Tracce di Blu
Fabiola Naldi
sartoria editoriale
Tracce di Blu
di Fabiola Naldi
© 2020 Postmedia Srl, Milano
www.postmediabooks.it
isbn 9788874902958
Questa non è un’introduzione
L’arte autodistruttiva è la trasformazione
della tecnologia in arte pubblica1.
Per tutto il secolo, gli artisti hanno attaccato i metodi prevalenti
di produzione, distribuzione e consumo d’arte. Questi attacchi
all’organizzazione del mondo dell’arte hanno acquisito ulteriore slancio
negli ultimi anni. Questa lotta, finalizzata alla distruzione dei sistemi
esistenti di marketing e clientelismo pubblico e commerciale, può essere
portata a una conclusione positiva nel corso del presente decennio2.
Tracce di Blu
di Fabiola Naldi
© 2020 Postmedia Srl, Milano
Copertina: Blu cancella la facciata dell’XM24, Bologna 12 marzo 2016
www.postmediabooks.it
isbn 9788874902958
Il libro di cui fa parte questo testo iniziale è la summa di
un’amicizia; allo stesso tempo raccoglie molti dei motivi per cui,
negli ultimi vent’anni, ho deciso di occuparmi di spazio pubblico
nella versione più controversa, complessa e radicale degli esempi
possibili. Sinceramente non so se i tanti termini che si trovano nelle
numerose pubblicazioni dentro e fuori il confine italico possano
essere “adeguati”: Aerosol Art, Graffiti Writing, Street Art, Urban
Art, Public Art, Muralismo, Vandalismo Grafico3, potrei proseguire
ma la questione non cambia. Siamo di fronte a un numero infinito
di pratiche che di base si muovono entro regole precise4, ma,
al contempo, tentano di scartarsi da alcuni limiti imposti dalla
disciplina per volgere verso un’autorialità tanto marcata da divenire
“firma” riconoscibile.
Sento già le voci degli amici che dipingono in strada che mi
richiamano al fatto che il Graffiti Writing e la Street Art non sono la
stessa cosa (io, a dire il vero, l’ho scritto in diverse occasioni); ritengo
che le priorità attuali non siano solo evidenziare le sostanziali
differenze che tengono “a debita distanza” le due pratiche, bensì
il fatto che molti degli artisti attualmente attivi operino sempre
più in pratiche solitarie, sporadicamente collettive e con precisi
codici espressivi. Una buona parte della mia “storia” critica e
curatoriale si è svolta proprio nella strada, letteralmente sull’asfalto,
in un rapporto incredibile quanto contrastato con le istituzioni, le
amministrazioni pubbliche e con gli artisti.
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laddove sia possibile o voluta dallo stesso autore sia sbagliata; in
alcuni casi lo stesso processo pittorico prevede che nel tempo, se
lo stesso intervento resiste a intemperie naturali o meno, venga
“sistemato”, rinfrescato o addirittura restaurato dallo stesso autore
(quando questo è ancora vivo). Ma nell’intrinseca legge mai scritta
delle operazioni di Drawing Art, illegali o meno, lo statuto dell’opera
si definisce tramite la componente effimera ed instabile. Modificare
tale valore, se l’operatore culturale non ha espresso affermazioni
opposte, significa annientare l’aura dell’intervento, neutralizzare
l’istituzione filosofica del gesto, dell’azione e del suo contenuto.
È il dibattito più accesso, controverso ed eterogeneo degli ultimi
anni, considerando l’importanza di alcuni interventi realizzati:
le voci che si accavallano, si contrastano e si negano l’un l’altra
hanno dato vita a convegni, saggi, riflessioni e lunghi dibattiti18.
Risulta importante in questa sede ricordare il primo caso di auto
cancellazione messo in atto da Blu. Nella notte tra giovedì 11 e
venerdì 12 dicembre 2014, Brothers e Chain, questi i titoli delle due
opere dipinte nel 2007 e nel 2008 all’interno della manifestazione
Planet Prozess19 su due edifici in Cuvrystrasse a Berlino, vengono
coperte da una densa pittura nera20. In quell’occasione, come anche
nel marzo 2016 a Bologna, Blu parla chiaro su quale deve essere il
destino dei suoi interventi. Almeno stando alla sua volontà, perché
in realtà sono molti i casi in cui è accaduto proprio il contrario.
