UNIOR
Dipartimento
di Studi
Letterari
Linguistici
e
Comparati
ANNALI
sezione
linguistica
UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI
“L ’O R I E N TA L E ”
ANNALI
del Dipartimento di Studi
Letterari, Linguistici e Comparati
Sezione linguistica
AIΩN
N.S. 8
2019
A I ΩN
N.S. 8
I S S N 2281-6585
2019
ANNALI
del Dipartimento di Studi
Letterari, Linguistici e Comparati
Sezione linguistica
AI ΩN
N.S. 8
2019
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UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI NAPOLI
“L’ORIENTALE”
ANNALI
del Dipartimento di Studi
Letterari, Linguistici e Comparati
Sezione linguistica
AIΩN
N.S. 8
2019
INDICE
Ricordo di Vincenzo Valeri, D. Silvestri,
11
LETTERE APERTE, DISCUSSIONI, PROPOSTE
Problemi e prospettive di ricerca, convegni e tavole rotonde, notizie e
suggerimenti
L. RIGOBIANCO, Appunti su una ipotesi di configurazione sintattica del
genitivo singolare in o del celtiberico
17
ARTICOLI, NOTE, SAGGI
Analisi linguistiche di testi arcaici, riflessioni su aspetti e problemi linguistici del mondo antico, linee e momenti di preistoria e protostoria linguistica
C. A. CIANCAGLINI, I suffissi indo-ir. *vka tra genealogia e
variazione
45
M. ZINZI, Ferdinand de Saussure e gli altri corsi: i quaderni sul verbo
indoeuropeo di Charles Bally (BGe Ms. fr. 5128)
77
Ricerche e problemi linguistici di ambito teorico e applicato
A. BARTOLOTTA, G. QUARTARARO, The asymmetric path-conflation pattern of go and come verbs in Aymara
105
F. COSTANTINI, N. GRANDI, Typological and areal tendencies in evaluative morphology: some preliminary results
137
M. MAFFIA, A. PONS, Le lingue di culto nelle chiese evangeliche:
un’indagine nel nord-ovest e nel nord-est d’Italia
161
I. VALENTI, Settentrionalismi di epoca medievale del lessico siciliano e
lavoro sommerso delle donne
181
BIBLIOGRAFIE, RECENSIONI, RASSEGNE
GIUSEPPE ANTONELLI, L’italiano nella società della comunicazione
2.0, Bologna, Il Mulino, 2016. (O. Tordino)
203
EMILIANO BRUNER, La mente oltre il cranio. Prospettive di
archeologia cognitiva, Roma, Carocci, 2018, pp. 130. (G.
Costa)
208
MICHELE COMETA, Letteratura e darwinismo. Introduzione alla
biopoetica, Roma, Carocci, 2018, pp. 262. (G. Costa)
215
ELISA CORINO, CARLA MARELLO, Italiano di stranieri. I Corpora
Valico e Vinca, Perugia, Guerra, 2017, 284 pp. e Elisa Corino,
Cristina Onesti (a cura di), Italiano di apprendenti. Studi a
partire da Valico e Vinca, Perugia, Guerra, 2017, 160 pp. (G.
Costa)
226
HARTMAN DOROTA, Emozioni nella Bibbia. Lessico e passaggi
semantici fra Bibbia ebraica e LXX, Centro Di Studi Ebraici Università "L’orientale", Napoli, 2017. (F. Carbone)
236
MARK KAUNISTO , MIKKO HÖGLUND , PAUL RICKMAN (eds),
Changing structures: studies in constructions and
complementation, John Benjamins, 2018. (L. Busso)
240
ANDREA MORO, Le lingue impossibili, Milano, Raffaello
Cortina, 2017, 140 pp. (Ed. it. a cura Di Nicola Del
Maschio, titolo originale: Impossible languages, London Cambridge (ma), the Mit Press, 2016). (S. Menza)
249
CLAUDIA A. CIANCAGLINI*
I SUFFISSI INDO-IR. *-VKATRA GENEALOGIA E VARIAZIONE
Abstract
La ricostruzione dei suffissi del tipo *-Vka- in indoiranico è stata molto
discussa. All’inizio del XX sec. molti studiosi, che operavano nell’ambito
teorico dei Neogrammatici, hanno sostenuto che tali suffissi non fossero
rintracciabili nel Çgveda e che, quindi, non fossero ricostruibili
nell’indoiranico e, a maggior ragione, nell’indoeuropeo ricostruito. Oggi
consideriamo il mutamento linguistico in modo più complesso, tenendo
conto anche della variazione dialettale e sociale, e inoltre abbiamo una
conoscenza più ampia delle lingue iraniche. Di conseguenza, possiamo
rivalutare le poche attestazioni di tali suffissi in vedico e in avestico,
tenere conto delle loro attestazioni nelle tradizioni parallele per quanto
concerne il persiano antico e attribuire la loro scarsa presenza nelle lingue
indoiraniche più antiche al fatto che tali suffissi erano caratterizzati come
bassi dal punto di vista diafasico e diastratico.
Parole chiave: indoiranico, suffissi derivativi, Neogrammatici
The reconstruction of *-Vka- suffixes in Indo-Iranian has been widely
debated. At the beginning of the twentieth century, many scholars, operating within the theoretical framework provided by the Neogrammarians, deny the presence of these suffixes in the Çgveda and, as a consequence, their reconstruction in Indo-Iranian, and even more so in Proto-Indo-European. Today we consider the linguistic change in the light
of diachronic, dialectal, and sociolinguistic variability, and we benefit
from a better knowledge of the Iranian languages. Therefore we argue
that these suffixes are attested in Vedic and Avestan, witnessed by the
parallel traditions for Old Persian, and that they are attributable to Indo-Iranian; their scarce attestation mainly depends on their low sociolinguistic character.
Keywords: Indo Iranian, derivative suffixes, Neogrammarians
Claudia Ciancaglini, Sapienza Università di Roma,
[email protected]
AIΩN-Linguistica n.8/2019 n.s.
DOI: 10.4410/AIONL.8.2019.002
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Claudia A. Ciancaglini
1. Premessa
Il modello dell’albero genealogico proposto da Schleicher (1862),
pur essendo ancora oggi uno strumento indispensabile per
l’applicazione del metodo comparativo-ricostruttivo, non ha mai
smesso di suscitare dibattiti tra i linguisti storici, a partire dalla teoria
delle onde di Schmidt (1872) fino ai contributi critici e ai convegni ad
esso dedicati negli ultimi decenni, grazie ai quali il modello è stato
molto rivisto, soprattutto per quanto riguarda la natura delle unità
intermedie e la metodologia per individuarle1.
I Neogrammatici adottarono invece in modo rigido il modello ad
albero, essendo questa, ai loro tempi, l’unica via percorribile per
rendere scientifico e rigoroso il metodo comparativo-ricostruttivo, e
considerarono il mutamento linguistico esclusivamente nella
dimensione diacronica2.
La rigidità con cui i Neogrammatici applicavano il modello ad
albero non coincideva più con la concezione biologica degli organismi
linguistici che era alla base del pensiero di Schleicher, bensì
dipendeva da una visione storicistica che si fondava sulla
ineccepibilità delle leggi fonetiche. Tale Ausnahmlosigkeit consentiva
infatti di risalire all’indietro nel tempo in modo univoco e scientifico
per ogni tratto esaminato, in modo tale che i nodi dell’albero si
configuravano in base ai mutamenti oggettivi dei sistemi fonologici
considerati. Tale fiducia nell’ineccepibilità delle leggi fonetiche era
Le abbreviazioni per i testi indiani usate in questo articolo sono: RV = Çgveda, AV
= Atharvaveda, YV = Yajurveda, SV =Sāmaveda. Ringrazio i due revisori anonimi, che
mi hanno generosamente offerto numerosi suggerimenti utili e il cui impegno è servito
a migliorare il mio lavoro; resto ovviamente l’unica responsabile di eventuali errori.
1 Tra i molti contributi di rilievo, si vedano Porzig (1954); Hoenigswald (1960; 1966;
1987); Schlerath (1981); Ross – Durie (1996); Aikhenvald – Dixon (2001); François (2014).
Un’utile rassegna storica sulla questione si può trovare in Ringe (2017). Riguardo al
problema delle unità intermedie, si veda in particolare Lazzeroni (1968), a proposito
dell’unità indoiranica.
2 Non è inutile ricordare che già Ascoli aveva espresso perplessità riguardo alla rigidità del modello genealogico adottato da Brugmann e Osthoff (1878) e nella sua Prima
lettera glottologica del 1881 (cf. Ascoli 1882) aveva chiamato in causa le “riazioni etniche”
che avrebbero esercitato, ad esempio, gli “idiomi aborigeni dell’India” sull’indoario.
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DOI: 10.4410/AIONL.8.2019.003
I suffissi indo-ir. * -Vka- tra genealogia e variazione
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particolarmente ben riposta nel caso di lingue a segno internamente
articolato, come le lingue indoeuropee antiche e le semitiche, le quali
non a caso hanno un maggiore rendimento ricostruttivo rispetto alle
lingue a segno fisso3. Ciò vale anche per i morfemi grammaticali, ma
in questo caso la questione è più complessa. Il presente contributo si
concentra proprio su un problema di comparazione-ricostruzione
connesso a morfemi derivativi e la loro attribuzione o meno
all’indoiranico e all’indoeuropeo ricostruito. In questo caso, a mio
parere, la rigidità del metodo dei Neogrammatici dipende non tanto
dalla teoria dell’ineccepibilità delle leggi fonetiche, quanto dal
presupposto che le lingue fossero entità monolitiche e non diasistemi,
presupposto che i Neogrammatici erano indotti a dedurre in modo
abbastanza inevitabile dalle lingue antiche delle quali si occupavano,
che erano prevalentemente lingue antiche attestate da corpora finiti di
testi. Tale concezione neogrammatica delle lingue antiche come entità
esenti da variazione in senso diatopico, diafasico e diastratico è stata
modificata nel corso del tempo, grazie al progredire degli studi
linguistici, che ha consentito di armonizzare e arricchire la visione dei
Neogrammatici con nuove prospettive metodologiche e, di
conseguenza, oggi siamo consapevoli che, per comprendere il
mutamento linguistico, è indispensabile tenere conto non solo della
dimensione diacronica, ma anche della dimensione geografica e di
quella sociale4. Ciò presenta una particolare forza euristica in molti
casi nei quali l’applicazione troppo rigida del modello ad albero e il
considerare solo la diacronia sembrano condurre il metodo
comparativo-ricostruttivo a risultati insoddisfacenti.
