo in avanti, ma da qui scaturirà il fenomeno nuovo cui abbiamo accennato prima, l’estraneità della fascia superiore della nobiltà cittadina non solo al blocco di potere che governerà la città nel secondo Trecento, ma anche e soprattutto alle logiche della legittimazione aristocratica che l’appartenenza alla classe dirigente comunale poteva garantire. Il conflitto, a
tratti assai duro, che oppose pezzi del mondo baronale al comune
popolare e alla sua variegata classe di governo, non si tradusse cioè
in estraneità allo spazio politico cittadino ma alla classe di governo
comunale in quanto tale e fu possibile in forza dell’efficacia degli altri fattori di legittimazione del baronato, rispetto ai quali il sistema
politico comunale manifestò tutta la sua fragilità. Ciò che va sottolineato a questo punto è come tale estraneità, cioè la lontananza radicale dalla sfera dei ceti dirigenti urbani, divenisse anche oggettiva
indisponibilità a possibili convergenze oligarchiche. Riprenderemo
questo punto : va però subito sottolineato che in questa divergenza
dalle tendenze, che emergono in molte città comunali, alla ricompo-
23
Sugli elenchi, vedi ibid., p. 19-25, 39; L’elenco «ufficiale» contenuto negli
Statuti del 1363 è in C. Re (a cura), Statuti... cit., p. 191-2 (II, 201).
24
Si tratta della norma che appunto raddoppia le pene pecuniare a danno di
tali soggetti, ibid., p. 108 (II, 47). In essa non si fa cenno ai baroni o magnati. Nelle norme successive, ad esempio ibid., p. 109-111 (II, 49 e 50, sui reati di lesione
personale), le pene pecuniarie sono graduate a seconda di chi commette il reato :
un miles paga il doppio di un pedes, ma un magnate il quintuplo.
.
NOBILTÀ ROMANA E NOBILTÀ ITALIANA (1300-1500)
53
sizione oligarchica dei gruppi dirigenti, vi è uno dei segni più forti
del perdurare dello schema dicotomico da cui siamo partiti. Lo
sguardo comparativo mette in luce, a questo proposito, tutta la specificità romana. Giacché a Roma la divaricazione fra i poli della
«nobiltà bipartita», che pure avevano una comune, ma sempre più
lontana, origine urbana, si è allargata drammaticamente nel corso
del Trecento determinando una polarizzazione dai caratteri inediti,
diversi dai caratteri dell’articolazione aristocratica di un secolo, o
secolo e mezzo, prima, ancora molto affini a un idealtipo comunale : da un lato i baroni emancipati dal bisogno di riferirsi al comune
come fonte di legittimazione, e dunque incompatibili con il modo in
cui la storiografia ha definito la presenza magnatizia all’interno dell’universo politico comunale, dall’altra un complesso insieme di presenze, del quale fanno parte soggetti che vengono definiti ora populares ora milites ora nobiles viri, tutti accomunati dalla partecipazione alla classe di governo nell’ultima fase del comune romano.
Certo, l’affermarsi del Popolo e l’estromissione dei baroni dal governo del Comune non fu affatto indolore per questi ultimi, a conferma del fatto che, nelle loro strategie, le risorse politiche urbane
avevano un peso molto forte. Le conseguenze furono inoltre aggravate dalla concomitante lontananza del papa e della curia. Nel medio periodo l’intreccio dei due fenomeni modificò in modo sostanziale la fisionomia del baronato romano, in particolare determinando una dura selezione al suo interno 25. Nella doppia empasse molto
più condizionanti dovettero però risultare le difficoltà intervenute
nel rapporto con il pontefice. I processi politici del secondo Trecento rivelano infatti con maggiore precisione la strutturale dipendenza
della maggiore nobiltà dal papa come fonte insostituibile di legittimazione e la distanza del baronato dal profilo istituzionale di buona
parte dell’alta aristocrazia (principesca e non) dell’Europa francogermanica. Invece proprio in questo (e solo in questo) la parabola
dei baroni ha qualche tratto di analogia con la vicenda dello strato
superiore dell’aristocrazia siciliana. Anche qui vediamo agire un piccolo nucleo di grandi lignaggi signorili (la cosiddetta aristocrazia comitale), nettamente sovraordinato alle restanti parti della società
politica; un nucleo «magnatizio» egemone già nel primo e poi strapotente nel secondo Trecento, ma alla lunga vittima proprio della
debolezza, e più tardi, alla fine del secolo, dell’assenza della corona 26.
25
S. Carocci, Baroni di Roma... cit., p. 58-66; F. Allegrezza, Trasformazioni
della nobiltà baronale nel Trecento, in P. Delogu (a cura), Roma medievale. Aggiornamenti, Roma, 1998, p. 211-220. Era una selezione che comunque era iniziata
ben prima; S. Carocci, Una nobiltà... cit., p. 36-38.
26
E. I. Mineo, Nobiltà di stato... cit., p. 158-167, 248-251.
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E. IGOR MINEO
È banale ma non inutile ricordare ora che il difficile ritorno del
papa nell’Urbe e la traumatica fine del Comune nel 1398 non costituì
affatto il ripristino degli equilibri di un secolo prima : la ripresa in
grande stile dell’iniziativa dei grandi lignaggi, in primis dei Colonna
e degli Orsini, avvenne dentro un contesto profondamente trasformato, e ancora più di prima segnato dalla centralità della monarchia
pontificia. Dal nostro punto di vista questa nuova centralità ebbe in
particolare l’effetto di ridefinire, lungo tutto il XV secolo, le forme
stesse della preminenza sociale. Gli attori in competizione si moltiplicarono a misura che la corte del papa e gli uffici della curia apostolica divenivano spazi sempre meno romani e sempre più italiani
o internazionali. La radicale trasformazione del ruolo dei fiorentini
nel corso del Quattrocento messa in luce da A. Esch è, a questo proposito, esemplare 27. È un quadro che non può essere definito qui :
mi limito solo a richiamare il processo di addomesticamento che i lignaggi baronali dovettero affrontare, per acquisire la capacità di
muoversi in un contesto politico sempre meno «locale», un luogo
nuovo, che attraeva famiglie, talora di origini assai recenti, che l’azione dei papi del Rinascimento andava promovendo rapidamente
al rango principesco 28.
Milites, nobiles viri, populares
Se spostiamo ora l’attenzione sulla parte non baronale della
classe politica, cioè sui soggetti implicati nel governo del comune
popolare, torna a essere in parte riconoscibile la logica «comunale»
di definizione dei soggetti politici e in particolare la consueta distinzione tra milites e popolo, codificata dagli statuti del 1363. Con qualche cautela, naturalmente : questi milites sottratti, come abbiamo
visto, ai tormenti della magnatizzazione si discostano per questo
dalle aristocrazie militari che siamo abituati a incontrare in altre città comunali. Ciò che torna davvero riconoscibile è invece un altro
tratto ricorrente della dinamica politica tardocomunale, ossia la permeabilità dei confini che dividono i gruppi che compongono la società politica nella stagione più matura di affermazione del «popolo» come forma sociale e come regime; e il carattere di conseguenza
fluido, relazionale, più politico e fazionario che non connotativo di
sottostanti identità sociali, delle designazioni che compaiono nelle
27
A. Esch, Florentiner in Rom um 1400, in Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken, 52, 1972, p. 476-525, e, in generale, Id., Rome entre le Moyen Âge et la Renaissance, Stoccarda, 2000, p. 22 sgg.
