Fingerprints
Tecniche di identificazione
e diritti delle persone
a cura di
Simona Berhe ed Enrico Gargiulo
Fingerprints
Tecniche di identificazione
e diritti delle persone
A cura di:
Simona Berhe ed Enrico Gargiulo
Contributi di:
Alessandro Buono, Umberto Signori, Gaetano Morese, Michele Di Giorgio, Elisabetta Fiocchi Malaspina, Agostina Latino, Emanuela Dal Zotto,
Roberto Beneduce, Irene Bono.
*
Peer reviewers:
Livio Antonielli, Sara Borrillo, Giuseppe Campesi, Laura Di Fiore,
Valeria Ferraris, Miguel Mellino, Claudio Povolo, Giovanna Tosatti
QuiEdit
Verona 2020
Quest’opera è stata rilasciata con licenza Creative Commons AttribuzioneNon commerciale – Non opere derivate 4.0 Internazionale. Per leggere
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Edizione I - Anno 2020.
Finito di stampare nel mese di settembre 2020
ISBN: 978-88-6464-581-0
La riproduzione per uso personale, conformemente alla convenzione di Berna
per la protezione delle opere letterarie ed artistiche, è consentita esclusivamentenei limiti del 15%.
Il presente volume si inserisce nella collana di studi Matrix Studies, pubblicata
con l’intento di valorizzare le opere, collettive e monografiche, di storici, sociologi,
politologi, giuristi e psicologi sociali che abbiano assunto le istituzioni quale oggetto/ soggetto delle loro ricerche. L’interdisciplinarità è la caratteristica principale di questo progetto, che mira a promuovere un nuovo ordine del discorso nelle
scienze sociali: le istituzioni come chiave di lettura della realtà socio-culturale, politica ed economica.
La collana di studi Matrix Studies, pubblicata presso la casa editrice QuiEdit s.n.c.,
rientra nell’ambito delle attività scientifiche ed editoriali dell’Associazione «Matrix.
Laboratorio di Storia, Sociologia e Scienza delle Istituzioni» con sede in Via Giovanni
XXIII 13\C, 20866 Carnate (MB), codice fiscale 94058130157.
*
Direzione della collana:
Giuseppe Ambrosino (Università degli Studi eCampus).
Comitato scientifico-editoriale:
Simona Berhe (Università degli Studi di Milano), Alessandro Buono (Università
degli Studi di Pisa), Mario De Prospo (Università degli Studi di Bologna), Giacomo Demarchi (Università degli Studi di Milano), Francesco Di Chiara (Università degli Studi di Palermo), Simona Fazio (Università degli Studi di Messina), Enrico
Gargiulo (Università degli Studi di Bologna), Salvatore Mura (Università degli Studi di
Sassari).
*
I contributi pubblicati in questo volume sono stati sottoposti a un duplice processo
di valutazione. Ogni articolo sottoposto per la pubblicazione è stato valutato dapprima dai curatori, che ne hanno giudicato la congruità scientifica rispetto ai fini
del progetto Matrix e, in seguito all’esito positivo, è stato sottoposto alla valutazione
anonima da parte di peer reviewers, scelti in base all’argomento dell’articolo. Ogni articolo è corredato di: un abstract in inglese, parole chiave in inglese, un breve profilo
biografico di ciascun autore in italiano.
Contributions published in this volume have been subjected by a two-tier evaluation
process. Each article submitted for publication was first evaluated by the editors,
who considered the scientific congruence with the Matrix project and, as second tier,
was subject to an anonymous evaluation by peer reviewers. Each article is accompanied by: the abstract in English, the keywords in English and a short biographical
profile of each author in Italian.
Afferenza istituzionale degli autori di questo volume:
Simona Berhe, Università degli Studi di Milano
Enrico Gargiulo, Università degli Studi di Bologna
Roberto Beneduce, Università degli Studi di Torino
Irene Bono, Università degli Studi di Torino
Alessandro Buono, Università degli Studi di Pisa
Emanuela Dal Zotto, Università degli Studi di Pavia
Michele Di Giorgio, Università degli Studi di Siena
Elisabetta Fiocchi Malaspina, Università di Zurigo
Agostina Latino, Università degli Studi di Camerino
Gaetano Morese, Università degli Studi della Bari
Umberto Signori, Università nazionale e Capodistriana di Atene
Indice
INTRODUZIONE
di Simona Berhe ed Enrico Gargiulo .......................................................... 9
TRA CONTROLLO E DIRITTI
Alcune riflessioni sul fenomeno della registrazione
dell’identità
di Alessandro Buono ................................................................................ 31
IL RUOLO DELLE RISORSE LEGALI NELLE DISPUTE
D’IDENTIFICAZIONE
I consoli veneziani nell’Impero ottomano (1670-1715)
di Umberto Signori ................................................................................... 55
IDENTIFICAZIONE, RICONOSCIMENTO, REGISTRAZIONE
Il Regolamento Cavour del 1860
di Gaetano Morese ................................................................................... 75
ALLE ORIGINI DELLE TECNICHE DI CONTROLLO
Identificazione e sorveglianza nell’Italia liberale dall’Unità
alla Grande guerra
di Michele Di Giorgio ............................................................................... 95
DIRITTO INTERNAZIONALE ED EMIGRAZIONE ITALIANA
TRA OTTO E NOVECENTO
La visione giuridica di Augusto Pierantoni
di Elisabetta Fiocchi Malaspina ............................................................. 127
L’IMPATTO (IN)VOLONTARIO (?) DEL REGOLAMENTO
EURODAC 603/2013 PER LA RACCOLTA E COMPARAZIONE
DELLE IMPRONTE DIGITALI SULLA TUTELA DEI DIRITTI DELLA
PERSONA UMANA
di Agostina Latino ................................................................................. 145
PRATICHE DI IDENTIFICAZIONE E TRAIETTORIE DEI
MIGRANTI
La Sicilia dal 2013 all’approccio hotspots
di Emanuela Dal Zotto .......................................................................... 167
LE PAROLE CONTORTE DELL’ARCHIVIO POSTCOLONIALE
Narrazioni minori e paradossi del diritto d’asilo
di Roberto Beneduce ................................................................................ 185
FARE I CONTI CON I GIOVANI
Censimenti ed esclusione sociale in Marocco
di Irene Bono .......................................................................................... 231
English summaries and keywords .................................................... 259
Notizie sugli autori ............................................................................. 267
Notizie sui Peer reviewers ................................................................. 272
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INTRODUZIONE
di Simona Berhe ed Enrico Gargiulo
L’identificazione delle persone è un tema sempre più centrale negli
ultimi anni, tanto in campo politico quanto in ambito scientifico.
L’intensificarsi dei movimenti migratori diretti verso le aree più ricche del pianeta ha prodotto come conseguenza un’attenzione specifica per le procedure di accertamento dell’identità personale, che va
spesso a sovrapporsi a una focalizzazione ossessiva su questioni
come la sicurezza e la protezione dei confini.
Da una prospettiva storica di lungo periodo, tuttavia, l’identificazione è un tema che va ben oltre la gestione delle migrazioni, interessando dall’interno il processo costitutivo degli stati moderni.
L’introduzione di norme giuridiche, dispositivi amministrativi e
strumenti tecnologici finalizzati a conoscere e riconoscere le persone presenti sul territorio statale e quelle interessate a farvi ingresso (oppure
a uscirne) rappresenta un momento fondamentale nella vicenda
delle istituzioni politiche.
Fingerprints intende affrontare la questione dell’identificazione in
un’ottica ampia, in senso cronologico e spaziale, e in modo interdisciplinare. Per questa ragione, ha coinvolto studiose e studiosi con
background scientifici diversificati, portatrici e portatori di saperi specialistici che, interagendo tra loro, possono favorire un avanzamento
della conoscenza in materia. Il volume vuole quindi promuovere un
approccio metodologico innovativo e versatile, che consenta di mettere in relazione, in maniera fruttuosa, passato e presente.
L’identificazione è un oggetto di studio rivelatore delle ambivalenze del potere: mostra in maniera plastica le intersezioni e le sovrapposizioni tra le diverse modalità con cui gli stati si “prendono
cura” dei cittadini e dei non cittadini presenti nei loro territori o,
INTRODUZIONE
comunque, interessati a farvi ingresso. Non a caso, il primo contributo del libro, scritto da Alessandro Buono, parte dalla constatazione, per nulla banale, che «controllo e diritti sono due facce della
stessa medaglia». All’interno di questa relazione oppositivo-dialogica
tra monitoraggio e riconoscimento, si colloca uno spazio per l’agire
dei singoli troppo spesso – a parere dell’autore – trascurato negli
studi sull’argomento. Un approccio di derivazione weberiana e foucaultiana, tutto incentrato sul potere verticale degli stati, i quali
dall’alto della loro autorità scrutano verso il basso le vite delle persone, avrebbe sottratto spazio ad analisi, come quelle condotte su
contesti territoriali e temporali differenti dall’Europa moderna e
contemporanea, che, invece, mettono al centro le procedure di registrazione dell’identità in quanto percorsi di autonomia e agency. A
questo proposito, Buono riporta, tra gli altri, il caso dell’identificazione dei migranti spagnoli morti nelle Indie e dei loro eredi nella
Penisola iberica: le procedure impiegate al riguardo, più che stabilire
un’identità amministrativa fissa, portano a una sorta di «contestualizzazione», ossia al riconoscimento dell’individuo all’interno dei
suoi legami familiari, corporativi, sociali. A conclusione del suo contributo, l’autore rileva che, se dal punto di vista delle istituzioni le
attività identificatorie possono senza dubbio essere considerate processi di «soggettivazione», da quello dei soggetti identificati costituiscono la premessa essenziale per ogni operazione di riconoscimento
e rivendicazione di diritti. L’identificazione, insomma, è un percorso
che, più che ricondurre rigidamente gli individui a categorie legali e
amministrative predefinite, lascia loro ampi margini di negoziazione.
Il secondo contributo, scritto da Umberto Signori, mostra un
esempio concreto di questa dinamica negoziale, focalizzandosi sulla
necessità di identificare gli stranieri durante l’età moderna e indagando le procedure di identificazione dei sudditi veneti che, tra Sei
e Settecento, migrano nell’impero Ottomano. L’analisi condotta
dall’autore si concentra su un periodo storico poco frequentato negli
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SIMONA BERHE ED ENRICO GARGIULO
studi sull’argomento, prevalentemente dedicati al XIX secolo, periodo in cui la “colonizzazione” europea vede gli stati nazionali ormai emancipati da una procedura di riconoscimento faccia a faccia
e impegnati nella realizzazione di una vera e propria “rivoluzione
identitaria”. Signori mostra come le problematiche affrontate
dall’Impero del Sultano in tema di identificazione dei non cittadini
fossero presenti in quel territorio sin dai secoli precedenti. Al centro
della sua indagine vi è quindi la seguente domanda: come identificare
gli stranieri in un quadro caratterizzato da un crescente inserimento
dei migranti nel tessuto sociale locale? L’analisi condotta da Signori
articola una riflessione sul processo di classificazione delle genti di
passaggio all’interno di una zona di frontiera, sulla distinzione tra
migranti e stranieri e su quella tra persone in transito e individui che
effettuano un soggiorno breve. Inoltre, fornisce spunti interessanti
su temi apparentemente emersi soltanto in epoca contemporanea –
come la “giusta identificazione” e la libertà di circolazione dei non
cittadini – ma in realtà ben presenti già in precedenza.
Il capitolo di Gaetano Morese riprende il tema della negoziazione
identitaria, affrontando il processo di identificazione e riconoscimento delle lavoratrici sessuali nei primi decenni dello stato italiano
unitario e focalizzandosi, in particolare, sul Regolamento Cavour. Le
donne che esercitavano la professione di “prostituta” (o “meretrice”) erano oggetto di uno specifico percorso di accertamento della
loro identità, volontario o d’ufficio, che comportava l’inserimento
in appositi registri – in cui erano contenuti dati anagrafici, fisici e
relativi allo stato civile, alla professione, alla residenza – e in un circuito di visite mediche volte a verificare la presenza di malattie veneree. La donna registrata, privata dei documenti identificativi personali, riceveva un libretto che, oltre all’identità, ne certificava lo status. La formalizzazione della posizione di “prostituta pubblica”
comportava forme di segregazione spaziale e limitazioni dei diritti:
per cambiare la propria residenza, variare il domicilio o allontanarsi
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INTRODUZIONE
dalla città per più di tre giorni, era obbligata a richiedere e ottenere
una particolare autorizzazione dalla pubblica sicurezza. Un percorso
inverso era possibile, ma certamente non semplice: la donna “librettata” che dichiarasse di voler desistere dalla prostituzione doveva
superare alcuni controlli sanitari e presentare alcune valide motivazioni, sperando così di recuperare la precedente identità. Come mostra il contributo di Morese, anche questo processo, come quello di
attribuzione dello status di prostituta pubblica, prevedeva una negoziazione tra le parti, rendendo così il percorso dinamico e fluido.
Il saggio di Michele Di Giorgio mostra un aspetto decisamente
più verticale e meno negoziale delle attività statali: le tecniche di sorveglianza, controllo e identificazione dei criminali e delle “classi pericolose” da parte delle autorità di Pubblica Sicurezza. Al riguardo,
incentra il suo studio sulla più longeva rivista di polizia dell’Italia
liberale: il Manuale del funzionario di sicurezza pubblica e di polizia giudiziaria. Questa pubblicazione periodica, oltre a occuparsi di legislazione e giurisprudenza, contribuiva alla diffusione e alla sistematizzazione dei saperi di polizia, mantenendo un forte accento su questioni connesse all’identificazione e alla sorveglianza degli individui
e aggiornando continuamente i suoi lettori sui progressi della scienza
e della tecnologia applicati al lavoro poliziesco, anche attraverso uno
sguardo continuo a ciò che accadeva al di là dei confini italiani. Mediante l’analisi dei contenuti del Manuale, Di Giorgio mostra l’evoluzione, nel periodo storico compreso tra l’unità d’Italia e la Prima
guerra mondiale, delle conoscenze teoriche e tecniche relative al fotosegnalamento e ad altri dispositivi di identificazione – come il cosiddetto bertillonage –, ed evidenzia i problemi emersi, in tema di conservazione delle informazioni raccolte, rispetto alla gestione degli archivi della polizia. Il dibattito interno alle forze di pubblica sicurezza
che l’autore porta alla luce dà conto dunque degli sforzi compiuti
dalle autorità per aumentare la loro efficienza e la loro efficacia
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SIMONA BERHE ED ENRICO GARGIULO
nell’identificare e catalogare soggettività sociali considerate “pericolose” e ricostruisce la nascita, nel contesto italiano, di una vera e
propria “polizia scientifica”.
Il contributo di Elisabetta Fiocchi Malaspina affronta il tema
dell’accertamento identitario dalla prospettiva delle politiche migratorie attuate nell’Italia a cavallo tra la fine dell’Ottocento e gli inizi
del Novecento. Più in dettaglio, l’autrice analizza il ruolo degli
esperti italiani di diritto internazionale nella gestione dell’emigrazione, evidenziandone l’influenza sulle decisioni legislative. A emergere dal suo studio è la figura del giurista, politico e avvocato Augusto Pierantoni, fortemente attivo nel processo di unificazione italiana e, in seguito, nell’applicazione dei principi del diritto internazionale da parte del nascente stato italiano. Al riguardo, Malaspina
si focalizza in particolare su due differenti circostanze in cui il giurista ha occupato una posizione di primo piano: la promulgazione
della legge n. 23 del 1901, a cui ha fatto seguito la scrittura di un
saggio relativo all’emigrazione, e la fondazione da parte del governo
italiano della scuola diplomatico-coloniale, volta non soltanto a difendere gli interessi espansionistici e coloniali ma anche a offrire agli
emigrati un corpo diplomatico-consolare preparato, capace di tutelare i cittadini italiani lontani dal territorio di appartenenza.
Il capitolo di Agostina Latino entra nel vivo della gestione multilivello delle politiche dell’immigrazione, dell’asilo e dei visti. Si tratta
di materie su cui l’Unione europea, pur avendo soltanto competenze
concorrenti – nel “rispetto” della sovranità statale circa il controllo
dei propri confini –, esercita comunque un potere normativo, orientato a bilanciare le esigenze di “difesa” nazionali con la garanzia dei
diritti delle persone che migrano. La posta in gioco è la credibilità di
quello “Spazio di Libertà, Sicurezza e Giustizia” sancito dal Trattato
di Lisbona e considerato, simbolicamente e politicamente, uno degli
elementi più qualificanti e progressivi del progetto europeo. L’autrice, al riguardo, analizza in maniera critica la disciplina legislativa
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INTRODUZIONE
europea in materia di rilevamento delle impronte digitali, focalizzandosi sul nuovo Regolamento Eurodac approvato dal Parlamento europeo e dal Consiglio nell’estate del 2013, contemporaneamente al cosiddetto Regolamento Dublino III, applicato dall’inizio del 2014 e funzionale all’individuazione dello Stato membro competente per
l’esame delle domande d’asilo. Il sistema Eurodac è pensato per
agire in simbiosi con quello di Dublino: lo stato di primo approdo è
solitamente individuato attraverso la consultazione della banca dati
europea, dato che nella maggior parte dei casi i richiedenti asilo non
possiedono documenti di identità validi che consentano di ricostruirne con precisione il percorso. Il nuovo Regolamento Eurodac,
tuttavia, presenta un altro elemento di novità e di criticità: il focus,
dalla gestione dei flussi migratori e delle domande di asilo, si sposta
in maniera implicita verso l’identificazione degli individui sospettati
di aver posto in essere un reato, in particolare di “terrorismo”. Come
nota Latino in conclusione, dunque, «Eurodac rischia una deriva che
potrebbe trasformarlo da strumento di identificazione in mezzo di
repressione, preventivo e discriminatorio».
Il saggio di Emanuela Dal Zotto si concentra a sua volta sulla
gestione delle migrazioni che hanno fatto seguito alle crisi politiche
dei paesi nordafricani, focalizzandosi nello specifico sulle operazioni
di soccorso e pattugliamento che, negli ultimi anni, hanno interessato il Mediterraneo. Le procedure di identificazione adottate nel
contesto di queste azioni riflettono infatti, a parere dell’autrice, le
trasformazioni delle frontiere europee e degli atteggiamenti delle società riceventi nei confronti di chi le attraversa. La ricerca su cui il
capitolo si basa ha come oggetto la prima accoglienza dei migranti
sbarcati in Sicilia, ed è stata condotta a due riprese, nel 2013 e nel
2015. Il confronto tra queste due diverse fasi delle politiche migratorie italiane ed europee mostra alcune trasformazioni significative
delle logiche, politiche e tecniche, che governano i percorsi di identificazione dei migranti. Nel corso del tempo, si sono alternate due
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SIMONA BERHE ED ENRICO GARGIULO
visioni diverse della lettura e della gestione del fenomeno migratorio
– la securitarizzazione e l’umanitarizzazione –, e si sono tradotte in
operazioni e dispositivi che vanno dall’“Emergenza Nord Africa”
all’approccio hotspots, passando per Mare Nostrum. Nonostante le differenze, entrambe le visioni rimandano a un obiettivo comune – la
protezione delle frontiere –, il cui perseguimento ha prodotto come
effetto una difficoltà sempre maggiore di accesso al territorio europeo per le persone che cercano protezione internazionale. Al riguardo, le procedure previste dal Regolamento Eurodac, e in particolare il fotosegnalamento, rivestono un ruolo assolutamente strategico. È proprio attraverso la loro messa in opera che la discutibilissima distinzione tra migranti “economici” e “forzati” viene non
soltanto attuata empiricamente, ma anche legittimata a livello tecnico e politico.
Il contributo di Roberto Beneduce ci porta nell’universo delle
parole con cui i migranti, e in particolare i richiedenti asilo, sono
descritti e socialmente “costruiti” dagli apparati statali. Un universo
in cui l’identificazione, prima ancora che attraverso dispositivi legali
e burocratici, passa attraverso il linguaggio degli esperti, che scandaglia, valuta e “smonta” pezzo per pezzo i racconti e le esperienze
delle persone che giungono in Europa per chiedere protezione internazionale. Il presupposto da cui parte l’autore è che, oggi, portare
avanti una riflessione sull’immigrazione equivalga a «pensare la storia
dell’Europa e l’avvenire delle nostre società». La figura del richiedente
asilo mette infatti a nudo le ambiguità dei fondamenti su cui poggiano le istituzioni statali contemporanee, svelandone le debolezze,
le ansie, le ipocrisie e le violenze. A questo proposito, Beneduce,
oltre a soffermarsi sulla rilevanza delle perizie sui corpi e sulle ferite,
si sofferma sul vocabolario delle politiche migratorie: al suo interno,
parole come “coerenza”, “credibilità” e “plausibilità” fungono da
dispositivi di regolazione, del tutto asimmetrica, del diritto a eserci-
15
INTRODUZIONE
tare la libertà di movimento. La nozione di “epistemologie dell’ignoranza” gioca qui un ruolo di primo piano: la pretesa di produrre informazioni e conoscenze obiettive sui soggetti, sulle loro condizioni
e sul contesto da cui sono fuggiti si traduce «in un dispositivo burocratizzato che produce ignoranza». L’esperienza del richiedente asilo, sottoposta a un rigido esame e forzatamente traslata in registri linguistici
o morali differenti, finisce per diventare opaca ed estranea alla stessa
persona che l’ha compiuta.
Il capitolo finale, scritto da Irene Bono, si concentra sull’uso delle
categorie demografiche quali strumenti di identificazione di specifici
gruppi interni a una popolazione. Il caso oggetto di studio è rappresentato dal Marocco, e il focus è sui censimenti realizzati dalle autorità statali a partire dal 1920. L’autrice mostra come le modalità con
cui i “giovani” vengono identificati nelle rilevazioni censitarie svolgano una funzione strategica nel far apparire legittime, nel dibattito
politico e pubblico, determinate disuguaglianze socioeconomiche.
Più in dettaglio, evidenzia chiaramente che la scelta di «mettere in
relazione questioni appartenenti al registro dell’ingiustizia sociale
con la numerosità dei giovani è una modalità di trasporre un dibattito politico sul piano demografico, ove le asimmetrie appaiono più
facili da giustificare». Basandosi su un materiale informativo costituito dalla documentazione ufficiale di preparazione dei censimenti
e dalla pubblicistica che ne ha diffuso i risultati nel dibattito pubblico, Bono pone l’accento sulla stretta relazione che sussiste «tra le
tecniche di identificazione dei giovani adottate nei diversi censimenti e le modalità di costruzione dell’agenda politica in materia di
“questione giovanile”». Questa relazione, in particolare dopo il 2011
e la cosiddetta stagione delle “Primavere arabe”, si traduce in un discorso politico e pubblico volto a negare che le determinanti
dell’esclusione dei giovani siano attribuibili a un mercato del lavoro
che non offre possibilità di impiego, a una carente iniziativa politica
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SIMONA BERHE ED ENRICO GARGIULO
in materia o alle asimmetrie costitutive dei meccanismi volti a produrre appartenenza alla comunità nazionale, e finalizzato piuttosto
a porre l’accento sulla presunta mancanza di volontà e competenze
da parte dei soggetti interessati, responsabilizzandoli rispetto alla
loro marginalizzazione.
I saggi che compongono Fingerprints mettono dunque in luce, da
prospettive diverse e variegate, le poste in gioco sottostanti alle procedure di identificazione. Attraverso uno sguardo storico oppure
concentrandosi sul presente, si focalizzano sulle strategie istituzionali volte a identificare le persone e ne analizzano le implicazioni e
le conseguenze. I differenti approcci al tema, inoltre, rendono comprensibili – laddove presenti – le forme di negoziazione del, e di
resistenza al, potere identificativo esercitato dagli attori che lo detengono.
Come emerge dai contributi che danno forma al volume, l’identificazione si articola in un ampio insieme di norme, provvedimenti
e azioni che hanno a che fare con il riconoscimento, legale e sostanziale, degli individui, con la conoscenza della popolazione dislocata
su un territorio, o che comunque vi è in qualche modo legata, e con
la gestione e la regolazione della mobilità umana. Si tratta di funzioni
tra loro strettamente interrelate, al centro del processo costitutivo
degli stati moderni e delle loro trasformazioni contemporanee, che
interessano e coinvolgono un ventaglio di attori, istituzionali e non,
piuttosto variegato.
Identificare vuole dire prima di tutto riconoscere – o, viceversa,
decidere di non riconoscere – persone che, per diverse ragioni e in
differenti circostanze, sono sottoposte all’autorità dell’ente identificatore. Il che vuol dire attribuire loro – o, al contrario, non attribuire
– uno status formale.
Quando avviene a livello sovrastatale, il riconoscimento si traduce nell’attribuzione di una posizione «di secondo livello»: nell’ambito di un’unione di stati, gli appartenenti a uno dei paesi membri
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INTRODUZIONE
fanno parte anche, per questa ragione, dell’intero insieme. La cittadinanza europea è esemplificativa al riguardo, essendo uno status
conferito a tutti i cittadini dei paesi che compongono l’Unione europea. Si tratta di una posizione aggiuntiva e non sostitutiva, dato
che non cancella le appartenenze statali ma va piuttosto a integrarle.
La cittadinanza europea, nello specifico, non disciplina in senso
stretto il rapporto tra una persona appartenente a uno stato europeo
e l’Unione, ma regola la posizione della prima rispetto agli altri paesi
che fanno parte della seconda [DINELLI 2011, p. 247]. Più che di
una forma di cittadinanza, dunque, sarebbe corretto parlare di una
condizione di «straniero privilegiato» [CARTABIA 1995, p. 3].