Fight Specific
Blu con JR, Brothers e Chain, 2007-2008, prima e dopo la cancellazione nel quartiere di
Kreuzberg, Berlino 2014
Ricordo chiaramente una lunga giornata di dibattito nei
primi 2000 all’Isola21 a Milano in cui la sottoscritta, Bert Theis,
Alessandra Pioselli e molti altri discutemmo sulle possibilità e
sulle responsabilità produttive che avrebbe dovuto avere uno
spazio pubblico in relazione alla gentrificazione in atto in molte
metropoli del mondo. È a Bert Theis che dobbiamo il termine fight
specific; un concetto eterogeneo e complesso che a quel tempo
si radicava concettualmente alle teorie del site specific22 comune
al processo artistico delle Seconde Avanguardie del XX secolo.
Quel termine già allora non bastava più perché la strada, lo spazio
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Profondamente Superficiale
Blu, fattoria di Mondeggi, Bagno a Ripoli (Firenze) 2019
Ho pensato fosse necessaria una breve introduzione ai testi:
buona parte degli scritti presentati nuovamente in questo libro
sono stati condivisi con l’artista. Sono saggi che hanno vissuto
di un momento empatico molto particolare, e hanno avuto in
comune luoghi e contesti importanti per la mia carriera e per la
mia esperienza personale. Ciascun testo che precede l’estratto
ripubblicato agisce come un ipertesto, una sorta di scrittura
aumentata di ciò che avevo fatto in precedenza.
Il saggio che segue (qui riportato solo nella parte che riguarda
Blu) accompagnava la collettiva OnAir08: video in onda dall’Italia
ed era inserito in una pubblicazione che doveva, in quel momento,
fare il punto sulle pratiche audio visive in Italia. Stiamo parlando
del 2008, solo dodici anni fa, ma per tutti coloro che hanno preso
parte a quella mostra quasi tutto è cambiato. Un primo pensiero
va all’amico, al collega che dirigeva la Galleria Comunale d’Arte
Contemporanea di Monfalcone. Andrea Bruciati aveva da tempo
rivoluzionato un luogo dotato di una storia molto più radicata nel
territorio e nella tradizione, senza nessuna apertura all’esterno. Il suo
programma critico curatoriale si muoveva certamente entro il tessuto
artistico locale, ma volgeva lo sguardo verso le ultime produzioni
nazionali e internazionali, chiedendo all’istituzione di “assumersi”
la responsabilità di divenire motore produttivo del contemporaneo.
E cosi è andata per alcuni anni, proprio come nell’occasione in cui
mi si chiese di curare una sezione di quella mostra.
OnAir08 nasceva dall’unione di una rassegna di video itinerante
e di una mostra collettiva sviluppata negli spazi della Galleria
Comunale d’Arte Contemporanea. Gli artisti, alcuni dei quali con
curricula già molto ampi, altri agli esordi del loro percorso, erano
scelti da critici e curatori sempre differenti. On Air08 proponeva
in questo modo una rete, disegnando una nuova mappa, non solo
concettuale, di contatti e di modalità linguistiche. L’obiettivo era
quello di testimoniare l’esistenza di un gruppo di ricerche in grado
di illustrare uno scenario in cui si intersecavano anime, visioni e
tecniche di realizzazione molto diverse tra loro.
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Blu ed Ericailcane, totale e dettagli della facciata del PAC (Padiglione di Arte
Contemporanea), Milano 2007
nuovo di essere sintetici e quindi concettuali. Il disegno, a ben
pensarci, è il modo più veloce per studiare forma e contenuto
rimanendo sospesi sui margini dei contesti, oppure per meglio
aderire alla pelle del mondo. In questo Blu è “profondamente
superficiale”: ed è come se le tecniche obsolete di animazione
divenissero il pretesto perfetto per riflettere differentemente su un
altro modo di utilizzare il già fatto o per decontestualizzare il buon
vecchio ready-made senza tralasciare il fatto fondamentale che non
si parla più di oggetti, bensì di soggetti e di esperienze. Non è un
caso che la prima scelta sia stata il video Muto di Blu. Non credo
ci sia bisogno di spiegare chi sia questo artista che si fa chiamare
come il nome di un colore. Diciamo che negli ultimi tempi il
Writing in tutte le possibili accezioni ha ripreso piede tanto quanto
l’animazione (e questo non è un caso). Per quanto mi riguarda, e
le varie letture storiche sull’argomento lo confermano, il sistema
dell’arte ha “bisogno” della strada (o vogliamo dire dell’illegalità?)
quando si trova bloccato in una crisi profonda di valori e intenti.