L’argomento delle “isoglosse ribelli” dell’albero genealogico è stato
trattato da Lazzeroni in un importante lavoro teorico e storico (1987)
relativo alla figura di Meillet indoeuropeista. Uno dei principali aspetti
problematici analizzato da Lazzeroni in quella sede riguardava i
3 Sulle differenze tra lingue a segno internamente articolato e a segno fisso, nonché
alla relativa disputa tra sostenitori e detrattori della regolarità delle leggi fonetiche, cf.
Belardi (1990) e (1993).
4 Sull’argomento la bibliografia è estesissima, quindi ci limitiamo a rimandare alla
sintesi di Lazzeroni (1997) sulle dimensioni del mutamento.
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presupposti che consentivano o meno di ricondurre a un nodo di livello
superiore un certo tratto linguistico: nella prospettiva dell’applicazione
rigida del modello dell’albero genealogico, ad esempio, la presenza
dell’aumento verbale in greco e in indoiranico non consentirebbe di
attribuire tale tratto all’indoeuropeo ricostruito, poiché dell’aumento
non vi sono tracce in altre lingue del nodo intermedio chiamato da
Schleicher “ariogrecoitaloceltico”: dato che in celtico, latino e italico non
vi è traccia di aumento e dato che l’ario o, come diciamo oggi,
l’indoiranico e il greco non formano un nodo intermedio autonomo
(mentre l’indoiranico da solo e il grecoitaloceltico formano due nodi
intermedi a sé stanti), l’applicazione rigida del modello dell’albero
genealogico costringerebbe ad ammettere che l’aumento sia
un’innovazione autonoma e indipendente nell’indoiranico e nel greco, e
non un tratto attribuibile all’indoeuropeo ricostruito.
In questa sede vorrei concentrarmi su un caso particolare connesso
a questo genere di problemi, la cui analisi, a mio avviso, dimostra
come il tener conto delle tre dimensioni del mutamento linguistico e
della natura non monolitica delle unità intermedie consenta di
risolvere apparenti aporie del modello dell’albero genealogico e possa
ampliare la comprensione riguardo alle modalità di propagazione dei
mutamenti linguistici.
Il caso in questione consiste nell’attribuzione all’indoiranico (e
all’indoeuropeo ricostruito) di alcuni suffissi formati da una vocale
seguita dal suffisso aggettivale indo-ir. *-ka- (< ie. *-ko-), vocale
originariamente appartenente alla base nominale o verbale del
derivato e successivamente rianalizzata come parte del suffisso per
segmentazione erronea, ossia indo-ir. *-ika-, *-uka-, *-aka-.
La rianalisi di sequenze del tipo *-V-ko- come *-Vko- è dovuta alla
progressiva opacizzazione dei confini di morfema, che fa parte della
tendenza generale delle lingue indoeuropee antiche ad evolvere da
lingue a segno internamente articolato verso lingue a segno fisso 5.
Inoltre, in ogni singola lingua indoeuropea essa è stata favorita da
5 Su questi concetti e sulla tipologia del segno lessicale in indoeuropeo vd. Belardi
(1990: 158 ss.); Belardi (1993).
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I suffissi indo-ir. * -Vka- tra genealogia e variazione
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ulteriori condizioni specifiche, come la perdita o l’assenza della base
del derivato (per es., lat. formīca)6, oppure ancora dalla presenza di
forme derivate dalla stessa base secondo procedimenti di affissazione
diversi. Per esempio, in latino il derivato antico mancus ‘mutilato,
monco’ coesiste con la formazione più recente di femminile manica,
forme entrambe derivate da manus, la prima per mezzo del suffisso
*-ko- (*man-cos), la seconda dal tema in vocale sul quale ha agito la
cosiddetta apofonia latina (*manu-cos > mani-cos); in sincronia, però,
lat. manica sembra contenere il femminile del suffisso *-iko-. In alcune
lingue, la rianalisi è stata favorita dalla cristallizzazione di mutamenti
fonologici sintagmatici, che hanno prodotto nuovi suffissi e relative
funzioni: un esempio è l’origine, nello slavo antico, dei suffissi -ĭcĭ <
*-iko- e -ica < *-īkā (es. starĭcĭ ‘uomo vecchio’ < starŭ ‘vecchio’, femm.
starica) tramite la cosiddetta “terza palatalizzazione”, un fenomeno
sintagmatico che ha trasformato la maggior parte (ma non tutte) le
occlusive velari di tali suffissi indoeuropei in sl. ant. -c- [ts], se
precedute da una vocale avanzata7. Infine, un altro fenomeno che ha
favorito l’oscuramento dei confini di morfema e, quindi, i fenomeni di
rianalisi, consiste nell’oscillazione quantitativa delle vocali
presuffissali, soprattutto delle vocali alte /i/ e /u/. Tali oscillazioni
quantitative sono attestate in molte lingue indoeuropee 8: si veda, ad
es., lat. cīvī-lis < cīvis; mātūrus < *mātu-; gr. πολ¢æ -της < πόλῐς;
πρεσβῡæ-της < πρέσβυς e, per quanto riguarda il suffisso *-ko-, ind.
ant. ekākin- ‘solitario’ < éka- ‘uno’; úlūka- ‘gufo’ (e úrū-ka-), voce
6 Lat. formīca è confrontabile con ind. ant. valmī́ka- ‘formicaio’ < vamrīæ- f. ‘formica’.
Cf. EWA 2, 507; Ernout – Meillet (41959: 247).
7 Cf. Meillet (1934: 360–364); Vaillant (1950: 53–55). La situazione di tali suffissi nello
slavo antico è piuttosto complessa: da un lato, molto si è discusso sulla terza palatalizzazione (cf. la monografia di Lunt 1981, le considerazioni di Kortlandt 1984 e la replica di
Lunt 1987), dall’altro, l’analisi sincronica degli allomorfi dei suffissi in velare condotta in
Polivanova (2013: 442 ss.) sembra suggerire che le vocali precedenti l’esito slavo del suffisso in velare non siano riconducibili in modo regolare a prototipi indoeuropei e che gli allomorfi con e senza terza palatalizzazione presentino una distribuzione basata su altri parametri, come il genere grammaticale (ad esempio, nella maggior parte dei casi, -ik- compare in maschili come vel-ik-ŭ ‘grande’, mentre -ic- in femminili come pŭt-ic-a ‘uccello’).
8 Cf. Brugmann (1906: 357 s.; 367 s.); Leumann (19775: 261); Schwyzer (1939: 482);
Debrunner (1954: 856 s.; 862 s.); Kuryłowicz (1956: 125 s.); Szemerényi (1964: 307 s.).
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onomatopeica confrontabile con lat. ulŭcus, ulŭla; madhūka- ‘color del
miele’, anche n. pr. < mádhu- ‘miele’.
I suffissi in velare presentano funzioni grammaticali e valori
semantici differenti nelle varie lingue storiche: ad esempio, in latino il
suffisso *-ko- non mostra il valore diminutivo tanto spesso attestato
nei derivati indoiranici, valore che si riscontra invece in suffisso che
contiene *-ko- ed è costituito da un antico cumulo suffissale con
rideterminazione *-ko-lo-, ossia lat. -culus (ad es. articulus
‘articolazione, dito’ < artūs, uum pl. ‘membri’; nāvicula ‘piccola nave’ <
nāvis ‘nave’)9. D’altra parte, il lat. mancus sopra citato appartiene a un
gruppo di forme latine che designano malattie o difetti fisici, come
caecus (la cui base è discussa), raucus (< *ravi-co-s), siccus < *sit(i)-co-s,
cf. sitis, cascus (cf. cānus < ie. *k´as-no-, si veda EWA 2, 62) etc. Una
funzione molto simile si riscontra in avestico, dove i derivati in -kasono spesso termini devici indicanti malattie, peccati o simili 10: tale
accenno ha solo lo scopo di anticipare un aspetto tipico dei suffissi in
velare, ossia il loro carattere sociolinguisticamente basso, peculiarità
che ne spiega anche la scarsa attestazione in testi letterariamente alti
come gli inni vedici. Soprattutto i suffissi del tipo *-Vko- sono molto
rari non solo nel vedico, ma anche nelle altre lingue indoeuropee
antiche, come il greco omerico11; ma l’analisi delle rare occorrenze e le
tradizioni parallele ci inducono oggi a ritenere che ciò sia indizio del
loro carattere non letterario e non necessariamente della loro origine
recenziore.
L’attribuzione all’indoiranico e, di conseguenza, all’indoeuropeo
ricostruito dei suffissi del tipo *-Vko- era particolarmente problematica
per i Neogrammatici per diverse ragioni: la prima è la scarsa o nulla
attestazione di tali suffissi nelle lingue più antiche del gruppo
indoiranico; la seconda è la conoscenza imperfetta che si aveva all’epoca
delle lingue iraniche antiche; la terza è la procedura seguita per
identificare una certa sequenza fonica come uno di tali suffissi. Fino alla
Cf. Leumann (19775: 309).
Cf. Ciancaglini (2012).