L’esclusività di questa condizione, del resto, è evidente se si guarda
alla composizione della polity europea. A esserne membri sono coloro che appartengono a uno stato dell’Unione, a prescindere dal
luogo di residenza, e non coloro che vi risiedono, indipendentemente dal paese di appartenenza.
Quando invece il riconoscimento avviene a livello statale, si declina nel conferimento a ogni individuo, in maniera quanto più possibile completa e univoca, della piena membership di uno stato o di
forme meno complete e stabili di appartenenza. Nel primo caso, è
la cittadinanza statale a essere attribuita: si tratta una condizione costitutiva – tutte le persone, tendenzialmente, appartengono ad (almeno) uno stato1 – che traccia il confine tra chi ha titolo a essere
membro della società, anche se risiede al suo esterno, e chi non ne
dispone, pur vivendo al suo interno. I diversi criteri che possono
fondarla e legittimarla si configurano come dispositivi giuridici, e
prima ancora simbolici, di attribuzione dell’appartenenza e di riconoscimento degli appartenenti. La cittadinanza, in altre parole, è la
tecnologia per eccellenza di regolazione dei processi di inclusione in,
ed esclusione da, una collettività [BRUBAKER 1992; BOSNIAK
1
Fanno eccezione gli apolidi, ossia le persone prive di cittadinanza.
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SIMONA BERHE ED ENRICO GARGIULO
2006] e di controllo sulla composizione della sua popolazione [HINDESS 2000; TINTORI 2015]. Nel secondo caso, a essere conferite
a coloro che, pur vivendo entro i confini di una società statale, non
ne sono considerati cittadini sono altre forme di membership, meno
«piene» della cittadinanza e, dunque, «parziali». La relazione tra persona e territorio, in questo caso, non è costitutiva ma accessoria: gli
stati «ospitanti» forniscono a individui arrivati dall’esterno una
forma di appartenenza che si affianca alle loro cittadinanze nazionali, consentendo ai non cittadini la permanenza nel proprio perimetro. Le membership parziali, più in dettaglio, tracciano il confine tra
chi è autorizzato a entrare e soggiornare nel territorio di uno stato e
chi no. Tendenzialmente, sono a tempo determinato e revocabili
con relativa facilità. A certe condizioni, però, diventano permanenti,
e quindi più difficili da revocare.
Quando infine si concretizza a livello locale, il riconoscimento
avviene attribuendo a chi dimora abitualmente o ha il domicilio in
un comune lo status di residente. La variabilità da stato a stato di
questa forma di appartenenza è piuttosto elevata. A prescindere
dalle differenze, a essere disegnata legalmente e amministrativamente è una relazione integrativa tra persona e territorio: le autorità
comunali conferiscono una membership che sancisce la presenza di un
individuo all’interno dei loro confini o che, comunque, dichiara la
sussistenza di un legame tra questi e l’amministrazione municipale,
consentendo di dare concretezza alle appartenenze di livello superiore. Le membership locali, più in dettaglio, tracciano un confine tra
chi è effettivamente presente in – o intrattiene una relazione significativa con – un dato comune e chi invece ha rapporti soltanto sporadici e scarsamente rilevanti con quel territorio. Si tratta di modalità
di appartenenza estremamente labili: hanno una durata che coincide
essenzialmente con quella del legame materiale tra individui e spazi
comunali. Se il legame viene meno, la membership è revocata, venendo
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INTRODUZIONE
sostituita dalla registrazione presso un’altra amministrazione locale
o all’estero.
Oltre a riconoscere, identificare vuol dire anche conoscere le persone legate a un territorio, ossia individuarne la posizione oppure
accertare la sussistenza di eventuali loro interessi in un ambito spaziale, così da registrarne la presenza – materiale o virtuale –, mapparne gli spostamenti e acquisire informazioni circa le loro caratteristiche. A seconda del livello di scala che si è scelto, localizzare significa focalizzarsi su tratti e contenuti diversi, perseguendo obiettivi differenti.
A livello sovrastatale, l’individuazione di chi occupa uno spazio
è un’attività funzionale alla realizzazione di un vasto insieme di politiche, tra cui lo sviluppo sostenibile. Il Rapporto pubblicato dalle
Nazioni Unite nel 2014, intitolato A World that counts, è emblematico
al riguardo: il miglioramento dei dati demografici relativi ad aree
«sottosviluppate» è considerato un passaggio centrale nella realizzazione di interventi socioeconomici più efficaci.
A livello statale, il monitoraggio di chi attraversa i confini e si
trattiene al loro interno passa attraverso la verifica dell’appartenenza
nazionale e del titolo di soggiorno, ed è un’attività ritenuta strategica
per diverse ragioni: garantire la sicurezza e l’ordine pubblico; predisporre e allocare le risorse necessarie al benessere di singoli e gruppi,
effettuando scelte sui loro trasferimenti tra le diverse aree di un
paese e tra le diverse categorie che ne compongono la popolazione.
A livello locale, in diversi stati – tra cui ad esempio l’Italia, la Spagna e la Cina – il controllo di chi soggiorna stabilmente in un territorio municipale o, pur vivendovi soltanto in maniera episodica, ha
interessi centrali al suo interno avviene attraverso l’iscrizione anagrafica. La registrazione di individui e famiglie consente di rendere
concretamente fruibili numerosi servizi – tra cui l’assistenza sociale,
il sistema sanitario territoriale, l’edilizia residenziale pubblica, ecc. –,
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SIMONA BERHE ED ENRICO GARGIULO
di riscuotere le tasse comunali e di mappare la disposizione dei singoli all’interno dello spazio.
Le due funzioni dell’identificazione, quella conoscitiva e quella
riconoscitiva, si implicano reciprocamente: identificare gli individui
che vivono in un certo territorio o che hanno interessi significativi
al suo interno significa raccogliere informazioni su diverse caratteristiche, tra cui la cittadinanza, ed equivale a far corrispondere a ogni
presenza, materiale o virtuale, un insieme di dati – di natura fisica,
demografica, socioeconomica e giuridica2 – che rendano il soggetto
rispetto al quale sono raccolti riconoscibile in maniera univoca. In
questo modo, è possibile attribuire a ogni persona, una volta «individuata», una specifica identità amministrativa.
L’accertamento identitario è determinante per decidere chi è autorizzato a soggiornare all’interno del territorio e chi, invece, non lo
è. Da questa prospettiva, la distinzione tra immigrati «legali» e «illegali» non precede ma segue l’istituzione dei dispositivi di controllo:
non è la presenza del soggetto sans papier a causare l’impiego degli
strumenti identificativi ma è la vigenza normativa dei secondi a produrre l’esistenza del primo. La «rivoluzione identificatoria» che ha
interessato molti stati europei sul finire dell’Ottocento, segnata
dall’avvento di carte e codici, ha reso l’atto di operare distinzioni a
fini amministrativi un elemento strategico del governo delle popolazioni e dei territori [NOIRIEL 1988, 1991], decretando la nascita
giuridica dello status del migrante «regolare» e di quella dell’«irregolare».
Le strategie di identificazione, pertanto, oltre a conoscere e riconoscere hanno la funzione di regolare la mobilità di individui e gruppi,
producendo spesso come effetto il rilascio di documenti che, con
2
Di solito, nei documenti di identificazione sono presenti informazioni relative a
caratteri anagrafici – l’età e l’indirizzo di abitazione –, fisici – l’altezza, il peso ed
eventuali «segni particolari» –, socioeconomici – la posizione lavorativa – e giuridici – la cittadinanza e lo stato civile.
21
INTRODUZIONE
gradazioni differenziate, governano la libertà di movimento. Il documento più importante, da questo punto di vista, è il passaporto, riservato ai cittadini dei singoli stati ma attribuito anche, in determinati casi e con la diversa forma del titolo di viaggio, ai titolari di
protezione internazionale e agli apolidi: per suo tramite, il confine
tra chi appartiene alla nazione e chi, pur vivendo al suo interno, non
ne è parte può essere continuamente verificato e ribadito [TORPEY
2000]. Seguono poi, in ordine di importanza, i documenti di identificazione, il più conosciuto dei quali è la carta di identità, conferibile a
tutte le persone residenti – di solito, ma non necessariamente, in
maniera «legale»3 – nel territorio statale4.
Oltre ai documenti di identificazione in senso stretto, altri dispositivi documentali, che presuppongono e al contempo consentono
un accertamento identitario, sono presenti in molti paesi, venendo
spesso gestiti dalle amministrazioni locali. Pur non interessando direttamente la libertà di movimento, toccano questioni di rilevanza
centrale.
In Italia, ad esempio, lo stato di famiglia e il certificato di residenza,
entrambi rilasciati dagli uffici anagrafici comunali su delega degli apparati centrali dello stato, svolgono funzioni legali e fiscali, implicando l’avvenuto accertamento dell’identità di individui e nuclei familiari e la registrazione di alcune loro caratteristiche5. Il livello locale, dunque, seppur raramente al centro dell’attenzione negli studi
sull’argomento – quantomeno in quelli relativi all’età contemporanea –, riveste un’importanza strategica: sebbene non dispongano di
3
In alcuni paesi, documenti di identificazione sono rilasciati dalle autorità municipali anche a persone “illegalmente” presenti sul territorio statale. Su questo
punto, si rimanda a DE GRAAUW 2014 e VARSANYI 2010.
4 Esistono poi altri documenti che non si configurano come strumenti di riconoscimento in senso stretto ma che svolgono comunque funzioni rilevanti nei rapporti tra persone e pubblica amministrazione o nelle transazioni private di tipo
economico o civile: tra questi, il codice fiscale in Italia, il National Insurance Number
nel Regno Unito e il Nie in Spagna.
5 In Italia, la residenza è il presupposto per il rilascio della carta di identità.
22
SIMONA BERHE ED ENRICO GARGIULO
poteri autonomi rispetto a funzioni come il rilascio delle carte di
identità o la tenuta dei registri anagrafici, le amministrazioni comunali recitano un ruolo di primo piano nella concreta gestione dei documenti di identificazione e degli strumenti demografici.
La rilevanza di questo tipo di dispositivi è un fattore che consente
di aggiungere interessanti elementi di riflessione agli studi sull’identificazione, in particolare per ciò che concerne il ruolo attivo delle
persone nelle procedure identificative e le differenze tra i diversi
strumenti impiegati al riguardo. Nello specifico, la distinzione tra
enumerazione e registrazione proposta da BRECKENRIDGE e SZRETER [2012] – trattata in dettaglio nel capitolo di Buono e richiamata
anche in quello di Morese – appare sotto una nuova luce se filtrata
attraverso l’analisi degli strumenti anagrafici.
Dalla prospettiva dei due studiosi, il primo termine rimanda ad
attività come i censimenti e la costruzione di liste della popolazione,
ossia a interventi unilaterali che hanno l’obiettivo di estrarre informazioni per scopi amministrativi e di gestione della cosa pubblica.
Il secondo termine richiama invece i procedimenti che portano al
riconoscimento dell’appartenenza degli individui determinandone
l’inclusione oppure l’esclusione in una certa collettività. Mentre le
operazioni del primo tipo sono possibili anche nei confronti di popolazioni «passive», quelle del secondo tipo presuppongono un
ruolo attivo da parte dei soggetti coinvolti, i quali possono essere
più o meno collaborativi e sinceri nel fornire le proprie informazioni, negoziando il percorso identificativo e, in alcuni casi, indirizzandolo in una direzione desiderata.
La registrazione, a differenza dell’enumerazione,
is often more valuable, or at least as useful, to individual citizens, as to the state. It has the potential to provide a legal
technology and resource for individuals which strengthens
civic society: a strong state which creates a registration sys-
23
INTRODUZIONE
tem can be legally empowering of its citizens, rather than disempowering; and this diffused power in the hands of citizens
does not equate with any particular form of knowledge
sought by or useful to the state (ivi, p. 7).
Più in dettaglio,
registration can involve quite the opposite process to the
command and control logic of enumeration. Enumeration
and all census-like activities (including the making by authorities of certain kinds of lists of named individuals which are
often called ‘registers, such as the twentieth-century population registers of the Netherlands) are, by definition, unilateral
interventions by governmental agencies to extract defined
items of information for administrative and policy purposes.
By contrast, that form of registration involved in the process
of determining inclusion or exclusion of recognition of
membership in a defined collectivity can entail – and often
has entailed – a much more bilateral process, in which the
aims and interests of the person being registered may play a
significant role (ivi, p. 19).
In sostanza, Breckenridge e Szreter evidenziano come lo spazio di
azione per i soggetti coinvolti nelle procedure di registrazione faccia
sì che i dispositivi legali e amministrativi possano essere reinterpretati e risignificati a vantaggio degli utenti.
Gli strumenti demografici gestiti dai comuni, tuttavia, mostrano
come la questione sia più sfumata di quanto possa apparire, almeno
con riferimento ad alcuni contesti spaziali e temporali. In Italia, così
come in Spagna e in altri paesi, europei e non, l’iscrizione anagrafica
ha la funzione di enumerare in modo dinamico la popolazione e, allo
stesso tempo, di registrare le persone allo scopo di rendere possibile
24
SIMONA BERHE ED ENRICO GARGIULO
l’esercizio dei diritti6. Si tratta dunque di un dispositivo che prevede
un ruolo attivo da parte dei soggetti residenti in tutte le sue fasi:
negoziare le informazioni da conferire alle autorità produce effetti
non soltanto sulla possibilità di avere accesso a benefici e prestazioni, ma anche sulla qualità della rappresentazione della popolazione fornita dai registri anagrafici. Enumerazione e registrazione
sono quindi attività complementari più che alternative.
In questa direzione, i lavori di John Torpey – ripresi anch’essi nei
contributi di Buono e Morese –, forniscono un contributo utile a
comprendere l’ambivalenza delle procedure di identificazione: dalla
prospettiva dello studioso statunitense, gli apparati pubblici,
nell’identificare le persone attraverso appositi dispositivi documentali, le abbracciano7, ossia le circondano in senso amministrativo per
controllarle e, allo stesso tempo, per garantire loro un certo livello
di benessere [TORPEY 2000, pp. 13-14]. La dimensione della coercizione e della costrizione va dunque di pari passo con quella della
protezione e del «nutrimento». Tanto le attività volte a contare gli
individui quanto quelle finalizzate a registrarli presentano, intrinsecamente, i caratteri del controllo e quelli dell’autonomia. Il ruolo attivo dei soggetti, di conseguenza, va sempre considerato all’interno
6
Dei diritti sociali, in particolare, ma anche di diversi diritti civili e di quelli politici.
Chiaramente, soltanto per le persone italiane e per quelle che dispongono di una
cittadinanza europea – in questo secondo caso, con riferimento esclusivo alle elezioni locali e a quelle europee.
7 Il termine «abbracciare» (embrace) impiegato da Torpey deriva dalla parola tedesca
«erfassen», che significa «afferrare» nel senso di registrare, ed è impiegata sia con
riferimento ai registri appositamente previsti per gli stranieri, a fini di sorveglianza,
amministrazione e regolazione, sia ai censimenti [TORPEY 2000, p. 14]. Secondo
lo studioso statunitense, la nozione che propone condivide alcuni elementi con il
concetto di «caging» proposto da Michael Mann, ma se ne differenzia in quanto più
focalizzata su come gli stati «abbracciano» individui e gruppi per portare avanti i
propri obiettivi, e richiama l’idea di James Scott secondo cui le istituzioni cercano
di rendere la società più «comprensibile» («legible») e disponibile a essere governata
(ibidem).
25
INTRODUZIONE
di un quadro di “invadenza” istituzionale, anche quando questa assume le forme apparentemente “benevoli” dell’assistenza. Le misure
assistenziali, peraltro, come mostrato dagli studi sulla storia e sui
contenuti delle politiche sociali [CONTI/SILEI 2005; GIROTTI
2002] e del servizio sociale [DOMINELLI 2005; FARGION 2018],
sono caratterizzate da un equilibrio sottile e precario tra assistenza e
controllo.
L’attenzione nei confronti del livello locale, inoltre, mostra la presenza di un altro limite agli spazi di azione individuale: le autorità
locali, nel rapportarsi con le persone, esercitano di fatto un grado
elevato di discrezionalità, strutturando relazioni asimmetriche tra istituzioni e utenti. Questo tipo di potere, se in alcuni casi può essere
impiegato per allargare le maglie del diritto e realizzare forme più
efficaci di inclusione, in molti altri casi produce conseguenze escludenti. Lo spazio di negoziazione per i soggetti interessati, di conseguenza, finisce per essere ancora più ristretto. Inoltre, le funzioni
proprie di strumenti pensati per realizzare obiettivi identificativi
vengono paradossalmente distorte. I provvedimenti e le strategie
burocratiche a cui, negli ultimi anni, numerosi comuni italiani hanno
fatto ricorso per limitare l’iscrizione anagrafica di categorie “indesiderate” mostrano come dispositivi amministrativi pensati per monitorare il territorio e le persone che lo abitano possano essere impiegati per effettuare una selezione della popolazione8. In questo modo,
l’azione selettiva rende invisibili amministrativamente individui di
fatto presenti nei territori comunali.
Focalizzare lo sguardo sul livello locale, insomma, mostra quanto
lo stato sia un attore non monolitico ma, al contrario, articolato al
suo interno in maniera complessa. Le sue diverse componenti, a determinate condizioni, possono portare avanti strategie e perseguire
8
Su questo punto e, più in generale, sul ruolo del livello locale nei processi di
identificazione così come sulle ambiguità dell’anagrafe quale strumento di enumerazione e registrazione, ci permettiamo di rimandare a GARGIULO 2019.
26
SIMONA BERHE ED ENRICO GARGIULO
finalità tra loro incompatibili e contradditorie. Studiare il comportamento dei comuni fornisce perciò indicazioni e spunti piuttosto significativi rispetto alla natura internamente plurale della macchina
statale.
A essere articolato, inoltre, non è soltanto lo stato ma, più in generale, l’insieme degli attori coinvolti nei percorsi di identificazione.
Come emerge nitidamente dai saggi contenuti in Fingerprints,
nell’ideazione e nel concreto impiego dei dispositivi identificativi si
trovano ad agire – in sinergia e a volte in competizione con gli stati,
– altri soggetti, istituzionali e non. Le forme di identificazione attuate in passato – e presenti tuttora in altre zone del mondo – vedono le comunità locali coinvolte in maniera determinante. Le recenti vicende della gestione europea dei migranti, al contempo, evidenziano il ruolo rivestito dagli attori sovrastatali: in particolare,
l’Unione europea e le sue Agenzie, tra cui, in primis, Frontex.
Attraverso l’analisi dei percorsi di identificazione, pertanto, Fingerptints contribuisce allo studio di dinamiche centrali per il funzionamento delle istituzioni, tanto in prospettiva storica quanto rispetto al presente (e, presumibilmente, al prossimo futuro). A emergere dal volume è un processo di governance delle procedure identificative complesso, articolato e ambiguo, alla cui comprensione ci auguriamo che i contributi presenti nel volume possano fornire conoscenze dettagliate, stimolanti e utili.
27
INTRODUZIONE
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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28
SIMONA BERHE ED ENRICO GARGIULO
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29
Tra controllo e diritti
Alcune riflessioni sul fenomeno della registrazione
dell’identità*
di Alessandro Buono
In queste pagine vorrei offrire alcune riflessioni a partire da una
(forse persino banale) constatazione: controllo e diritti sono due
facce della stessa medaglia.
Gérard Noiriel – uno dei promotori della fertile stagione di studi
che ha caratterizzato la tematica della storia dell’identificazione – ha
parlato a ragione di un vero e proprio cambiamento di paradigma
avvenuto tra XX e XXI secolo, che avrebbe portato molti studiosi
a focalizzarsi non più sulla storia dell’«identité» ma su quella
dell’«identification» [NOIRIEL 2007, p. 4]. A caratterizzare questo
nuovo paradigma mi sembra sia stata in primo luogo l’attenzione
alla dimensione del controllo dell’emigrazione e della nascita di un
“nuovo sapere statale”, la cui manifestazione materiale sarebbe stata
quella del moderno documento d’identità: non a caso, infatti, assieme a Gérard NOIRIEL [1998, 2004, 2007], storico delle migrazioni, è dalla sociologia che arriva un altro importante impulso allo
studio dell’identificazione, soprattutto a partire dal convegno organizzato da Jane Caplan e Johnt Torpey nel 1998 [CAPLAN/TORPEY 2001] e dagli studi dello stesso TORPEY [1998, 2000] sulla
nascita del passaporto.
Gli studi scritti e diretti da Noiriel hanno tracciato le linee generali del progressivo emergere del controllo amministrativo, che chiamava «tous les individus à prouver leur identité civile à l’aide d’un
document officiel attestant leur enregistrement dans un immense fichier central» [NOIRIEL 2004, p. 2]. Sulla stessa linea, ovvero quella
del passaggio dalla «longue tyrannie du face à face» al «triomphe de
Tra controllo e diritti
l’État-nation», sono poi venuti anche i lavori di Vincent DENIS
[2008] e la sintesi da quest’ultimo scritta con Ilsen About
[ABOUT/DENIS 2010]. Lo snodo essenziale individuato da questi
lavori è stato, non a caso, il passaggio tra XVIII e XIX secolo. Similmente, il lavoro di John Torpey, volto in primo luogo a chiarire
il processo di progressiva «state monopolization of the “legitimate
means of movement”» [TORPEY 2000 e 2014], ha visto nel XIX
secolo e nella nascita dei moderni Stati nazione un momento di
svolta fondamentale.
Nel frattempo, tuttavia, si erano susseguiti una serie di lavori
sull’antichità, il medioevo e la prima età moderna che, pur mantenendo il forte legame tematico tra migrazioni e controllo1, hanno
contribuito a spostare il focus anche su altri contesti meno segnati
dal paradigma individualistico e della modernizzazione burocratica,
aiutando a scomporre la questione dell’identificazione in domande
di ricerca più puntuali: come mettevano in luce Isabelle Grangaud e
Nicolas Michel partendo dal contesto islamico, l’analisi andava condotta a partire da varie questioni: «qui es-tu ? (interaction directe entre
les personnes, à visée de reconnaissance); qui est-il/elle ? (question
qui implique une norme); qui est qui ? (avec un objectif de classement
et de hiérarchie)» [GRANGAUD/MICHEL 2010, §2].
A spostare decisamente l’asse dell’analisi, dal binomio identificazione-controllo a quello registrazione-diritti, comunque, è a mio parere stato l’allargamento dell’analisi storica a scala globale proposta
da Simon Szreter e Keith Breckenridge in un recente volume
1 Di grande impatto internazionale GROEBNER 2008. Da ricordare le ricerche coordinate
da Claudia Moatti e Wolfgang Kaiser [MOATTI/KAISER 2007; MOATTI/KAISER/PÉBARTHE 2009]. Inoltre SONKAJÄRVI 2008. Si rimanda a ABOUT/DENIS
2010 per una bibliografia. Ancora di recente, la questione è stata ripresa in vari convegni
internazionali, come ad esempio «Border and Mobility Control in and betweeen Empires
and Nation-States in Modern and Early Modern Times» (Vienna, 2015); «Identifier les personnes dans l’espace atlantique. Entre contrôle et garantie (XVIIe–fin XIXe siècle)» (Parigi,
2015). Per l’Italia, MERIGGI 2000, ANTONIELLI 2014, LUCREZIO MONTICELLI
2012 e DI FIORE 2013.
32
ALESSANDRO BUONO
[BRECKENRIDGE/SZRETER 2012], che mi sembra segni un ulteriore punto di avanzamento del dibattito rispetto al paradigma individuato qualche anno prima da Gérard Noiriel2. Non a caso nel
volume curato da Szreter e Breckenridge solo quattro saggi sono
dedicati all’Europa, sui 19 totali, e ampio spazio è occupato dal continente Asiatico e Africano, il che ha permesso per così dire di “provincializzare” l’esperienza europea e la narrazione (in gran parte dovuta a interpretazioni in chiave weberiano-foucaultiana del fenomeno) del progressivo emergere e affermarsi della burocrazia
dell’identificazione.
Già qualche anno prima, in effetti, Bernahrt Siegert notava come
negli studi sull’identificazione forte fosse la tendenza a «locate Foucault in the Weberian tradition, thus turning him into an historian
of rationalization» [SIEGERT 2008, p. 21]. In particolare, criticava
John Torpey (ma anche Valentin GROEBNER [2004]) accusandolo
sostanzialmente di anacronismo: la prospettiva adottata da Torpey,
infatti, era tutta volta a trovare le origini del «problem of migration
control, which is so relevant to the present situation of globalization», trattando l’«historical development of passport controls “as a
way of illuminating the institutionalization of the idea of the ‘nationstate’”» [SIEGERT 2008, p. 21]. Ciononostante, Siegert non sembra
allontanarsi da quello stesso paradigma della modernizzazione
quando adotta una lettura foucaultiana à la James C. Scott per interpretare come «the beginnings of the creation of a “legible people”»
[SIEGERT 2008, p. 20] le procedure di registrazione dell’identità
dei migranti spagnoli che, in vista dell’ottenimento di una licenza, si
sottoponevano al controllo della Casa de Contratación di Siviglia. Questo, a mio giudizio, non fa che retrodatare al XVI secolo la nascita
di quelle «discoursive practices and administrative techniques» che
Caplan e Torpey attribuiscono alla nascita dello stato-nazione, senza
2 Si veda anche ABOUT/BROWN/LONERGAN 2013, più concentrato sull’Europa, in
particolare l’Europa contemporanea.