28
Un disegno di questo contesto, del carattere centripeto della curia romana
rispetto a tanta parte delle élites italiane e europee, in molti contributi contenuti
in S. Gensini, Roma capitale (1447-1527), Pisa, 1994.
.
NOBILTÀ ROMANA E NOBILTÀ ITALIANA (1300-1500)
55
fonti. Così il complesso di forze, descritto in un celebre passo dell’Anonimo romano 29, che sostengono l’esperimento di Cola di Rienzo
è attraversato da clivages sociali percepibili ma non nettissimi, tanto
che lo stesso Anonimo può dare voce altrove al senso diffuso della
partizione primaria opponendo semplicemente «tiranni» e «bona
iente» 30 ; si tratta di forze (definite da formule quali «moiti popolari
descreti» o «bona iente») che, come vedremo fra poco, la pratica di
governo e il confronto con il papa da un lato, con i baroni dall’altro,
tende a riunire in un quadro di compatibilità se non di solidarietà.
Come fare per mettere a fuoco questo che emerge come un panorama indistinto? Due fattori connotativi possono essere subito
utili. Il primo si riferisce al problema della continuità della classe dirigente comunale; il secondo alla sua articolazione interna. Alcuni
indizi potrebbero far ritenere che l’élite che guida la fase più accentuatamente «popolare», grosso modo dall’esperienza di Cola di
Rienzo in avanti, non abbia collegamenti significativi con l’aristocrazia senatoria egemone tra fine XII e metà del XIII secolo, egemone cioè prima dell’affermazione politica (anche al vertice del Comune) del baronato 31. Ma sul problema delle correlazioni prosopografiche di medio periodo (ancora assai ostico) prevale il senso di una
discontinuità sociale e soprattutto politica. La cosiddetta aristocrazia senatoria di XII e XIII secolo era aperta a soggetti variamente caratterizzati, e fra questi spiccavano quelli dotati di grandi capacità
imprenditoriali e finanziarie, ai quali peraltro né la militia né la ricerca di un radicamento signorile apparivano preclusi 32. Il profilo
sociale dell’élite popolare trecentesca è parzialmente diverso e ancora bisogno di precisazioni (sebbene molto più nitido dell’immagine,
ancora largamente immaginaria, come vedremo, delle élites quattrocentesche). Al centro c’è la funzione economica esercitata dai grandi
imprenditori agricoli, detti a Roma bovattieri, e cioè un nucleo di
nuovi proprietari o affittuari di casali sparsi nella campagna roma-
29
«Puo’ questo adunao moiti romani puopolari descreti, e buoni homini :
anco ‘nfra questi ‘nce fuoro cavallerotti, e de bono lennajo, moiti descreti et ricchi
mercatanti», Anonimo romano, Cronica, Milano, 1981, p. 151.
30
Ibid., p. 160.
31
Indizi nella storia dei Porcari, affermatisi nel secondo Trecento, nonostante che qualche notizia individui il nome già tra XII e XIII secolo, A. Modigliani, I
Porcari. Storie di una famiglia romana tra Medioevo e Rinascimento, Roma, 1994,
p. 10-32; come pure nelle vicende dei Leni : in questo caso, le notizie della seconda metà del Duecento appaiono distanziate da quelle che emergono a partire dagli anni ’60 del Trecento, v. I. Ait, M. Vaquero Piñeiro, Dai casali alla fabbrica di
S. Pietro. I Leni : uomini d’affari nel Rinascimento, Roma, 2000, p. 15-29.
32
M. Vendittelli, Mercanti romani del primo Duecento «in urbe potentes», in
É. Hubert (a cura), Roma nei secoli XIII e XIV. Cinque saggi, Roma, 1993 (Coll. de
l’École française de Rome, 170), p. 87-135, in particolare p. 108-112, 118-122.
.
56
E. IGOR MINEO
na, in larga parte ceduti dagli enti ecclesiastici e dalle famiglie baronali colpite, dopo il trasferimento del papato ad Avignone, da una
crisi altrettanto politica che economica. È un campo di preminenza
sociale, fondata esplicitamente sulla forza economica, che contiene
ovviamente la fascia alta dei mercanti. Le fonti notarili ne rivelano
una certa omogeneità sociale, anche con una qualche tendenza
all’endogamia : esso non è tuttavia sempre ben distinguibile né dalle
componenti più attive del mondo artigianale, innanzitutto lanaioli e
macellai, né da coloro che le fonti statutarie chiamano cavallerotti 33.
Cosa si può sapere in effetti dell’articolazione interna di questo
spazio sociale, cioè del blocco politico che si afferma nel corso del
XIV secolo? Non si tratta certo di un campo socialmente indifferenziato, e gli storici hanno tentato di cogliere l’articolazione dei soggetti in campo. Lo hanno fatto individuando due piani di costruzione della soggettività aristocratica, di rilievo ben diverso, che in sé
non hanno nulla di peculiarmente romano. Il primo piano è quello
della distinzione fra Arti maggior e Arti minori : risalente alla riforma complessiva di Brancaleone degli Andalò della metà del Duecento, essa aveva sancito il predominio delle due Arti dei bovattieri e dei
mercanti 34. Questa distinzione e il suo consolidarsi avrebbe dato forma alla superiorità, sui componenti delle Artes submissae, di una fascia sociale la cui forza viene consolidata dal processo cui si è prima
accennato di trasferimento di gran parte della proprietà dei casali
della campagna romana. Il secondo piano è costituito dal problema
dei cavalieri. Un articolo molto discusso, e che abbiamo già considerato, degli statuti del 1363 ci segnala con assoluta chiarezza una distinzione che ricorre in altre società comunali, quella fra i milites de
genere militum, cioè provenienti da famiglie già cavalleresche, e i milites professionali, coloro che altrove verrebbero detti milites pro comune e che in questo testo sono definiti «cavallerotti», combattenti
a cavallo al servizio del comune. Tuttavia, come ne serbano memoria, probabilmente in quanto traccia di precedenti redazioni, i me-
33
Le ricostruzioni fondamentali sono ancora quelle di C. Gennaro, Mercanti
e bovattieri nella Roma della seconda metà del Trecento (da una ricerca su registri
notarili), in Bullettino dell’Istituto storico italiano per il medioevo, 78, 1967, p. 155203; di A. Esch, Bonifaz IX.... cit., cap. IV, in particolare p. 238-246, e Id., La fine
del libero comune di Roma nel giudizio dei mercanti fiorentini. Lettere romane degli
anni 1395-1398 nell’Archivio Datini, in Bullettino dell’Istituto storico italiano per il
medioevo, 86, 1976-77, p. 235-277; di J.-C. Maire Vigueur, Classe dominante et
classes dirigeantes à Rome à la fin du Moyen Âge, in Storia della città, 1, 1976, p. 426; più recentemente cfr. I. Lori Sanfilippo, La Roma dei Romani. Arti mestieri e
professioni nella Roma del Trecento, Roma, 2001, p. 95-122 (sui bovattieri).
34
E. Duprè Theseider, Roma... cit. p. 26-30; I. Lori Sanfilippo, La Roma...
cit., p. 67-68.