11 Nel greco omerico sono rari sia -κος che -ικος: cf. Risch (1974: 112 ss.).
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I suffissi indo-ir. * -Vka- tra genealogia e variazione
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rivoluzione introdotta da Saussure e rafforzata dai funzionalisti riguardo
al concetto di sistema linguistico, i linguisti storici, e i Neogrammatici in
particolare, riconoscevano in una data sequenza fonica l’attestazione di
un certo suffisso sulla base della funzione svolta o della sua semantica e,
nel nostro caso, erano spesso eccessivamente influenzati dalla dottrina
dei grammatici indiani antichi, i quali avevano descritto in modo
analitico e dettagliato le funzioni che tali suffissi avevano in sanscrito,
funzioni che però non sono necessariamente le stesse riscontrabili nelle
fasi più antiche dell’indiano. Per esempio, la sequenza finale -aka- di un
derivato vedico poteva essere interpretata come un’occorrenza del
suffisso primario -aka- aggiunto a un tema verbale oppure come un caso
di -ka- aggiunto a un tema nominale in -a-12. La scelta tra le due opzioni
era operata dai Neogrammatici sulla base di motivazioni “atomistiche”,
come la semantica del derivato così come comprovabile dalla sola
ricognizione testuale, la riconducibilità della funzione svolta dal derivato
medesimo rispetto a quella degli analoghi derivati nel sanscrito classico,
la rispondenza alle condizioni accentuative e apofoniche che tali derivati
presentavano usualmente sempre nel sanscrito classico e così via. Dato
che le poche attestazioni vediche, oltre ad avere funzioni e semantica
differente da quelle attese, spesso si presentavano in condizioni
accentuative e apofoniche diverse da quelle usuali in sanscrito, i
Neogrammatici tendevano a negare che in esse fossero individuabili
suffissi del tipo *-Vko-.
2. Il suffisso ie. *-ikoOggi nessuno sembra dubitare che l’ie. *-iko- sia ricostruibile sulla
base dei suoi esiti nelle lingue storiche, ossia indo-ir. *-ika-, gr. -ικος,
lat. -icus, osc. -iks (ad es. túvtíks ‘pubblico’ < toutā- ‘città’), sl. ant. -ĭcĭ,
celt. -ico-13 e probabilmente anche toc. B -ike, toc. A -ik (che forma
Per esempio, in ind. ant. vádhaka- agg. ‘che uccide, distruttivo’ è possibile individuare
un’occorrenza del suffisso secondario -ka- aggiunto a vadhá- m. ‘uno che uccide, distrugge’,
oppure di -aka- primario aggiunto al tema verbale vadh- ‘distruggere, uccidere’; cf. oltre, § 4.
13 Cf. Debrunner (1954: 312 s.).
12
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aggettivi sostantivati, ad es. toc. B kamartīke, A kākmärtik
‘comandante’)14. Dal punto di vista morfologico, la principale
funzione di ie. *-iko- è la derivazione di aggettivi e nomi di origine
aggettivale, per esempio: ind. ant. v4ścika- ‘scorpione’, forse < vraśc‘tagliare, fare a pezzi (?)’15; gr. ἱππικός < ἵππος; lat. bellicus < bellum;
germ. *guđ-ig| a - ‘posseduto da un dio’ etc.16
Si ritiene che ie. *-iko- derivi dalla rianalisi di derivati in cui il
suffisso *-ko- è aggiunto a temi in *-i-, come ind. ant. nābhi-ká‘cavità simile all’ombelico’ < nāæbhi- ‘cavità’, gr. φυσι-κός ‘naturale’
< φύσις ‘natura’, lat. cīvicus ‘civile’ < cīvis ‘cittadino’. Oltre ai temi
in *-i- dotati di semantica aggettivale (es. ie. *ǵhelh 3i- ‘oro, colore
dorato’ > ind. ant. hári-, avest. zāiri-) e soprattutto la *-i- del
cosiddetto sistema di Caland (che alterna sincronicamente con
suffissi aggettivali come *-ro-, *-mo-, *-no-, *-lo- etc., in
composizione o in altre occorrenze lessicalizzate, es. gr. κῡδρός
‘glorioso’ vs. κῡδι-άνειρα ‘che dà gloria agli uomini’ 17; av.
dǝrǝzi-raϑa- ‘che ha un forte carro’ vs. dǝrǝzra- ‘forte’), tale *-irianalizzata come parte del suffisso *-iko- può avere anche altre
origini nelle singole lingue storiche: nelle lingue indoiraniche, ad
esempio, può essere esito di una laringale (in questo caso è spesso
coinvolto il suffisso *-h2-, che forma nomi femminili e astratti ed è
probabilmente identificabile con il suffisso collettivo *-h 2-, cf. ind.
ant. jáni- ‘donna’ < *gwen-h 2-)18, in latino può essere l’esito seriore
della cosiddetta apofonia latina, come in manica < manus (cf. sopra).
Nell’indiano antico, -ika- (< ie. *-iko-) è frequentissimo nella
formazione di aggettivi indicanti relazione o appartenenza rispetto al
14 Cf. Van Windekens (1944: 127), ma Schwartz (1974: 411) e Pinault (2002: 262 ss.)
ipotizzano una possibile origine iranica di questo termine: Adams (2013: 149).
15 Il nesso etimologico tra v4ścika - and vraśc-, tuttavia, è problematico: cf. Debrunner
(1954: 308; 311); EWA 2, 596.
16 Cf. Fortson (2004: 121); Meillet (1937: 269); Debrunner (1954: 309–319).
17 Cf. anche gr. κῡæδιμος etc.: sul ruolo della -i- di Caland nei suffissi greci del tipo
-ινο- / -ιμο- (e -υμο- / -υνο-), cf. Probert (2006: 267 ss.).
18 Cf. Fortson (2004: 118 s.); Widmer (2004: 43–44); Harđarson (1987a); Harđarson
(1987b); Hamp (1979).
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I suffissi indo-ir. * -Vka- tra genealogia e variazione
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concetto espresso dalla base, tanto da essere classificato dai grammatici
indiani come un suffisso autonomo, insieme ad -aka-19; tale suffisso
diventa particolarmente frequente nell’indiano classico, soprattutto nella
forma -ikā-, che si generalizza come suffisso nominale di femminili (es.
AV kaniṣṭhikāææ- ‘il dito più piccolo’ < kaniṣṭhá- ‘il più piccolo’), per rianalisi
di derivati in cui -ka- è aggiunto a temi in -i- e -ī- (es. RV avi-kāæ ‘pecora,
agnello’ < ávi- ‘pecora’)20.
Il suffisso si diffonde ulteriormente nelle fasi più recenti
dell’indiano antico, specie nei registri popolari, dove è talora usato al
posto di -aka- (es. aur™ika- ‘di lana’ per aur™aka-); quest’uso diventa
molto frequente nel medio indiano, dove -ika- è attestato anche come
forma ipercorretta di -iya-, dopo che in medio indiano era avvenuta la
confluenza, per motivi fonetici, di -ika- e -iya-21.
Dal punto di vista formale, i derivati in -ika- in sanscrito
presentano il grado v3ddhi del tema e l’accento sulla prima sillaba, ma
ciò avviene solo talvolta nel vedico (es. AV vāæsantika- ‘primaverile’ <
vasantá- ‘primavera’): per i Neogrammatici, la mancanza di questi
tratti formali in una parte dei derivati vedici rappresentava un
ostacolo all’individuazione del suffisso -ika- nelle poche occorrenze
vediche, che si aggiungeva al fatto che alcune di esse sono in effetti di
etimo oscuro e, quindi, risulta dubbio se presentino il suffisso -ikaoppure siano casi di -ka- aggiunto a temi in -i-.
Per questi e altri motivi che vedremo, nonostante l’opinione
autorevole di Brugmann (1906: 488), alcuni studiosi di scuola
neogrammatica, tra cui soprattutto Edgerton (1911: 310), autore della
19 Cf. Whitney (51924: 468); Debrunner (1954: 311) attribuisce all’indiano antico
l’indiano antico -ika- la funzione principale di esprimere appartenenza rispetto al concetto espresso dalla base del derivato.
20 Tale uso è definito popolare da Debrunner (1954: 314 ss.), con bibl.; cf. Burrow
(1955: 197); Edgerton (1911: 95 s.); MacDonell (1916: 262). I paralleli indoeuropei più rilevanti di ind. ant. -ikā- sono gr. παρϑενική (< παρϑένος), lat. flaminica (< flamen), sl.
ant. myšĭca ‘muscolo (del braccio)’ (corrispondente nella formazione a ind. ant. mūṣ-ikāf. ‘ratto, topo’); ant. alto ted. fulihha ‘puledra’ (< folo ‘puledro’), il suff. lituano -ìkė, femm.
di–ùkas (es. Naujoìkė ‘figlia di Naujõks’), e lettone -ika (es. Añnika, dim. di Añna): Debrunner (1954: 317–318); Brugmann (1906: 249; 490 s.).
21 Cf. Debrunner (1954: 310), con bibl.
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più importante monografia sui suffissi in velare nell’indiano antico,
ritenevano che tale suffisso non potesse essere attribuito
all’indoiranico, né all’indoeuropeo ricostruito. In particolare, Edgerton
riteneva che le scarse attestazioni del suffisso nel RV fossero tutte da
escludere per un motivo o per l’altro (vedremo qualche esempio tra
poco) e ne concludeva quindi che nel RV “none of the derivative
suffixes ika, aka, uka, ūka, are found” (1911: 305).