33
Tra controllo e diritti
coglierne le specificità e cadendo così nell’anacronismo che l’autore
imputa al paradigma weberiano3.
L’approccio foucaultiano di Siegert tende a leggere queste pratiche descrittive come dei “truth rituals”, una soglia attraverso la quale
le persone ordinarie sarebbero create, attraverso la scrittura, in moderni soggetti: «the threshold of the Guadalquivir is not only the
geographical threshold between the Old World and the New, it is
also the threshold of description» [SIEGERT 2008, p. 22]. La procedura d’inchiesta che sta dietro questa registrazione della Casa de
Contratación, di cui il momento sivigliano è solo la parte finale, è
tuttavia da confrontarsi più con le pratiche inquisitorie medievali che
non con quelle dei moderni stati-nazione. Le informaciones e le probanzas de testigos richieste a chi volesse ottenere una licenza per partire
verso le Indie, infatti, sono procedure inquisitorie che si svolgono
nelle comunità di origine dei candidati. Come ha bene messo in evidenza Arndt BRENDECKE [2012], la logica sottostante a tali inchieste, volte ad attivare un controllo corporativo dal basso sulle
persone e a produrre informazioni localmente, è opposta a quella
della supposta centralizzazione burocratica e al «power of the written over the spoken» [SIEGERT 2008, p. 25]. Coerentemente con
la pratica dell’amministrar-giudicando [MANNORI 1990] tali inchieste
più che a produrre una verità amministrativa sono volte a certificare
tanto il consenso corporativo sull’identità delle persone quanto il
nulla osta da parte della società locale alla partenza degli individui. La
strutturale difficoltà nel riconoscere e controllare gli individui, la
quale rende sin da subito evidente a tutti gli attori della procedura
che è molto difficile evitare la creazione di fictitious identities, non
viene risolta mediante la produzione centralizzata e burocratica
dell’informazione, ma attraverso il suo esatto contrario: la delega al
3 Il lavoro di SIEGERT [2006], peraltro, è stato criticato da BRENDECKE 2012, che ne
denuncia i «muchos errores» [p. 382, n. 54]. Sulle procedure di controllo in questione si
veda SALINERO 2007.
34
ALESSANDRO BUONO
controllo sociale dal basso della produzione delle identità delle persone.
Una linea decisamente critica verso il paradigma weberiano-foucaultiano è invece quella di Keith Breckenridge e Simon Szreter, che
non a caso tendono a ridimensionare la rottura epistemologica che
vi sarebbe tra un mondo premoderno dominato dall’oralità e la modernità basata sulla tecnologia della scrittura (che caratterizza, come
abbiamo visto, anche la lettura di Siegert) cifra distintiva di quegli
studi che, soprattutto nel mondo anglosassone, hanno subito l’influenza dei lavori di Jack Goody, Walter G. Ong e Michael T. Clanchy. Questa opposizione tra cultura orale e cultura scritta è stata
messa in dubbio, secondo Breckenridge e Szreter dagli studi
sull’Africa coloniale e post-coloniale, e rivelerebbe più in generale
da un lato una «misplaced certainty about the universality of the will
to know» da parte dello stato moderno e, dall’altro, «an unjustifiable
preoccupation with developments in Europe in the modern period»
[SZRETER/BRECKENRIDGE 2012, p. 6]. D’altro canto, una simile opposizione è stata efficacemente ridimensionata dagli studi
sull’Europa della prima età moderna, a partire dalla lezione di Natalie ZEMON DAVIS [1987] sulla circolarità tra cultura scritta e orale.
Ho cercato altrove [BUONO 2014, BUONO 2015] di mostrare
come proprio nelle procedure di identificazione in antico regime
scrittura e oralità fossero due elementi centrali della formazione
della prova, coerentemente con una cultura giuridica che sino alla
fine della prima età moderna non vedrà affermarsi in modo definitivo il principio lettres passent témoins [LÉVY 1965], e anzi continuerà
ad affermare la fama e il “pubblico e notorio” come fonte di informazione indispensabile nella certificazione dell’identità degli individui4.
4 Ne sono lampante esempio anche le procedure di identificazione che sottostanno alle
“pruevas de limpieza de sangre” magistralmente analizzate da MARTÍNEZ 2008.
35
Tra controllo e diritti
I meriti del lavoro di Breckenridge e Szreter, a mio parere, non
finiscono qui, se si considera che questi arricchiscono ulteriormente
la cassetta degli attrezzi dello storico operando una felice distinzione
concettuale tra le operazioni di identificazione nel senso di “enumerazione” e quelle di “registrazione”. Una simile prospettiva, che sposta l’accento dalla “storia dell’identificazione” a quella della “registrazione”, permetterebbe di analizzare tutta una serie di altre fonti
e fenomeni rispetto a quelli studiati sino a ora dalla storiografia che
si è concentrata, su «enumeration and censuses; identification systems developed for policing, labour migration and border control
purposes; and the study of vital statistics for public health, demographic and economic uses» [SZRETER/BRECKENRIDGE
2012, p. 30].
Sembra quasi banale dirlo, ma l’operazione di registrazione è
sempre frutto dell’incontro di più soggetti e non può essere ridotta
semplicemente allo sguardo dell’ente identificatore. Essa assume le
forme del “rituale perfomativo” ed è il risultato di una operazione
che la sociologa inglese Janet FINCH [2007] ha definito come “display”: la pubblica dimostrazione dell’identità volta in primo luogo
a convogliare a un “pubblico qualificato” dei dati che, immagazzinati in una sorta di anagrafe e stato civile orale basato sulla memoria
dei membri della comunità (la pubblica fama e il “notorio”), potranno poi essere utilizzati per reclamare diritti di appartenenza. Certamente, la forza delle pratiche è evidente nel mondo di antico regime, dove vari studi hanno dimostrato come i comportamenti fossero in grado di modificare l’identità sociale delle persone, tanto da
permettere a uno straniero di diventare “naturale”, e godere quindi
di tutti i diritti associati all’appartenenza; viceversa, la mancanza di
segni di “affezione” verso il territorio e la comunità potevano fa
piombare una persona fino ad allora accettata in una condizione di
estraneità [HERZOG 1995 e 2003; CERUTTI 2012]. La forza della
pubblica fama, peraltro, riemerge in ultima istanza anche negli stati
36
ALESSANDRO BUONO
contemporanei, come mostra il caso eclatante dello “smemorato di
Collegno” [PAGANI 2013].
L’eccessiva enfasi posta sul ruolo dello Stato moderno europeo,
della sua burocrazia basata sulla scrittura e della sua panoptica “volontà di sapere”, se da un lato misconosce le ragioni e l’agency dei
soggetti registrati, come dicevamo, dall’altro sopravvaluta l’effettiva
capacità (e persino la reale volontà di sapere) degli “stati moderni”.
La constatazione che la metà della popolazione mondiale non è attualmente registrata in nessun sistema di «civil registration»5 – nonostante il fatto che questi siano stati considerati al centro di quella
«textually mediated organisation» che sarebbe lo stato moderno –
conduce a rivalutare l’efficacia degli stati coloniali europei, particolarmente in Africa6. Al tempo stesso, la costatazione della plurimillenaria persistenza di tentativi e sistemi di «household registration»
nella Cina imperiale [VON GLAHN 2012] o nel Giappone a partire
dall’era Tokugawa [SAITO/SATO 2012], fa cadere la facile equazione tra ascesa della “modernità” burocratica occidentale e avanzamento dei sistemi di registrazione dell’identità.
Un simile allargamento di prospettiva rende ancor più evidente,
poi, che ogni atto di registrazione ha in sé un processo di negoziazione che determina la natura delle informazioni che vengono di
volta in volta fissate [HERZOG 2012, BRENDECKE 2012], risultato di una costante tensione tra l’interesse dell’ente identificatore a
fissare l’identità all’interno di categorie giuridiche o amministrative,
e gli interessi dei soggetti identificati a preservare spazi di manovra
giocando tra le multiple possibili identità sociali [BIZZOCCHI
Gli autori citano stime dell’Unicef del 2005 [SZRETER/BRECKENRIDGE 2012, p. 1].
Come mostra il caso Sudafricano, infatti, il governo coloniale «had the resources and the
ambition to expand from its position as gatekeeper; the fact that it did not do so was – as
many critics observed as it was happening – a product of its very limited ability to gather
information about people in the countriside». Pertanto, il cosiddetto «gatekeeper state –
concerned to police and administer Africans only when they were in the cities – was a
result, and not the cause, of the failure of universal registration» [BRECKENRIDGE 2012,
p. 376].
5
6
37
Tra controllo e diritti
2010]. Infine, l’allargamento della prospettiva pone bene in evidenza
come il successo e la sopravvivenza di ogni sistema di registrazione
non si può basare esclusivamente sulla coercizione (come è ovvio)
ma deve poggiarsi su un certo grado di cooperazione [SZRETER/BRECKENRIDGE 2012, p. 19].
Se quindi in questo modo la narrativa della modernizzazione è
utilmente decostruita, un altro vantaggio che si può cogliere dalla
lettura del volume di Breckenridge e Szreter è proprio quello di aver
bene messo in luce come siano strettamente legati, nelle procedure
di identificazione e registrazione dell’identità, gli aspetti coercitivi
della categorizzazione e quelli “positivi” dell’attribuzione di diritti e
di accesso a risorse materiali e immateriali derivanti dall’inclusione
in una comunità umana. Come dicevo all’inizio di questo saggio, mi
sembra questa forse la lezione metodologica più importante che il
volume ci consegna. Inoltre, come accennato più sopra parlando del
caso spagnolo, volgere lo sguardo solo agli “Stati” moderni o alle
istituzioni ecclesiastiche fa perdere di vista le forme di controllo e
attribuzione di identità che vengono dal basso, quel controllo sociale
diffuso che sino all’Ottocento è stato la cifra distintiva delle società
organizzate su base corporativa nelle quali il potere di controllo e
attribuzione della membership, lungi dall’essere concentrato in un centro, era in larga parte delegato e condiviso con quegli enti considerati
naturalmente costitutivi e costituzionalmente incaricati di incardinare gli individui in gruppi basati su sistemi di responsabilità solidale.
Non mi sembra casuale che, a livello veramente globale, sino almeno al XIX secolo compiti di controllo e identificazione della popolazione fossero direttamente affidati a quelle che Max GLUCKMAN [1968] ha chiamato «ruoli intergerarchici», ovvero a tutte
quelle figure che, prodotte dalla società corporativa, spesso organizzata sulla base di aggregazioni vicinali, erano poste sulla soglia tra
comunità locale (verso la quale erano responsabili e che erano chia-
38
ALESSANDRO BUONO
mate a rappresentare davanti alle istituzioni superiori) e i poteri sovraordinati (che affidavano loro il compito di conoscere il territorio
e la popolazione per poter fornire informazioni utili all’amministrazione, o anche di esecuzione degli ordini) [BUONO, 2018]. Più che
postulare quindi il progressivo emergere di un nuovo savoir d’état,
credo sia piuttosto da analizzare come i poteri sovraordinati abbiano
per lungo tempo delegato al controllo corporativo dal basso l’assolvimento di compiti di controllo basati proprio sulla “contestualizzazione” degli individui — sul riconoscimento di una identità sociale
forgiata all’interno delle relazioni sociali loro proprie – e non sulla
creazione di individui decontestualizzati – i cui caratteri standardizzati e astratti sarebbero stati progressivamente appropriati da uno
stato che avrebbe trasformato la «nuda vita» dei suoi sudditi in una
registrazione asettica su carta.
Mi sembra, in altri termini, che Bernhard Siegert sia fuori strada
quando afferma che
the existences of the ordinary people are absolutely contingent. […] There is no memory that could witness their existence, no narration of the wonderful deeds of their ancestors;
there are no genealogies, no residences that carry their
names. Their existence is completely contained in the little
handful of words that tell who they are. Therefore their very
being depends exclusively on the act of acknowledgement by
the law. This being, the existence of a referent, mise en scène
by registers, is placed between quotation marks by the Príncipe. The […] register […] turns the ordinary individual into
a subject of the king’s technologies of writing» [SIEGERT
2008, pp. 26-27].
Per esempio, le evidenze delle procedure di identificazione dei migranti spagnoli morti nelle Indie, e dei loro eredi nella Penisola iberica, contenute nelle cause per “bienes de difuntos”, dimostrano che
quello della registrazione presso la Casa de Contratación non è che un
39
Tra controllo e diritti
momento nella vita del migrante, che non stabilisce affatto una volta
per tutte la sua identità7. La registrazione della sua identità al momento della partenza non fisserà, una volta per tutte, i tratti di un
suo alter ego cartaceo valevole da quel momento in poi. Al momento
della morte le autorità spagnole nei Regni delle Indie dovranno ancora una volta identificarlo ricorrendo alla testimonianza dei vecinos
che lo avevano conosciuto durante la sua vita, e i suoi eredi in Spagna dovranno produrre nuovamente testimoni nella sua comunità
locale per dimostrare il loro legame di parentela. Lungi dal rappresentare delle procedure attraverso la quale l’identità sociale, attraverso la mediazione della burocrazia della scrittura, viene ridotta a
una fissa identità amministrativa, quindi, le procedure di identificazione in antico regime appaiono più come procedure di contestualizzazione, di riconoscimento dell’individuo all’interno dei suoi legami familiari, corporativi, sociali8. È insomma difficile slegare, nelle
procedure di identificazione del mondo di antico regime, il momento della registrazione da quello della effettiva rivendicazione dei
diritti.
D’altro canto, una simile visione dello Stato moderno mi pare
faccia il paio con una visione irenica della “società tradizionale”, che
sarebbe basata sull’interconoscenza, sul comunitarismo e sull’innata
predisposizione alla cooperazione9. Ogni procedura di registrazione
è una procedura di attribuzione di appartenenza a un gruppo, che
limiterà quindi ai soli suoi membri l’accesso a determinate risorse
materiali e immateriali da questo controllate. Si pensi, ad esempio,
al welfare legato all’appartenenza ad una corporazione di mestiere10 o
7 La documentazione di queste procedure si trova in Archivo General de Indias [AGI],
Sección Contratación, Autos sobre de bienes de difuntos.
8 Sul tema cfr. BUONO 2014.
9 Per una lettura critica delle “Cooperation Theories” BLANTON/FARGHER 2016.
10 FARR 2000; MASSA/MOIOLI 2004; per il caso studio dei Paesi Bassi VAN LEEUWEN 2012.
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ALESSANDRO BUONO
a un corpo locale11, o allo stretto legame esistente tra appartenenza
familiare, appartenenza locale, fiscalità e diritti di proprietà.
Come sembrano dimostrare le evidenze archeologiche e antropologiche: «all cities known to social scientists and historians have
neighborhoods. People […] universally organize important aspects
of their lives on a spatial scale that is intermediate between the
household and the city» [SMITH/NOVIC 2012, p. 1]. È normalmente a questa scala che si riscontrano sistemi di organizzazione
basati sulla “responsabilità solidale” (in primo luogo fiscale e legale)
che accomunano in epoca premoderna società anche molto distanti
tra loro, tanto in Europa quanto negli altri continenti [GLUCKMAN 1972; WALEY-COHEN 2000]. Sarà a questo livello, allora,
che le operazioni di registrazione creeranno delle appartenenze capaci di includere ed escludere dal godimento delle risorse comuni,
così come di obbligare i membri all’assolvimento di determinati doveri verso la comunità. Al contrario, la cancellazione dai registri comunitari, comporterà l’allontanamento e la perdita dei diritti associati all’appartenenza.
Il caso forse più chiaro di un simile meccanismo si può osservare
nel Giappone dell’epoca Tokugawa, nel quale è ben evidente come
il controllo sociale del vicinato e la gestione a livello locale della registrazione degli individui poteva raggiungere livelli di violenza che
non lasciano scampo a una visione irenica delle comunità di romantico world we have lost. Tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo,
sotto la spinta degli “unificatori” del Giappone moderno (Oda Nobunaga e Toyotomi Hideyoshi, prima, e soprattutto Tokugawa
Ieyasu, poi) una serie di rilevazioni della popolazione e catastali furono messe in campo, primariamente allo scopo di estirpare il cristianesimo dalle isole nipponiche, oltre che per controllare i signori
11 SZRETER [2007] The right of registration: development, identity registration and social security, in
«History and Policy», 02 March 2007 (risorsa elettronica, http://www.historyandpolicy.org/policy-papers/papers/the-right-of-registration-development-identityregistration-and-social-secu).
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Tra controllo e diritti
feudali (daimyō), dividere le caste dei samurai e dei contadini e facilitare la riscossione delle imposte sulla produzione del riso.
La fissazione dei registri delle singole entità territoriali (shumon
aratame cho [CORNELL/HAYAMI 1986]) le comunità di villaggio
chiamate mura (letteralmente, un “grappolo” di “case” o di “casate”),
portò alla stabilizzazione di queste entità come nuclei amministrativi
ai quali le autorità del governo shogunale (bakufu) attribuivano vari
compiti, tra cui la leva delle imposte secondo un principio di responsabilità solidale chiamato murauke [SAITO/SATO, 2012]. L’attribuzione della responsabilità fiscale al villaggio, e non al singolo proprietario rese le autorità del bakufu sempre meno interessate a entrare «into the domestic world of his subjects»12, in una parola a rendere più leggibile la società (come direbbero Jack Goody e James C.
Smith). Al contrario, l’affidamento all’autogoverno comunitario
della riscossione delle imposte e dell’attribuzione dell’appartenenza
locale portava in un certo senso a rendere quella stessa società più
opaca allo sguardo del potere sovrano: il governo poteva arrestare il
suo sguardo alla superficie dei corpi locali, lasciando che questi dirimessero al loro interno le questioni.
Ben si comprende, dunque, come il mantenimento dei registri
degli households e della proprietà fosse, in prima istanza, interesse
della stessa comunità, e come fosse questa a regolare sia la circolazione della proprietà sia la mobilità dei suoi membri: l’obiettivo degli
amministratori era quello di non permettere che le risorse fondiarie
fossero appropriate da individui e famiglie estranee al villaggio, dal
momento che questo avrebbe avuto la conseguenza di far aumentare la quota di imposta sui membri.
D’altro canto, anche la regolazione della mobilità, in ultima
istanza, era lasciata al benestare dei “vicini”: se legalmente ognuno
avrebbe potuto abbandonare un villaggio ottenendo dalle autorità
12 In questo modo, criticandola, Simon Szreter e Keith Breckenridge riportano l’interpretazione di Jack Goody. [SZRETER/BRECKENRIDGE 2012, p. 6].
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ALESSANDRO BUONO
dello stesso una sorta di “certificato di trasferimento”, ai capi delle
household registrate era impedito di abbandonarlo senza prima aver
designato un erede e aver così assicurato la continuità della casa vis
à vis le altre case della comunità. È per questo che l’atto di diseredare
un figlio era percepito come una questione che non era possibile
lasciare all’iniziativa “privata” della famiglia: proprio perché tali insediamenti erano degli “agglomerati di case”, legate sia fiscalmente
sia legalmente da sistemi di responsabilità solidale, le autorità del villaggio – assieme a quelle delle associazioni di case (ie) presenti al suo
interno (dette kumi o gonigumi) [OOMS 1996, p. 15] – erano chiamate
ad approvare la decisione di “diseredamento”. In particolare, la
forma più dura di diseredamento chiamata Kyuri («“separation for a
long duration” or “old separation”») comportava la cancellazione
dai registri comunitari dell’individuo «which automatically dissolved
marriage and blocked any possibility of holding office» [OOMS
1996, p. 44]. In altri termini, corrispondeva a un “bando”. Per di più,
in quanto misura volta all’autotutela dell’ie e del villaggio contro i
possibili comportamenti individuali, finiva col decretare una sorta di
morte civile per l’individuo: provocando la sua cancellazione dai registri della comunità e impedendogli di conseguenza l’ottenimento
di un certificato di trasferimento con il quale avrebbe potuto iscriversi a un’altra comunità, aveva anche l’estrema conseguenza di sradicarlo, privarlo di ogni forma di protezione sociale e trasformarlo
in ultima istanza in un vagabondo fuorilegge, che poteva essere anche ucciso impunemente [OOMS 1996, SAITO/SATO 2012].
L’esclusione da una catena successoria, in altri termini, era equivalente alla perdita di ogni diritto di cittadinanza (non diversamente da
quanto osservato per l’Europa di antico regime da Simona CERUTTI [2007, 2012]).
Da un lato, quindi, sembra quanto meno ottimistica l’idea che sia
esistito un passato comunitario, tutto sommato consensuale e coo-
43
Tra controllo e diritti
perativo, contrapposto a una modernità in cui gli individui sono sottoposti allo sguardo panoptico di uno Stato moderno disciplinatore.
Dall’altro lato, se il controllo amministrativo ha senza dubbio pesanti ripercussioni sulla libertà e l’autodeterminazione degli individui
(si pensi, ad esempio, ai problemi derivanti dalla determinazione amministrativa del sesso nel caso delle persone transessuali13), come ci
mostrano soprattutto i lavori sull’Africa e sull’Asia raccolti sempre
nel volume di Keith Breckenridge e Simon Szreter (ma come è ben
evidente dalle cronache Europee contemporanee) la condizione di
sans-papier non è affatto più desiderabile. È per questo, ad esempio,
che nell’Uganda coloniale si assistette a un tasso relativamente basso
di contravvenzione alle leggi relative alla registrazione della popolazione: più che le pene previste per i renitenti, infatti, furono i benefici associati a una identità formale (ad esempio i diritti di successione) a spingere gli individui a farsi registrare [DOYLE 2012].
Per concludere, un episodio di cronaca. Il 30 gennaio 2018 sul
sito del quotidiano online LaRepubblica.it appariva la seguente notizia: «Tunisino-italiano per un errore perde la cittadinanza dopo 27
anni»14. Si tratta della storia di Amin Abdelli, nato nel dicembre 1988
nel capoluogo campano da genitori tunisini. Al momento della registrazione del suo atto di nascita i suoi genitori avevano dichiarato di
essere di cittadinanza italiana (a quanto risulta dalle dichiarazioni
fornite alla stampa dall’assessora con delega all’anagrafe del comune
di Napoli, Alessandra Sardu); Amin, quindi, fu regolarmente registrato come cittadino italiano.
Dopo aver svolto la sua carriera di studi in Italia ed essere divenuto «Chef di una nota catena di ristoranti giapponesi di sushi», nel
2015, all’età di 27 anni, Amin si vede rifiutare la domanda di trasferimento di residenza dagli uffici del comune di Longone al Segrino
VOLI 2018.
Tunisino-italiano per un errore perde la cittadinanza dopo 27 anni, in «La Repubblica.it», 30 gennaio 2018 (risorsa elettronica, http://napoli.repubblica.it/cronaca/2018/01/30/news/tunisino-italiano_per_un_errore_perde_la_cittadinanza_dopo_27_anni-187666841/.
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(in provincia Como). Gli impiegati del comune lariano, infatti,
danno al tunisino-napoletano Amin una sconcertante notizia: non è
italiano. I suoi genitori, infatti, avevano tempo prima chiesto al comune di Napoli «di rettificare la loro cittadinanza, da italiana a tunisina, comportando di fatto la perdita della cittadinanza anche per il
figlio sin dalla nascita dello stesso»15. Amin Abdelli, in definitiva,
dopo essere stato per 27 anni italiano era tutto a un tratto divenuto
un tunisino senza permesso di soggiorno.
Al di là dalla verità dei fatti (un errore del comune di Napoli,
secondo l’avvocato di Abdelli, le false dichiarazioni dei suoi genitori
secondo l’assessora)16, l’episodio citato mi pare una rappresentazione estremamente efficace di come quella che materialmente può
apparire una semplice operazione burocratica di registrazione anagrafica possa divenire il discrimine tra una vita normale e l’impossibilità di effettuare anche le più semplici operazioni quotidiane. «Mi
sparerei in fronte» dice Amin (con espressione tipicamente napoletana) «non vivo più, anche perché per quasi 30 anni non ho mai
avuto sentore che i miei documenti, dal passaporto alla carta di identità, fossero non validi. Mi venivano rinnovati di volta in volta,
quindi per me tutto andava normalmente. Oggi mi sento di vivere
in un incubo»17. E in un’altra intervista continua: «negli ultimi anni
quasi non ho vissuto […] ho perso il lavoro perché ero clandestino»18.
La citazione è tratta sempre dalla dichiarazione dell’assessora Sardu, ibidem.
Secondo l’assessora Sardu, oltre alla già citata dichiarazione dei genitori, «emergono altri
elementi di contraddittorietà nella ricostruzione dei fatti, tra cui senz'altro rileva il fatto che
il signor Abdelli sin dal 2003 era in possesso di permesso di soggiorno rilasciatogli dalla
questura, in quanto cittadino straniero», ibidem.
17 Ibidem.
18 Amin ce l'ha fatta, ottiene di nuovo la cittadinanza italiana e questa volta è regolare, in «LaRepubblica.it», 30 gennaio 2018 (risorsa elettronica disponibile all’indirizzo <http://napoli.repubblica.it/cronaca/2018/04/06/news/amin_ce_l_ha_fatta_ottiene_di_nuovo_la_cittadinanza_italiana_e_questa_volta_e_regolare-193154207/>, ultima consultazione 17 aprile
2018).