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NOBILTÀ ROMANA E NOBILTÀ ITALIANA (1300-1500)
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desimi statuti negano l’attualità e l’efficacia istituzionale della distinzione, facendoci cogliere l’esito di un processo di cambiamento e
di omogeneizzazione. Lo stesso articolo che la descrive non trae infatti nessuna conseguenza pratica dalla distinzione, anzi accomuna
milites e cavallerotti (insieme con i soggetti che godono di un reddito superiore alle 2000 lire) sottoponendoli al raddoppiamento delle
pene pecuniarie 35. L’ininfluente distinzione miles vel de genere militum seu caballeroctus 36 a volte torna 37, altre no. Così, nell’articolo
cruciale sulle regole elettorali, si distingue semplicemente tra cavallerotti (termine riassuntivo, che assorbe ovviamente tutti i milites) e
populares 38. Questi ambiti, «militia» e «popolo», a loro volta sono
intrecciati, perché da un lato l’esistenza di un’unica militia all’interno della quale l’antichità di lignaggio non ha una funzione caratterizzante, e dall’altro la forza economica dei possessori dei casali e
dei mercatores, creano le condizioni affinché i due campi individuati
dalle fonti da termini come milites (o nobiles, o anche nobiles mediocres 39) e come populares entrino in contatto e si sovrappongano parzialmente. In effetti è significativo che in un altro testo statutario,
quello dell’Arte dei mercanti, la percezione della distinzione tra mercatores da un lato e, dall’altro, nobiles viri sive milite, o nobiles, rimanga circoscritta alla redazione originaria del 1317 e non torni mai
nelle aggiunte successive 40.
La linea interpretativa che sembra essersi affermata, inaugurata
nel 1967 da un saggio fortunato di Clara Gennaro, tende così a discutere, se non a negare del tutto, il carattere formalizzante delle distinzioni offerte dalle fonti. Nel linguaggio notarile, ad esempio, come ha notato Maire Vigueur, l’espressione nobilis vir non ha un’implicazione propriamente giuridica : serve a segnalare, all’interno di
un campo di generica preminenza sociale, le famiglie, e i nomi con
esse, strutturatesi meno di recente : un’etichetta mobile dunque 41.
35
C. Re (a cura), Statuti... cit., p. 108 (II, 47); M. Franceschini propone che
la distinzione di pieno trecento tra nobiles/milites e populares derivi direttamente
dall’appartenenza alle Arti maggiori o a quelle submissae, vedi Id. Populares, cavallarocti, milites vel doctores. Consorterie, fazioni e magistrature cittadine, in
M. Chiabò, G. D’Alessandro, P. Piacentini, C. Ranieri (a cura), Alle origini della
nuova Roma. Martino V (1417-1431). Atti del convegno, Roma, 2-5 marzo 1992,
Roma, 1992, p. 291-300, in particolare p. 293 e sg. e nota 13.
36
C. Re, Statuti... cit., p. 92.
37
A puro titolo di esempio vedi II, 27 (ibid., p. 102).
38
Ibid., p. 217-222 (III, 35).
39
Nel 1351 Clemente VI scrive in una sua lettera che il senatore può essere
scelto de nobilibus maioribus vel mediocribus aut popularibus, vedi Dupre Theseider, Roma... cit., p. 625.
40
G. Gatti, Statuti dei mercanti di Roma, Roma, 1895, p. 34, 44.
41
J.-C. Maire Vigueur, Classe dominante... cit., p. 5; vedi anche per alcuni
esempi efficaci H. Broise-J.-C. Maire Vigueur, Strutture familiari, spazio domesti-
.
58
E. IGOR MINEO
Lungo quella linea interpretativa veniva piuttosto sottolineato come
tutte le differenze sociali, anche quelle più marcate, compresa quella
corrispondente al primato sociale dei bovattieri, sfumassero nel confronto con lo spazio baronale, percepito come nettamente distanziato : come continuasse cioè a prevalere su ogni altra – e su questo tutta la storiografia è concorde – il senso della «bipartizione» primaria.
La forte differenza fra lo spazio sociale occupato dai baroni e quello
della compagine che guida, pur con gravi divisioni al suo interno, il
Comune nel secondo Trecento aveva su quest’ultimo un effetto accomunante che è solo in parte distorsivo : per cui cavallerotti, bovattieri, «popolo» delle arti sono designazioni che rinviano a campi sociali che non mostrano una fisionomia identitaria né costante né
sempre riconoscibile, e che invece la pratica di governo tende, almeno in parte, a unificare 42. Una raffigurazione assai eloquente della
profondità del clivage in questione, e, di riflesso, della relativa omogeneità dei campi sociali contrapposti viene dalla geografia urbana e
dalla distinzione nettissima tra le forme dell’insediamento baronale,
caratterizzato dal prevalere di un modello di residenza fortificata
«chiusa» nei confronti dello spazio circostante, e i modi di insediamento della nobiltà non baronale, pienamente integrata nel tessuto
urbano e nel suo sistema relazionale 43.
Proviamo a riassumere. Se gettiamo lo sguardo sul movimento di
lunga durata, siamo di fronte, a quanto pare, a fenomeni ripetuti di
forte discontinuità nella classe dirigente : probabilmente per ciò che
riguarda la sua composizione, sicuramente nei meccanismi di legittimazione, e in quelli di significazione dei termini della preminenza.
La classe dirigente del primo comune, fino al 1250, prima che il baronato affermasse il suo netto predominio, lascia il posto a un elite condizionata appunto da questa nuova egemonia, la quale, a sua volta,
dalla metà del Trecento circa (o poco prima), lascia il posto ad una
composita compagine aristocratica, caratterizzata socialmente in
modo parzialmente diverso rispetto alla precedente, e i cui confini interni vengono via via attenuati dalla pratica di governo, una compagine cementata politicamente dal conflitto che oppone ora il Comune
co e architettura civile a Roma alla fine del Medioevo, in Storia dell’arte italiana,
Parte terza, V, Torino, 1983, p. 111, 125-130.
42
Scriveva nel 1976 J.-C. Maire Vigueur : «Mieux vaudrait d’ailleurs parler
d’un parti que d’une catégorie sociale, puisque ce popolo grasso [nella lettura dell’autore la parte dei bovattieri più implicata nel governo cittadino e più in contatto per questo con le componenti artigianali e «popolari»] recouvre des groupes
hétérogènes, étroitement unis vers le haut avec le «cavalerotti» mais qui se confondent vers le bas avec le popolo minuto» (Id., Classe dominante... cit., p. 20).
43
S. Carocci, Baroni in città. Considerazioni sull’insediamento e i diritti urbani della grande nobiltà, in É. Hubert (a cura), Roma nei secoli XIII e XIV... cit.,
p. 139-179, in particolare p. 140-146.
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NOBILTÀ ROMANA E NOBILTÀ ITALIANA (1300-1500)
59
non solo al papa ma anche ai baroni. Queste transizioni spiegano i
mutamenti di significato di un lessico che resta, in parte, immutato :
spiega ad esempio come «nobiles viri», termine che fino alla seconda
metà del XIII secolo poteva essere adoperato per connotare tutti i livelli della supremazia sociale, baroni compresi, indichi successivamente solo un segmento dell’aristocrazia, quello dei milites cittadini 44. Ecco perché la distinzione tra milites/nobiles viri e popolo ha un
senso diverso nel primo e nel secondo Trecento e perché dunque lo
schema comunale «ordinario» fondato su quella stessa distinzione, e
che attribuisce ai milites alcuni tratti nobiliari, manifesta un’inadeguatezza sempre più evidente : questi nobiles viri esprimono infatti
una «nobiltà» incommensurabile con quella dei baroni, come talora
non mancano di percepire gli stessi contemporanei, meglio se non romani 45 ; essi, i milites, non sono nel Trecento la fascia inferiore di un
mondo nobiliare (nobiliare in quanto cavalleresco) di cui i baroni costituiscono il vertice. Così come d’altra parte questi ultimi non sono
più percepiti come parte della militia urbana.