L’applicazione rigida del modello ad albero e l’operare soltanto nella
prospettiva diacronica inducevano gli studiosi dell’inizio del ‘900 a
ritenere che il RV fosse solo la fase più antica dell’indiano, mentre oggi è
noto che le parti più antiche del RV si differenziano da quelle più recenti
e dall’AV anche sul piano diatopico e sociolinguistico. Nel caso di lingue
attestate soltanto da corpora finiti di testi, è noto che le considerazioni
sociolinguistiche sono inevitabilmente più complesse che quelle che si
possono avanzare riguardo alle lingue vive, e devono tenere conto della
quantità e qualità di testi conservati; tuttavia, molto è stato fatto negli
ultimi decenni nell’ambito della cosiddetta sociolinguistica storica, sia a
livello teorico, sia riguardo a lingue antiche specifiche22. Non è questa la
sede per ripercorrere tutte le tappe della storia degli studi di
sociolinguistica applicati alle lingue antiche, né di evidenziare le
questioni tuttora aperte. Ciò che ci preme sottolineare, invece, è che nel
caso delle lingue indoiraniche antiche intendiamo con “tratti
sociolinguistici” più o meno connotati dei tratti che non sono talmente
bassi da non comparire a livello scritto. Nel caso dell’indiano antico,
inoltre, a livello di macroanalisi, sia il RV che l’AV sono composti da inni
religiosi tramandati per iscritto e non ci informano quindi sulle varietà
orali veramente basse. Nonostante ciò, si può utilizzare anche in questo
caso il concetto di “sociolinguistica” facendo riferimento in modo
specifico alle varietà diafasiche e diastratiche che i testi scritti,
espressione di varietà linguistiche e generi letterari diversi, ci
permettono di individuare. Il RV più antico, infatti, rappresenta una
varietà nordoccidentale che condivide numerose isoglosse con l’iranico
22 Cf., ad es., Romaine (1982) e il volume edito da Hernandez-Campoy e CondeSilvestre (2012).
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I suffissi indo-ir. * -Vka- tra genealogia e variazione
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per contiguità geografica e per una comunanza culturale di epoca
prezoroastriana, mentre le parti più recenti del RV e l’AV testimoniano
una varietà centrale non-occidentale, dalla quale deriva anche il
sanscrito classico; gli inni celebrativi e rituali del RV antico sono
l’espressione della cultura brahmanica, mentre quelli dell’AV hanno
carattere “semiprofano” e trattano argomenti cosmologici, magici,
esorcistici etc.23 I tratti linguistici che contraddistinguono il RV più antico
rispetto al RV più recente e all’AV non sono però necessariamente più
antichi, ma anzi sono spesso innovazioni (come ad esempio l’estensione
della desinenza dello strum. pl. -ebhis ai temi in -a- a discapito della
desinenza più antica -ais, che è invece comune nelle parti più recenti del
RV, nell’AV e nel sanscrito classico, o ancora il mutamento l > r)24.
Invece, agli inizi del ‘900 Edgerton, come la quasi totalità dei
Neogrammatici, presupponeva che i tratti linguistici del RV fossero
necessariamente più antichi di quelli attestati nel RV più recente,
nell’AV e nel sanscrito classico e che l’assenza di un certo tratto nel
RV più antico (e nell’avestico) escludesse la possibilità di attribuire
tale tratto all’unità indoiranica. Di conseguenza, era costretto a
escludere dall’indoiranico tutti i suffissi del tipo *-Vka-:
Although argument for negation has its dangers, it is hardly
likely that uses of any frequently occurring suffix which are
found in later Skr., but not in the RV., nor in the Av. [Avestan],
could have belonged to the prehistoric Ind.-Iran. On that
hypothesis, we must rule out the derived suffixes ika, aka
(Verbal), uka and ūka, all of which are practically lacking in RV.
and Av. We therefore cannot accept Brugmann's statement (Gr.
II.2: 1 p. 488) that the adjectival suffix -iqo- (= Skt. ika) is found
‘throughout the entire IE territory.’ In the oldest strata of Aryan
it cannot be proved to have existed, unless by one or two
sporadic and doubtful examples; and its extensive growth in
Skr. is certainly a late development (Edgerton 1911: 310).
Cf. Renou (1956: 31); Thieme (1957); Lazzeroni (2007); Lazzeroni (1968).
Per l’analisi approfondita di tali tratti si veda Lazzeroni (1968); Lazzeroni (2007);
per un elenco dei tratti indiani “occidentali” che caratterizzano il RV più antico e che
possono considerarsi innovazioni cf. Arnold (1904).
23
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3. Vedico -ika-:
Neogrammatici
esempi
di
occorrenze
esaminate
dai
Il suffisso -ika- è in effetti poco attestato in vedico: nel RV troviamo,
ad es., usriká- m. ‘giovenco, piccolo bue’ < usrá- agg. ‘rossastro’, m.
‘bue, toro’, f. ‘vacca’25 e śa™ḍika- ‘nome di una famiglia o tribù’ <
śa™ḍa-; v4ścika- ‘scorpione’, forse < vraśc- ‘tagliare, fare a pezzi (?)’
(etimo discusso, cf. sopra); nell’AV troviamo tú™ḍika- ‘che ha una
zanna o un dente’ < tu™ḍa-.
A queste occorrenze si possono aggiungere alcuni casi di -ikā- nel
RV26, come i femm. iyattikāæ- < iyattaká- ‘molto sottile’, vártikā- ‘quaglia’
< vartaka- (cf. gr. ὄρτυξ, -υγος, raramente -υκος ‘id.’); śakuntikāæ‘uccellino’ < śakuntaká- ‘id.’ (cf. AV śakúnta- ‘uccello’) e su-lābhikā-,
termine offensivo e osceno attestato un’unica volta al vocativo
sulābhike e tradotto “you easy little lay” da Jamison (2008: 158),
studiosa che ha molto approfondito la valenza sociolinguistica della
presenza dei derivati con suffissi in velare nel linguaggio femminile
(ossia forme che compaiono in discorsi fatti da donne o che
riguardano le donne e che hanno spesso una connotazione sessuale
offensiva e denigratoria) all’interno del vedico. Dal punto di vista
formale, secondo Debrunner (1954: 317), sulābhikā- presenterebbe un
allungamento metrico e sarebbe formato su *sulabhakā-, diminutivo
del scr. class. sulabha- ‘facile da ottenere o da effettuare’.
Nel RV compaiono anche alcuni casi di -īka-27, suffisso che
successivamente si specializza nella formazione di nomi verbali,
per esempio m3ḍīká- nt. (?) ‘grazia, pietà, favore’ (anche mārḍīká-,
sempre nel RV) < m3ḍ- ‘essere misericordioso, gentile’,
confrontabile con av. ant. mǝrǝždika- nt., av. rec. *marždīka- nt.
25 Monier-Williams (1899: 220); Debrunner (1954: 313); Edgerton (1911: 109); cf. EWA
1, 239; Debrunner (1954: 313) ritiene che questa forma derivi dal f. *usrikāæ-, a sua volta
derivato di usrāæ- f. ‘vacca’.
26 Cf. Debrunner (1954: 316 s.).
27 I paralleli indoeuropei di ind. ant. -īka- sono il lat. -īca (es. formīca) e lo sl. ant. -ica
(< *-īkā; e.g. starica ‘vecchia’).
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I suffissi indo-ir. * -Vka- tra genealogia e variazione
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‘misericordia, grazia’ 28; - 3jīka- ‘scintillante, raggiante’ (in composti)
< 3j- ‘brillare’; d 3śīka- nt. ‘apparenza’, agg. ‘splendido’ < d3ś‘guardare’; d3bhīka- nome di un demone < d3bh- ‘raggruppare,
raccogliere’; v3dhīká- nome di Indra < v3dh- ‘crescere’; kaśīkāæ ‘donnola, mangusta’ < káśa- ‘id.’ o un animale simile. In queste
occorrenze è effettivamente spesso difficile decidere se si ha a che
fare con -īka- primario oppure con il suffisso -ka- aggiunto a un
tema in -ī- non attestato oppure un tema in -in- o in -i- con
allungamento della vocale presuffissale 29.
Per gli studiosi che consideravano soltanto la dimensione
diacronica, la scarsità e la problematicità delle attestazioni erano
motivi validi per screditare le poche attestazioni vediche. Infatti,
Whitney (19245: 450 § 1186c) sostiene che tutte le occorrenze in cui i
suffissi -ika- e -īka- sembrano aggiunti direttamente alla radice
sarebbero in realtà casi di -ka- secondario, pur non esplicitando i
motivi della sua affermazione e pur dando l’impressione di
ammettere, alcune pagine dopo (468 § 1222j), l’esistenza di -ika- come
suffisso indipendente. Edgerton (1911: 109), dal canto suo, influenzato
dai grammatici indiani e basandosi su argomenti semantici, ritiene
che la forma vedica RV usriká- m., la cui derivazione formale da usrásembra accertata, non possa tuttavia essere considerata come
un’occorrenza del suffisso primario -ika- poiché -ika- non
presenterebbe mai altrove il valore di un diminutivo spregiativo; dato
che, in effetti, la forma più frequente è usríya- e usriká- è un hapax
tardo-vedico, ne conclude che -i- in usriká- sarebbe dovuto ad analogia
con la forma più frequente: “In usriká […] the i is due to analogy from
usríya. It would be impossible to regard the suffix as -ika, since the
word is obviously a contemptuous dim., and ika is never used in that
sense, at least in the Veda”. Per quanto riguarda v4ścika-, Edgerton lo
La forma dell’av. rec. *marždīka- è attestata come marždika-, con /i/ breve, ma Debrunner (1954: 427) ritiene che debba essere emendata in *marždīka-, per l’accostamento
alla forma ind. ant. m3ḍīká-, mārḍīká-; cf. Edgerton (1911: 309; 107); EWA 2, 326 s.
29 Debrunner (1954: 429); Edgerton (1911: 107).
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classifica inizialmente tra i diminutivi dispregiativi formati con il
suffisso -ka-, ma alcune pagine dopo ammette che potrebbe trattarsi di
un caso di suffisso primario (cioè di -ika-), ponendosi soprattutto il
problema della semantica: “The word [scil. v4ścika-] may be a primary
derivative; if its suffix is dim. at all, it is probably rather imprecatory
than contemptuous”(1911: 144). Come si è visto, l’etimo è discusso;
Debrunner (1954: 311), dal canto suo, ritiene che la derivazione di
v4ścika- da vraśc- sarebbe “semasiologisch bedenklich”, seguito però in
questo caso dall’autorevole parere di Mayrhofer, il quale considera
dubbio il nesso etimologico tra queste due forme (EWA 2, 596).
Un’altra soluzione adottata dagli studiosi di un tempo per trattare i
casi di -ika- che non rientrano nella descrizione grammaticale
tradizionale fornita dai grammatici indiani è quella di ipotizzare una
-i- “connettiva”, un’idea antica, già avanzata da Bopp (cf. Debrunner
1954: 313): ad esempio, le forme AV vāæsantika- ‘primaverile’ e v4ścika‘scorpione’ sono interpretate da MacDonell (1916: 262) come casi del
suffisso -ka- preceduto da un “connecting -i-”30.