15
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Tra controllo e diritti
Per fortuna del suo protagonista, la vicenda si è conclusa il 6
aprile 2018 quando, alle 11 del mattino, Amin Abdelli ha ricevuto
(nuovamente) la cittadinanza italiana «nel corso di una cerimonia a
Palazzo San Giacomo cui hanno preso parte il dirigente dell’Anagrafe, Luigi Loffredo e l’assessore con delega alla Legalità, alla Trasparenza e all’Anagrafe Alessandra Sardu». In definitiva, il sindaco
Luigi de Magistris, accogliendo l’appello dell’avvocato nigeriano Hilarry Sedu, «preso atto del grave errore commesso redigendo un
nuovo atto di nascita, e sfruttando la norma di legge che attribuisce
al sindaco, al ricorrere di certe condizioni, il potere di conferire la
cittadinanza» ha ristabilito in diritto ciò che di fatto era già evidentemente una realtà19. La vicenda di Amin sembra per certi versi essere uscita da un’opera di Pirandello: anche Mattia Pascal, dopo essere stato inscritto nel registro dei morti del suo comune e aver vagheggiato una nuova vita come Adriano Meis, finalmente libero dai
doveri del fu Mattia, si dovette scontrare con l’amara evidenza dei
fatti: non essendo registrato all’anagrafe Adriano non poteva ad
esempio sposarsi o agire in giudizio contro chi lo aveva derubato;
pur libero da doveri, insomma, non poteva reclamare diritti.
Credo che questo episodio di cronaca (uno tra i tanti che si potrebbero raccontare) confermi come la chiave di lettura per il fenomeno storico della registrazione dell’identità non possa prescindere
dal considerarlo un fenomeno bifronte: se letto dal punto di vista
dell’ente identificatore può senza dubbio essere considerato un processo di «soggettivazione»; d’altro canto, se guardato dall’ottica del
soggetto identificato, è pur sempre premessa essenziale per ogni
operazione di riconoscimento e rivendicazione di diritti. In altri termini, per la trasformazione di una identità sociale in una personalità
legale.
19
Ibidem.
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54
Il ruolo delle risorse legali nelle dispute
d’identificazione
I consoli veneziani nell’Impero ottomano (1670-1715)
di Umberto Signori
Il mio intervento, basato su documentazione dell’Archivio di Stato
di Venezia, propone un’analisi sulla necessità di identificare gli stranieri ed essere identificati come tali durante l’età moderna. L’esigenza da parte delle diverse scienze sociali di proporre un efficace
dibattito sul tema dell’identificazione dei migranti, intesa come un
processo che coinvolge sempre più di una persona e come meccanismo che permette di attribuire l’appartenenza di un individuo a un
determinato gruppo [GROEBNER 2007, pp. 25-27], è stata percepita in modo crescente anche dalla ricerca storica [MOATTI 2004;
MOATTI/KAISER 2007; ABOUT/DENIS 2010; BUONO 2014].
Per quanto riguarda la storia mediterranea, e in particolare nel contesto ottomano, l’indagine su questa tematica si è prevalentemente
focalizzata sul periodo definito della “colonizzazione” europea di
questo Impero (XIX secolo), ovvero in un’epoca in cui gli Stati nazionali si erano progressivamente emancipati da una procedura di
riconoscimento faccia a faccia e stavano compiendo una vera e propria “rivoluzione identitaria” [SMYRNELIS 2005; NOIRIEL/
ABOUT 2007]. Tuttavia le problematiche che l’Impero del Sultano
tra Otto e Novecento dovette affrontare a riguardo erano già state
presenti nel Levante ottomano fin dai secoli precedenti: come identificare gli stranieri in un quadro caratterizzato da un crescente inserimento dei migranti nel tessuto sociale locale?
Il ruolo delle risorse legali nelle dispute d’identificazione
Partendo da tale questione, scopo di questo saggio è quello di
analizzare l’identificazione dei sudditi veneti che, provenienti dal Levante veneziano e in numero sempre crescente, tra Sei e Settecento
migrarono nei territori soggetti al Gran Signore. L’esempio dei sudditi marittimi di Venezia permetterà di riflettere sul processo di classificazione all’interno di una zona di frontiera della gente di passaggio, nonché sulla distinzione del migrante dallo straniero, e della persona di transito da quella che effettuava un soggiorno breve. Il caso
presentato fornirà inoltre importanti spunti di riflessione sulla diffusione di alcuni principi di “giusta identificazione” e di libertà di circolazione degli stranieri; questo processo, infatti, è stato spesso considerato come una specificità contemporanea e la sua propagazione
è stata frequentemente presentata come funzionale all’affermazione
delle democrazie moderne e alla protezione degli “onesti cittadini”
residenti [NOIRIEL/ABOUT 2007].
La migrazione di Tinos. La rivendicazione di un’appartenenza
Fin dall’indomani della guerra tra Venezia e l’Impero ottomano che
aveva determinato il possesso dell’isola di Creta (1645-1669) i dispacci dei consoli marciani residenti nei possedimenti del Gran Signore attestavano la numerosa presenza in questi scali di sudditi
della Repubblica di Venezia provenienti dai domini marittimi della
Serenissima stessa. Nelle lettere rivolte al bailo a Costantinopoli1 i
consoli di Smirne e Chios manifestavano costante preoccupazione
per la migrazione da parte di chi arrivava dalle isole e fortezze del
Il bailo era l’agente diplomatico di Venezia residente a Costantinopoli. Tuttavia
questa figura manteneva anche prerogative consolari.
1
56
UMBERTO SIGNORI
Levante veneziano, e in particolare da Tinos2.Una situazione segnatamente critica durante il Seicento caratterizzava infatti le basi strategiche e commerciali disseminate nello Stato da mar veneziano, gravate dalla difficoltà di rifornimento alimentare e dalla loro esposizione agli agguati della corsa3 [MINCHELLA 2014, pp. 139-146].
La condizione di estrema povertà in cui versava la maggior parte
della popolazione aveva quindi determinato la fuga di molteplici
gruppi e di singoli individui verso i nuovi centri emergenti. Come
venivano però identificati questi migranti dalle autorità delle località
dove arrivavano?
Generalmente la legge islamica prevedeva che chiunque fosse
non musulmano dovesse essere considerato un nemico alieno (harbi)
e, nel caso in cui si trovasse in territorio del Sultano, in quanto straniero era passibile di schiavitù o uccisione e i suoi beni potevano
essere sequestrati. Tra tardo medioevo e prima età moderna gli imperatori ottomani avevano abbondantemente e rapidamente ingrandito i propri domini nelle coste mediterranee e detenevano ora sotto
la propria giurisdizione estese regioni caratterizzate da una molteplicità di tradizioni e civiltà; gli ottomani erano stati perciò costretti ad
avvalersi di una dottrina (dhimma) che permettesse ospitalità e protezione ai membri delle diverse religioni rivelate [CHAEN 1991;
FAROQHI 2013]. Nonostante alle popolazioni di differente fede
residenti nella terra del Gran Signore fosse stata imposta la soggezione e la protezione della legge coranica e dell’Imperatore, queste
comunità di cristiani ed ebrei (dhimmi) venivano comunque considerate come straniere e, in cambio della garanzia della vita e dei propri
2
Archivio di Stato di Venezia (ASVe), Bailo a Costantinopoli (BaC), b. 113-I,
fascicolo (f.). 7, 23 febbraio 1669; ivi, f. 9, 30 maggio 1670; ivi, b. 116-II, f. 6, 20
febbraio 1673, 30 aprile 1674; ivi, f. 3, 23 luglio 1672, 3 luglio 1674; ivi, b. 117, 10
ottobre 1671, 1 aprile 1672; ASVe, Senato, Dispacci, Ambasciatori (SDA), Costantinopoli, b. 156, docc. 28 (28 marzo 1672), 42 (11 giugno 1672); ASVe, Senato,
Dispacci, Consoli (SDC), Sedi diverse, b. 1, doc. 87 (15 giugno 1670).
3 ASVe, BaC, b. 116-II, f. 6, 27 aprile 1672, 11 novembre 1672.
57
Il ruolo delle risorse legali nelle dispute d’identificazione
beni, dovevano adempiere a tutta una serie di oneri e obblighi.
Erano perciò identificati come reaya, ovvero come membri della comunità soggetta a una tassazione particolare chiamata «carazzo»
(cizye o haraç), e, indipendentemente dal loro ceto sociale e dalla loro
professione, venivano registrati nel libro dell’agente (haraçcı) incaricato di riscuotere queste imposte. Anche coloro che migravano nelle
zone soggette all’autorità del Gran Signore non facevano eccezione
a tale imposizione; gli immigrati erano riconosciuti come stranieri
nuovi sudditi della legge del Sultano ed erano iscritti in appositi registri delle imposte chiamate yava haraç [DARLING 1996, pp. 81118]. Esattamente come avveniva nell’Europa cristiana della prima
età moderna, quindi, anche nell’Impero ottomano le tecniche
d’identificazione relative alla mobilità delle persone andavano progressivamente basandosi sulla documentazione scritta, e in particolare sulla redazione di registri. Inoltre, esattamente come i rivali europei, dalla fine del Cinquecento anche l’identificazione ai fini fiscali
dell’amministrazione ottomana si era ormai emancipata dall’intermediazione di attori legati al sistema di proprietà terriera
[ABOUT/DENIS 2010, pp. 32-55; DARLING 1996, pp. 81-82].
L’obiettivo di queste procedure tuttavia non era di descrivere l’identità individuale dello straniero contribuente, ma semplicemente di
considerare quest’ultimo come soggetto di un’obbligazione; l’imposta, e la conseguente registrazione, era infatti stimata sul singolo nucleo famigliare, indipendentemente quindi dalla presenza di eventuali mogli e figli.
I sudditi veneti originari dei possedimenti levantini della Serenissima, prevalentemente cattolici latini ma tra cui vi erano probabilmente anche alcuni di rito greco, durante la sopraccennata guerra
erano migrati negli emergenti scali del Mediterraneo orientale alla
ricerca di un impiego e per tale ragione erano stati iscritti dagli agenti
locali nel yava haraç. Conclusosi il conflitto la condizione economica
e sociale della popolazione di Tinos era peggiorata ulteriormente e
58
UMBERTO SIGNORI
un numero sempre crescente di abitanti dell’isola continuava a trasferirsi a Chios e a Smirne. Questo corposo gruppo si dimostrava
tuttavia restio alle procedure d’identificazione ottomane e, sfruttando l’opportunità del ritorno dei rappresentanti diplomatici e consolari nei territori soggetti alla Porta, dal 1670 supplicarono i rispettivi consoli veneziani di essere registrati nella cancelleria del consolato in modo tale da essere riconosciuti come sudditi protetti dalla
Repubblica4.
Lo statuto legale dei «franchi» nell’Impero ottomano era infatti
regolato dall’applicazione specifica di trattati, le Capitolazioni
(ahdname), tra l’Imperatore e le diverse potenze cristiane. Seguendo
il principio dell’aman (salvacondotto) tramite le Capitolazioni era
concesso ai sudditi degli Stati europei il riconoscimento temporaneo
della condizione di müste’min, ovvero di straniero privilegiato. Tali
privilegi, destinati secondo i trattati stessi a essere limitati nel tempo,
garantivano ai beneficiari l’esenzione degli obblighi spettanti ai reaya
e una forma di extra-territorialità rispetto all’autorità ottomana. Una
volta superate le condizioni temporali previste dagli accordi lo straniero privilegiato perdeva le concessioni ed era perciò da considerarsi uno straniero soggetto all’influenza del Gran Signore e dei suoi
ministri. Le differenze tra queste due categorie di straniero erano
tuttavia molto fragili perché non esistevano delle marcate differenze
tra loro [SCHACHT 1986; KNOST 2007, pp. 243-46; VEINSTEIN
2006, pp. 189-90].
Sin da inizio Cinquecento la Repubblica di Venezia era stata tra
le prime potenze cattoliche a negoziare con il Sultano questo tipo di
concessioni e si era sempre impegnata affinché tali privilegi fossero
rinnovati dopo la fine di ogni conflitto [THEUNISSEN 1998]. Cercando di cogliere l’occasione della stipulazione del nuovo trattato di
pace, i tiniotti contrastavano perciò l’identificazione impostagli dagli
4 Ivi, b. 113-I, f. 9, 10 maggio 1670, 30 maggio 1670; ivi, b. 116-II, f. 6, 20 febbraio
1673.
59
Il ruolo delle risorse legali nelle dispute d’identificazione
ufficiali ottomani e reclamavano la concessione riconosciuta ai sudditi marciani. Il 10 maggio 1670, infatti, dopo essersi registrati nella
cancelleria del console di Smirne, fecero appello al bailo a Costantinopoli affinché garantisse loro la protezione della Serenissima5.
L’iscrizione al consolato di questi sudditi veneti non implicava
quindi il conseguimento di un obbligo, ma costituiva un atto con il
quale l’immigrato dichiarava la sua appartenenza. Così facendo, gli
isolani speravano di evitare il pagamento del «carazzo» e di godere
degli altri privilegi giurisdizionali veneziani, come ad esempio la non
soggezione alla giustizia dei ministri locali o, qualora morissero nel
luogo, la trasmissione dei beni ai legittimi eredi rimasti nei luoghi
d’origine6.
È tuttavia interessante notare che durante la prima età moderna
oltre ai membri della rappresentanza diplomatica e consolare solo i
mercanti, i capitani e i marinai delle navi erano stati considerati come
membri a pieno diritto della «nazione» marciana negli scali dell’Impero ottomano e potevano perciò disporre della protezione della
giurisdizione consolare [DURSTELER 2006, pp. 23-60]. Nelle
istanze prodotte dai sudditi greci stessi e presentate ai consoli e al
bailo non figurava però il nome di nessun mercante7. Nei loro dispacci i consoli affermarono che i migranti veneti provenienti dalle
isole avevano un profilo socioeconomico molto umile e che per sopravvivere esercitavano diverse professioni, tra cui quelle di scaricatore di porto, fornaio, giardiniere e servitore8. Ciò sta a dimostrare
che la registrazione di questi sudditi negli archivi consolari non era
più legata al rispetto delle condizioni di un ordine corporativo do-
5
Ivi, b. 113-I, f. 9, 10 maggio 1670; ivi, b. 116-II, f. 6, doc. non datato (n.d.).
Ibidem; ivi, b. 117, 3 febbraio 1672.
7 Ivi, b. 113-I, f. 9, 10 maggio 1670; ivi, b. 116-II, f. 6, doc. n.d.; ivi, b. 117, 18
marzo 1672, 27 agosto 1673.
8 Ivi, b. 116-II, f. 3, 3 luglio 1674; ivi, b. 117, 20 gennaio 1672, 4 giugno 1674;
ASVe, Cinque savi alla mercanzia (CSM), II serie (s.), b. 33, f.1, 18 marzo 1680.
6
60
UMBERTO SIGNORI
minato dai commercianti. L’iscrizione negli elenchi di veneti dei registri consolari levantini definiva ormai, nella prassi marciana, l’appartenenza dell’individuo alla sua comunità d’origine, piuttosto che
la sottomissione alla regolamentazione specifica del commercio mediterraneo. Va comunque precisato che la funzione principale della
registrazione consolare non era di identificare propriamente gli individui. I registri erano infatti costituiti soprattutto da liste di nomi
di persone, le quali erano iscritte secondo delle categorie legate principalmente all’attività professionale, ma che non erano mai descritte
fisicamente. Il conto delle persone, tra le 150 e le 300 persone a cui
si aggiungevano spesso in modo sommario le mogli e i figli, sembra
essere perciò stato più importante dell’identità stessa delle persone9.
Tale punto sta ancora una volta a dimostrare che l’identificazione di
questi sudditi non era una preoccupazione di primaria importanza
dei ministri pubblici veneziani, ma una necessità dei migranti stessi
di dichiarare la loro appartenenza a una comunità piuttosto che a
un’altra.
Al fine di essere riconosciuti dagli agenti consolari questi sudditi
del Levante veneziano avevano comunque una serie di obblighi da
rispettare. In primo luogo dovevano essere muniti di un passaporto
o di una patente individuale prodotta dalle autorità civili marciane
della località di partenza; questi documenti attestavano la loro affiliazione comunitaria e i motivi della loro mobilità10. Molti di loro
furono accusati dai consoli di essere vagabondi e ladri, di aver ottenuto le patenti in modo indebito e spesso anche di essere responsabili di disordini che provocavano l’intervento dei ministri ottomani,
causando perciò al consolato una perdita di tempo e di credibilità11.
9 ASVe, BaC, b. 113-I, f. 9, 30 maggio 1670; ivi, b. 117, 18 marzo 1672, 24 aprile
1673 e allegato; ivi, b. 125-II, nota del 29 ottobre 1701.
10 Ivi, b. 113-I, f. 7, 23 febbraio 1669; ivi, b. 119-II, f. 8, 27 dicembre 1679; ivi, b.
124-I, doc. n.d.; ivi, b. 129, f. 4 Smirne, doc. 7 (7 maggio 1710).
11 Ivi, b. 117, n.d. (29 luglio 1671?), 20 gennaio 1672, 1 aprile 1672, 27 settembre
1672, 29 settembre 1673; ivi, b. 131-II, cc. 181r-v (30 dicembre 1712).
61
Il ruolo delle risorse legali nelle dispute d’identificazione
Oltre a ciò, la durata del soggiorno delle persone, ovvero che fosse
temporanea o permanente, appariva una caratteristica significativa
per i consoli marciani al fine di certificarne lo status di sudditi della
Serenissima. Frequente fu infatti l’ammonizione da parte del bailo
affinché i consoli non proteggessero quei sudditi dei domini marittimi che avevano protratto la loro permanenza nel luogo per oltre
dieci anni12. Tale controllo in realtà non era dovuto tanto alla questione della mobilità in sé, ma piuttosto a ciò che questa mobilità
poteva comportare: lo spopolamento e la conseguente mancanza di
manodopera nei territori levantini di Venezia. Le autorità veneziane,
infatti, cercarono a più riprese di controllare gli spostamenti e la presenza dei sudditi marittimi esitando tra misure di tolleranza e incoraggiamento per far ritornare questi gruppi nei loro luoghi d’origine
attraverso la promessa del perdono e dell’impiego13. Nel biennio
1672-73 il Provveditor straordinario della Suda constatò però che le
misure di rimpatrio messe in atto in collaborazione con i consoli
non avevano che un’efficacia passeggiera14. Invece di stare nelle loro
isole d’origine, una parte consistente dei sudditi greci della Serenissima ritornava a Smirne e a Chios per risiedervi e poter aiutare le
proprie famiglie rimaste nei possedimenti della Repubblica di San
Marco15.
Anche all’indomani del conflitto che aveva visto il Sultano e la
Serenissima contendersi la Morea (1684-1699) i rappresentanti consolari continuavano a testimoniare la problematica presenza dei ti-
12
ASVe, SDA, Costantinopoli, b. 156, docc. 28 (28 marzo 1672), 31 (25 aprile
1672).
13 ASVe, BaC, b. 113-I, f. 7, 23 febbraio 1669; ivi, b. 116-II, f. 3, 17 gennaio 1673;
ivi, b. 117, Smirne 28 settembre 1672, 24 aprile 1673; ASVe, SDA, Costantinopoli,
b. 156, doc. 66 (2 novembre 1672); ASVe, SDC, Sedi diverse, f. 1, doc. 91 (8
agosto 1700).
14 ASVe, BaC, b. 116-II, f. 6, 18 luglio 1672, 17 ottobre 1673.
15 Ivi, f. 3, 24 febbraio 1673; ivi, b. 117, 28 settembre 1672, 10 aprile 1673; ASVe,
CSM, I s., b. 749, 15 giugno 1681, novembre 1681.
62
UMBERTO SIGNORI
niotti a Smirne, il cui conto era giunto a circa mille uomini e ottocento donne16. Il loro numero preoccupava talmente i ministri pubblici marciani da sollecitare a più riprese i consoli per prendere nota
quanto prima del conto preciso dei sudditi lì presenti e di informarsi
se gli ultimi arrivati fossero capitati come «passeggeri» oppure se
avessero intenzione di fermarsi nel luogo17. È inoltre degno di nota
che nel periodo tra il 1700 e il 1715 i tentativi di rivendicazione
dell’appartenenza alla comunità veneziana di tali migranti sono alternati a momenti di resistenza di questi all’identificazione imposta
dai consoli; oltre ad aver soggiornato durante gli anni caratterizzati
dagli avvenimenti bellici nella regione smirniota sotto la protezione
di altre potenze europee e a volere quindi continuare a godere del
supporto di questi Stati, i tiniotti cercavano e spesso riuscivano a
eludere i tentativi consolari di farli rimpatriare18.
Contraddittorio e talvolta sorprendente, questo ampio tentativo
dei ministri pubblici marciani rivelava le speranze e le aspettative
della Repubblica piuttosto che la reale capacità di controllare la circolazione dei propri sudditi. Ciò che rendeva efficace l’identificazione di questi migranti da parte dei consoli non era l’imposizione
di un obbligo, ma la prospettiva di un beneficio materiale per coloro
che venivano registrati. Sembrerebbe perciò che i rappresentanti e i
magistrati veneziani avessero compreso, e forse accettato, le cause
dell’esodo dei greci loro sudditi verso le terre del Sultano e non fecero quindi sistematico uso di strumenti coercitivi per prevenire tale
flusso migratorio.
16
ASVe, Senato, Deliberazioni, Costantinopoli, r. 35, cc. 232v-233v (7 ottobre
1700).
17 ASVe, BaC, b. 124-I, 16 luglio 1700, doc. n.d..
18 Ivi, 125-II, 3 dicembre 1699, 2 gennaio 1700 e nota allegata; ivi, b. 129, f. 4, doc.
7 (7 maggio 1710); ivi, b. 131-II, cc. 18r-19r (27 aprile 1710), 19r-20r (24 aprile
1710); ivi, b. 376, f. 11 (suppliche varie), doc. n.d..
63
Il ruolo delle risorse legali nelle dispute d’identificazione
Tra prova scritta e testimonianza orale. L’identificazione
contesa
Il controllo imposto dalle autorità ottomane sulla mobilità delle persone, così come era tipico negli Stati d’antico regime, era legato a
ragioni prevalentemente fiscali [IMBER 1997, p. 116], più che a una
logica di controllo dei flussi; inoltre i privilegi accordati con gli Stati
europei erano riconosciuti solo a chi era considerato di passaggio
[KNOST 2007]. Tra consoli veneziani e agenti fiscali ottomani, d’altra parte, nacquero delle pericolose tensioni a causa della differente
interpretazione che attribuivano agli articoli della Capitolazione relativi alla materia migratoria. Le controversie evocate nei dispacci
consolari erano prodotte in un contesto socioculturale caratterizzato
dalla concorrenza di diversi concetti legali attinenti all’identificazione degli stranieri, ovvero sul significato dell’appartenenza alla comunità d’origine. Nel caso specifico queste vertenze riguardavano
prevalentemente la questione del pagamento del yava haraç, poiché
le autorità ottomane non riconoscevano ai sudditi marittimi di Venezia lo status di stranieri privilegiati riservato al corpo dei mercanti.
Tradizionalmente le Capitolazioni stabilite tra le due potenze definivano che a essere esenti dal tributo, e quindi riconosciuti come
müste’min, dovessero essere quei sudditi veneti che, ammogliati o scapoli, andavano e tornavano per trafficare nei territori imperiali senza
però stabilirvisi [PEDANI 1996, p. 80; THEUNISSEN 1998]. I
consoli di Smirne e Chios denunciarono quindi a più riprese i collettori d’imposta di pretendere il pagamento della tassa di capitazione dai sudditi greci della Serenissima utilizzando il pretesto che
questi ultimi non professavano attività commerciale19. Esercitando
lavori diversi da quello del mercante e convivendo nel luogo con
19
Ivi, b. 117, 29 luglio 1671, 18 marzo 1672; ivi, b. 116-II, f. 3, 3 luglio 1674.
64
UMBERTO SIGNORI
mogli e figli, i migranti confermavano, secondo l’interpretazione degli agenti ottomani, la loro intenzione di risiedere per un periodo di
lungo termine.
Nonostante l’opinione hanafita, la scuola ufficiale dell’Impero, relativa all’aman prevedesse di attribuire automaticamente lo statuto di
reaya a chi risiedeva per più di un anno nel territorio del Sultano, si
era consolidata ormai da tempo la pratica di considerare gente di
passaggio tutti gli stranieri sudditi degli Stati europei con Capitolazione che rimanessero nell’area ottomana per un periodo massimo
di dieci anni [SCHACHT 1986; VEINSTEIN 2006, pp. 190-91]. I
rappresentanti consolari marciani constatarono però ben presto che
i ministri locali identificavano in modo diverso da questa consuetudine i sudditi greci della Serenissima, in particolare i tiniotti, non riconoscendo questi ultimi come persone in transito. Al processo
d’identificazione ottomana si aggiungeva quindi il fattore temporale.
Gli agenti fiscali impiegati a Smirne e Chios affermavano infatti che
a essere esonerati dal pagamento delle imposte dovessero essere
solo quelli che «vanno e vengono» con la stessa nave. Unita a questa
considerazione deve essere anche la diversa interpretazione che davano le parti al termine «trafficare». Mentre la parte ottomana identificava in tal senso i mercanti viaggiatori, i capitani e i marinai, escludendo perciò i mercanti residenti, i consoli veneziani cercavano di
estendere strategicamente il campo semantico del termine e comprendere con ciò tutti coloro che portavano un beneficio più o
meno diretto allo scambio mercantile, includendo quindi anche i servitori dei mercanti, gli scaricatori di porto e tutti quelli che lavoravano come artigiani nella città portuale20. Secondo il principio esposto dalle autorità ottomane la condizione di straniero privilegiato variava quindi in base alla provenienza, alla professione e al livello sociale dell’individuo. Dall’analisi dei dispacci consolari emerge inoltre
20 Ivi, b. 117, n.d. (29 luglio 1671?), 20 gennaio 1672, 18 marzo 1672; ivi, b. 116II, f. 3, 3 luglio 1674.
65
Il ruolo delle risorse legali nelle dispute d’identificazione
che i ministri del Sultano pretendessero che tali persone fossero relativamente giovani, preferibilmente senza coniugi o figli, e che non
disponessero di legami sociali o professionali in luogo21. Le caratteristiche di persona di passaggio sembravano essere definite da individui soli, senza famiglia, di situazione relativamente modesta e probabilmente al di fuori delle interazioni economiche locali. Il caso dei
migranti veneziani conferma perciò che per la pratica ottomana la
presenza dei müste’min nello scalo dovesse essere effettivamente legata a un passaggio di transito [HANNA 2007, pp. 128-30].