Alla fine del Trecento, dopo mezzo secolo di regimi differenti,
dai Reformatores reipublice ai Conservatori della Camera capitolina
alla Felice Società dei Balestrieri e Pavesati, differenti ma collegati
da un’ispirazione istituzionale coerente e dall’idea di un prudente allargamento della base sociale rappresentata, non è dunque a caso
che la vicenda politica che prelude alla conclusione traumatica del
regime comunale, e cioè il conflitto che oppone populares e nobiles,
distingua in realtà fazioni dotate della medesima caratterizzazione
sociale. Come scrive con un pizzico di retorica ma con grande efficacia A. Esch, alla fine del secolo l’alternativa non è tra la Roma dei
nobiles e la Roma dei populares, ma fra la Roma dei romani e la Roma del papa 46. Si tratta di fazioni nella cui identificazione pesa grandemente il collegamento con i massimi lignaggi baronali, gli Orsini
(cui sono legati i populares) e i Colonna (capifila dei nobiles), vere
stelle polari del movimento politico : ciò vale già alla fine della vicenda del comune, quando questi ultimi agiscono ancora in posizione esterna rispetto all’arena urbana vera e propria, e vale ovviamente ancora di più allorché si sono sciolte formalmente le ragioni dell’ostracismo antimagnatizio.
Id., Una nobiltà... cit., p. 9-10.
È il caso di un anonimo cronista che nel 1393 soggiorna a Roma e descrive
la realtà politica locale divisa appunto dal conflitto tra nobiles e populares, precisando però che i primi non sono davvero ‘nobili’, secondo il suo parametro, ma
solo i cittadini più ricchi e influenti, v. A. Esch, Bonifaz IX.... cit., p. 240 (che si
rifà all’edizione di H. Finke, Eine Papstchronik des 15. Jahrhunderts, in Römische
Quartalschrift für christliche Altertumskunden und für Kirchengeschichte, 4, 1980).
46
A. Esch, Bonifaz IX., p. 245, Id. La fine... cit., p. 270.
44
45
.
60
E. IGOR MINEO
Se facciamo un salto in avanti di poco meno di un secolo, fino
agli anni Ottanta del Quattrocento, constatiamo gli esiti formali, ancora di tipo lessicale, del processo che abbiamo delineato. In alcune
disposizioni suntuarie, che adottano un vocabolario più aggiornato
di altre fonti normative (come le nuove redazioni di statuti), la dicotomia nobiles/populares ha lasciato il posto a un’altra il cui significato non posso indagare qui ma che non casualmente oppone «gentiluomini o antiqui popolari» a mediocri citadini 47. E gentilhomini è
anche, qualche anno più tardi, il termine adoperato da Marco Antonio Altieri per designare una compagine che non è attraversata da
distinzioni relative all’origine delle famiglie, e la cui autocoscienza
nobiliare si fonda ancora – siamo nel Cinquecento inoltrato – sul
senso della separatezza dai baroni 48.
Un processo oligarchico bloccato
Rafforzandosi la natura clientelare e fazionaria dell’affiliazione
politica, il XV secolo si apre così nel segno dello svuotamento di un
meccanismo designativo che ancora cinquanta anni prima possedeva un contenuto sociale verificabile : è l’esito di un lungo processo di
trasformazione, che ha destituito gradualmente di senso la distinzione tra nobiles e populares mentre una dinamica fazionaria, che
peraltro non si arresterà mai nei decenni successivi, attraversa ora
l’unico campo dei nobiles viri 49. È accaduto cioè che la funzione connotativa della milizia urbana (i cavallerotti degli statuti del 1363 che
partecipano agli onori dei ludi miltareschi) e della appartenenza alle
arti maggiori (mercanti e bovattieri in primis), una funzione, appunto, ancora forte non molto tempo prima, ha perso efficacia rispetto
ad altri modi di partecipazione politica, quelli della prossimità a luoghi radicalmente esterni allo spazio istituzionale comunale, la curia
e i baroni.
È abbastanza prevedibile che in un contesto del genere fenomeni di selezione oligarchica, paragonabili a quelli che si andavano delineando in molte città, comunali e non 50, stentassero a mettersi in
Archivio Storico Capitolino, Cred. IV, 88, f. 172v.
S. Kolsky, Marco Antonio Altieri’s Roman Weddings, in Renaissance Quaterly, 40, 1987, p. 49-90.
49
A. Modigliani, «Li nobili huomini di Roma». Comportamenti economici e
scelte professionali, in S. Gensini (a cura), Roma capitale... cit., p. 350 e sg. Di
«fusione tra nobiles e populares» parla la medesima studiosa in Continuità e trasformazione dell’aristocrazia municipale romana nel XV secolo, in Roma medievale... cit., p. 268.
50
Ibid., p. 269. Per i processi oligarchici in Italia centrale e nello stato pontificio in particolare vedi soprattutto i molti studi di Giacomo Bandino Zenobi, sintetizzati in Id., Le «ben regolate città». Modelli politici nel governo delle periferie
pontificie in età moderna, Roma, 1994. Per una visione d’insieme dell’Italia cen47
48
.
NOBILTÀ ROMANA E NOBILTÀ ITALIANA (1300-1500)
61
moto e che non trovassero così applicazione i nuovi moduli aristocratici «postcomunali» circolanti in Italia, e verosimilmente ben noti alle élites locali così come lo erano stati i modelli comunali di definizione della preminenza. Le cause fondamentali di questa discontinuità sono abbastanza evidenti e possono essere genericamente
riassunte così : da un lato consistono nella debolezza della classe di
governo «popolare» del secondo Trecento; dall’altro riportano al nodo della frattura consumatasi fra Due e Trecento all’interno della società politica, e cioè al problema dei rapporti o della «compatibilità»
tra i vecchi soggetti della «nobiltà bipartita» comunale (o tra i loro
eredi). Sviluppare un po’ questi accenni sulla base di una comparazione leggermente diversa da quella condotta fin qui consente di
constatare la persistenza di alcuni tratti della dinamica aristocratica
trecentesca (insieme però a novità altrettanto rilevanti).
Il punto di partenza è ovviamente la fine traumatica dell’indipendenza del comune nel 1398, con la neutralizzazione della sua sostanza istituzionale e il progressivo rafforzamento del controllo pontificio sulla città 51 : l’evento sembra fissare definitivamente l’originalità del caso romano, e in particolare la sua difformità rispetto agli
schemi usuali di classificazione dei gruppi dirigenti in area tardo e
postcomunale. È proprio la coda di un ipotetico schema «comunale» di evoluzione del potere locale – l’irrigidimento della classe di governo come corpo aristocratico – che nel nostro caso non si pone, o
si pone in forme molto specifiche. Dal punto di vista storiografico
ciò significa che, a questa altezza cronologica, a fine Trecento, Roma, dopo esserci entrata con qualche fatica, esce dall’orizzonte comunalistico. Bisogna riconoscere che questo scostamento ha contribuito a consolidare un evidente deficit analitico, che consente di fissare per ora solo qualche punto di orientamento.