Un’ulteriore opzione per non riconoscere le poche occorrenze di -ikain vedico è quella di dubitare della fonte che le attesta: per esempio,
Edgerton (1911: 305) dubita che śa™ḍika- contenga il suffisso -ikasostenendo che è considerato un patronimico formato su śa™ḍa- “on no
other authority than Sāya™a, who explains the word as ‘descendant of
Śa™ḍa’, an Asura priest (śa™ḍa- as common noun means ‘curds’)”. Infine,
Edgerton (ibid.) nega in blocco la rilevanza dell’esiguo gruppo di derivati
in -īka-, sostenendo che esso sia “not very clear and may be neglected”.
4. Il suffisso indo-ir. *-akaIl suffisso ind. ant. -aka- deve la sua frequenza all’alto numero di
temi in -a-, che favorisce la rianalisi di -a-ka- come -aka-, e alla sua
qualità di utile allomorfo di -ka- per “normalizzare” temi in
consonante, ad es. śúnaka- ‘piccolo cane’ (usato anche come nome
30
Cf. Debrunner (1954: 308).
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proprio) < śún- ‘cane’31. Nel sanscrito classico -aka- assume la funzione
di derivare nomi d’agente da temi verbali, per esempio kāær-aka‘facitore, autore’ < k3- ‘fare’, bandh-aka- ‘catturatore’ < bandh- ‘legare’;
in tale funzione, l’unica riconosciuta dai grammatici indiani antichi, il
suffisso compare di solito in derivati che presentano la radice
accentata e al grado allungato32.
Nel RV, però, le attestazioni sono rare e incerte e, come accade
anche in avestico, non è sempre chiaro se i derivati in questione
contengano -aka- oppure -ka- aggiunto a un tema -a-, attestato o
meno. In particolare, nel RV troviamo solo sāæy-aka- m., nt. ‘missile,
freccia’, la cui semantica letterale secondo Edgerton (1911: 101)
sarebbe quella di un gerundivo-aggettivo ‘che deve essere
lanciato’, ma secondo Mayrhofer (EWA 2, 725) non si tratterebbe di
un aggettivo. Varie opinioni sono state proposte riguardo all’etimo
di tale derivato, ma Mayrhofer sostiene che, insieme a prásiti- f.
‘attacco, assalto’, potrebbe essere connesso a una radice indoiranica
altrimenti inattestata significante ‘gettare, lanciare’ 33. Inoltre, nel
RV, si ipotizza l’esistenza del derivato *sú-lābhaka- sulla base del
femminile attestato sú-lābhikā-, di cui si è detto sopra. Nell’AV
troviamo pīæyaka- m. ‘colui che abusa’ (< pīy- ‘abusare’) e vádhakaagg. ‘che uccide, distruttivo’ (< vadh- ‘distruggere, uccidere’, che
però potrebbe anche derivare da vadhá- m. ‘uno che uccide,
distrugge’, con -á- < ie. *-ó-); nello YV abhikróśaka- m. ‘oltraggiatore’
31 Sull’utilità di -aka- per “normalizzare” temi in consonante cf. Debrunner (1954:
143) e, per tale suffisso in generale, Debrunner (1954: 145 ss.); Whitney (51924: 446); Edgerton (1911: 101 s.).
32 Lo sviluppo di tale funzione si deve probabilmente al processo di erronea segmentazione di nomi verbali uscenti in -a- (< indo-ir. *-á-) e ampliati con il suffisso -ka-.
Secondo alcuni studiosi, indo-ir. *-á- (< ie. *-ó-) sarebbe un suffisso autonomo, e non soltanto la vocale tematica accentata, che aggiunto a temi nominali atematici e tematici deriverebbe aggettivi con valore possessivo, come ad esempio ie. *gwyeh2- ‘corda di arco’
(ind. ant. jyāæ- f. ‘id.’) > gwyh2-ó- ‘che ha, o si riferisce, a una corda d’arco’ (gr. βιός ‘arco’);
secondo altri formerebbe nomi d’agente e aggettivi con valore participiale, specie quando aggiunto a temi verbali: cf. Widmer (2004: 33); Whitney (51924: 423); Debrunner
(1954: 59 ss.; 149); Edgerton (1911: 104 f.). Riguardo a ie. -ó-, cf. Meillet (1937: 257).
33 Altri studiosi connettono questo derivato a ie. *seh1- ‘seminare’ (Debrunner 1954:
147) o a *seh2- ‘legare’: cf. EWA 2, 725; 186.
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< abhikróś- ‘oltraggiare’ (confrontabile con av. rec. apa.xraosaka- agg.
‘oltraggiante’, per cui si veda oltre, § 6).
Altri casi vedici di -aka- sono ugualmente dubbi, per esempio RV
*hlādaka- ‘rinfrescante’ (desunto dal f. hlādikā-): per Debrunner (1954:
146) si tratterebbe di un caso di -aka- primario, formato direttamente
dalla radice verbale hlād- ‘essere rinfrescato’, mentre per Edgerton
(1911: 104) si tratterebbe di un caso di -ka- aggiunto al nome verbale
hlāda- m. ‘ciò che rinfresca’.
Così come indo-ir. *-ika-, anche il suffisso *-aka- sembra
ricostruibile per l’indoiranico (si veda § 6 per le forme iraniche), ma a
differenza di questo è improbabile che possa essere ricondotto all’ie.
ricostruito, dove dovrebbe presentarsi come **-oko- oppure **-eko-.
Oltre ai rari paralleli nelle altre lingue ie. 34, la difficoltà formale
consiste nel fatto che in genere l’elemento che precede un suffisso
secondario iniziante per consonante (nel nostro caso ie. *-ko-) ha
vocalismo zero35. Quindi la generalizzazione di suffissi del tipo *-Vkonei quali la vocale iniziale è in origine la vocale tematica deve essersi
verificata in modo indipendente nelle varie lingue storiche, come
conseguenza della generale tendenza alla rianalisi causata
dall’opacizzazione dei confini morfematici.
Come per *-ika-, alcuni studiosi dell’inizio del ‘900 tendono a
negare la presenza di indo-ir. *-aka- nei derivati indoiranici più
antichi, basandosi sulle differenze formali e semantiche che essi
presentano rispetto ai derivati in -aka- del sanscrito classico.
Edgerton, per esempio, sostiene che le forme vediche sāæy-aka- e
*sú-lābhaka- siano “uncertain and in any case not belonging in meaning
to the later suffix aka” (1911: 101 s.). Anche il derivato madhvaka- m.
‘ape’ (in SV) < mádhu- nt. ‘miele’ (cf. anche madhūka- ‘ape’, e madhuka34 Cf. got. broþrahans ‘fratelli’ (< agg. *brōþr-aha-? Cf. Debrunner 1954: 145); germ.
*vitaga-, *vītaga- ‘saggio’ (cf. ingl. ant. wītig), probabilmente da ie. *weyd- ‘conoscere, sapere’ + *-oko-; lat. mordicus (cf. ind. ant. mardaka- ‘schiacciante, martellante’), medicus,
ūnicus, etc., nei quali -i- di -icus sembra dipendere dall’apofonia latina. Cf. Debrunner
(1954: 149); Leumann (19775: 337); alcuni esempi tocari piuttosto dubbi sono citati da
Van Windekens (1944: 126 s.).
35 Cf. Meillet (1937: 276).
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‘color del miele, dolce’, usato anche come nome proprio: EWA 2, 302 s.)
per Edgerton non conterrebbe il suffisso primario -aka-: “[madhv-aka‘bee’] is probably an instance of some sort of adaptation, whose nature
cannot be decided. At first sight it looks like a suffixal -aka added to
mádhu; but this is most unlikely”. A suo avviso, si tratterebbe anche in
questo caso del suffisso -ka-, nella funzione di formare aggettivi di
appartenenza o relazione, aggiunto a madhu- in qualche modo che
Edgerton trova strano e non riesce a spiegare. Un altro derivato
attestato nell’AV, ossia p3ṣāætaka- m., nt. ‘una miscela di burro, latte etc.’
< p4ṣa(n)t- agg. ‘screziato, maculato’ (cf. EWA 2, 164), anch’esso non
rispondente ai tratti semantici e formali individuati dai grammatici
indiani sulla base del sanscrito classico, non è considerato dallo
studioso un caso di -aka-: anzi, Edgerton (1911: 101) ipotizza che
madhvaka- e p3ṣāætaka- presentino il suffisso -ka- aggiunto
rispettivamente a due basi non altrimenti attestate, ossia *madhva- e
*p3ṣata- (o *p3ṣāta-); dal punto di vista semantico, però, tali derivati non
sono inseribili in nessuna delle quattro classi individuate da
Edgerton36, per cui sono incluse nel gruppo dei derivati
“inclassificabili” (1911: 124). Oltre ai problemi semantici, Edgerton
(1911: 101 n. 1) osserva che questi due derivati sarebbero sospetti
perché non presentano il grado v3ddhi. Quest’ultimo argomento è
piuttosto curioso, perché poche pagine prima (1911: 98 f.) Edgerton
stesso aveva criticato Whitney (19245: 466 ff. § 1222) per la sua
eccessiva fiducia nei grammatici indiani e in particolare per l’aver
assunto, basandosi esclusivamente sulla loro autorità, l’esistenza di un
suffisso -aka- che genererebbe v3ddhi37: secondo Edgerton, tutte le
Edgerton (1911: 96 ss.) suddivide i derivati in -ka- in quattro classi, sulla base del
significato che tali derivati presentano rispetto alle loro rispettive basi: 1) nomi o aggettivi che indicano somiglianza rispetto alle loro basi o sfumature diminutive, dispregiative, vezzeggiative etc.; 2) aggettivi di appartenenza o relazione, 3) aggettivi o nomi
possessivi; 4) aggettivi o nomi in cui il suffisso sembra aggiungere un valore verbale attivo.
37 Whitney (51924: 468): “Two suffixes made up of ka and a preceding vowel – namely, aka and ika – are given by the grammarians as independent secondary suffixes, requiring initial vṛddhi-strengthening of the primitive. Both of them are doubtless made
by addition of ka to a final i or a, though coming to be used independently”.