Nel tentativo di difendere i propri sudditi, i consoli decisero di
portare avanti la vertenza contemporaneamente nei tribunali provinciali e nella corte del Sultano supplicando la mediazione diplomatica del bailo. Già da fine Cinquecento, infatti, la giustizia ottomana era coinvolta nel funzionamento del sistema di registrazione
ai fini fiscali, permettendo così alle procedure d’identificazione
scritte degli stranieri di assumere anche valore legale [DARLING
1996, pp. 83–86, 92–93]. Sembra tuttavia che i documenti delle cancellerie consolari non fossero considerati delle prove dai giudici ottomani (qadı); al fine di portare l’istanza di fronte al foro locale il
console di Smirne nel 1671 si appellò quindi al bailo a Costantinopoli affinché quest’ultimo, per mezzo di una petizione presentata al
governo centrale (arz o arzuhal), ottenesse un comandamento imperiale (ferman) che potesse avere efficacia a livello provinciale22. Conseguito il comandamento a beneficio dei rappresentanti marciani del
porto smirniota e di Chios, entrambi i consoli presentarono la procedura al qadı per procurarsi una sentenza che attestasse per iscritto
(hüccet) e con la testimonianza di musulmani di «buona fama» il riconoscimento del privilegio ai sudditi marittimi della Repubblica. Il
21
Ivi, b. 113-I, f. 9, 30 maggio 1670, n.d.; ivi, b. 116-II, f. 6, 2 giugno 1674; ivi, b.
117, n.d. (29 luglio 1671?), 28 settembre 1672, 18 marzo 1672, 3 luglio 1674.
22 Ivi, b. 113-I, f. 9, 30 maggio 1670; ivi, b. 117, n.d. (29 luglio 1671?).
66
UMBERTO SIGNORI
giudizio fu però impugnato dagli agenti fiscali, i quali ottennero a
loro volta un ferman dalla Porta che legittimava il loro operato23.
A parità di prove scritte presentate, sembrerebbe che l’esito della
vertenza si giocasse soprattutto nel confronto con la pratica d’identificazione applicata in passato, in particolare nel periodo della
guerra di Candia. Il punto equivoco del caso era dato dal fatto che i
tiniotti durante il conflitto avevano più volte viaggiato tra Tinos e i
due centri ottomani svolgendo lavori stagionali e, per evitare di essere trattati come harbi in quanto sudditi di uno Stato nemico, avevano dichiarato di provenire da una delle isole dell’Arcipelago, zona
che all’epoca era quasi completamente soggetta alla dominazione ottomana. Questo punto era tuttavia particolarmente controverso, in
quanto stava a dimostrare che i ministri del Gran Signore attribuivano un’identità che non erano però in grado di verificare. Entrambe le parti provarono quindi a ricercare nella testimonianza
orale una maggiore possibilità di esito favorevole. Da una parte il
console di Smirne, il quale aveva servito come cancelliere del suo
predecessore durante gli anni quaranta, asseriva di sapere bene quali
fossero le procedure applicate a tal riguardo fin da prima della guerra
e, analogamente al collega di Chios, avanzava la testimonianza propria e dei propri famigliari relativa alla conoscenza personale di ogni
migrante veneto che fosse giunto negli ultimi dieci anni. Dall’altra
parte i ministri ottomani non solo affermavano che quegli immigrati
fossero arrivati da più di un decennio, ma anche che possedessero
dei beni immobili nel luogo e, per tale ragione, erano stati registrati
fin dalla loro prima venuta come reaya; gli agenti fiscali reclamavano
inoltre che le testimonianze proposte dal rappresentante consolare
non fossero legalmente opponibili alle proprie, in quanto erano presentate da dei non musulmani. Data l’impossibilità del giudice di
dare una sentenza definitiva sulla base dei documenti scritti e sulle
23 Ivi, 1 aprile 1672, 4 giugno 1672, docc. Turchi n. 35-36; ivi, b. 116-II, f. 3, 23
luglio 1672, 9 novembre 1672.
67
Il ruolo delle risorse legali nelle dispute d’identificazione
attestazioni orali presentate, anche a causa dei legami che questi deteneva con gli haraçcı stessi [OLNON 2014, pp. 195–96], il processo
legale a livello locale risultava di fatto bloccato24.
I consoli veneziani cercarono quindi a più riprese di ottenere una
revisione della disputa alla corte imperiale e, attraverso il residente a
Costantinopoli, presentarono diverse petizioni al governo ottomano; i rappresentanti marciani supponevano infatti che le controversie, una volta ottenuto il comandamento del Sultano, fossero risolte una volta per tutte. Allo stesso modo, la controparte ottomana
inviò alla capitale dei rapporti che contrastavano i tentativi dei rivali
e rivendicò a sua volta la propria legittima autorità in materia d’identificazione. Tuttavia, come era consuetudine, con i ferman la Porta
ordinava semplicemente al qadı di investigare una volta ancora sulla
contesa [ERGENE 2003, pp. 43-55]. Le dispute erano perciò nuovamente rimandate al tribunale locale per la risoluzione. Per tale ragione la questione continuò a protrarsi per tutto il periodo analizzato, compresi i primi quindici anni del Settecento, senza essere mai
definitivamente risolta e con la frequente ma temporanea sospensione dei tentativi di identificazione ottomana. I consoli dovettero
infatti preferire un accordo privato con il giudice del posto, che veniva compensato adeguatamente, senza tuttavia mai riconoscere
apertamente i sudditi veneti come reaya. Di tempo in tempo simili
tentativi di imporre l’identità ottomana ai migranti della Serenissima
che si erano stabiliti localmente continuarono quindi a verificarsi25.
24
Ivi, 18 luglio 1673, 1 gennaio 1674, 2 giugno 1674; ivi, b. 113-I, f. 9, 30 maggio
1670; ivi, b. 117, 18 marzo 1672, 22 maggio 1672, 28 settembre 1672.
25 Alcuni esempi in: Ivi, 18 marzo 1672, 5 giugno 1672, 29 settembre 1672, 2 dicembre 1672, 18 maggio 1673, 21 maggio 1673, 24 gennaio 1674; ivi, b. 116-II, f.
3, 9 novembre 1672, 18 luglio 1673; ivi, b. 121, f. 7, 11 aprile 1682; ivi, b. 125-II,
10 gennaio 1700; ivi, b. 126-I, 16 dicembre 1704; ivi, b. 126-II, f. 12, cc. 122 (17
marzo 1701), 185-186 (metà agosto e 20 agosto 1702) ivi, b. 129, f. 4, docc. 24 (26
agosto 1710), 82 (4 novembre 1713). La raccolta di arz e ferman di questo periodo
si possono trovare in: ivi, b. 252, r. 340, 342-343; ivi, b. 253, r. 16-17.
68
UMBERTO SIGNORI
Conclusioni
È interessante notare in conclusione che tra Sei e Settecento i consoli della Repubblica oligarchica di San Marco con la loro corrispondenza non solo invocarono le sofferenze di questi «poveri cristiani»
e si richiamarono alla solidarietà e alla compassione cristiana, ma
svilupparono soprattutto un discorso sull’identificazione relativo
alla giustizia e alla libertà, intesi questi naturalmente secondo l’accezione di difesa dei privilegi corporativi tipica dell’età moderna. Nel
settembre del 1672, ad esempio, il console di Smirne cercò di legittimare il proprio operato affermando di aver protetto i sudditi greci
per tutelare l’onore e la reputazione della Serenissima, nonché la «libertà» della Repubblica. In alcune lettere successive il rappresentante marciano dichiarò inoltre apertamente che la pratica identificativa ottomana era da considerarsi come una vera «ingiustitia» e
contro la «ragione», e che avrebbe continuato a contrastarla perché
la sovranità veneziana non era da considerarsi inferiore per «libertà
et privilegi» agli altri Stati26. Ancora nel 1710 un successivo agente
consolare veneziano del porto smirniota in diversi suoi dispacci
espresse che dovesse essere «giusto» che tutti i sudditi di Venezia
fossero partecipi della protezione del Serenissimo Principe; nel principio di riconoscimento del «libero soggiorno» dei migranti veneti
risiedeva infatti l’«uguaglianza» con le altre potenze dell’epoca27. Per
quanto riguarda i rappresentanti veneti, quindi, le limitazioni sulla
mobilità e sull’identificazione dei loro sudditi assunsero anche carattere politico e diplomatico, in quanto ampliarono la capacità statale
di sorvegliare e proteggere chi era rimasto fino ad allora ai margini
della comunità veneziana nell’Impero ottomano. L’abbandono del
26
Ivi, b. 117, 20 gennaio 1672, 28 settembre 1672, 29 settembre 1672, 22 ottobre
1672, 15 luglio 1673; ivi, b. 119-II, f. 8, 24 maggio 1680, 14 maggio 1680.
27 Ivi, b. 129, f. 4, docc. 29 (1 ottobre 1710), 35 (25 novembre 1710), 81 (1 novembre 1713).
69
Il ruolo delle risorse legali nelle dispute d’identificazione
vecchio concetto di «nazione» come corpo di mercanti sembrerebbe
perciò riflettere il tentativo dei consoli di esercitare i diritti di sovranità su tutti gli immigrati veneti. Ciò mostrava inoltre non solamente
una convergenza di interessi, ma un coinvolgimento attivo e trasversale da parte di diversi strati sociali della popolazione a ottenere
un’identificazione che riconoscesse i privilegi caratteristici della giustizia d’antico regime.
La natura della vicenda rivela anche quanto importante fosse la
consuetudine per l’attuazione dell’identificazione scritta e orale.
L’identificazione dei müste’min, avvenuta per iscritto nelle cancellerie
consolari ma solo oralmente con i ministri ottomani, non produceva
duraturi effetti giuridici nell’attribuzione dei privilegi rivendicati. Le
Capitolazioni fornivano il quadro giuridico garantendo ai migranti
protetti da Venezia la libertà di movimento e la difesa da pratiche di
riconoscimento ritenute ingiuste, ma il meccanismo per assicurare la
loro realizzazione, non essendo formalmente definito nell’ahdname,
richiedeva una costante rinnovazione e approvazione. In questo
modo, similmente a quanto già dimostrato da un recente studio
sull’identificazione degli eredi legittimi, il riconoscimento degli stranieri privilegiati avveniva attraverso una continua “manutenzione”
e poteva essere determinata attraverso sistematiche interazioni orali
e scritte tra i rappresentanti veneziani e le autorità ottomane
[BUONO 2015].
L’identificazione nell’Impero ottomano dei migranti provenienti
dalle zone di frontiera non era inoltre nuova alla contesa, specialmente qualora questi immigrati fossero di origine greca; sembrerebbe infatti che da inizio Seicento queste dispute si ripetessero abbastanza di frequente e che continuassero almeno fino a inizio Ottocento, quando al posto del supporto dell’ormai caduta Serenissima
(1797) gli ex sudditi veneti ricevettero la protezione dalla nuova Repubblica Settinsulare [GOFFMAN 2007; VEINSTEIN 2006; PA-
70
UMBERTO SIGNORI
GRATIS 2012]. A tal proposito è degno di nota che secondo le testimonianze dei consoli veneziani di Chios e Smirne coloro che premevano di più per identificare i sudditi marciani come reaya non fossero gli haraçcı inviati dalla capitale, ma gli agenti locali come il governatore, il capo della polizia e, soprattutto, la comunità dei greci lì
residente28. Il profilo dello straniero privilegiato nell’Impero ottomano di età moderna sembrerebbe quindi essere in gran parte formulato dalle autorità e dagli abitanti del luogo, i quali definivano con
chi accettare di condividere lo spazio di frontiera e di formare dei
legami sociali, e che determinavano se i loro legami con le persone
in transito dovessero caratterizzarsi dall’ospitalità o l’ostilità. Nonostante i continui tentativi marciani di ottenere un appoggio dalla
corte imperiale, a garantire e autentificare l’identità degli immigrati
non era l’intervento dello Stato centrale, ma le pratiche collettive
locali elaborate attraverso l’interazione sociale degli attori lì residenti.
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28
Ivi, b. 117, 5 giugno 1672, 3 ottobre 1672, 17 novembre 1672, 22 ottobre 1672;
ivi, b. 129, f. 3, 3 luglio 1711.
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74
Identificazione, riconoscimento,
registrazione:
Il Regolamento Cavour del 1860
di Gaetano Morese
Nel volume Identification and Registration practices in transnational perspective. People, Papers and Practices, Caplan e Higgs si interrogano in prospettiva storica sulle pratiche di identificazione, riconoscimento e
registrazione degli individui, considerando i fattori fisici, quelli sociali e legali nella costruzione di un’identità certificata e socialmente
accettata. Fondamentali per i due studiosi sono i luoghi, i documenti
prodotti e utilizzati, le prassi amministrative e burocratiche, il ruolo
del potere, dell’autorità, della decisione, della comunità e del singolo
nel processo d’identificazione e riconoscimento [CAPLAN/
HIGGS 2013]. Se l’identità attiene alla sfera personale, l’atto
dell’identificazione, invece, comporta delle categorizzazioni nel riconoscimento che possono essere quantitative, quando enumerano,
e qualitative, quando comprendono aspetti caratterizzanti. Identità
assolute, relative, diacroniche, diatopiche, separate dall’identità del
soggetto sono il prodotto di un processo che considera non solo i
caratteri fisici, quantitativi e percepibili, alla base dell’identità biologica ma anche fattori sociali, psicologici, comportamentali, immateriali, discrezionali e non quantificabili [GEACH 1967]. Si entra così
nella sfera personale e intima del soggetto la cui volontà o resistenza
all’identificazione è parte della dialettica tensione negoziale fra costrizione, obbligo, controllo, riconoscimento e attribuzione di diritti
[COLE 2013]. Lo Stato si è dotato di una articolata struttura che
identifica, registra, documenta e certifica le persone nel più generale
Identificazione, riconoscimento, registrazione
processo di formazione storica dei suoi apparati. Contemporaneamente la società democratica adotta progressivamente delle categorie e delle identità di cittadinanza nella dinamica costruzione della
collettività che, fra integrazione politica e sociale, viene attraversata
da fenomeni di coesione e divisioni prodotti da questi processi identificativi [DARDY 2013]. Ad amministrare le pratiche di riconoscimento è storicamente una burocrazia portatrice di una propria cultura, individuale come istituzionale, le cui discrezionalità e potere,
influenzate soprattutto dalla variabile economica, influiscono sul
processo d’interazione fra identificato e identificatore e, conseguentemente, anche sulla produzione della documentazione ufficiale,
spesso dai confini labili e con dati ambigui e parziali che favoriscono
l’incertezza dell’identità [SZRETER 2013]. In questo articolato e
complesso scenario, richiamando le tesi di Noirel, proveremo a verificare come venne applicato il processo di identificazione e riconoscimento nel primo decennio unitario dello stato italiano, in base
al Regolamento Cavour sulla prostituzione, servendoci in particolare
della documentazione archivistica della provincia di Basilicata [NORIEL 2007].
Nel 1855 Cavour promosse un regolamento sulla prostituzione
per la città di Torino che, riprendendo quelli di Bruxelles, Londra e
Parigi, introduceva l’identificazione e la registrazione delle prostitute
per tutelare la salute e l’ordine pubblico [LECOUR 1877; HARSIN
1985; DE SCHAEPDRIJVER 1986]. Durante l’unificazione italiana
fu introdotto un regolamento per contrastare le epidemie veneree
nell’esercito, al cui seguito numerose erano le prostitute. Approvato
senza discussione parlamentare il 15 febbraio 1860, il così detto Regolamento Cavour fu esteso con la proclamazione del Regno d’Italia
all’intera penisola e da militare divenne normativa civile nazionale,
rimanendo in vigore fino al 1888. Il Regolamento disciplinava la
pubblica sicurezza che, dipendente dal Ministero dell’interno, era
76
GAETANO MORESE
preposta anche al contrasto della prostituzione clandestina per tutelare l’ordine, la morale e la salute pubblica. Il Regolamento, inoltre,
istituiva gli uffici sanitari locali per controllare la prostituzione pubblica e l’amministrazione periferica che, così strutturata, si avvaleva
delle competenze e responsabilità di questori, delegati e guardie di
pubblica sicurezza, ispettori, medici, sifilicomi [GHIRELLI 1869].
La prostituta era definita come la donna che notoriamente si concedeva sessualmente per lucro, clandestina se lo faceva illegalmente,
pubblica se rispettava il Regolamento ed esercitava in case di tolleranza approvate o era autorizzata a prostituirsi isolatamente in abitazioni. La prostituta si registrava volontariamente o lo era d’ufficio
a seguito di denunce, prove, verifiche in un processo che comportava molteplici variabili. La registrazione, motivata da un verbale,
comportava l’inserimento in appositi registri dei dati anagrafici e fisici, dello stato civile, professione, residenza della prostituta identificata. Contestualmente alla registrazione la donna, riconosciuta ufficialmente come prostituta, veniva sottoposta a una visita medica
per verificare la presenza di malattie veneree. La meretrice, privata
dei documenti identificativi personali, riceveva un libretto che, oltre
all’identità, ne certificava lo status di prostituta pubblica. Il libretto
era così un documento identificativo con generalità connotative, riportava stampati gli articoli del Regolamento attinenti alla prostituta,
indicava inoltre la casa di tolleranza di assegnazione o l’abitazione
privata d’esercizio unitamente alle visite sanitarie svolte con i relativi
esiti. Identificata e riconosciuta dall’ufficio, volontariamente, a seguito di denuncia o dopo essere stata visitata, la donna “librettata”
poteva modificare la sua nuova “identità regolamentata” dichiarando di voler desistere dalla prostituzione pubblica. La prassi prevedeva che dopo il superamento di alcuni controlli per verificare la
salute della donna, questa fosse cancellata dal registro, rendesse il
libretto e riacquistasse la propria precedente identità. Il Regolamento prescriveva quindi la rinegoziazione del riconoscimento
77
Identificazione, riconoscimento, registrazione
come prostituta adducendo, come motivazioni, l’inconsapevolezza
delle conseguenze legali e sociali della registrazione, l’essere stata indotta da altri a prostituirsi o nel caso in cui realmente la donna decideva di abbandonare tale attività per motivi personali o perché in
procinto di sposarsi. Per modificare la propria identità di prostituta
la donna doveva palesarne l’intenzione alle autorità di pubblica sicurezza, dichiarando loro residenza e mezzi di sostentamento o il nominativo dell’uomo che, facendosi carico della donna, ne diveniva
responsabile, ottenendo così la dispensa dalle visite sanitarie. Se la
donna decideva di abbandonare la prostituzione perché prossima al
matrimonio veniva visitata settimanalmente per tre mesi dall’ufficio
sanitario che, verificando l’assenza di malattie e che non si era prostituita, procedeva a cancellarla dal registro. La donna dispensata
dalla visita o cancellata dai registri qualora fosse stata trovata infetta
o che aveva ripreso a prostituirsi clandestinamente era punita e registrata nuovamente.
Il processo che identificava una donna come prostituta costruiva
e attribuiva a una determinata identità anche un preciso status sociale che comportava delle forme di segregazione spaziale e delle
limitazioni dei diritti. La prostituta, infatti, per cambiare la propria
residenza era obbligata a richiedere e ottenere una particolare autorizzazione dalla pubblica sicurezza, così come per le variazioni di
domicilio o se doveva allontanarsi per più di tre giorni dalla città di
residenza. Inoltre era obbligata a subire visite sanitarie, le era vietato
di mostrarsi alle finestre e di sostare sull’uscio dell’abitazione, non
poteva frequentare piazze, pubblici passeggi, teatri ed era soggetta a
un restrittivo coprifuoco serale. Quando le donne entravano nelle
case di tolleranza le registravano nei propri registri e ne denunciavano l’ingresso all’ufficio sanitario, mentre la prostituta che veniva
congedata dalla casa o decideva di abbandonarla era tenuta ad aggiornare la propria posizione presso l’ufficio e sul libretto personale.
78
GAETANO MORESE
Per motivi igienico-sanitari la prostituta registrata era soggetta a visita obbligatoria due volte a settimana nelle case di tolleranza, a domicilio o nell’ufficio sanitario, gratuitamente o a pagamento, mentre
la mancata visita senza motivo comportava oltre alla visita coatta
anche misure coercitive. Se la visita riscontrava delle malattie la prostituta veniva assegnata al sifilicomio e registrata fra le malate indicando il tipo di patologia. Una volta dimessa era tenuta a presentare
un certificato medico all’ufficio sanitario a cui dichiarava il proprio
domicilio e che le rendeva il libretto personale ritirato al momento
del ricovero. Uffici sanitari e pubblica sicurezza attraverso questa
prassi produssero registri e fascicoli personali di ogni donna, prostituta o sospettata, gestirono i rapporti con i bordelli e sifilicomi, la
riscossione delle tasse su visite, libretti e case di tolleranza. Identificazione, riconoscimento e registrazione della prostituta in base al
Regolamento avvenivano formalmente per esplicita volontà, ma
spesso quando una donna veniva colta in flagranza di adescamento
o di atti sessuali, era sospettata o denunciata, veniva arrestata o condotta nell’ufficio per essere visitata. In realtà era illegale visitare una
sospettata, essendo obbligatorio sottoporre a controllo sanitario
solo la prostituta già registrata, ma spesso proprio una visita che rilevava una malattia era un ulteriore motivo per la registrazione d’ufficio. Il confine identificativo fra una prostituta e una donna infetta
era labile e spesso automatica era la relazione fra malattia e attribuzione di un’identità certificata e regolamentata dalla burocrazia che
produceva una patente ufficiale che abilitava alla prostituzione legale
e igienicamente garantita. Fondamentale diveniva così il ruolo dei
funzionari la cui indulgenza «[...] può recare offesa ai buoni costumi
e all’igiene pubblica, la smodata severità può turbare irreparabilmente la pace e l’onore delle famiglie» [GHIRELLI 1869, p. 459].
Vi era però differenza fra una
79
Identificazione, riconoscimento, registrazione
donna disonesta che si abbandona al vizio non è ancora una
meretrice, dovendosi distinguere la condotta viziosa e dissipata dalla pubblica prostituzione. La prima alimenta l’altra, e
segna il passaggio dalla vita onesta a quello stato di turpe abbiezione che è costituito da abitudini costantemente e pubblicamente scandalose. Non vi ha dunque pubblica prostituzione senza un concorso legalmente constatato di circostanze e di abitudini scandalose costantemente pubbliche che conferiscono all’autorità il diritto d’interporre la sua azione a tutela dell’igiene,
della morale, e del costume pubblico [GHIRELLI 1869, p.
460].
Ovviamente nel suo agire a favore della società attraverso l’identificazione della prostituta lo stato italiano andava a ricoprire un ruolo
preciso considerando che
Iscrivere nei registri una donna con tutte le formalità e precauzioni volute dalla legge non è già schiudere a quella sventurata la via del vizio e favorirne la dissolutezza, ma è procacciarsi i mezzi di esercitare su di essa una sorveglianza tutelare, gli è dare all’amministrazione il modo di ricercare e di
restituire alle proprie famiglie quelle giovani che hanno potuto essere vittime di una insidia, che non sono pervertite,
che fuggono forse per vergogna gli sguardi dei loro genitori,
e che abbandonate in piena balìa di se stesse finirebbero di
corrompersi e degradarsi [GHIRELLI 1869, 460].
Correggere e sorvegliare l’intimità familiare sconvolta dalla prostituzione rientrava dunque fra le attribuzioni dello stato impegnato a
fronteggiare socialmente il disgregarsi delle istituzioni tradizionali a
causa della modernizzazione e dello sviluppo urbano [DONZELOT 1979]. Utilizzo del buon senso era così richiesto nel registrare
le minori spesso indotte da altri al mal costume, suggerendo ai funzionari di favorirne il rientro in famiglia o affidarle a istituti pubblici
80
GAETANO MORESE
assistenziali, concedendo inoltre discrezionalità nel poterle riconoscere come oziose per evitare di identificarle come prostitute. Oltre
ai fattori materiali che contribuivano a riconoscere una donna come
prostituta, come la visita medica che certificava la malattia e attribuiva una identità qualitativa, come ricordato spesso si registravano
le prostitute per denuncia o segnalazione. La donna non raramente
rifiutava il libretto, dichiarava di essere vittima di maldicenze, protestava perché registrata a seguito dei reclami di vicini sospettosi delle
frequentazioni notturne. Anche i mariti denunciavano le donne
dopo aver scoperto un tradimento o per esercitare pressioni, mentre
le sospettate prostitute denunciavano per vendetta altre donne, ritenute protette dall’autorità perché appartenenti ad altro ceto sociale1.