Ne vorrei indicare due che mi sembrano particolarmente interessanti e che possono essere trattati insieme : quello che si riferisce
alla durata della tendenza in atto e, come accennavo, quello che tocca il nodo della «compatibilità» dei diversi segmenti della società
politica teoricamente interessati alla dinamica che non si attivò (o si
attivò in forme assai peculiari). Se guardiamo a quello che succedeva altrove (e non solo in ambito comunale) ci accorgiamo che uno
tro-settentrionale cfr. G. M. Varanini, Aristocrazie e poteri nell’Italia centro-settentrionale dalla crisi comunale alle guerre d’Italia, in Bordone, Castelnuovo, Varanini, Le aristocrazie... cit., p. 164-168.
51
La ricostruzione di A. Esch, Bonifaz IX.... cit., cap. IV, è importante perché collega a una dettagliata analisi della fase politica e alla ricostruzione, anche
prosopografica, del contesto e dei suoi soggetti, la messa a fuoco di una transizione sociale, con il mutamento dei codici della preminenza.
.
62
E. IGOR MINEO
dei caratteri ricorrenti nella fisionomia delle élites postcomunali
consiste nel fatto che il processo oligarchico poteva generare una
geografia complessa del potere, contenente il ricordo dell’antica
contrapposizione politica – poco importa a questo proposito se il paragone sia con il comune che abbia mantenuto la sua indipendenza
o con quello che l’abbia perduta a vantaggio di un signore o di una
remota città dominante. In questo senso torna utile richiamarsi a
realtà tanto diverse come Siena (e i suoi diversi Monti), Asti (con la
specifica articolazione di hospicia aristocratici e di famiglie di «popolo») e Genova (e i suoi alberghi tanto nobili, quanto popolari) 52.
Ora, in tutte queste città quella geografia, pur cristallizzandosi,
avrebbe alla fine conferito un fondamentale tratto di omogeneità
agli attori distribuiti nei diversi segmenti corporati della classe dirigente, consentendo loro la condivisione della pratica di governo e
del linguaggio della cittadinanza. Era il peculiare rango di tutti gli
attori politici, o di quelli più forti, e cioè il loro diritto a occupare lo
spazio del governo cittadino, e in particolare le istituzioni consiliari,
a generare essenzialmente la «nobiltà» (tutta la nobiltà) nell’universo politico tardocomunale, con esiti conclusivi, ma non obbligati,
che possono essere quelli della serrata vera e propria, come a Genova nel 1528. Tra i segni più forti del collasso del sistema comunale
romano noi possiamo appunto cogliere la mancata elaborazione di
questo linguaggio politico, fondato sull’aristocratizzazione del «popolo» insieme con la maturazione di un grado elevato di «compatibilità» tra élites di diversa origine che condividano una quota rilevante
del capitale identitario. Definitivamente separato dal baronato, ossia
(secondo uno schema comunalistico di cui abbiamo verificato l’ambiguità) dall’antico nucleo magnatizio di nobiltà cittadina, la variegata compagine di nobiles e populares non si riorganizza, da sola,
come classe di governo autosufficiente.
Colpisce poi, a mano a mano che ci allontaniamo dalla svolta di
fine Trecento – ed è il secondo dei punti che vorrei mettere in luce –
la persistenza del quadro che da essa scaturisce e dei suoi caratteri
52
Per Siena vedi A. K. Isaacs, Popolo e Monti nella Siena del primo Cinquecento, in Rivista Storica Italiana, LXXXII (1970), p. 32-80, in particolare p. 49-69;
per Genova vedi i saggi di G. Petti Balbi, in particolare Id., Dinamiche sociali ed
esperienze istituzionali a Genova tra Tre e Quattrocento, in Italia 1350-1450 : tra
crisi, trasformazione, sviluppo. Atti del tredicesimo Convegno Internazionale di studio, Pistoia 10-13 maggio 1991, Pistoia, 1993, p. 113-128, e soprattutto quelli di
E. Grendi (scritti tra il 1966 e il 1979 : Capitazioni e nobiltà genovese in età moderna; Profilo storico degli alberghi genovesi; Le conventicole nobiliari e la Riforma del
1528; Andrea Doria uomo del rinascimento) contenuti in Id., La repubblica aristocratica dei genovesi, Bologna, 1987, p. 13-172; per Asti vedi Bordone, Progetti nobiliari... cit., p. 283-291.
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NOBILTÀ ROMANA E NOBILTÀ ITALIANA (1300-1500)
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fondamentali. In altre parole non siamo di fronte, in realtà, a un ritardo (o a una ‘mancata elaborazione’) : il dato di un’aristocrazia
che non si coagula istituzionalmente in patriziato non è contingente, non rimane limitato alla fase della costruzione della nuova monarchia papale. Al contrario, esso tende a strutturarsi, nel corso del
XV secolo, e a permanere, sorprendentemente, anche in quelli successivi 53. Perciò a Roma non si manifesta mai la tendenza alla «chiusura» cetuale dei consigli ristretti, ossia della magistratura dei tre
Conservatori posti a capo del consiglio dei ventisei Boni Viri 54, tendenza che invece anche nelle città che entrano a far parte dello stato
della chiesa appare in crescita dall’inizio del Quattrocento 55. Piuttosto assistiamo all’inizio del Cinquecento a un allargamento della base consiliare, frutto probabilmente della pressione esercitata da soggetti forestieri capaci di ottenere facilmente il privilegio della cittadinanza 56.
Peraltro, questa dinamica inversa rispetto allo schema del contenimento della partecipazione politica differenzia Roma non solo
dell’universo comunale in senso lato. Se pensiamo al regno di Napoli (che presenta, da questo punto di vista, caratteri diversi da quelli
del regno di Sicilia) emergono ulteriori fattori di specificazione. Le
città del regno, a partire dalla capitale avevano sviluppato un modello organizzativo dello spazio politico che era anche un sistema di definizione aristocratica, e che, da questo punto di vista, svolgeva una
funzione analoga a quella dei consigli nelle città comunali. Il sistema dei seggi si era andato strutturando a Napoli fra Tre e Quattrocento come ordine fortemente giuridicizzato di ascrizione aristocratica, assumendo un significato sempre più rilevante anche per la nobiltà non cittadina, e dunque anche per la feudalità, anche per quelle
famiglie cioè la cui fisionomia può essere giudicata analoga a quella
dei lignaggi baronali romani. A Napoli il sistema dei seggi annulla –
al vertice della gerarchia sociale – il diaframma, giuridico e simboli53
Cfr. innanzitutto G. B. Zenobi, Le «ben regolate città»... cit. Più tardi arriva il giudizio esplicito di L. Nussdorfer, Civic politics in the Rome of Urban VIII,
Princeton (N.J.), 1997, cap. VI, in particolare p. 96-98 v. anche Id., Il «popolo romano» e i papi : la vita politica della capitale religiosa, in L. Fiorani, A. Prosperi (a
cura), Storia d’Italia. Annali 16. Roma, la città del papa. Vita civile e religiosa dal
giubileo di Bonifacio VIII al giubileo di papa Wojtila, Torino, 2000, p. 243-247. Così anche M. A. Visceglia, La nobiltà romana : dibattito storiografico e ricerche in
corso, in Id. (a cura), La nobiltà romana in età moderna. Profili istituzionali e pratiche sociali, Roma, 2001, p. XIII-XIX.