Allora, e solo allora, gli operatori del sistema arte si rigettano per
le strade cercando il nuovo. Solo che di nuovo qui c’è poco se lo
si intende nei termini materiali delle tecniche utilizzate. C’è che
molti degli artisti della strada continuano a sperimentare tenendo
conto degli insegnamenti dei padri dell’old school newyorkese
spingendosi sempre più anche verso la semplificazione del metodo.
Una parte fondamentale della processualità operativa di Blu è data
dal fatto che più si è veloci e meglio è, visto che non sempre i
muri scelti sono legali. I colori utilizzati (outline nera e campitura
monocroma) sono disposti non nell’ordine della comunanza con
un unico tema, ma di una forte determinazione nel sottolineare la
presa diretta sull’ambiente circostante. Infine, l’estrema riduzione
del tratto amplifica l’aderenza concettuale delle situazioni
presentate, eliminando i “fronzoli”, le ridondanze stilistiche e i
compiacimenti pittorici. Blu non ha solo scelto di abbandonare le
tag, le lettere, gli spray (e i tappi che permettono, oltre alla marca
della bomboletta, di misurarsi con cromoluminarismi opposti all’à
plat del nostro), a favore di un essenzialismo tecnico, cromatico e
segnico. Oramai si è capito che Blu non è un writer e che anche il
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Quel bravo ragazzo
Blu, Centro studi Casnati, Como 2007
La mostra Quei bravi ragazzi è nata da un’amicizia per la vita. Nel
2006 una delle mie più care amiche, Flavia Pelosi, viene assunta
come assistente della neonata AMT Gallery a Como, di proprietà
del giovane Alberto Matteo Torri.
Dopo aver lavorato diversi anni come assistente per Air De Paris
a Parigi, Flavia era rientrata in Italia prima per svolgere lo stesso
ruolo con la Galleria Primo Marella e poi, lasciando Milano, per
tornare a Como (la sua città natale). La collaborazione prosegue per
qualche tempo fino a che vengo chiamata da entrambi per pensare
una collettiva di ampio respiro focalizzata su alcune riflessioni
critiche a cui lavoravo all’epoca. A dire il vero, se non ricordo male,
per Alberto andava bene qualsiasi proposta, l’importante era che ci
fosse Blu. Già da allora sapevo come Blu la pensasse circa le mostre,
le gallerie e i curatori (tutto ciò valeva anche per me, ovviamente):
l’unica proposta eventualmente accettata doveva avere a che
fare con un muro, un buon muro secondo le sue ambizioni, una
superficie che potesse permettergli di dipingere in totale libertà e
senza alcuna intromissione.
In quella occasione avevo bisogno di lavorare dentro e fuori i
limiti degli spazi espostivi, alimentando anche il paradosso di un
possibile rapporto fra processi legali ed illegali in una città in cui
avevo vissuto ai tempi della mia tesi di laurea su Mario Radice,
Manlio Rho e Carla Badiali. Riccardo Benassi, Dado & Stefy, Federico
Maddalozzo, Massimiliano Nazzi, Giovanna Ricotta e Blu erano
Quei bravi ragazzi coinvolti in modo ironico e provocatorio proprio
come il titolo dell’intero progetto. La mostra si tuffava in un caos
eterogeneo di visioni, proposte e ricerche per evidenziare le crepe
di un possibile e imminente crollo di paradigmi estetici e culturali.
Nella parte generale del testo critico (pubblicato nel catalogo in
formato cartaceo e digitale dalla casa editrice bergamasca Libri
Aparte) evidenziavo come la crisi dell’arte fosse parte di una ben
più ampia decadenza; “obbligare” a una convivenza forzata voci
così differenti mi dava la possibilità di produrre nuove riflessioni sui
linguaggi, i dispositivi e le pratiche.
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Is this so Contemporary? Street Art tra storia e critica
Blu ed Ericailcane, Bottles, POP UP! Festival, Porto di Ancona 2008
Prima di iniziare questo lungo percorso storico critico nel
motivare, “giustificare”, contestualizzare meglio il grande
fenomeno della Street Art, ritengo sia importante sottolineare
alcuni fondamentali accorgimenti di lettura1.