Nella prassi prefetture e sottoprefetture usavano i rapporti di pubblica sicurezza e carabinieri per confermare le accuse, frequenti ricoveri avvaloravano i sospetti, ma non raramente le donne erano
cancellate dopo indagini senza riscontro2. I sindaci segnalavano presunte prostitute in base ai comportamenti: tendenza dall’infanzia alla
lascivia per sostenersi, dissolutezza, l’acconsentire con piacere alle
richieste altrui, l’indigenza, l’essere separate dal marito. Spesso i sindaci, rilevando il fenomeno, dichiaravano l’assenza di pubbliche
prostitute e la presenza solo di clandestine difficilmente identificabili
in quanto donne che si concedevano privatamente, spesso coniugate, mentre in presenza di malattie veneree si presumeva un contagio nei paesi limitrofi3. La pubblica sicurezza incontrava le reticenze
di militari e i silenzi di borghesi, rilevava la prevalente estrazione
sociale inferiore delle presunte prostitute. In città il controllo della
prostituzione poteva considerarsi utile all’igiene e alla morale, mentre in piccoli centri l’istituzione dell’ufficio sanitario per le prostitute
1
Archivio di Stato di Potenza (ASPz), Pubblica Sicurezza (PS), busta (b.) 4, categoria (cat.) d, 1864.
2 ASPz, PS, b. 16, cat. 14, 1870.
3 ASPz, PS, b. 8. cat. d, 1866.
81
Identificazione, riconoscimento, registrazione
avrebbe provocato problemi considerando che su circa venti presunte prostitute solo quattro erano nubili e corrispondevano ai parametri del regolamento4. Le donne disertavano le visite, il numero
delle sospettate oscillava quotidianamente, la registrazione nonostante la protesta delle donne proseguiva per non inficiare l’autorità
di stato, funzionari e regolamento. Non raramente le proteste delle
donne, che in piccoli comuni potevano sfociare in tumulti, portarono alla sospensione delle visite. Le donne ritenevano che vi fosse
un pregiudizio di fondo nelle procedure, riscontrando un alto numero di sospettate non verificate o prive del requisito di notorietà.
Nella percezione del tempo il prefetto di Basilicata distingueva fra
la prostituta pubblica che rientrava nei parametri del Regolamento,
quella clandestina che invece esercitava fuori norma e la mantenuta
che si prostituiva in una forma non pienamente contemplata dalla
legge ma venendo considerata e riconosciuta come variante da identificare5. Un sottoprefetto lucano, elogiando l’opera della pubblica
sicurezza locale specificava come
fra le prostitute inscritte, non ve ne figura alcuna di condizione civile, e ciò non perché fra questa popolazione, che i
preti hanno corrotta al più allo segno, non ve ne siano; ma
perché la resistenza ostinata che si oppone, alle misure che i
Funzionari di P.a S.a intendono adottare al riguardo [...]
rende vani i loro sforzi, mentre sibbene persuasi che alcune
donne indiziate di clandestina prostituzione esercitino effettivamente il meretricio; pure mancando gli estremi voluti
dalla legge non possono iscriverle d’ufficio6.
L’apparato statale controllava igiene, moralità e mobilità di donne
fuori dagli schemi sociali accettati le cui identità fluttuavano, erano
4
ASPz, PS, b. 5. cat. d, 1864.
ASPz, PS, Corleto, b. 5, 1867; b. 6, 1868.
6 ASPz, PS, b. 15, cat. 14, 1867.
5
82
GAETANO MORESE
separate dalla comunità dominante e il loro ruolo era ufficialmente
identificato dal libretto. Indesiderata ma necessaria alla comunità, la
prostituta prendeva coscienza della sua nuova identità costruita da
un regolamento che rispecchiava un apparato burocratico e un meccanismo sociale, rimanendo libera di accettare, rifiutare o servirsi di
questa identità [D’ARMENTO/LAPASSADE 2007]. Il libretto diveniva strumento di interazione con le autorità statali, attribuiva un
ruolo sociale sanzionando la negazione di diritti, mentre la registrazione e soprattutto la possibilità di cancellarsi diveniva una opportunità [CAPLAN/TORPEY 2001]. Il regno italiano identificava, riconosceva e registrava i suoi cittadini fondando un rapporto con
differenti livelli di autorità. [HIGGS 2011; DENIS 2008; GROEBNER 2008; TORPEY 2000; DARDY 1998]. Nel riconoscere le prostitute il Regolamento entrava nell’intimità personale, palesando e
istituzionalizzando pratiche e comportamenti privati propri della
complessa dinamica sociale che lo stato italiano voleva burocratizzare e amministrare [ABOUT/DENIS 2010; PIAZZA 2004]. Il
processo identificativo, dal livello fisico a quello comportamentale e
relazionale, tutelava evidentemente una parte della comunità costruendo e disgregando identità attraverso forzature, pregiudizi e
non raramente falsità. L’identità soggettiva veniva così ridefinita fra
la consapevolezza costante di sé stessi, il riconoscimento da parte di
altri e un apparato burocratico statale che legalmente e istituzionalmente operava. Nell’ambiguità fra chi si “supponeva” fosse e chi era
“provato” che fosse, il libretto era attestazione ufficiale e la sua accettazione, o rifiuto, palesava la consapevolezza del suo valore legale
e sociale e delle relative conseguenze. «The power of papers to transform or create people rather than simply verify them is recognized
by social scientists and historians» (GRIFFITHS 2013, 295). Nel
piccolo centro lucano di Lagonegro il sottoprefetto nel 1865 affermava che
83
Identificazione, riconoscimento, registrazione
le donne di questo paese specialmente nell’infima classe
come non sono difficili a darsi alla prostituzione, cosi sono
oltre ogni dire restie a prendere la libretta. Questa riluttanza
dipende dall’educazione e dal calcolo. Educate da preti che
fanno consistere la religione nel denaro e bigottismo e in un
apparato esterno che seduca la pubblica opinione, docili ne
osservano le massime e ne imitano la condotta. La libretta
essendo un documento legale della colpa, e, un ostacolo al
matrimonio, come che, non manchino esempi di tolleranza
con donne che ne fussero munite alle quali si giurò, fedeltà,
di marito. L’ipocrisia e le cautele nell’esercitare il meretricio
non bastando a sottrarle alle investigazioni degli Agenti di
P.a S.a avvenne spesse volte che nelle riputate oneste si rintracciarono donne di ogni età, generose di favori accordati
non a un solo ne, a pochi, e nelle più, ricalcitranti si trovò,
radicata e talvolta cronica la sifilide conseguenza di continuato commercio: avvenne che queste prima ricalcitranti,
poscia pieghevoli alla legge presero il libretto continuando in
seguito, sebbene con minor circospezione, il meretricio7.
A introdurre nel Mezzogiorno pratiche e documentazione identificativa delle persone, soprattutto quando pericolose come le prostitute, furono i francesi agli inizi del XIX secolo con lo stato amministrativo che controllava, conosceva e sorvegliava secondo un modello che esportarono nel Mediterraneo anche nel differente contesto egiziano [ANTONELLI 2014; DI FIORE 2013a, 2013b;
FAHMY 2012; MERIGGI 2000]. Vi era così la difficoltà di dimostrare di essere chi si affermava di essere, non ci si riconosceva in
un’identità imposta e regolamentata da una procedura che frammentava e negava le individualità. Questa ingegneria delle identità marginalizzava le caratteristiche fisiche, eccezion fatta per i segni delle
malattie, assecondando dissimulazioni e falsificazioni sia politiche
7
ASPz, PS, b. 8, cat. d, 1865.
84
GAETANO MORESE
che sociali che nel processo d’interazione fra le parti costruiva o eludeva l’identificazione [GIBSON 1995]. L’instabile identificazione e
registrazione delle prostitute nell’interazione e costruzione della cittadinanza, fra canali spesso non ufficiali o attendibili, processi di negoziazione collettiva e individuale, assetti sociali e diritti individuali,
attribuiva alla reputazione personale un valore fondante dell’identità. Le risposte sociali e individuali del riconoscimento come prostituta si basavano, quindi, sulla possibile connessione a situazioni
di devianza o criminalità. La donna veniva riconosciuta e identificata
come prostituta per sua spontanea ammissione, per gli aleatori requisiti di notorietà e fama, per segnalazioni e denunce a causa del
“disagio” che provocava per il suo comportamento non accettato, o
per la materiale prova di una malattia sessuale contratta (ma che
spesso non lo era). L’identità di prostituta, come molte altre identità,
era così il prodotto di un complesso processo che nell’incertezza dei
primi anni unitari si muoveva fra uno stato in via di formazione e le
varie comunità locali. Come scrive Buono
la fecondità della distinzione concettuale tra procedura di
identificazione e procedura di registrazione [...] appare di
estrema evidenza: l’operazione della registrazione non era
affatto appannaggio dell’autorità identificatrice, fosse essa
laica o ecclesiastica, ma rifletteva in primo luogo quello che,
con una terminologia presa a prestito dall’antropologia, si
direbbe un “rituale performativo”, attraverso il quale, in un
contesto di estrema incertezza dei diritti di proprietà e persino della stessa identità personale, gli abitanti di una comunità rendevano pubblica e registravano nella memoria
dei propri vicini una certa situazione di fatto [BUONO
2014, p. 113].
La costruzione dello stato borghese con i suoi valori e le sue normative si intrecciava con pratiche sociali diffuse che, fino a quel mo-
85
Identificazione, riconoscimento, registrazione
mento, non erano state codificate ufficialmente. La governmentality diveniva così una forma di potere statale basata sul benessere della
popolazione che tramite riconoscimento, registrazione, documentazione e conoscenza contribuiva all’elaborazione di differenti culture
[SZRETER/BRECKENBRIDGE 2012; DEAN 1999; FOUCAULT 1991]. Riconoscere e registrare prostitute fu strumento di
marginalizzazione sociale tramite l’apparato statale, contribuì a definire una gerarchia sistematizzata e codificata dallo stato entro le comunità urbane o rurali. Alla prostituta fu attribuita una funzione di
equilibrio sociale riconosciuta, accettata e regolamentata sia dallo
stato che dalla società, in una politica di controllo sociale e sanitario
operante dall’alto con gli apparati burocratici e dal basso con il contributo dei cittadini [BABINI/BECCALOSSI/RIALL 2015; CANOSA 1981]. Le procedure del Regolamento facevano emergere
anche comportamenti sessuali e sociali che facilmente potevano essere assimilati alla prostituzione ma che mancavano del fondamentale aspetto del lucro, come nel caso di donne trovate infette per
aver tradito il marito con un malato o sol perché dedite a più frequentazioni maschili8. Il Regolamento identificava “soggetti” da sorvegliare e assistere nell’interesse igienico-sanitario pubblico e della
sicurezza sociale, ritagliando confini sociali e giuridici nell’accettazione di ruoli e attività socio-economiche, concedendo però una
fluidità di applicazione sia per gli identificatori che per gli stessi identificati. Ancora una volta illuminanti sono le considerazioni del
Buono:
feconde prospettive di ricerca, in particolare, mi sembrano
l’indagine dei nessi esistenti tra le procedure di identificazione e di registrazione dell’identità e lo sviluppo dei sistemi
di assistenza e sicurezza sociale […] tra il riconoscimento sociale e giuridico della membership e le forme di inclusione e
8
ASPz, PS, Tolve, b. 1, cat. 12, 1864.
86
GAETANO MORESE
di esclusione dal godimento delle risorse comunitarie materiali e immateriali. […] identificare e registrare per sorvegliare
e costruire soggetti e, al tempo stesso, per attribuire o negare
appartenenza e accesso alle risorse [BUONO 2014, p. 120].
La negoziazione fra le parti contemplava, indirettamente, un dinamico accesso a forme d’assistenza per le prostitute che potevano
cancellarsi dopo aver usufruito delle cure e dell’assistenza gratuita
messa a disposizione dallo stato. Molte donne erano registrate come
prostitute e se trovate infette alla visita erano assegnate al sifilicomio,
ma una volta guarite e dimesse avviavano le procedure per essere
cancellate, dichiarando di voler abbandonare la prostituzione, fino a
essere cancellate dai registri. Non raramente poi fu possibile accedere alle cure gratuite da parte di giovani donne fatte ricoverare gratuitamente nei sifilicomi su iniziativa dei sindaci senza essere registrate. Tale pratica portò però la prefettura a richiamare i propri funzionari invitandoli a non concedere a donne l’assistenza gratuita statale che, invece, era esplicitamente accordata alla sole prostitute registrate9. Inclusione ed esclusione, all’interno di più articolati processi di resistenza o di avvicinamento alla modernizzazione, dipendevano anche dallo sviluppo di procedure di identificazione e da sistemi di sicurezza e assistenza sociale gratuita per la popolazione,
embrionali forme di un futuro welfare statale [ROSENTAL 2012].
Mentre lo stato applicava le sue politiche di controllo e sorveglianza
servendosi dei sistemi di identificazione e registrazione, mentre la
società borghese portatrice di propri valori si affermava, limitando
libertà e diritti delle prostitute; paradossalmente le donne, invece,
utilizzavano la loro identità come prostitute per approfittare dell’assistenza gratuita e godere, così, di una particolare forma di cittadinanza dello stato liberale. Emerge, benché in base a una parziale ma
9
ASPz, PS, b. 8. cat. d, 1865.
87
Identificazione, riconoscimento, registrazione
abbastanza indicativa visuale dell’identificazione attraverso il Regolamento Cavour, una società complessa caratterizzata da identità,
cultura, comportamenti, sessualità, malattie, interessi che si struttura
attraverso la formazione di gruppi omogenei entro delle gerarchie.
La documentazione prodotta dagli uffici sanitari palesa inoltre
come non poche furono le donne che diedero alle autorità false generalità a dimostrazione dell’estrema fluidità dell’intero processo
d’identificazione e della consapevolezza del valore di una identità.
Inoltre ci sono molti casi di prostitute regolarmente registrate e munite di libretto che però ai controlli della pubblica sicurezza erano
risultate prive della documentazione o dei permessi di circolazione.
Gli uffici sanitari provvidero a comporre così fascicoli personali per
ciascuna prostituta per seguirne non solo i movimenti sul territorio
ma in alcuni casi anche la variazione d’identità a seguito del rilascio
di false generalità. Fascicolo di prostitute locali, di quelle provenienti
da altre province e di prostitute definite “non iscritte”, inoltre, testimoniano come l’intera prassi degli uffici sanitari e di pubblica sicurezza applicassero un loro processo interno di verifica e controllo
che spesso lasciava margini discrezionali prima e dopo il riconoscimento e la registrazione. Quantitativamente il numero di registrate
e cancellate dai registri di pubblica sicurezza, così come il numero di
ricoverate e dimesse dai sifilicomi, fu sostanzialmente costante
all’interno di un fenomeno che soprattutto nel Mezzogiorno era
strettamente correlato alla presenza dell’esercito schierato contro il
brigantaggio. L’eccessiva registrazione di prostitute e l’alto numero
di ricoveri destava anche sospetti nelle autorità governative che a
ragione ritenevano l’espansione della prostituzione dipendente dai
ritorni economici a essa direttamente collegati, piuttosto che dai
comportamenti sessuali della popolazione. Infatti un maggior numero di prostitute registrate o di ricoverate comportava, conseguentemente, un più elevato volume di tasse riscosse, fra case di tolle-
88
GAETANO MORESE
ranza e visite mediche, e un maggior contributo agli enti convenzionati con lo stato in sussidi per le cure gratuite nei sifilicomi da loro
gestiti. La volontà di sapere e di potere dello stato italiano post-unitario trovò nel Regolamento Cavour una sua forma d’espressione
con pratiche di riconoscimento e identificazione particolari, fu strumento di controllo dell’inurbamento delle popolazioni rurali, di tutela della morale, dell’ordine pubblico e della salute, ma contribuì
anche alla formazione di una coscienza di cittadinanza e del valore
dell’identità in uno stato e in una società in formazione.
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93
Alle origini delle tecniche
di controllo
Identificazione e sorveglianza nell’Italia liberale
dall’Unità alla Grande guerra
di Michele Di Giorgio
Le teorie, le pratiche e gli strumenti di identificazione polizieschi
sono stati ampiamente studiati in contesto europeo e americano; talvolta in ottica comparata e transnazionale1. Anche in Italia negli ultimi anni si sono avuti contributi interessanti che hanno affrontato,
in linea con molti studi internazionali, la storia dell’identificazione
nel lungo periodo, senza limitarsi alla sola contemporaneità2.
Nelle pagine che seguono cercheremo di dar conto del dibattito
che si svolse (nel periodo compreso tra l’Unità e la Grande Guerra)
all’interno della Pubblica Sicurezza intorno alle tecniche di sorveglianza, di controllo e di identificazione dei criminali e delle classi
pericolose. Lo faremo rileggendo la principale e più longeva rivista di
polizia dell’Italia liberale: il “Manuale del funzionario di sicurezza
pubblica e di polizia giudiziaria”3, fondato e diretto da Carlo
1
Tra i tanti lavori sul tema è necessario ricordare almeno:
ABOUT/BROWN/LONERGAN 2013; ABOUT/DENIS 2010; HIGGS 2013;
COLE 2001. Importanti sono anche gli studi condotti nel contesto latinoamericano, si vedano ad esempio: GARCÍA FERRARI 2015; GALEANO 2018. Non
esclusivamente centrato sulle questioni connesse all’identificazione ma comunque
fondamentale è: Clive EMSLEY 2007. Sulle polizie dell’Italia liberale è bene ricordare almeno: DAVIS 1989; JENSEN 1991; DUNNAGE 1997.
2 Ci riferiamo soprattutto al lavoro di studio svolto grazie alle iniziative del Centro
interuniversitario di studi Le Polizie e il Controllo del Territorio: www.cepoc.it. Si
veda, ad esempio, ANTONIELLI 2014.
3 Da qui in avanti chiameremo la rivista di Astengo col nome abbreviato di “Manuale”.
Alle origini delle tecniche di controllo
Astengo4. Per cinquant’anni – dal 1863 al 1912 – questo periodico
svolse un ruolo cruciale nella formazione e nell’aggiornamento giuridico, tecnico e scientifico di gran parte dei funzionari di polizia
dell’Italia liberale. Oltre che di legislazione e giurisprudenza la rivista
si occupò della diffusione e della sistematizzazione dei saperi di polizia, informando costantemente i suoi lettori (che la redazione identificava con i poliziotti dell’Italia liberale). Nel complesso delle conoscenze professionali soprattutto dei funzionari di polizia (e, in
prospettiva, delle semplici guardie) le questioni connesse all’identificazione e alla sorveglianza degli individui furono sempre centrali.
Il giornale non mancò di prestare la dovuta attenzione allo sviluppo
che gli strumenti polizieschi conobbero parallelamente ai progressi
della scienza e della tecnologia, volgendo lo sguardo non soltanto al
contesto italiano ma anche alle innovazioni introdotte negli altri
paesi europei [LABANCA/DI GIORGIO 2015].
Quando due giovani e sconosciuti applicati al Ministero dell’Interno – Carlo Astengo e Luigi Gatti – dettero alle stampe il primo
fascicolo del “Manuale”, l’Italia era unita da soli tre anni. Faticosamente si stavano riorganizzando, oltre all’intero apparato statale,
delle polizie in grado di controllare il territorio e governare il Paese
nel suo complesso al di là delle sue notevoli differenze regionali
[MELIS 1996; TOSATTI 2009]. Sin dai suoi primi mesi di vita il
giornale riservò particolare attenzione al controllo di quelle categorie sociali ritenute in qualche modo a rischio o pericolose per la vita
del nuovo Stato unitario.
A livello di segnalamento, pochi anni dopo l’Unità, in assenza di
strumenti particolarmente evoluti, si faceva ricorso a semplici
schemi per la descrizione dei connotati del fermato. Ad esempio, nei
Carlo Astengo (Savona 1837 – Roma 1917), entrato giovanissimo nell’amministrazione pubblica (come aspirante volontario nella prefettura della sua città),
ebbe una lunga carriera nelle istituzioni. Ricoprì, tra i molti incarichi importanti,
le cariche di prefetto, consigliere di Stato e senatore del Regno [LABANCA/DI
GIORGIO 2015, pp. 89-90; MELIS 2006, pp. 467-471].
4
96
MICHELE DI GIORGIO
fac-simile dei verbali di arresto una breve nota biografico-fisica conteneva soltanto informazioni sommarie su «età […] – statura […] –
corporatura – capelli – ciglia – occhi – fronte – naso – bocca –
mento – barba – viso – colorito» e «marche particolari»5.
Una descrizione dei connotati siffatta non era certo all’avanguardia: esisteva da molto tempo ed era imprecisa. La poca utilità del
sistema si palesava non soltanto nella sua inefficacia nell’identificazione dei ricercati, ma anche nella stessa fase di compilazione: essa
poteva variare molto a seconda dell’individuo che si apprestava a
compilare la nota. Difatti già nel 1867, parlando dell’organizzazione
della polizia in Francia (che assieme all’Inghilterra [HUGHES 1996]
fu la principale pietra di paragone per i poliziotti italiani) si ravvisava
la necessità di dotarsi di un nuovo più complesso – ma anche di più
rapida consultazione – meccanismo di schedatura, simile a quello
con cui la polizia francese teneva memoria di tutti i condannati e
della loro storia penale6.
Proprio per rispondere all’esigenza di controllare maggiormente
le categorie ritenute pericolose per la società, comparvero le prime
proposte di schedatura (anche) attraverso il mezzo fotografico. I
«malfattori», si scriveva nel 1875, iniziavano ad avere una nuova mobilità territoriale, dovuta alla «cresciuta facilità dei mezzi di comunicazione». In assenza di un sistema di controllo organizzato su base
nazionale, e non soltanto locale, risultava difficile identificare i criminali e soprattutto seguirli nei loro spostamenti7. Molto probabilmente fu proprio questa nuova e aumentata mobilità dei delinquenti
a spingere l’Amministrazione di PS (ma anche gli stessi funzionari)
a studiare e a ricercare sistemi e tecniche d’identificazione sempre
Modelli di processi verbali, in “Manuale”, a. IV (1866), p. 49.
Cenni sull’ordinamento dei servigi di pubblica sicurezza in Francia, in Ivi, a. V (1867), pp.
61-64.
7 Proposte di riforme nell’Amministrazione di Pubblica Sicurezza, in Ivi, a. XIII (1875),
pp. 57-60.
5
6
97
Alle origini delle tecniche di controllo
più efficaci e precisi8. «La delinquenza», come scrisse nel 1886 Giuseppe Alongi (funzionario molto noto e autore di diversi saggi sulla
criminalità)9, «progredisce a suo modo, che i mezzi rapidi di viaggio
servono tanto ai galantuomini che alle birbe, che perciò stesso in 48
ore un ladro di Palermo può comodamente fare la sua passeggiata al
Pincio o alle Cascine»10.
Prima di questa nuova mobilità criminale, che diventerà sempre
più accentuata, molti poliziotti (anche in altri contesti Europei) non
avevano evidentemente avvertito l’esigenza di fotografare i delinquenti, convinti di conoscere bene, nei diversi contesti locali, gli appartenenti alle classi pericolose [JÄGER 2001, p. 7].
Le prime notizie sulle tecniche di identificazione più moderne
giunsero dal Regno Unito. Nel 1876 uno studio di Tommaso Catalani (ambasciatore a Londra) fornì un esempio dell’efficace utilizzo
della fotografia segnaletica (utilizzata anche per accertare l’identità
di cadaveri senza nome). Secondo l’autore del saggio, la polizia inglese considerava il fotografo come «mezzo policemen [sic]»:
[È] fuori di ogni dubbio che l’arte fotografica ha recato in
questi ultimi anni improvviso soccorso e vantaggio di non
piccolo rilievo a quelli di Scotland Yard […]. Imperocché
non solamente, come ho detto in altro capitolo precedente,
tutti i malfattori in Inghilterra, appena caduti in mano della
8
Riprendiamo qui una suggestione proveniente da un recente saggio di Luigi Vergallo che descrive appunto un reciproco influenzarsi, «una circolarità» tra le prassi
criminali e quelle poliziesche. [VERGALLO 2016, pp. 35-36 e passim]
9 Giuseppe Alongi (Prizzi 1858 – Palermo 1939), attivissimo funzionario di polizia, si distinse per il suo lavoro di poliziotto e per la sua intensa attività di saggista
e studioso. Autore di una serie di volumi ed articoli sulla mafia, sulla camorra e su
diverse materie di polizia, Alongi fu un convinto seguace delle teorie degli antropologi criminali e un deciso sostenitore delle tecniche di polizia scientifica [DIEMOZ 2011, pp. 192-193; LUPO 2004, passim].
10 Giuseppe Alongi, L’identificazione dei delinquenti (sistema antropometrico Bertillon), in
“Manuale”, a. XXV (1887), pp. 270-272.
98
MICHELE DI GIORGIO
giustizia, sono accuratamente fotografati, ma, come devo aggiungere ora, i cadaveri trovati nelle strade, nelle campagne e
nel fiume, dei quali non si sappia il nome, sono, per regolamento di polizia, immediatamente fotografati11.
Il Catalani continuava auspicando un maggiore uso della fotografia
anche in Italia: «se le mie parole avessero peso, e non fossero, come
temo, buttate al vento, raccomanderei alle Questure delle varie città
italiane di non essere né restie né lente nell’avvalersi, quanto più possano della fotografia»12.
Un paio di anni più tardi il “Manuale” diede conto anche di un
proficuo utilizzo della fotografia negli uffici di polizia di Berlino. Il
riconoscimento dei pregiudicati era l’obbiettivo fondamentale del sistema messo a punto dai tedeschi: un vero e proprio «album di personaggi celebri» con migliaia di fotografie (corredate da note biografiche) organizzato in dieci “categorie criminali”13.