54
M. Franceschini, Dal consiglio pubblico e segreto alla congregazione economica : la crisi delle istituzioni comunali tra XVI e XVII secolo, in Roma moderna e
contemporanea, 4, 1996, p. 348-351.
55
Tale tendenza appare molto forte soprattutto tra metà Quattrocento e metà Cinquecento, G. B. Zenobi, Le «ben regolate città»... cit.
56
M. Franceschini, Dal consiglio pubblico... cit., p. 351-355.
.
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E. IGOR MINEO
co, fra nobiltà «feudale» e nobiltà «cittadina» 57. E poiché venne
adottato anche in città minori, si può dire quel sistema andò davvero costituendo nel corso del Quattrocento uno degli assi dell’intelaiatura istituzionale del regno 58.
L’assenza di un processo visibile di strutturazione patriziale della classe di governo, e a maggior ragione di una qualche funzione di
inquadramento della nobiltà signorile attribuibile allo spazio aristocratico urbano, sembra essere coerente a una tendenza complessiva
della storia politico-istituzionale romana che ha radici – appare ora
ben evidente – remote. È come se nella contrazione dello spazio istituzionale comunale verificassimo anche la stentata strutturazione
dei suoi soggetti, e, più in generale, l’assenza di condizioni favorevoli alla costruzione di veri corpi aristocratici. Le strutture di governo
e quelle consiliari non sono in grado infatti di fissare regole più restrittive all’accesso, mentre, specularmente, il baronato, attraversato
peraltro da insanabili lacerazioni e privo del tutto di una qualche
identità politica condivisa, non poteva più essere «riassorbito» all’interno di un perimetro aristocratico urbano, neppure in un luogo
ad esso riservato, che assomigliasse a un seggio, a un sistema di alberghi, a un monte. E si può aggiungere che mancano coerentemente
i segni di una istituzionalizzazione delle fazioni, ricorrenti ad esempio in non poche città di area padana 59, e questo nonostante che a
Roma la litigiosità fazionaria rimanga alta per tutto il XV secolo e
nonostante la robustezza delle reti clientelari costruite attorno al
primato dei due maggiori lignaggi baronali, Orsini e Colonna.
Ecco perché non siamo di fronte semplicemente a una mancata
evoluzione istituzionale : non è l’assenza di una serrata, o di qualcosa di simile, a fissare la peculiarità di cui stiamo trattando, ma una
tendenza ben più profonda. Il panorama dei processi oligarchici è
del resto assai vario e non è affatto regolare, specie nel XV secolo, la
formalizzazione vera e propria dello schema nobiliare, con prov57
M. A. Visceglia, La nobiltà nel Mezzogiorno d’Italia in età moderna, in Storica, 7, 1997, p. 49-96, in particolare p. 59-79.
58
Cfr. fra i diversi saggi di Giuliana Vitale, La nobiltà di seggio a Napoli nel
basso Medioevo : aspetti della dinamica interna, in Archivio storico delle province
napoletane, 106, 1988, p. 151-169, e Id., Nobiltà napoletana della prima età angioina : élite burocratica e famiglia, in La noblesse dans les territoires angevins à la fin
du Moyen Âge. Actes du colloque international organisé par l’Université d’AngersSaumur, 3-6 juin 1998, Roma, 2000, p. 363-387, in particolare p. 365-373. E inoltre cfr. G. Muto, Istituzioni dell’Universitas e ceti dirigenti locali, in Storia del Mezzogiorno, IX, Aspetti e problemi del Medioevo e dell’età moderna, 2, Napoli, 1991,
p. 32-34.
59
Vedi L. Arcangeli, Aggregazioni fazionarie e identità cittadina nello stato di
Milano (fine XV-inizio XVI secolo), in Id. Gentiluomini di Lombardia. Ricerche sull’aristocrazia padana nel Rinascimento, Milano, 2003, p. 373-377; G. M. Varanini,
Aristocrazie e poteri... cit., p. 159-162.
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NOBILTÀ ROMANA E NOBILTÀ ITALIANA (1300-1500)
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vedimenti di chiusura dei consigli, di redazione di matricole, di libri
d’oro ecc. 60 Il paragone più semplice, con casi ben conosciuti come
quello fiorentino (o quello lucchese), ci mostra appunto quanto efficace potesse essere un processo oligarchico informale connesso alla
costruzione di uno stato territoriale : dalla fine del Trecento in poi,
il predominio dell’oligarchia a Firenze si esplicita in un reggimento –
che è anche un contesto di elaborazione di codici identitari condivisi
– che si fonda sul controllo attentissimo dei tre principali luoghi di
formazione della decisione politica da parte di un nucleo di famiglie
delimitato 61. La differenza romana, ossia il carattere particolarmente mobile e aperto dei quadri politici posti a capo delle istituzioni
municipali, consiste dunque nell’assenza dei fattori di possibilità
che rendessero sperimentabile la delimitazione di un ceto di governo sufficientemente omogeneo, come a Firenze, ovvero di un corpo
capace di dialogare con il papa-monarca, come a Bologna e in altre
città dello stato pontificio.
A Roma i primi spunti di analisi prosopografica, ancora tutta da
sviluppare peraltro, confermano appunto quanto porosi fossero, in
concreto, i confini dello spazio di governo : non è solo il fatto che famiglie importanti della fine del Quattrocento come i Massimo o i
Santacroce non compaiono nelle fonti prima della fine del Trecento,
e vi compaiono – si badi – come artigiani o mercanti 62 ; è soprattutto
il fatto che i ritmi di avvicendamento negli uffici si mostrano costantemente elevati, e anzi elevatissimi se misurati su una maggiore distanza temporale. Se osserviamo ad esempio alcuni elenchi superstiti di ufficiali cittadini – per il Quattrocento uno relativo agli anni
1422-24, un altro agli anni 1457-5163 –, dei cognomi presenti nel primo, la metà circa non ricompare nel secondo, e solo il 19,5% appare
in un’altra lista del 1566-57 64. Sono dati ancora assai scarsi, ma coerenti con il fenomeno istituzionale prima richiamato, l’allargamento
60
Limitatamente allo stato pontificio molti esempi in G. B. Zenobi, Le «ben
regolate città»... cit., che delinea anche una tipologia dei «moduli dell’esperienza
possibile», ibid., p. 33-43.
61
D. V. Kent, The florentine Reggimento in the fifteenth century, in Renaissance Quaterly, XXVIII, 1975, p. 575-638; A. Molho, Marriage alliance in late medieval
Florence, Cambridge (Mass.), 1994.
62
A. Modigliani, «Li nobili huomini di Roma»... cit., p. 350-365; altri esempi
in A. Esposito, «Li nobili huomini di Roma». Strategie familiari tra città, curia e
municipio, in Gensini (a cura), Roma capitale... cit., p. 373-388.
63
Solo sui primi, del 1422 e del 1424, editi da M. L. Lombardo, La Camera urbis. Premesse per uno studio sull’organizzazione amministrativa della città di Roma,
Roma, 1970, p. 96-98, 115-119, vedi M. Franceschini, Populares... cit., p. 298, e P. Pavan, Inclitae Urbis Romae iura, iurisdictiones et honores, in Alle origini della nuova
Roma... cit., p. 306-07; su entrambi A. Camerano, Le trasformazioni dell’élite capitolina fra XV e XVI secolo, in M. A. Visceglia (a cura), La nobiltà... cit., p. 3 e sg.