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occorrenze del presunto suffisso -aka- che provoca v3ddhi sarebbero casi
di temi in vocale ampliati con il suffisso -ka-:
The supposed secondary Vriddhi-causing suffix aka is largely or
wholly a grammatical fiction; in the Veda at least, it never
existed at all. Instead we must recognize this secondary
Vriddhi-causing use of the suffix ka added both to a-stems and
to others (Edgerton 1911: 99 s.).
Analogamente, Debrunner (1954: 144), pur citando p3ṣāætaka- come
un derivato in -aka- < p4ṣa(n)t- ‘screziato, maculato’, avanza dubbi
circa l’accento e qualifica il derivato come “singolare”, lo stesso
aggettivo che usa anche per il derivato madhvaka-.
Tuttavia, tutte le occorrenze preclassiche dei suffissi del tipo *-Vko-,
come anche di *-ko-, nelle lingue indoeuropee antiche non presentano
v3ddhi, né sono riconducibili ad alcuna precisa regola accentuativa. Le
regole individuate dai grammatici indiani descrivono uno sviluppo
successivo interno all’indiano.
Tralasciando ora il fatto che la derivazione interna di matrice
indoeuropea, ossia i mutamenti di grado apofonico e accento utilizzati
a scopi morfologici, era in origine applicata esclusivamente alle forme
atematiche e solo secondariamente è stata estesa alle tematiche38, è
noto che nell’indoiranico, a differenza delle altre lingue indoeuropee,
si è molto diffusa la cosiddetta derivazione tramite v3ddhi, ossia la
modificazione del grado apofonico da zero a pieno, o da pieno ad
allungato. Alcuni esempi sono ind. ant. mānasá- ‘relativo allo spirito’ <
mánas- ‘mente, spirito’; scr. śvāśura- (cf. ant. alto ted. swāgur ‘figlio del
suocero = cognato’) < śváśura- ‘suocero’;39 avest. vārǝϑraγni- ‘vittorioso’
< vǝrǝϑraγna- ‘vittoria’; pers. ant. Mārgava- ‘abitante di Margu-’40. In
ogni caso, il suffisso indo-ir. *-ka- non implica alcuna alterazione
apofonica della base, essendo prevalentemente un suffisso secondario
38 Ad es. ind. ant. bráhman- nt. ‘preghiera’ < ie. *bhléǵh-mn
̥ vs. brahmán- m. ‘prete’ <
ie. *bhléǵh-mō(n). Cf. Meillet (1937: 256 ss.); Fortson (2004: 78; 110); Burrow (1955: 124
ss.); Widmer (2004: 62 ss.; 66 ss.).
39 Meillet (1937: 259); Fortson (2004: 116 s.); etc.
40 Sims-Williams (1993: 175).
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I suffissi indo-ir. * -Vka- tra genealogia e variazione
63
aggiunto a basi tematiche. Per quanto riguarda l’ind. ant. -ka-, gli
stessi Debrunner (1954: 530) e Whitney (1924 5: 467 f. § 1222)
sottolineano che le più antiche attestazioni dei derivati contenenti tale
suffisso non presentano v3ddhi, con l’eccezione di ind. ant. māmaká(ma anche mámaka-) < máma ‘mio, di me’ e lo stesso vale per le più
antiche attestazioni nelle lingue iraniche e nelle altre lingue
indoeuropee (cf. Kuryłowicz 1968: 52).
Per quanto riguarda la posizione dell’accento, Whitney (1924 5: 467
§ 1222b) osserva: “The accent of derivatives in ka varies – apparently
without rule, save that the words most plainly of diminutive character
have the tone usually on the suffix”; analogamente Debrunner (1954:
533): “Der Akzent der ka-Bildungen ist nicht auf eine Formel zu
bringen”. Anche Kuryłowicz (1968: 52) afferma che le condizioni
accentuali dei derivati senza v3ddhi contenenti i suffissi -a-, -ya-, e -kasono poco chiare e richiederebbero ulteriori indagini: in generale, in
vedico i derivati in -ka- con valore diminutivo sono ossitoni (es.
kumāra-ká- ‘ragazzino’, putra-ká- ‘figlioletto’), ma molti derivati
ossitoni non sono diminutivi. Kuryłowicz (ibid.) ne conclude quindi:
“die Ratio der Betonung anderer Bildungen auf -ka- ist jedoch
vorläufig unbekannt”.
5. Il suffisso ie. *-ukoMentre per la ricostruzione di ie. *-iko- sono state espresse opinioni
discordanti, la tradizione neogrammatica è concorde nel non
ammettere che *-uko- sia ricostruibile per l’indoeuropeo, benché, al
pari di -i-, anche -u- sia un suffisso del cosiddetto sistema di Caland,
benché molti temi in -u- abbiano semantica aggettivale (es. ie. *gw3Hu‘pesante’ > ind. ant. gurú-, gr. βαρύς)41 e nonostante che la presenza,
41 Il fatto che alcuni derivati indiani antichi in -uka- non rimandino a temi in -ú-, ma
in -u-, mentre solo ie. *-ú- è realmente aggettivale, non costituisce un grave ostacolo: gli
aggettivi protero- e amficinetici in -ú- hanno origine tramite derivazione interna da temi
nominali astratti in -u-, ad es. *kró/étu- ‘forza, acume, intelligenza’ (ind. ant. krátu-, av.
xratu-) > *k3tú- ‘forte’ (gr. κρατύς): cf. Widmer (2004: 96 ss.; 128); Fortson (2004: 110).
Inoltre, molti di questi nomi astratti in -u- hanno semantica aggettivale (ad es. *h2rǵu-
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nelle lingue indoeuropee storiche, di molti temi in -u- ampliati con il
suffisso *-ko- possa aver favorito fenomeni di rianalisi (es. ind. ant.
babhru-ká- ‘brunastro’ < babhrú- ‘bruno’; av. ant. pasuka- ‘animale,
(capo di) bestiame’ < pasu- ‘(capo di) bestiame, animale
addomesticato’, riferito a quadrupedi come vacche, capre, pecore, in
opposizione agli animali selvatici). La formazione di suffissi primari
formati per erronea segmentazione da -u- e *-ko- è generalmente
ammessa solo come uno sviluppo indipendente all’interno delle
singole lingue storiche, sebbene gli indianisti riconoscano che ind. ant.
-uka- è attestato prima di -aka- (cf. Whitney 19245: 446 § 1181). Oltre
all’ind. ant. -uka- (e al greco -υξ, che rappresenta la versione atematica
dello stesso tipo di rianalisi), il suffisso ie. *-uk(o)- sembra continuato
anche dallo sl. ant. -ŭkŭ, originato da un ampliamento in *-ko- di
aggettivi uscenti in -u, la cui declinazione è precocemente
scomparsa42. Tuttavia, Debrunner sostiene che la parentela
genealogica tra sl. ant. -ŭkŭ, da un lato, e ind. ant. -uka- e gr. -υξ,
dall’altro, non sarebbe dimostrata: “Da die verwandten Sprachen
keine Entsprechungen haben, ist -uka- als ai. Erweiterung aus -u- zu
erklären” (1954: 483).
Per gli studiosi di tradizione neogrammatica un ostacolo
all’attribuzione di *-uk(o)- all’ie. ricostruito consisteva sicuramente nel
fatto che, nelle lingue storiche, gli esiti di questo suffisso sviluppano
funzioni morfologiche e valori semantici molto diversi: ad esempio,
l’ind. ant. -uka- forma aggettivi verbali con significato participiale, di
solito con la radice accentata e al grado allungato (ad es. bhāævuka- ‘che
è, diventa’ < bhū- ‘essere, diventare’) 43; il gr. -υξ forma nomi per lo più
indicanti rumore44, lo sl. ant. -ŭkŭ forma aggettivi qualitativi. Al
giorno d’oggi tale ostacolo non appare più tale, poiché si è
‘bianco’ in ind ant. árju-na-, gr. ἄργυ-ρος) e sincronicamente -u-finale alterna o è cumulata con altri suffissi aggettivali, allo stesso modo della di -i- del cosiddetto sistema di
Caland (cf., ad es., l’alternanza -u-/-ro- in lat. acus < *h2ak´ u- vs. gr. ἀκ-ρός < *h2a k´ -ro-):
cf. Widmer (2004: 91; 129).
42 Cf. Meillet (1934: 347); Vaillant (1931); de Lamberterie (1990: 29).
43 Cf. Edgerton (1911: 104–107); Debrunner (1954: 480–483 and 498 s.); Whitney
(51924: 445 f.).
44 Cf. Dettori (2006).
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I suffissi indo-ir. * -Vka- tra genealogia e variazione
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consapevoli del fatto che i valori semantici e le funzioni morfologiche
di un suffisso si sviluppano pienamente solo all’interno di un singolo
sistema e, quindi, quello che dal punto di vista formale e diacronico è
lo “stesso” suffisso può comparire con funzioni diverse nei sistemi
morfologici delle singole lingue storiche.
D’altra parte, nel caso delle lingue antiche si deve tener conto
anche dell’ulteriore difficoltà costituita dalla necessità di generalizzare
dei valori paradigmatici desumendoli dai valori sintagmatici
osservabili nelle attestazioni storiche, le quali sono necessariamente in
numero finito e spesso, come nel caso dei suffissi del tipo *-Vka- nelle
lingue indoiraniche più antiche, sono decisamente rare, come si è
visto. Dato il basso numero di occorrenze di tali suffissi, ciascuna delle
quali presenta un suo peculiare valore sintagmatico, l’individuazione
di un valore paradigmatico generale non può non comportare un
certo grado di arbitrarietà.