In Italia tuttavia l’utilizzo sistematico della fotografia segnaletica
sarebbe arrivato con un certo ritardo, almeno negli ambienti di polizia [GILARDI 2003]. In altri settori, specialmente nel campo della
fotografia psichiatrica, vi erano stati utilizzi molto più precoci ed in
linea con gli altri paesi europei [MUZZARELLI 2003, pp. 18-19].
Ancora nel 1879 infatti alcuni funzionari di PS lamentavano la
sostanziale inutilità del sistema “dei connotati” in uso nelle Note dei
catturandi, un sistema informativo periodico, diramato dal Ministero
dell’Interno a tutti gli uffici di questura e a tutte le stazioni dei carabinieri, finalizzato a «facilitare il rintraccio e l’arresto del catturando».
Il sistema dei connotati, soprattutto se non opportunamente organizzato (con criteri di valutazione uniformi e standard), poteva cacciare il funzionario (o la guardia) in un ginepraio inestricabile che
11
Tommaso Catalani, La polizia di Londra, in Ivi, a. XIV (1876), pp. 142-144.
Ibidem.
13 La fotografia al servizio della Pubblica Sicurezza, in Ivi, a. XVI (1878), p. 137.
12
99
Alle origini delle tecniche di controllo
talvolta generava equivoci dolorosi. «Chi terrà fissi nella mente i capelli biondi o castagni, le fronti alte o basse, i nasi grossi o aquilini,
le bocche larghe o storte, ecc., di migliaia e migliaia di persone?» Si
chiedeva polemicamente un anonimo nelle pagine del “Manuale”14.
A partire dal 1880, il prefetto Giovanni Bolis15 da poco chiamato
alla direzione dei servizi della Pubblica Sicurezza diede impulso ad
una prima fase di riorganizzazione dei servizi di polizia. Probabilmente tali provvedimenti furono anche una conseguenza del (fallito)
attentato al re compiuto dall’anarchico Giovanni Passannante16
[TOSATTI 1997, pp. 217-218].
Nel 1881, difatti, fu data notizia della creazione di un registro
biografico per «i pregiudicati e le persone sospette», un sistema unificato finalizzato a mettere ordine in una situazione confusa che vedeva la compresenza di diversi strumenti simili tra loro. Il nuovo
registro fu introdotto con il «Regolamento in data 10 dicembre 1881
pel servizio di sorveglianza sulle persone pregiudicate e sospette e
pel domicilio obbligatorio»17.
Con l’introduzione del nuovo sistema si ribadiva l’intenzione di
controllare e localizzare tutte le «classi pericolose di persone» fornendo anche una sorta di dato statistico per comprendere quanti
Le note dei catturandi, in “Ivi”, a. XVII (1879), p. 137.
Giovanni Bolis (1831-1884), funzionario di origine bergamasca, entrò da giovane nell’amministrazione del Regno Lombardo-Veneto. Successivamente fu nominato prima questore e poi prefetto. Resse per anni la Questura di Roma. Alla
fine del 1879 fu chiamato al vertice della Pubblica Sicurezza e vi rimase fino al
dicembre 1883 quando fu costretto a lasciare l’incarico per gravi motivi di salute.
Nel corso dei pochi anni al vertice della PS Bolis intraprese un’ampia opera di
riorganizzazione a livello centrale e periferico, impegnandosi a garantire una maggiore professionalizzazione del personale [TOSATTI 2009, pp. 62-64; MORI
2017, p. 255].
16 Nel 1878 Giovanni Passannante (Salvia di Lucania 1849 – Montelupo Fiorentino 1910) tentò di assassinare con un pugnale il re Umberto I nel corso di una
visita pubblica a Napoli [GALZERANO 2004, pp. 306-307].
17 Regolamento pubblicato in “Ivi”, a. XIX (1881), p. 270.
14
15
100
MICHELE DI GIORGIO
malfattori vi fossero «in ogni provincia, in ogni città, in ogni Comune […] e dove abitino e quanti in ogni via e in ogni contrada»18.
Si trattava di una novità molto importante, giacché fino al 1879 in
Italia non vi era stata alcuna attenzione per le statistiche criminali e
penali [GIBSON 2002, p. 6].
Nel nuovo regolamento trovò posto anche un primo sistematico
utilizzo della fotografia segnaletica ma soltanto «per i malfattori più
audaci e temibili». La parziale adozione del sistema fotografico, oltre
a rispondere ad una necessità avvertita da molti, evidenziava anche
una certa circolazione internazionale dei saperi e delle tecniche di polizia19.
Sin dall’inizio, tuttavia, la creazione di questi nuovi registri andò
a sedimentarsi su una situazione archivistica tutt’altro che efficiente.
Gli archivi di pubblica sicurezza erano talmente «disordinati e confusi» da arrecare «non poco imbarazzo e danno» al regolare svolgimento dei servizi e, in questo caso, anche ai nuovi sistemi di identificazione. Nel disordine derivante dalla sostanziale «disformità di
impianto e di distribuzione», le nuove cartelle biografiche rischiavano di nascere già compromesse ed inutili20.
Una circolare del Ministero datata 27 aprile 1882 fissò i primi
criteri con cui sarebbero stati scelti i malfattori “degni” di essere fotografati. Similmente a quanto fatto negli uffici di polizia di Berlino
l’Amministrazione di PS individuò una serie di categorie di individui
da fotografare al momento del loro ingresso in carcere. Sarebbero
stati fotografati i criminali rientranti in queste tipologie:
Servizi e personale di Sicurezza Pubblica, in “Ivi”, a. XIX (1881), p. 291.
«Come si pratica in Inghilterra, in Germania e in Austria» e «come si pratica
dalla prefettura di polizia di Parigi» specificava il “Manuale” parlando dell’introduzione della fotografia segnaletica. Servizi e personale di Sicurezza Pubblica, in Ivi, a.
XIX (1881), p. 291.
20 D. Garofalo, Sull’ordinamento degli archivi degli uffici di P.S., in Ivi, a. XX (1882),
pp. 5-8.
18
19
101
Alle origini delle tecniche di controllo
a) di contravvenzione all’ammonizione – recidivi per la 2a
volta; b) di contravvenzione alla sorveglianza speciale di P.
S. – recidivi per la 2a volta; c) di furto qualificato – recidivi;
d) di furto con destrezza – recidivi; e) di grassazione, estorsione violenta e rapina; f) di incendio volontario ed omicidio;
g) di associazione di malfattori; h) di falsificazione di monete
e carte di pubblico credito; i) di reati contro la sicurezza interna ed esterna dello Stato; k) di qualsiasi altro reato punibile
con pena da tre anni in su, purché vi sia recidiva; l) di ogni
altro reato pel quale sia comminata una pena minore di tre
anni, se anche non vi è recidiva, quando l’autorità giudiziaria
o quella politica richiedano che il prevenuto sia eccezionalmente ritratto in fotografia21.
Il sistema elaborato prevedeva una serie di tre foto. Una che avrebbe
dovuto «rappresentare lo individuo allo stato di libertà senza nessuna alterazione nei capelli, nella barba, negli abiti ecc.». Un secondo
ritratto sarebbe stato poi fatto dopo la condanna «rappresentando
l’individuo vestito da condannato». Una terza foto era prevista al
termine della pena, nel caso in cui le precedenti non avrebbero permesso di «riconoscere più lo individuo»22.
A livello tecnico il regolamento stabilì che le fotografie dovevano
essere di dimensioni «14 centimetri per 10» stampate sul materiale
più resistente possibile e con obbligo ai fotografi di cedere «la negativa» all’Amministrazione. Le stampe dovevano essere prodotte in
numero di tre per gli imputati e sei per i condannati. La scelta della
posizione, e non si tratta di un dettaglio casuale, fu lasciata «a giudizio del fotografo»23.
21 Circolare del Ministero dell’Interno (Direzione gen. delle carceri) div. 6 a, sezione
2a n° 19455-95-1F, in data 27 aprile 1882, ai Prefetti, Fotografie degli imputati e dei
condannati, in Ivi, a. XX (1882), pp. 107-109.
22 Ibidem.
23 Ibidem.
102
MICHELE DI GIORGIO
Nello stesso anno, con una nuova circolare, il Ministero fece però
marcia indietro rispetto alle precedenti istruzioni e con una nuova
comunicazione ridusse drasticamente il numero degli individui da
fotografare. A causa di una scarsa disponibilità di fondi si stabilì di
«restringere il primitivo progetto a quei soli casi nei quali si creda
assolutamente indispensabile di avere il ritratto dei malfattori più
pericolosi» e di procedere a fotografare gli imputati o i colpevoli solo
quando ne avessero fatto richiesta «l’autorità politica o quella giudiziaria»24. Accantonate le undici categorie stabilite in precedenza, l’intera faccenda fu gestita con una discrezionalità che lasciava margini
amplissimi (e che non era certo sinonimo di ordine e sistematicità).
Nel 1883 fu emanata una nuova circolare per cercare di contenere
le notevoli differenze di formato che erano state rilevate nelle fotografie pervenute al Ministero. Il ricorso a fotografi privati – né la
polizia né l’amministrazione delle carceri avevano a disposizione
tecnici e mezzi propri – aveva difatti generato materiale piuttosto
difforme25.
Nel contesto europeo, già dalla metà degli anni Settanta dell’Ottocento, Inghilterra (1869), Francia (1874) e Germania (1876) si
erano dotate di propri “registri fotografici” per i pregiudicati o per i
criminali più pericolosi [JÄGER 2001, pp. 9-10]. Nel 1893, il delegato di PS Antonino Cutrera26 scrisse che in Francia non vi erano
più uffici di polizia privi di gabinetto fotografico in cui i delinquenti
erano fotografati in pose standard e uniformi con ritratti «di fronte
24
Circolare del Ministero dell'Interno (Direzione gen. delle carceri) div. 6 a sez. 2a,
n. 70670-95-1-F, in data 15 dicembre 1882, ai Prefetti, Fotografie dei condannati e
degl'imputati, in Ivi, a. XX (1882), pp. 279-280.
25 Circolare del Ministero dell'Interno (Direzione gen. delle carceri) div. 8 a sez. 3a,
n. 14286-139-1-F, in data 28 marzo 1883, ai Prefetti, Fotografie dei condannati, in Ivi,
a. XXI (1883), p. 96.
26 Definito da Salvatore Lupo come «delegato criminologo» [LUPO 2004, p. 154],
Antonino Cutrera (convinto sostenitore delle tecniche di polizia scientifica) fu
autore di numerose opere “sociologiche” sulla criminalità.
103
Alle origini delle tecniche di controllo
e di fianco»27. In Italia, al contrario, la lacuna esistente nel campo
della fotografia segnaletica non era stata ancora colmata:
[Siamo ancora alle] solite ed eterne circolari, piene di connotati e di generalità, più o meno complete ed esatte, con le
quali, ad altro non si riesce che a riempire i protocolli, le pandette e gli archivi, senza che se ne ricavi risultato pratico alcuno. Sarebbe perciò di grande necessità che ogni Ufficio
provinciale di P. S. venisse provvisto di un gabinetto fotografico. Così si potrebbero fare subito le grandi collezioni di
fotografie degli elementi più tristi, autori di reati, che spesso
restano impuniti perché molte volte avviene che i danneggiati o i testimoni, pur avendo visto in viso gli autori del delitto, non ne sanno indicare i nomi28.
Da parte di alcuni funzionari era molto sentita la necessità di estendere a tutti gli uffici di PS le tecniche fotografiche per porre la PS
«in condizioni pari» alle altre polizie d’Europa, poiché in Italia la fotografia non era ancora «adoperata come ausilio della P. S.» quando
nel resto del continente «la sua utilità pratica e scientifica» era ampiamente dimostrata29.
Parallelamente alle discussioni sorte intorno alla questione fotografica, negli anni Ottanta dell’Ottocento si aprì un dibattito su un
nuovo sistema di identificazione che dalla Francia (dove era stato
adottato in maniera diffusa e sistematica) stava lentamente prendendo piede in tutta Europa: il metodo Bertillon [LOPEZ 2006;
GUILLO 2008].
Il metodo elaborato da Alphonse Bertillon si fondava essenzialmente su due fasi: la prima consisteva in una complessa misurazione
di varie parti del corpo del delinquente e la seconda in un “ritratto
27
Antonino Cutrera, La fotografia e la Polizia, in Ivi, a. XXXI (1893), p. 54.
Ibidem.
29 Ibidem.
28
104
MICHELE DI GIORGIO
parlato” ovvero una descrizione di alcune caratteristiche del volto
che veniva associata ad una foto di fronte e di lato.
Nella seconda metà degli anni Ottanta il dibattito intorno al metodo Bertillon raggiunse anche l’Italia. Durante la discussione sul bilancio del Ministero dell’Interno, Enrico Ferri chiese a gran voce di
unire alla fotografia segnaletica un uso massiccio del bertillonage che
già in Francia era applicato in maniera estesa e che, secondo Ferri,
avrebbe garantito una più efficace certezza nell’identificazione dei
criminali. Anche Francesco Crispi, nella medesima seduta parlamentare, aveva mostrato una certa propensione nei confronti del sistema
Bertillon30.
Alcuni funzionari di polizia erano convinti dell’assoluta validità
ed infallibilità del nuovo metodo. Giuseppe Alongi descrisse l’essenza del «sistema antropometrico Bertillon». Scaturito dalle innovazioni introdotte nel campo dell’antropologia criminale, il metodo
si proponeva di attribuire misure “certe” ad ogni criminale in modo
da poterlo identificare con sicurezza anche nel caso in cui l’identificazione per mezzo di fotografia si fosse rivelata inefficace. L’innovazione fu promossa con entusiasmo dallo stesso Alongi che intravide nel bertillonage la soluzione definitiva ai problemi dell’identificazione:
Si comprende facilmente l’enorme lavorio che occorreva a
pescare fra 80 mila, il ritratto di un ladro arrestato in una
estremità del territorio, e per altro è ben nota l’insufficienza
dei consueti connotati, buoni soltanto ad indurre in equivoci
tragicomici. Sostituendovi invece cifre, cioè dati precisi, gli
errori diventano impossibili o almeno rarissimi31.
30
Camera dei Deputati, Discussione del bilancio del Ministero dell’Interno per
l’esercizio 1887-88, tornata del 19 maggio 1887, in Ivi, a. XXV (1887), pp. 123-131.
31 Giuseppe Alongi, L’identificazione dei delinquenti (sistema antropometrico Bertillon), in
Ivi, a. XXV (1887), pp. 270-272.
105
Alle origini delle tecniche di controllo
La fede di Alongi nel nuovo sistema antropometrico rifletteva una
più generale ondata di “entusiasmo scientifico” che aveva contagiato
studiosi e simpatizzanti dell’antropologia criminale e delle dottrine
elaborate da Cesare Lombroso e dai suoi allievi [GIBSON 2002].
Tale entusiasmo tuttavia coinvolse soltanto una piccola parte dei
funzionari e dell’Amministrazione di PS. Lo stesso Alongi accennò
anche ad una sorta di conflitto nato all’interno delle istituzioni poliziesche. Si trattava secondo lui di uno scontro tra due scuole di pensiero opposte: “empiristi” e “teorici”. I primi convinti che la polizia
fosse sostanzialmente un affare di competenze innate e prassi da
tramandare. I secondi invece erano sostenitori di una scuola teorica
e scientifica che considerava l’attività di polizia come un qualsiasi
lavoro tecnico e scientifico: teorizzabile, sistematizzabile e insegnabile attraverso l’utilizzo dei moderni mezzi della scienza. Al termine
del suo saggio dedicato al metodo Bertillon, lo stesso Alongi si collocò idealmente tra gli “scientifici”, dalla parte degli antropologi criminali: «gli studiosi dell’antropologia criminale, cioè coloro che vengono chiamati con sacro orrore teorici non sono poi né fannulloni né
sognatori; ma trovano spesso feconde e pratiche applicazioni della
loro scienza. E se così è non avrò paura di collocarmi tra i teorici
impenitenti sicuro che sarò degli ultimi, ma che mi troverò in buona
compagnia»32.
Meno autorevole ma più pragmatico fu il commento del delegato
Teonesto Righetto, che segnalò come (ancora nel 1888) vi fossero
grosse deficienze a livello di fotosegnalamento. All’interno dei fascicoli la fotografia non veniva «apposta, se non in casi rarissimi» e lo
stesso sistema dei connotati andava riorganizzato perché in molte
parti incompleto e poco dettagliato. Sul Bertillonage il commento
era ancora più cauto e ispirato a maggiore consapevolezza della pe-
32
Ibidem.
106
MICHELE DI GIORGIO
nuria di mezzi. Pur non negando i vantaggi del nuovo sistema antropometrico si ricordava che la sua adozione avrebbe richiesto un
aumento di personale: «[il metodo bertillon] richiederebbe se applicato in esteso un aumento rilevante di lavoro e quindi un accrescimento di personale. Di tal sistema però si potrebbero adottare i principii più importanti33 e segnatamente quelli che sono indispensabili
per l’identificazione»34.
Alla base di ogni dibattito sull’adozione di nuovi e più efficaci
sistemi di controllo vi era sempre la questione economica. A giudizio di molti funzionari le spese sostenute dallo Stato per la pubblica
sicurezza erano insufficienti: «Per garantire la vita degli onesti cittadini dalle barbare intraprese di questi birbanti, ci vuole una cosa
molto più importante, che non siano le cartelle biografiche e i telegrammi circolari cifrati. Ci vogliono i quattrini! È inutile: la polizia
senza danari non si fa e non si può fare; e quella che senza questo
potente mezzo viene fatta, o non è polizia o non approda a nulla»35.
In questo caso, i birbanti nominati dal prefetto Nudi erano gli anarchici. All’inizio degli anni Novanta dell’Ottocento furono proprio
gli attentati (tentati o riusciti) degli anarchici a portare le questioni
connesse al controllo e all’identificazione delle persone al centro del
dibattito pubblico [JENSEN 2013; BRUNELLO 2009; DI GIORGIO 2016].
Nel contesto della lotta contro gli attentati degli anarchici, tra il
1894 ed il 1896, nacque e fu messo a punto, a livello centrale, anche
un primo Schedario dei sovversivi, che poi sarebbe stato rimpin-
33
Come poi avrebbe fatto Anfosso introducendo un suo sistema antropometrico
più semplice e meno costoso di quello teorizzato dal Bertillon [GIBSON 2002, p.
209].
34 Teonesto Righetto, Del registro biografico e del servizio di sorveglianza sulle persone pregiudicate e sospette, in “Manuale”, a. XXVI (1888), pp. 269-270.
35 E. Nudi, Gli anarchici e la polizia, in Ivi, a. XXXII (1894), pp. 209-210.
107
Alle origini delle tecniche di controllo
guato ed esteso più volte nel corso del periodo liberale e trasformato, dal fascismo, nel Casellario politico centrale [TOSATTI 2006,
pp. 106-107].
Nonostante l’emergenza (per la lotta contro gli anarchici furono
organizzati anche i primi incontri internazionali tra polizie) ancora
nel 1895 non erano stati presi provvedimenti per migliorare il sistema dei connotati. L’uso della fotografia segnaletica non era ancora diffuso in maniera capillare. A ciò si aggiungevano le forti resistenze che le scienze antropometriche (e le loro applicazioni poliziesche come il metodo Bertillon) stavano incontrando in molti settori
dell’Amministrazione di PS. Si era segnalata più volte l’impossibilità,
con i sistemi antiquati in uso in Italia, di registrare correttamente e
in maniera standard i connotati di un individuo. Senza l’ausilio di
alcuno strumento e di alcun tipo di misurazione la descrizione risentiva in maniera notevole della preparazione e della cultura della persona che effettuava l’operazione36.
All’arretratezza tecnologica si aggiungeva un personale di polizia
(specialmente tra le Guardie di Città ma non solo) dotato di una
cultura non adeguata alle mansioni da svolgere.
Credo inoltre che pochissimi impiegati conoscano così bene
la nomenclatura del corpo umano, e massime delle parti del
volto e delle irregolarità, affezioni, ecc. che vi si possono riscontrare, da potere con grande precisione segnare i connotati; figuriamoci poi quando si tratta di semplici agenti, i quali
in generale hanno una istruzione ben limitata. Ne fanno fede
le circolari di ricerche, i permessi d’armi, i passaporti, i certificati d’iscrizione e simili che tutto di ci vengono tra mano37.
A partire dagli anni Novanta dell’Ottocento il dibattito risentì in maniera più netta dell’influsso dell’antropologia criminale e dei nuovi
36
37
Domenico Trotta, Connotati, in Ivi, a. XXXIII (1895), pp. 19-20.
Ibidem.
108
MICHELE DI GIORGIO
metodi da essa proposti anche in campo poliziesco38. Suggestioni
positivistiche erano comparse da tempo nel giornale di Astengo, sin
dall’inizio degli anni Settanta dell’Ottocento39, ma si erano concentrate soprattutto sulla natura della criminalità e sulle sue improbabili
connessioni con la biologia, corroborando stereotipi e “teorie” sulle
classi criminali o classi pericolose40.
Si trattò tuttavia di spunti isolati che non furono raccolti, vista la
notevole diffidenza che gli ambienti di polizia avevano mostrato nei
confronti degli approcci scientifici provenienti dai positivisti. Solo
successivamente, nell’ultimo decennio del secolo (almeno a giudicare dal dibattito emerso nelle pagine del “Manuale”), iniziarono a
diffondersi tra i funzionari di polizia idee, proposte e teorie che risentivano in maniera evidente dell’influenza dell’antropologia criminale.
Dalla fine del secolo, la rivista di Astengo fu costretta a fare i
conti con la concorrenza di diversi giornali di polizia. Anche se
spesso furono di durata effimera, queste pubblicazioni – di cui almeno tre furono espressamente dedicate alla polizia scientifica – costrinsero il “Manuale” a delle parziali aperture, specialmente sui temi
scientifici [DI GIORGIO 2016, pp. 223-225].
Nel 1898 Salvatore Ottolenghi, medico legale, studioso di antropologia criminale e di polizia scientifica [SCHETTINI 2013; DI
GIORGIO/LABANCA 2018], in una sua rassegna sui servizi di
identificazione antropometrici in Francia, segnalò come l’Italia e la
Turchia fossero gli unici paesi che non avevano ancora adottato un
servizio di identificazione antropometrico simile a quello elaborato
da Bertillon. In Italia nulla era stato ancora fatto malgrado la pre-
38
Un corso universitario di polizia giudiziaria, in Ivi, a. XXXV (1897), p. 128.
C. Riccardi, Del sussidio che il funzionario di P.S. può trarre dagli studi fisionomici e
cranioscopici, in Ivi, a. X (1872), pp. 49-51.
40 Della natura ereditaria del delitto, pel dott. G. B. Thomson, medico della Carcere generale di
Scozia a Perth (riassunto del dott. Dumesnil), in Ivi, a. XI (1873), pp. 44-48.
39
109
Alle origini delle tecniche di controllo
senza di una “scuola” di antropologia criminale di fama ormai mondiale e l’esistenza di sistemi di misurazione antropometrici alternativi
molto validi (come quello elaborato da Luigi Anfosso)41. A giudizio
di Ottolenghi, il ritardo nell’adozione delle nuove tecniche era dovuto principalmente alle forti resistenze presenti all’interno dell’Amministrazione, alla prevalenza di una concezione «empirica» della
polizia e anche all’assenza di una «buona coltura positiva antropologica criminale, non solo nel pubblico, ma fra coloro stessi che sono
preposti agli istituti di repressione e prevenzione del delitto»42.
Tale prevenzione era dovuta probabilmente anche alla vicinanza
di molti positivisti al socialismo e alle sinistre. Lombroso, Ferri e
molti altri noti antropologi criminali non fecero mai mistero delle
loro idee [GIBSON 2002, pp. 35, 44 e passim]. Questo allineamento
ideologico del resto aveva suscitato reazioni anche in funzionari di
polizia che si erano dimostrati molto favorevoli all’adozione di metodi scientifici43.
Le resistenze antiscientifiche e antipositiviste esistenti all’interno
dell’Amministrazione di Pubblica Sicurezza furono ben evidenziate
da Giuseppe Alongi:
Un altro grave pregiudizio è diffuso nel personale di polizia,
e cioè quello che essa non sarà mai un’arte nel senso sistematico della parola, ma una pura abilità individuale, un empirismo esercitato, e infatti si parla oggi di intuito poliziesco,
come 50 anni or sono si parlava di occhio clinico. […] I medici d’oggi non rinunziano all’occhio clinico, ma lo rendono
più potente e sicuro con l’ausilio degli strumenti. […] Si fa
tra noi e da tempo sorda opposizione al servizio di identificazione antropometrica, per quel misoneismo ombroso che
41 Ottolenghi, Istruttoria pubblica e servizio antropometrico in Francia, in Ivi, a. XXXVI
(1898), pp. 29-31. Cfr. anche Cesare Agrati, Identificazione dei recidivi (Sistema Bertillon), in Ivi, a. XXXVI (1898), pp. 43-45.
42 Ibidem.
43 Giuseppe Alongi, Una scomunica scientifica, in Ivi, a. XXXVIII (1900), p. 356.
110
MICHELE DI GIORGIO
ostacola ogni novità se turba anche menomamente il consueto tram tram della vita burocratica44.
Alla fine del 1899, con gran ritardo rispetto al resto d’Europa, un
decreto del 3 dicembre istituì un servizio antropometrico a Roma
(dotato tuttavia di pochi uomini e scarsi mezzi)45.