64
Ibid., p. 7-14.
.
66
E. IGOR MINEO
dell’ambito di reclutamento dei consiglieri, e con testimonianze come quella di Altieri, nelle quali prevale, a inizio Cinquecento, il rimpianto per una coesione di ceto probabilmente immaginaria.
Ne sappiamo ancora troppo poco per formulare qualche tentativo di spiegazione di un processo che deve essere ancora ricostruito, e che coincide con l’intera dinamica aristocratica quattrocentesca. È chiaro tuttavia che le prime (e le più ‘economiche’) ipotesi
interpretative conducono tutte ai modi di costruzione del nuovo
stato pontificio. Un confronto con altre città comprese nello spazio
che i papi stavano provando a ristrutturare dimostra che, dai primi
del Quattrocento, e in particolare a partire dal pontificato di Martino V, la curia andò esercitando una pressione crescente sulle strutture politiche locali e dunque sugli assetti comunali, ma con esiti
molto vari. In particolare i papi provarono a tenere sotto controllo
i meccanismi di formazione della classe politica, per cui, ad esempio, a Perugia, città di più robuste tradizioni comunali rispetto a
Roma, notiamo sì la continuità delle magistrature e dei consigli del
comune di «popolo», all’interno però di una costituzione diarchica
nella quale l’amministrazione papale si esercita anche nel controllo
e nel condizionamento dell’accesso ai consigli. Non è casuale, probabilmente, che l’oligarchia perugina fino alla prima metà del Cinquecento non riesca o non possa fissare uno schema di accesso riservato alle cariche 65. Altrove le cose potevano tuttavia andare diversamente : è il caso di Bologna, anch’esso robusto comune di
popolo dove la dedizione al papa, nel 1447, rende possibile, sempre
sotto l’ombrello della mediazione con la curia, la maturazione di
un processo oligarchico cominciato ben prima 66. Rispetto a Bologna, Roma, comune dalla fisionomia più fragile, rappresenta il caso opposto. Una pressione dello stesso tipo ma più intensa, assume
qui caratteri tali da rendere davvero impossibile l’assunzione di
uno dei profili standard delle città postcomunali : Roma cioè non
divenne né città soggetta né città dominante. Divenne invece la
capitale di uno stato in larga misura rifondato dopo il Grande
scisma, e il cui spazio pubblico venne occupato molto più dall’aristocrazia di curia che da una nobiltà municipale dotata di sufficienti risorse identitarie. Del fenomeno ci fu consapevolezza nel
65
C. F. Black, Commune and the Papacy in the government of Perugia, in Annali della Fondazione Italiana per la Storia amministrativa, 4, 1967, p. 163-191, in
particolare p. 178-181; G. B. Zenobi, Le«ben regolate città»... cit., p. 137 e sg. Tendenze analoghe si registrano in altre realtà (come Viterbo o Cesena), v. S. Carocci, Governo papale e città nello stato della chiesa. Ricerche sul Quattrocento, in
S. Gensini (a cura), Principi e città alla fine del Medioevo, Pisa, 1996, p. 188-189.
66
A. De Benedictis, Repubblica per contratto. Bologna : una città europea nello Stato della Chiesa, Bologna, 1995, p. 107-136.
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NOBILTÀ ROMANA E NOBILTÀ ITALIANA (1300-1500)
67
Quattrocento, come dimostrano le scritture di personaggi come Stefano Infessura e Marco Antonio Altieri : scritture che indicano in
modo straordinariamente esplicito – tra la seconda metà del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento – come fosse percepito dall’interno lo spazio politico locale : diviso in senso fazionario, attraversato
dalle fedeltà ai due lignaggi contrapposti, e nondimeno immaginato
alla luce di uno schema comunitario (la Roma dei romani, e della
sua élite, distinta dalla Roma del papa, e della sua curia) che resiste
e che anzi è oggetto di una qualche postuma intensificazione 67.
Tutto ciò non significa che, alla pari di altre grandi città non comunali, come Palermo ad esempio 68, la formalizzazione difficile di
uno specifico rango di nobiltà municipale eliminasse tout court il
problema della caratterizzazione dello spazio politico dell’elite locale : nel caso romano di uno spazio politico garantito comunque dall’esistenza di una struttura istituzionale che dal comune proveniva e
che venne disciplinata ma non certo assorbita dal nuovo stato pontificio. Ci sono segni di strutturazione istituzionale di uno specifico
spazio aristocratico, colti, ad esempio, nell’ambito delle dinamiche
confraternali. In particolare si è molto insistito sulla Società dei raccomandati del Salvatore, che venne assumendo, sul lungo periodo
che va dai primi decenni del Trecento al pieno Cinquecento, una
funzione di demarcazione della nobiltà urbana 69. Ma altri segni, più
concretamente politici, emergono molto più tardi, ben oltre il limite
temporale qui fissato, il che significa che non si tratta di segni collegati alla formazione del nuovo – nel Quattrocento – assetto istituzionale. Solo nel tardo Cinquecento, sostiene Maria Antonietta Visceglia 70, diventa visibile un vero processo di delimitazione del ceto di
67
Vedi alcuni dei saggi di M. Miglio raccolti in Scritture, Scrittori e Storia, II
– Città e Corte a Roma nel Quattrocento, Manziana, 1993, specialmente, p. 149175, 217-229. In particolare su Infessura vedi A. Esch, Stefano Infessura, in Dizionario biografico degli Italiani, vol. 62, Roma, 2004, p. 348-353 (con la bibliografia
lì citata).
68
Dove agli inizi del Cinquecento non esisteva uno spazio aristocratico formalizzato legato alle cariche, ma dove però si discuteva, proprio in rapporto alla
copertura dei ruoli di governo, su come distinguere nobili e popolari, v. V. Vigiano, L’esercizio della politica. La città di Palermo nel Cinquecento, Roma, 2004,
cap. 4.
69
Cfr. P. Pavan, Gli statuti della società dei raccomandati del Salvatore ad
Sancta Sanctorum (1331-1496), in Archivio della Società Romana di Storia Patria,
101, 1978, p. 35-96, e Id., La confraternita del Salvatore nella società romana del
Tre-Quattrocento, in Ricerche per la storia religiosa di Roma, 5, 1984, p. 81-90. Per
il primo Cinquecento vedi Kolski, Culture and politics... cit., p. 52, 69-74. Ma su
come la confraternita del Salvatore riflettesse nel tardo Quattrocento i mutamenti interni all’élite, piuttosto che contribuire a preservane la composizione, vedi
Esposito, «Li nobili huomini di Roma» ... cit., p. 386-388.
70
M. A. Visceglia, La nobiltà romana... cit., p. XVIII e sg.
.
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governo, anche se non sappiamo esattamente quando si stabilisce il
principio, sancito negli statuti del 1580 71, di selezionare gli ufficiali a
partire da liste di eleggibili redatte su base territoriale. Soprattutto
non sappiamo se – e a partire da quando – l’accesso a queste liste abbia in qualche modo costituito una prerogativa ereditaria di un nucleo di famiglie patrizie. Parrebbe comunque che una svolta verso
una più compiuta delimitazione del ceto di governo possa essere collocata solo alla fine del Cinquecento; da lì un processo di riorganizzazione istituzionale e di graduale formalizzazione del privilegio che
culminerà nel 1746 : solo allora, sotto Benedetto XIV, sarebbe stato
predisposto un vero «libro» della nobiltà romana, un elenco di famiglie titolate ad accedere alle cariche municipali 72.