Inoltre, per tornare a *-uko-, le sue continuazioni nelle attestazioni
più antiche delle lingue indoiraniche sono più difficili da individuare
che quelle degli altri suffissi del tipo *-Vko-. In vedico ci sono alcune
forme che sembrano presentare il suffisso -uka-, ma sono di etimo
oscuro, come ad esempio peruká- nome proprio (EWA 2, 186: ma forse
da péru-, perú-, a sua volta di origine ignota), kā™uká-, di significato ed
etimo dubbi (EWA 1, 336) e chúbuka- nt. ‘guancia’ (EWA 1, 560), e
quindi Debrunner ragionevolmente non le considera occorrenze di
tale suffisso. Un altro caso che compare nel RV è sānuká- ‘bramoso di
preda’, un hapax usato come attributo del lupo: il significato di
‘bramoso di preda’ dipende dalla connessione etimologica con il tema
verbale san- ‘guadagnare, vincere’, ma in tal caso, osserva Debrunner
(1954: 481), la posizione dell’accento sarebbe inattesa. A suo avviso è
più probabile che si tratti di un derivato in -ka- dal termine sāænu- nt.,
m. ‘schiena, dorso’ e che il significato sia approssimativamente ‘che
attacca alle spalle’. Anche secondo Edgerton (1911: 305) si tratta di un
derivato in -ka-, formato però sul tema verbale sanu-. La questione è
dubbia e, infatti, Mayrhofer (EWA 2, 724) non accoglie nessuno di
questi tentativi etimologici e qualifica la formazione come non chiara.
Nell’AV si trovano tre attestazioni di -uka-: ghāætuka- ‘che uccide’ < hanAIΩN-Linguistica n.8/2019 n.s.
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‘colpire, uccidere’; a-pramāæyuka- ‘che non perisce’ < pra- + mī‘danneggiare’ (ma cf. pramāæyu- ‘che perisce’); -kasuka-, attestato nel
composto víkasuka- ‘che scoppia’ < vi + kas- ‘scoppiare, divenire scisso
o diviso’ e in sáṁkasuka- ‘collassante’ < sam + kas-, epiteti di Agni45. Il
suffisso -uka- sembra recessivo nell’epica e nel sanscrito classico, ma,
come tipico dei tratti linguistici connotati come volgari e non letterari,
deve aver mantenuto una discreta vitalità nel parlato, poiché è
frequente nei Brāhma™a e nelle Saṃhitā, dove è talora usato a
discapito di -ika- (e.g. dhārmuka- for dhārmika- ‘giusto’), uso molto
comune nel medio indiano46.
Citiamo qui brevemente anche il suffisso -ūka-, di solito
aggiunto a temi verbali raddoppiati o intensivi per formare
aggettivi verbali; la sua origine è considerata oscura e la
connotazione sociolinguistica bassa è sottolineata dagli studiosi
soprattutto per tale suffisso. Tuttavia, se ne trova un’attestazione
sicura nel RV, ossia jāgarūæka- ‘vigile, sveglio’, dal tema raddoppiato
di g3- ‘svegliare’, cosa che sorprende Edgerton: lo studioso ritiene
che -ūka- si sia formato per una sorta di proporzione analogica su
-uka-, ma si stupisce del fatto che -ūka- “makes its appearance
curiously early, one instance being found in RV., and that too from
a root which is not addicted to u-formations: jāgarūæka- ‘wakeful’,
RV. 3. 54.7” (1911: 106 s.). Debrunner (1954: 498) ritiene che
l’origine del suffisso sia ignota, pur ammettendo che possa
derivare da un ampliamento in -u- dei temi verbali raddoppiati.
Tuttavia, nega che -ūæka-, con /u/ lungo e accentato, possa derivare
da -uka-. D’altra parte, come si è già accennato (§ 1), le vocali
presuffissali alte /i/ e /u/ presentano spesso oscillazioni
quantitative. Per quanto riguarda in particolare -ūka-, in indiano
45 Debrunner (1954: 483) sottolinea che l’etimo di -kasuka- è ignoto e che sia il grado
apofonico che l’accento del derivato divergono dai “normali” derivati in -uka-. Mayrhofer (EWA 1, 332) ritiene invece che, sebbene l’etimo della radice kas- sia poco chiara,
questi due epiteti dell’ignis fatuus siano sicuramente derivati da tale radice verbale tramite il suffisso -uka-.
46 Cf. Debrunner (1954: 480; 482), con bibl.; Edgerton (1911: 104) cita anche YV
hlādukā- per hlādikā- ‘che rinfresca’ come prova della percezione dei parlanti della funzione verbale del suffisso.
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I suffissi indo-ir. * -Vka- tra genealogia e variazione
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antico sono attestati vari casi di derivati che presentano allotropi
con la vocale breve e la lunga prima del suffisso, per esempio
jatūka- ‘pipistrello’ e jatuka- ‘lacca, gomma’47, madhūka- ‘ape’ e
madhuka- ‘color del miele’ (anche n. pr.) < madhu- ‘miele’48.
6. I suffissi indo-ir. *-Vka- in iranico
Un’altra delle difficoltà che i Neogrammatici incontravano
nell’attribuire i suffissi del tipo *-Vka- all’indoiranico e, di
conseguenza, all’indoeuropeo ricostruito era la loro scarsa
attestazione o totale assenza in avestico; questi studiosi, che
consideravano soltanto la dimensione diacronica, ritenevano che
l’avestico fosse solo la forma più antica di iranico, allo stesso modo in
cui il RV era considerato la forma più antica di indiano, benché
l’avestico si differenzi dal persiano antico anche per varietà
linguistica: a differenza dell’avestico, il persiano antico è una varietà
sudoccidentale.
In effetti, le attestazioni di questi suffissi nelle lingue iraniche
antiche non sono molte: nell’avestico antico -ka- compare solo una
volta (pasuka- m. ‘animale domestico’ < pasu- ‘id.’; cf. ind. ant. pāśukaagg. ‘relativo al bestiame’, e anche -paśukā- f. ‘ogni animale piccolo’, <
páśu- nt. o paśú- m. ‘bestiame, animale domestico’), -ika- solo due
volte, in daitika- m. ‘bestia selvatica’ < *dat-a-, lett. ‘provvisto di denti’,
grado zero della forma tematizzata di indo-ir. *dant- ‘dente’49 (ma per
Edgerton 1911: 307; 310 n. 1 si tratterebbe di un caso di -ka- aggiunto a
un “merely euphonic -i-”) e in mǝrǝždika- nt. ‘misericordia’, attestato
anche in avestico recente come marždika- (ma Debrunner 1954: 427
ritiene che questa forma sia da emendare in *marždīka-). Nel persiano
antico non vi è alcuna occorrenza certa di -ika-, mentre il suffisso -īkapuò essere ipotizzato nel derivato pers. ant. arīka- ‘ostile, infido,
47 Mayrhofer (EWA 1, 565; 566) avanza dubbi sulla connessione etimologica tra jatunt. ‘lacca, gomma’ e jatū́- f. ‘pipistrello’ e considera la seconda forma come non chiara.
48 Cf. Debrunner (1954: 498).
49 Riguardo a questi derivati iranici antichi che contengono sicuramente il suffisso
-ika- mi permetto di rimandare a Ciancaglini (2012).
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inaffidabile’, ma l’etimo e la formazione di questo derivato sono
discussi50.
Il suffisso indo-ir. *-aka- compare in un piccolo gruppo di aggettivi
avestici con connotazioni semantiche deviche, la cui interpretazione è
dubbia sia riguardo al suffisso che contengono (-aka- o -ka-), sia
riguardo al significato. Tra essi citiamo apa.xraosaka- ‘oltraggiante’,
apa.skaraka- ‘sprezzante’, niuuaiiaka- ‘terrificante’ e nipašnaka‘invidioso’, considerati da Debrunner (1954: 149) come casi di -akaaffisso al tema verbale, ma da Edgerton (1911: 306 f.) e
Duchesne-Guillemin (1936: 36) come casi di -ka- aggiunto ai
corrispondenti (e inattestati) temi nominali in -a-. Allo stesso modo,
av. rec. rapaka- agg. ‘che sostiene, si schiera con’ è analizzabile come
rap- + -aka- per Debrunner (1954: 149), ma come *rapa- + -ka- per
Edgerton (1911: 308); av. rec. zinaka- agg. verb. ‘che distrugge’ sarebbe
un caso di -ka- aggiunto al tema del presente zinā- per Edgerton (1911:
309), ma un caso di -aka- primario per Debrunner (1954: 149). Lo stesso
dicasi per il pers. ant. *gaušaka- m. ‘informatore, spia’, derivato
attestato indirettamente dall’aramaico ufficiale gwšk ‘id.’51, la cui base
può essere pers. ant. gauša- ‘orecchio’, ma per Debrunner (1954: 149)
sarebbe un ulteriore caso di -aka- aggiunto direttamente al tema
verbale (cf. av. gaoš- ‘to hear’, ind. ant. ghoṣ- ‘udire’) 52. La differenza di
opinioni è dovuta, anche in questo a caso, a motivi semantici: poiché
in indiano, e soprattutto nel sanscrito classico, -aka- forma nomi
d’agente da temi verbali, e il significato di questi derivati avestici può
essere assimilato a quello di nomi d’agente, Debrunner ritiene
preferibile ipotizzare che in essi compaia -aka- aggiunto alla radice
La lettura di ‹a-r-i-k-› come arīka- è suggerita da Mayrhofer (EWA 1, 128) e Schmitt (2014: 136); per Edgerton (1911: 309, 310 n.) si tratta di un caso di -ka- aggiunto a un
tema *ari- = scr. arí-; Debrunner (1954: 428) ritiene che arīka- sia un caso di -ka- primario;
Bartholomae (AirWb 186) e Kent (1953: 170) ritengono che la forma derivi da indo-ir.
*asra-, av. aŋra-; cf. anche Kent (1953: 13 s.); Mayrhofer ammette la possibilità che la
forma derivi da *h2eli-h3kw-o- ‘volto verso un altro lato’: in tal caso, non avremmo a che
fare con un suffisso in velare, ma con un altro suffissoide.
51 Cf. Hinz (1975: 105); Henning (1939–1942: 95 n. 1) ricostruisce anche mediopers.
*gōšag ‘spia’, che potrebbe essere comprovato dall’armeno gušak ‘informatore’.