Ripercorre i cicli e ricicli storici dell’ultimo secolo diviene
impossibile per un singolo testo, e partendo anche dal principio
che molti esempi di Street Art hanno ben poco a che vedere con
gli inevitabili debiti formativi verso le precedenti Avanguardie
Storiche, è altrettanto importante prendere per mano il lettore
cercando di condurlo «con la testa rivolta al futuro e gli occhi
rivolti al passato» come diceva Giorgio de Chirico, non nei
meandri della storia dell’arte, bensì nelle inevitabili ripercussioni
che il totalizzante “atteggiamento avanguardistico” degli operatori
culturali attivi a partire dagli inizi del Novecento ha avuto, volente
o nolente, sulle ultime generazioni.
Con questo, e lo voglio fortemente sottolineare, non sto
affermando che il gigantesco movimento denominato Street
Art sia una naturale emanazione di ciò che a livello artistico si
è prodotto nel corso del XX secolo; ciò nonostante, l’esigenza
e l’attitudine comune alle generazioni operanti nei primi del
Novecento al “totale rifiuto” del classicismo istituzionale a favore
di un’immersione nelle pratiche, nelle atmosfere e negli approcci
del fare e del vivere quotidiano “predispone” le testimonianze
successive.
Ecco quindi, e inevitabilmente, apparire il riferimento alle
Avanguardie Storiche di inizio Novecento quali Futurismo e
Dadaismo in tutto quello che riguarda la volontà di scardinare
ogni certezza sia materiale sia culturale, tentando una modifica
contestuale a ogni approccio singolo e collettivo del fare artistico
come anche allo stesso sistema che lo coordina.
La necessità di travolgere e stravolgere ogni ambito dell’estetica
vede tratti comuni, sebbene poi sistematizzati in modo differente,
con la disciplina del Writing e con la Street Art. Non è solo l’opera
d’arte in sé che cambia, ma è anche la sua stessa processualità a
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Public or not Public? This is the Question
Blu, ul. Sienna 45, Varsavia 2010
Credo sia il momento di ristabilire alcune “coordinate” basilari per
muoversi, per quanto sia possibile, entro il complesso e disarticolato
panorama dell’intervento artistico sviluppato in un luogo o in
uno spazio pubblico. Parto perciò dalla prima considerazione di
riflettere, sebbene in modo quasi didattico, sul fatto che, dopo
oltre un secolo di sconfinamento dai classici dispositivi artistici, il
concetto di pubblico è esploso proprio fuori dai canoni prestabiliti:
vale a dire che c’è molto altro fuori dal concetto di monumento
inteso come soggetto e oggetto commissionato in onore e volontà
di una precisa situazione (sia essa storica, sociale, antropologica,
artistica). Procedo ancora per piccoli passi aggiungendo, sempre
in maniera didascalica, che buona parte delle produzioni
contemporanee sono intrinsecamente pubbliche nella misura in cui
il fruitore, lo spettatore, il cittadino diviene codificatore e facilitatore
dello stesso intervento. Ancora, avanzo un’altra “banale” riflessione
circa la possibilità (che è nell’attualità dei fatti) di aggiungere
all’extra artistico consolidato dalle precedenti Avanguardie la tanto
compiaciuta esplosione dell’arte urbana.
In questo contesto è impossibile una, seppur breve, introduzione
storica ad un fenomeno che nasce con tutte le caratteristiche di
una pervasiva Avanguardia in grado di ramificarsi ed estendersi
oltre le iniziali credenziali interne. Certo, c’è stato un tempo tra
la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta in cui un manipolo di
personaggi provenienti da diversi ambiti (graffiti, fotografia, grafica)
abbandonarono la bomboletta per riportare sulla superficie della
città altre modalità espressive, altri contenuti, altri impegni che non
sempre sono presenti nella “vecchia” disciplina del Writing. Sono
questi i casi, con scarti di pochi anni, di personaggi come, fra i
molti, Blek Le Rat, Andrè, Bansky, Obey, Miss Van, JR, Honet.
Molto velocemente, e grazie alle operazioni mediatiche di
Bansky, un approccio illegale, vandalico, socialmente impegnato, si
espande a macchia d’olio su buona parte dell’Occidente, aprendo
al nuovo millennio come una pratica estetica in grado di far saltare
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