Conclusioni
Il discorso sviluppato fin qui sulla compatibilità con la realtà romana degli schemi di definizione della preminenza e di inquadramento della dinamica aristocratica, siano essi di provenienza comunale o monarchica, solleva, come si è visto, un problema di fondo.
Esso ha presupposto, e non solo per esigenze di spazio o di chiarezza argomentativa, un’alta omogeneità di quegli schemi, che nonostante la regolarità di alcuni tratti elementari si traducevano localmente in forme anche assai specifiche. Ma proprio per questo il caso
romano è prezioso, proprio per lo scarto, a volte molto ampio, fra gli
schemi importati e la realtà sottostante – se mi si passa la rozza dicotomia. Noi possiamo intendere in termini di eccezione o di anomalia, ad esempio, la vicenda della classe di governo comunale che
non si chiude in patriziato o i baroni che molto alla lontana ci ricordano i magnati delle città duecentesche, oppure che, per altro verso,
non sono veramente baroni nel senso che il termine aveva nel linguaggio istituzionale del regno meridionale, cioè feudatari (e che,
probabilmente anche per questo, suscitano la celebre invettiva di
Bartolo 73), ma commetteremmo un errore. Non è la realtà politica e
sociale di Roma ad allontanarsi da uno o più modelli; casomai sono
le procedure di definizione e di classificazione adottate dai contemporanei, che, insieme, forse, alle stesse forme di autopercezione, sono racchiudibili in tipologie relativamente semplici, ad entrare in
71
A. Camerano, Le trasformazioni... cit., p. 5 e nota 36 per il riferimento agli
statuti.
72
G. B. Zenobi, Le«ben regolate città»... cit., p. 165; Franceschini, Dal consiglio pubblico... cit., p. 361 e sg.
73
Che, come è noto, nel Tractatus de regimine civitatis li qualifica come
tyranni, agenti di un sistema politico «mostruoso», vedi D. Quaglioni, Politica e
diritto nel Trecento italiano. Il «De tiranno di Bartolo da Sassoferrato (1314-1357),
Firenze, 1983, p. 152.
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una comunicazione decisamente complessa con la mutevole realtà
dei gruppi sociali cui quegli stessi modelli danno forma. Ciò vale però per Roma come per qualunque altro contesto, a matrice comunale o meno.
Si rafforza così l’immagine irriducibilmente plurale delle dinamiche locali? Da un certo punto di vista, naturalmente sì. La vicenda romana avvalora un’idea, formulata da Paolo Cammarosano 74,
secondo la quale l’omogeneità del linguaggio e delle forme istituzionali circolanti all’interno del mondo comunale ancora all’inizio del
Duecento ha ceduto, un secolo più tardi, a una molteplicità di soluzioni al problema della conflittualità interna. Pensare Roma, e le sue
aristocrazie in particolare, come un pezzo dell’universo comunale è
possibile solo alla luce di una tale impostazione. Benché si tratti, fin
dall’inizio, nel XII secolo, di un inquadramento complesso, ci rendiamo conto cioè che alla metà del Duecento l’interazione con gli
schemi comunali – che pure andavano essi stessi perdendo via via
coerenza – è molto più alta che un secolo più tardi, e che alla fine del
Trecento è quasi del tutto cessata. La dinamica aristocratica, con la
formazione del baronato e la disarticolazione della classe politica
cittadina, diventano allora non tanto prove dell’allontanamento di
Roma dall’universo politico di stampo comunale, quanto segni della
scomposizione di quest’ultimo.
Per quanto meno problematica, ma solo perché mai veramente
saggiata dagli storici, anche l’interazione con gli schemi di derivazione monarchica risulta a prima vista tutt’altro che scontata : anche qui la comparazione con Roma e lo stato pontificio facilita la
scomposizione del tradizionale universo monarchico. Basti ricordare, a questo proposito, quanto diversi appaiano nelle tre realtà – Napoli, Sicilia, Stato della Chiesa – le pratiche e i diritti del feudo 75, e
quanto divergente, come abbiamo visto, si mostrino i percorsi delle
grandi capitali – Napoli, Palermo e Roma – proprio in tema di ordinamento aristocratico.
Questa non è tuttavia un’impostazione neutrale o constatativa.
C’è invece un filo molto robusto che collega gli esiti differenziati della crisi comunale e le diverse evoluzioni delle monarchie, un filo che
P. Cammarosano, Élites sociales... cit., p. 195; Id., Il ricambio... cit., p. 37.
Sul feudo come strumento di governo, adottato tardivamente, e anche per
questo non ben distinto dalle concessioni vicariali, nell’ambito dei territori pontifici cfr. S. Carocci, Vassalli del papa... cit., p. 73-78; per una prima informazione
sui diversi orientamenti di politica feudale nei regni meridionali vedi G. Muto,
Problemi di stratificazione nobiliare nell’Italia spagnola, in A. Musi (a cura), Dimenticare Croce? Studi e orientamenti di storia del Mezzogiorno, Napoli, 1991,
p. 86-109.
74
75
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70
E. IGOR MINEO
annoda le molte Italie della fine del medioevo nella medesima trama
comparativa, ed è la formazione di più mature strutture statali. A
Roma, punti importanti della spiegazione di dinamiche aristocratiche apparse fino a ieri irriducibilmente peculiari rinviano certo al
fallimento dello stato comunale : ma proprio questo fallimento può
essere letto come uno dei tratti comuni della storia politica dell’Italia tardomedievale, insieme con la riorganizzazione principesca
delle forme del governo delle (e nelle) periferie e la costruzione di
luoghi più o meno inediti, come gli spazi di corte 76. Il caso romano
mostra cioè con particolare chiarezza che effetti potesse avere su di
uno specifico spazio politico, comunale nel nostro caso, dapprima la
presenza di un potere pubblico superiore che fornisce alcune delle
regole del gioco, e quindi alcuni dei fattori di definizione degli attori
(il baronato anche come frutto delle prime pratiche nepotistiche), e
poi l’impatto con la rinnovata volontà disciplinatrice espressa da
quello stesso potere in un’altra stagione, dopo Avignone. Per quanto
diversi fossero gli effetti concreti dell’imposizione della sovranità
papale nelle diverse periferie ex-comunali del nuovo stato pontificio,
lo sviluppo di quest’ultimo conferma in generale, che le diverse dinamiche aristocratiche – non la semplice selezione sociale cioè, ma le
condizioni del suo riconoscimento e del suo possibile perdurare –
hanno molto a che fare con i processi di formazione statale : in termini più netti, ne rappresentano una funzione. Non è il caso, allora,
di insistere sui caratteri istituzionalmente originali della monarchia
del papa, che sono del tutto evidenti. È invece più utile osservare come i modi concreti della costruzione dello stato pontificio contengano una classe di fenomeni attraverso i quali la penisola ridiviene inquadrabile in una cornice, almeno in parte, unitaria.
E. Igor MINEO
76
G. Chittolini, La formazione dello stato regionale e le istituzioni del contado.
Secoli XIV e XV, Torino, 1979, p. 21-23.
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