52 Cf. EWA 1, 518 s.; Schmitt (2014: 183).
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I suffissi indo-ir. * -Vka- tra genealogia e variazione
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verbale, pur ammettendo che formalmente potrebbero essere tutti
derivati da nomi in -a- non attestati53. Analogo è il problema di
interpretazione della formazione del pers. ant. k3nuvaka- ‘scalpellino’:
a mio avviso, è molto probabile che sia formato da *k3nuv- + -aka-,
ossia il tema del pres. indo-ir. *k3nau-/k3nu- del vb. kar- ‘fare’ + -aka-,
ma secondo Mayrhofer (EWA 1, 293), seguito da Schmitt (2014: 204),
sarebbe formato invece da *k3nvá- (cioè *k3nv-á- ) + -ka-; Kent (1953:
180) pensa a un’occorrenza di -aka-, ma aggiunta al tema del pres. del
vb. kart- ‘tagliare’ (cf. tema pres. avest. kǝrǝnauu-/kǝrǝnu-; ind. ant. k3t-,
gr. κείρω < ie. *ker-t-).
Per quanto riguarda -uka-, infine, non vi è alcuna attestazione
diretta di questo suffisso, né in avestico, né in persiano antico.
Come si può notare, rispetto all’indiano antico, le attestazioni dei
suffissi del tipo *-Vka- nelle lingue iraniche antiche sono in numero
nettamente inferiore, anche tenuto conto della diversa estensione dei
rispettivi corpora e, all’interno delle lingue iraniche, tali suffissi sono
meno attestati in persiano antico che in avestico. Ciò dipende da due
fattori connessi alle altre due dimensioni del mutamento linguistico,
quella sociale e quella geografica. Dal punto di vista della variazione
sociolinguistica, i suffissi *-Vka- sono confinati a registri bassi, come si
evince dal fatto che compaiono in avestico per lo più in espressioni
deviche e imprecatorie, soprattutto per quanto riguarda i casi di -aka-.
Un’analoga connotazione bassa, sebbene non in senso devico, è
rilevabile in pers. ant. arīka- ‘ostile, infido, inaffidabile’, k3nuvaka‘scalpellino’ e *gaušaka- ‘informatore, spia’. Di particolare interesse è la
forma pers. ant. k3nuvaka-, che Mayrhofer (EWA 1, 293) cita in quanto
formazione parallela a ind. ant. Ká™va-, nome proprio, da indoar.
*k3™vá- < tema pres. k3™ó-/ *k3-™v-á- < kar- ‘fare’. Sia in ind. ant. Ká™vache in pers. ant. k3nuvaka- la forma del presente è lievemente diversa
da quella attesa: per l’ind. ant., Mayrhofer allude a una pronuncia
popolare; invece Schmitt (2014: 204), a proposito di k3nuvaka-, afferma
Debrunner (1954: 149): “Diese Bildungen (wie viele ai.) können formell von der
Wurzel (z.B. aw. gū̆š-, ai. ghoṣ-) oder vom Verbalsubst. (z.B. ap. gauša- aw. gaoša- ‘Ohr’)
abgeleitet werden; doch ist im Iran. wie im Ai. die Beziehung zum Vb. offensichtlich
näher”.
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Claudia A. Ciancaglini
solo che la divergenza rispetto al tema del presente (che sarebbe pers.
ant. kunau-, cf. imperf. akunavam ‘io facevo’) non giustifica l’ipotesi di
un prestito da un altro dialetto iranico, come il medo.
La caratterizzazione bassa dei suffissi *-Vka- rende conto della
scarsità delle attestazioni nelle lingue iraniche antiche, ma non della
diversa frequenza di tali suffissi in avestico e in persiano antico.
Quest’ultima, a mio avviso, è invece spiegabile tenendo conto della
distribuzione geografica. Benché si tratti di suffissi ereditari, nelle
lingue indoiraniche essi emergono a livello scritto e perdono
progressivamente il loro carattere marcato in senso diastratico o
diafasico basso dapprima in indiano antico, poi nell’avestico recente
e nelle varietà iraniche non sudoccidentali (avestico e,
successivamente, partico, sogdiano, cotanese etc.), per apparire da
ultimo a livello scritto nelle lingue iraniche sudoccidentali (persiano
antico e, successivamente, mediopersiano).
Per quanto concerne le lingue iraniche antiche, quindi, il quadro è
conforme a quello del suffisso *-ka-, anch’esso relativamente più
frequente in avestico, dove è spesso attestato in derivati devici
indicanti infermità e peccati, rispetto al persiano antico, in cui
compare prevalentemente in nomi comuni ed etnonimi presi in
prestito da varietà iraniche non sudoccidentali, come gli esiti
fonologici talora indicano con chiarezza 54. Se ne può dedurre, a mio
avviso, che la distribuzione dei suffissi in velare sorda nelle lingue
iraniche antiche, sia del tipo *-Vka- che *-ka-, è stratificata secondo le
dimensioni diacronica, diatopica e diastratica.
Ciò non significa certo che nel persiano antico tali suffissi siano un
prestito morfologico da altre varietà iraniche, ma solo che erano
impiegati in registri linguistici bassi che non hanno lasciato traccia, o
54 Per es., si vedano i toponimi ed etnonimi pers. ant. Saka- agg. e sost. ‘scitico, scita’, Zranka- ‘Drangiana’; nei nomi, alcuni esempi di aggiunta del suffisso a temi la cui
facies fonologica è chiaramente non sud-occidentale, cf. pers. ant. vazraka- ‘grande’ <
ie. *weĝ-ro- e kāsaka- ‘pietra semipreziosa’, sicuramente non sudoccidentale, confrontabile con av. kas- ‘essere visibile, apparire’ e ind. ant. kāś- ‘id.’, ma di etimo discusso
(cf. Hinz 1975: 150; Schmitt 2014: 202). Sulla questione del suffisso *-ka- nelle lingue
iraniche antiche si veda anche Ciancaglini (2012).
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I suffissi indo-ir. * -Vka- tra genealogia e variazione
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ne hanno lasciate molto poche, a livello scritto. Una importante prova
di ciò è offerta dalle tradizioni parallele, soprattutto dalle tavolette
elamite di Persepoli55, che gli studiosi dell’inizio del ‘900 non
potevano conoscere: questi documenti attestano in modo
inequivocabile la presenza in persiano antico dei suffissi -ika- e -uka-,
molto frequenti in nomi propri abbreviati. Per pers. ant. -ika-, si veda,
ad esempio, elam. Ratukka (*Raϑ-ika- < Raϑa-) e Hartikka (Arϑ-ika- <
Arϑa-)56; per -uka-, che sembra ancora più frequente di -ika- nei nomi
propri (cf. Schmitt in Mayrhofer 1973: 287–298), un esempio è Ziššuka
(*Čiç-uka-)57; il suffisso -uka-, inoltre, è attestato indirettamente anche
da nomi propri attestati in greco, come ad esempio Ἀρτύκας,
Ἀρτούχας (*3t-uka-)58.
7. Considerazioni conclusive
Il considerare il mutamento linguistico tenendo conto delle tre
dimensioni, diacronica, geografica e sociale, non è in contraddizione
con l’applicazione del modello ad albero, ma consente anzi di
integrarlo e renderlo più efficace. La continuità genealogica, la cui
ricerca è lo scopo principale del modello genealogico, viene resa più
certa grazie alla considerazione congiunta di modelli integrativi basati
sulla variazione geografica e sociolinguistica, che consentono di
valorizzare la documentazione disponibile. Nel caso che abbiamo
brevemente esaminato in questo lavoro, gli studiosi dell’inizio del ‘900
di impronta neogrammatica, che operavano con la sola dimensione
diacronica e applicavano rigidamente il modello ad albero e le sue
unità intermedie, erano portati a escludere l’attribuzione dei suffissi
primari *-ika-, *-uka-, *-aka- all’indoiranico e, di conseguenza,
all’indoeuropeo ricostruito, soprattutto per la scarsità di attestazione
di tali suffissi in vedico e in avestico, oltre che per la considerazione
55 È merito di Jamison (2009) l’aver sottolineato la rilevanza di tali documenti riguardo all’esistenza dei suffissi in velare.
56 Cf. Mayrhofer (1973: 8.1424; 8.484).
57 Cf. Mayrhofer (1973: 8.1879).
58 Cf. Schmitt in Mayrhofer (1973: 297 s.).
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Claudia A. Ciancaglini
atomistica dei singoli casi attestati, l’ancora insufficiente conoscenza
delle lingue iraniche e il peso della tradizione dei grammatici indiani
antichi riguardo alle condizioni apofoniche e accentuative, alle
funzioni grammaticali e ai valori semantici che tali suffissi presentano
nel sanscrito classico. Tutti questi fattori inducevano gli studiosi a
negarne la presenza anche nelle poche attestazioni esistenti.
Si è visto, invece, che le attestazioni, dirette e indirette, seppure
scarse, sono significative e ci permettono di concludere che i tre
suffissi primari, *-ika-, *-uka- e *-aka-, sono tutti attribuibili
all’indoiranico, ma solo i primi due risalgono all’indoeuropeo
ricostruito, rispettivamente nelle forme *-iko- e *-uko-.
La scarsità di attestazioni in vedico e in avestico dipende
direttamente dal carattere non letterario e diafasicamente o
diastraticamente marcato come basso di tali suffissi, che iniziano a
emergere nei testi, per quanto riguarda le lingue indoiraniche, a
partire da oriente verso occidente: prima nell’indiano antico, poi
nell’iranico non occidentale e infine nel persiano antico e medio. La
distribuzione dei suffissi indoiranici in velare, sia *-ka- che del tipo
*-Vka-, costituisce quindi un tratto linguistico peculiare dell’unità
indoiranica, ma il modo in cui affiora nella tradizione scritta è
conforme a quanto afferma Lazzeroni (1968: 159) a proposito delle
isoglosse unitarie dell’unità indoiranica, ossia che esse “non si
presentano come caratteri uniformi e definitivamente acquisiti, ma
irradiano da uno o più punti del territorio ario”.
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Bibliografie, recensioni, rassegne
Il Torcoliere • Officine Grafico-Editoriali d’Ateneo
Università degli studi di Napoli “L’Orientale”
Finito di stampare nel mese di novembre 2019
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