L’anno successivo, l’assassinio di Re Umberto I da parte
dell’anarchico Gaetano Bresci sollevò seri dubbi sulla funzionalità
dell’intero apparato di sorveglianza dell’Italia liberale. I problemi
connessi all’inefficienza del sistema di identificazione emersero in
tutta la loro gravità nel dibattito tra i funzionari di PS.
Il Servizio anagrafico statistico voluto da Crispi nel 1888 [TOSATTI 2014, pp. 151-152] era stato sottofinanziato «distraendone i
fondi relativi» per altri scopi e nel corso degli anni «più volte sospeso». In assenza di continuità, di finanziamenti mancava ai funzionari di polizia un sistema standardizzato e collaudato da cui poter
attingere rapidamente informazioni46.
Tra i pregiudizi che hanno accompagnato in Italia il funzionamento della P. S. in questi ultimi anni, nel continuo fare e
disfare, volere e disvolere; tra gli esperimenti di ogni sorta cui
l’Amministrazione venne sottoposta – e ve ne furono, davvero, dei curiosi – sta la istituzione dell’anagrafe. Ebbe anche
essa i suoi alti e bassi, cure amorose ed abbandoni improvvisi; costò milioni andati in fumo – ed a ciò il contribuente
italiano è da lungo tempo abituato; e, in fine, nel 1896, men-
44
Giuseppe Alongi, Progetto di regolamento generale sull'ordinamento, sul personale e sul
servizio di polizia, formulato dall'ispettore di P. S. cav. Giuseppe Alongi, in Ivi, a. XXXIX
(1901), pp. 66-71.
45 Il servizio antropometrico negli uffici di P.S., in Ivi, a. XXXVII (1899), pp. 372-373.
46 Ivi, a. XXXVIII (1900), pp. 262-263.
111
Alle origini delle tecniche di controllo
tre nuovi studi e spese erano stati fatti per semplificarla, riorganizzarla, e darle impulso nuovo, venne inaspettatamente
abbandonata47.
Una soluzione (che poi si rivelò decisiva) a queste problematiche
giunse nel 1902 quando Salvatore Ottolenghi fu incaricato di tenere
un corso annuale di polizia scientifica per i funzionari di PS e l’anno
successivo – 1903 – un decreto ministeriale (di Zanardelli) rese obbligatorio il corso per tutti i futuri funzionari di PS. Nacque così una
vera e propria scuola di polizia scientifica che trovò sede temporanea all’interno delle «carceri nuove» a Roma, «essendo indispensabile per lo studio dei delinquenti il materiale fornito dal carcere»48.
La prima materia, tema principale del corso, era l’identificazione:
«dal più semplice al più importante servizio di polizia [scriveva uno
degli insegnanti] tutto si riduce in sostanza ad una serie di identificazioni»49.
In questo campo l’innovazione fondamentale proposta insieme
al corso fu la nuova cartella biografica ideata da Ottolenghi50. Essa
rappresentava il sunto delle migliori tecniche di identificazione e
idealmente anche la sintesi delle menti che si erano radunate intorno
alla figura di Salvatore Ottolenghi nella Scuola di Polizia Scientifica:
Umberto Ellero (fotografia giudiziaria e segnalamento), Giuseppe
Falco (medicina, antropologia e psicologia) e soprattutto Giovanni
O. Picù, L’anagrafe di polizia, in Ivi, a. XXXIX (1901), pp. 274-275.
La scuola di polizia scientifica. Il servizio di segnalamento in Italia 1902-1910, Roma,
Tipografia delle Mantellate, 1910, p. 3.
49 Giovanni Gasti, Il corso di polizia scientifica, in “Manuale”, a. XLI (1903), pp. 109-110.
50 OTTOLENGHI 1905.
47
48
112
MICHELE DI GIORGIO
Gasti (segnalamento e dattiloscopia)51. Associando diverse tecniche
d’identificazione e segnalamento (fotografia, ritratto parlato e dattiloscopia) la cartella biografica di Salvatore Ottolenghi sancì peraltro
il definitivo superamento del Bertillonage (che in Italia non era mai
stato adottato in maniera sistematica) in favore delle nuove tecniche
di riconoscimento delle impronte digitali che già erano state adottate
dalla polizia inglese [QUINTAVALLI 2017, pp. 94-124; DI GIORGIO/LABANCA 2018].
Giovanni Gasti sottolineò come la scuola di polizia era stata
creata anche per promuovere una più accurata istruzione scientifica
dei funzionari di polizia che alla prassi e all’empirismo affiancasse
metodi scientifici collaudati. La nuova polizia scientifica mirava
«non solo alla conoscenza dei connotati individuali, ma alla conoscenza di tutte le manifestazioni della personalità del reo, dai suoi
caratteri fisici ai caratteri funzionali, dai caratteri psichici ai caratteri
anamnestici, ed all’applicazione di queste conoscenze alla pratica».
L’aspetto più innovativo, che aumentava notevolmente le distanze
dai metodi antropometrici, era costituito dall’apparente semplicità
delle procedure che non necessitavano di alcuna strumentazione ingombrante o costosa: «la polizia scientifica si rivolge a tutti i funzionari di P.S. dello Stato, i quali in qualsivoglia residenza si trovino, ed
51 La scuola di polizia scientifica. Il servizio di segnalamento in Italia 1902-1910, Roma,
Tipografia delle Mantellate, 1910, pp. 7-8. Umberto Ellero, Giuseppe Falco, Giovanni Gasti e, in una fase successiva, Ugo Sorrentino furono per molti anni, con
i loro insegnamenti ed i loro corsi, le figure di maggior rilievo della Scuola di Polizia Scientifica e del servizio di segnalamento annesso. [SCHETTINI 2012, pp.
18-19]. Ad emergere in maniera netta, oltre al fondatore della Scuola, Salvatore
Ottolenghi, fu però il suo più stretto ed abile collaboratore: Giovanni Gasti (Castellazzo Bormida 1869 – Roma 1939). Oltre a perfezionare il sistema di segnalamento con le impronte digitali, mettendo a punto un nuovo schedario dactiloscopico (che poi fu adottato anche all’estero), Gasti si occupò di moltissimi aspetti
relativi al miglioramento delle tecniche e dell’organizzazione della polizia. Nel
corso della sua carriera, terminata nel 1927, ricoprì incarichi delicati e prestigiosi
[TOSATTI 2009, pp. 141-142].
113
Alle origini delle tecniche di controllo
in qualsiasi Ufficio siano applicati potranno mettere direttamente in
pratica le nozioni avute, nell’esecuzione dei loro molteplici servizi»52.
L’elenco delle materie insegnate nella scuola mostrava bene le
strettissime connessioni tra gli insegnamenti dell’antropologia criminale, la nascita della polizia scientifica e le questioni connesse al segnalamento dei criminali. Il programma del corso era in gran parte
occupato da teorie e tecniche di identificazione53.
Nel 1904 Giovanni Gasti poteva ormai essere preciso circa il funzionamento e gli aspetti salienti della nuova cartella biografica del
delinquente. Il nuovo sistema voleva rappresentare «tutta la personalità dell’individuo, dai suoi caratteri somatici ai suoi caratteri intellettuali e morali, dalla sua condotta ai suoi precedenti penali, dalle
vicende della sua vita libera a quelle della casa di correzione, del carcere, del domicilio coatto»54.
Il nuovo metodo rappresentava il superamento definitivo della
vecchia cartella, dove i connotati fisici del pregiudicato erano sì riportati ma la descrizione «si era cristallizzata, stereotipata, nelle formole insignificanti e pur diventate tradizionali di: regolare, giusto, ordinario, naturale». Una simile genericità era foriera di equivoci ed errori
(mancati arresti, carcerazioni di innocenti, detenzioni illegittime e
scarcerazioni arbitrarie) che avevano spesso «conseguenze fatali» per
il servizio, per i funzionari e per la stessa Amministrazione55.
Sebbene la criminalità avesse largamente approfittato del progresso, al contrario, il sistema in uso nelle vecchie cartelle era definito vetusto e inefficiente, uguale a se stesso dalla metà del Settecento:
Giovanni Gasti, Il corso di polizia scientifica, in “Manuale”, a. XLI (1903), pp. 109-110.
Salvatore Ottolenghi, Il corso di polizia scientifica (il programma, il metodo d’insegnamento, i risultati), in Ivi, a. XLI (1903), pp. 233-234. Cfr. anche Giovanni Gasti, Il
materiale del Corso e il Gabinetto di Polizia scientifica, in Ivi, a. XLI (1903), pp. 234-237.
54 Giovanni Gasti, La vecchia e la nuova cartella biografica dei pregiudicati negli uffici di
P.S., in Ivi, a. XLII (1904), pp. 33-37.
55 Ibidem.
52
53
114
MICHELE DI GIORGIO
[I]n oltre cento e quarant’anni, di fronte allo sfruttamento di
tutti i progressi della civiltà messo in opera incessantemente
dai delinquenti per sfuggire alle ricerche della polizia, nella
segnalazione e nella descrizione dei criminali non si era fatto
un sol passo innanzi; all’opposto, nel raffronto fra i recenti
telegrammi di ricerche e gli antichi ordini circolari a stampa
[…], non sono certo questi ultimi che per la importanza e la
serietà del segnalamento vi facciano la peggiore figura56.
Alcuni tra i funzionari più in vista avevano tuttavia espresso alcune
riserve sulla nuova cartella, ipotizzando una difficile applicazione
per un sistema che vedevano come eccessivamente complesso,
scientifico (non dissimile da quelli antropometrici) per essere recepito ed utilizzato correttamente dal personale in servizio. Secondo
gli scettici i nuovi sistemi di polizia scientifica, compresa la cartella
biografica dell’Ottolenghi, per funzionare avevano bisogno di due
elementi fondamentali, ingenti risorse e personale addestrato: «È facile la compilazione esatta ed uniforme per tutti gli uffici di P. S. del
Regno di queste nuove cartelle biografiche? Io credo di no; non
tanto perché non tutti hanno compiuti studi speciali di antropometria ed antropologia; ma perché tutti gli uffici, o quasi tutti, mancano
dei mezzi opportuni»57.
In risposta a queste critiche lo stesso Gasti rispose sgombrando
definitivamente il campo da equivoci. Non occorrevano grandi
mezzi né strumenti particolari per compilare la nuova cartella biografica perché essa si fondava su un segnalamento descrittivo scientifico e non su criteri antropometrici. Anzi sia Ottolenghi sia Gasti
mostrarono di voler prendere lentamente le distanze da metodi antropometrici come il bertillonage perché poco utili alle pratiche di
polizia e molto costosi in termini di personale e attrezzature.
56
Ibidem.
Filippo Maria Tinti, Il delinquente e la nuova cartella biografica, in Ivi, a. XLII (1904),
pp. 4-5.
57
115
Alle origini delle tecniche di controllo
Impropriamente si parla quindi di mezzi per l’applicazione
della nuova cartella ed inopportunamente, trattandosi della
descrizione scientifica ora introdotta, si accenna al sistema
antropometrico. È tempo ormai che cessi la confusione fatta
fra antropometria e identificazione fisica in genere, quasi fossero sinonimi. L’antropometria è un sistema di identificazione, ma è ben lungi dall’esaurirne tutto il campo. Anzi l’antropometria non è certo l’identificazione che convenga più al
servizio di polizia; e lo stesso suo fondatore ammette che
nessuna utilità potrebbe dare per l’arresto di malfattori in
fuga58.
Gasti segnalava come i sistemi antropometrici fossero stati definitivamente soppiantati dalla dattiloscopia. Il futuro dell’identificazione
apparteneva alle impronte digitali. «È già da tempo delineato chiaramente un altro sistema, destinato forse a surrogare completamente
le misurazioni. [… Il] sistema dactiloscopico […] a cui provvidamente venne fatta posto nel supplemento della nuova cartella per i
pregiudicati». La nuova cartella di Ottolenghi, affermava Gasti, non
aveva più «nessun punto di contatto con l’antropometria», dato che
per il segnalamento descrittivo non occorreva alcuno strumento59.
Alle obiezioni sulla scarsa preparazione del personale Gasti rispose che, con il giusto tirocinio e con la lettura delle semplici istruzioni compilate dalla Scuola, qualsiasi funzionario o agente sarebbe
stato in grado di compilare correttamente una scheda. Una visione
probabilmente ottimistica, così come appariva tale l’idea di far
fronte alle nuove incombenze date dalla cartella biografica con il
solo personale esistente (già di per sé insufficiente a garantire il regolare svolgimento dei servizi)60.
58
Giovanni Gasti, La vecchia e la nuova cartella biografica dei pregiudicati negli uffici di
P.S., in Ivi, a. XLII (1904), pp. 33-37.
59 Ibidem.
60 Ibidem.
116
MICHELE DI GIORGIO
Al più tardi nel 1905 Ottolenghi chiarì la propria posizione circa
il definitivo superamento delle tecniche antropometriche nel campo
dell’identificazione delle persone. Da antico ammiratore del bertillonage, Ottolenghi si schierò contro «le esagerazioni» di quelli che
erano diventati «feticisti dell’istituzione francese» e nella parola antropometria includevano «tutta la scienza della polizia». Superato il
bertillonage (in parte utile esclusivamente per il riconoscimento
delle false identità), le impronte digitali, secondo Ottolenghi, rappresentavano l’innovazione scientifica decisiva nelle tecniche di identificazione delle persone: «anziché classificare le schede secondo le
misure antropometriche, si classificano secondo i disegni varissimi
e costanti delle impronte digitali […] che qualunque funzionario è
in grado di prendere; ed è vicinissimo il giorno che le misure antropometriche passeranno negli archivi»61.
Dattiloscopia a parte, nel campo della fotografia giudiziaria si
erano registrati grandissimi progressi ed essa restava uno degli elementi fondamentali per le tecniche di identificazione62. Il delegato
Umberto Ellero, voluto da Ottolenghi come insegnante nel gabinetto fotografico della scuola di Roma, ebbe il merito di introdurre
una serie di innovazioni fondamentali nel campo della fotografia segnaletica. La più importante di queste fu l’introduzione di un apparecchio poi denominato “gemelle Ellero”. Si trattava di due macchine fotografiche che lavorando in sincrono, scattavano nello
stesso istante una foto che ritraeva il criminale di fronte e di profilo,
«assicurando con l’istantaneità dello scatto e della posa che la foto
segnaletica fosse la più attendibile e la più identificante possibile»
[MUZZARELLI 2003, p. 27].
Malgrado le molte note positive suscitate dall’introduzione delle
innovazioni volute dalla scuola, all’interno dell’Amministrazione di
Salvatore Ottolenghi, Il feticismo dell’Antropometria e la Polizia Scientifica in Italia, in
Ivi, a. XLIII (1905), pp. 19-20.
62 Ugo Levi, La fotografia giudiziaria, in Ivi, a. XLIII (1905), pp. 50-53.
61
117
Alle origini delle tecniche di controllo
PS e anche in molti ambienti politici si registrava ancora una notevole diffidenza nei confronti dei metodi scientifici. Le parole più
dure vennero proprio dal fondatore del “Manuale”:
Ma ora si vuole perfino prendere l’impronta dei polpastrelli
delle dita, perché così, si dice, si trova subito il delinquente
che dà false generalità. E di questa innovazione si fanno lodi
davvero esagerate. E il Ministero la incoraggia, e se gli domandassero anche 100 mila lire, le darebbe per far vedere
che si tiene al corrente sulle così dette moderne idee sulla
polizia scientifica. Un po’ alla volta questo istituto va invadendo pressoché tutto lo scibile con scarso profitto degli
alunni che, allontanati dal proficuo tirocinio degli uffici, poi
mal vi si adattano, sicché invano si cercano più i neofiti pieni
di zelo, ma si hanno in copia gli svogliati e pretenziosi, già
prima di entrare in carriera. Quando uno avrà fatto il tirocinio della scuola pratica di polizia scientifica crederà di avere
già le qualità per essere un questore63.
Insomma Astengo esprimeva ora una posizione piuttosto netta sia
nei confronti della Scuola sia verso lo stesso concetto di polizia
scientifica: «Fu strombazzato che la scuola doveva portare rimedio
all’empirismo della polizia. Incidit in Scyllam, qui vult vitare Charybdim.
Colla scusa di voler evitare l’esagerato empirismo, si badi di non andare a sguazzare nel più deleterio pelago della ciarlataneria»64.
Nel 1909 sussisteva ancora, all’interno della polizia, la contrapposizione tra “scientifici” ed “empirici” denunciata oltre un decennio prima con l’arrivo dei saperi mutuati dall’antropologia criminale.
Gran parte dell’Amministrazione di PS appariva sostanzialmente restia ad adottare i nuovi criteri scientifici o comunque, se non aveva
particolari avversioni per la materia, era abbastanza refrattaria nei
63
Intervento di Carlo Astengo al Senato, Atti parlamentari, Senato del Regno,
tornata del 9 maggio 1906, in Ivi, a. XLIV (1906), pp. 155-160.
64 Ibidem.
118
MICHELE DI GIORGIO
confronti delle innovazioni. «I meno astiosi tra gli osteggiatori della
polizia scientifica» scriveva il funzionario di PS Italo Alongi, «sostengono che i criteri sono belli e buoni, ma che mancano i mezzi
per attuarli utilmente: personale, tempo, locali ..., quattrini»65.
Alla mancanza di mezzi economici, si aggiungeva una «mala voglia», una noluntas, dovuta alla presenza all’interno dell’istituzione di
una grossa «schiera» di empiristi ostili alle nuove teorie scientifiche
alla quale tuttavia appartenevano «i funzionari più valorosi» 66. Lo
stesso Alongi non ignorava, facendo proprie alcune delle riserve
fatte dagli scettici, la scarsità di mezzi dedicati all’identificazione e
agli archivi. Fotografie e impronte digitali erano molto utili, ma per
essere utilizzate e sfruttate appieno dovevano essere corredate da
collezioni di dati facilmente consultabili e da casellari rispondenti
alle necessità67.
Nonostante tutte queste riserve e tutte queste difficoltà nel 1911
il servizio centrale di segnalamento era entrato a pieno regime e, secondo lo stesso Ottolenghi, poteva «rivaleggiare» con i più avanzati
del mondo occidentale. I ritardi e gli indugi nella creazione di un
«ufficio antropometrico sistema Bertillon» si erano rivelati particolarmente propizi perché il nuovo servizio di segnalamento era partito utilizzando direttamente uno dei metodi più all’avanguardia:
l’identificazione dattiloscopica.
Il servizio segnalativo venne iniziato nel 1902 colla sola fotografia, ma subito venne completato coi connotati e contrassegni speciali, colle dieci impronte digitali, e la firma del
soggetto e colle indicazioni delle misure antropometriche da
assumersi per gli stranieri. Il nascente ufficio cominciò a corrispondere cogli uffici esteri e cogli uffici del Regno. Nel
G. Italo Alongi, Per l’incremento della Scuola di polizia scientifica. Note e proposte, in
Ivi, a. XLVII (1909), pp. 145-148.
66 Ibidem.
67 Ibidem.
65
119
Alle origini delle tecniche di controllo
1907 molteplici uffici di segnalamento vennero impiantati
nelle provincie e così il Casellario centrale venne ad arricchirsi di nuovi cartellini segnalativi che a tutt’oggi ascendono
alla cifra di circa 40.000.68.
Nel 1912, quando uscì l’ultima annata di quel “Manuale” che ci ha
permesso di seguire da vicino questo dibattito, già da un paio d’anni
si era avviata la pubblicazione del «Bollettino annuale della Polizia
scientifica e del Servizio di segnalamento», curato da Salvatore Ottolenghi insieme ai fedelissimi Giovanni Gasti e a Giuseppe Falco69.
Alla fine del primo decennio del Novecento la scuola di Ottolenghi
(e il suo sistema di segnalamento) avevano raggiunto una considerevole fama internazionale. Ne sono testimonianza le numerose visite
da parte di osservatori stranieri che la scuola aveva ricevuto già negli
anni successivi alla sua fondazione70. Nel 1908 la rivista «Scientific
American» aveva dedicato alla scuola di Roma ed ai sistemi di identificazione italiani un articolo illustrato di due pagine [GRADENWITZ 1908, pp. 172-173].
Col passare degli anni la scuola di polizia scientifica continuò a
godere di un notevole credito internazionale. Nel 1926 il criminologo statunitense Sheldon Glueck la definì come «one of the best
schools for detectives and higher police and judicial official in the
world» [GIBSON 2002, p. 207]. Nel 1934 la rivista di Chicago «Finger Print and Identification Magazine» dedicò un lungo articolo alla
scomparsa di Salvatore Ottolenghi indicandolo come fonte d’ispirazione costante per gli studiosi di identificazione di tutto il mondo71.
Dalle prime confuse raccolte di connotati dell’Italia postunitaria
erano passati molti anni. Alla vigilia della prima guerra mondiale il
68
La polizia italiana e il servizio di segnalamento, in Ivi, a. L (1912), pp. 334-335.
Ibidem.
70 Visita alla Scuola di Polizia, in Ivi, a. XLV (1907), pp. 47-48.
71 The death of great professor Salvatore Ottolenghi, in «Finger Print and Identification
Magazine», vol. 16, n. 4, October 1934.
69
120
MICHELE DI GIORGIO
Paese disponeva di un sistema d’identificazione e di schedatura
strutturato e funzionale (di cui il fascismo, successivamente, avrebbe
fatto largo uso), anche se sottofinanziato e ancora non perfettamente ottimizzato. Molte questure si erano dotate di gabinetti fotografici e quasi tutte (insieme ai commissariati principali) erano in
grado di procedere in autonomia al rilievo delle impronte digitali
[GIBSON 2002, pp. 208-214]. Una fase nuova della lotta continua
fra guardie e ladri, o più in generale criminali, era iniziata.
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Diritto internazionale
ed emigrazione italiana
tra Otto e Novecento
La visione giuridica di Augusto Pierantoni
di Elisabetta Fiocchi Malaspina
Un itinerario di ricerca su Augusto Pierantoni
Nel 1901 durante una seduta del Senato per la discussione della legge
sull’emigrazione, il senatore e illustre professore di diritto internazionale Augusto Pierantoni diceva: «nella stazione di Genova tante
volte vidi adunate in carovana emigrante le nostre classi operaie e
agricole giacere sul nudo sasso, dormendo sotto i portici, sotto gli
alberi nella piazza dove sorge la statua di Cristoforo Colombo,
aspettando l’agente di emigrazione e l’ora dell’imbarco. Quel triste
spettacolo mi premeva il cor» [PIERANTONI 1902a, p. 867].
Con la legge Crispi del 30 dicembre 1888 n. 5866 il Regno d’Italia
affrontava il complesso tema dell’emigrazione italiana, analizzando
giuridicamente le questioni legate alla tipologia di emigranti che potevano espatriare, regolamentando, per la prima volta in modo organico, molti degli aspetti del flusso migratorio. Tuttavia, come è
stato ben analizzato recentemente da Dolores Freda, tale legge, considerata di «polizia», non tutelava l’emigrante nei confronti degli armatori e delle compagnie assicurative [FREDA 2014, p. 6]. Negli
anni successivi si svolse, a livello politico, un complesso dibattito
che ebbe come protagonisti, tra i molti, gli onorevoli Luigi Luzzatti
e Edoardo Pantano, nonché anche Augusto Pierantoni: le istanze
parlamentari si tradussero nella legge del 31 gennaio 1901, n. 23.
Diritto internazionale ed emigrazione italiana tra Otto e Novecento
Essa cristallizzava in normativa i diritti degli emigrati, assicurando
efficaci strumenti di protezione: venne istituito, alla stregua dell’articolo 7, il Commissariato Generale per l’emigrazione (alle dipendenze del Ministero degli Affari esteri), a cui erano demandate tutte
le incombenze relative al problema migratorio che, fino a quel momento, erano state ripartite tra le diverse amministrazioni dello Stato
[FREDA 2014, p. 7].
Pierantoni svolse la sua attività di senatore esattamente tra la
legge del 1888 e quella del 1901: questi erano anche gli anni in cui la
livello internazionale, come si illustrerà, ricoprì importanti cariche.
Lo scopo del saggio è quello di presentare i primi risultati di una
ricerca in essere che vede come protagonisti gli esperti di diritto internazionale italiani nel continuo dialogo con le istituzioni nazionali
e internazionali sul delicato tema dell’emigrazione e sull’influenza
che il loro ruolo ha avuto per le decisioni legislative del governo
italiano tra Otto e Novecento.
In particolare l’analisi verterà sul giurista, politico e avvocato Augusto Pierantoni (1840-1911), impegnato in prima persona per l’unificazione italiana e successivamente per la corretta applicazione dei
principi di diritto internazionale da parte del nascente stato italiano.
La sua attività giuridica è stata recentemente presa in considerazione
per la sua originalità e peculiarità: basti solo citare gli scritti offerti
da Eloisa Mura sul suo ruolo di internazionalista, da Alessandro
Breccia sulla cittadinanza e infine da Elio Tavilla, che ha curato l’edizione dell’importante contributo pierantoniano intitolato Dell’abolizione della pena di morte [MURA 2017, pp. 151-200; MURA 2015, pp.
291-294; BRECCIA 2017, pp. 47-61; TAVILLA 2017, pp. 1-8].
Questi interessanti studi sottolineano la necessità di porre un’attenzione particolare a Pierantoni: la sua figura molte volte è stata
oscurata dalla fama e dall’abilità giuridica e politica di suo suocero,
Pasquale Stanislao Mancini. Nel 1868 infatti sposò la prima figlia di
128
ELISABETTA FIOCCHI MALASPINA
Mancini, Grazia, entrando così di diritto all’interno di una delle famiglie più importanti e significative dell’Ottocento italiano. In realtà
Pierantoni ebbe un preciso ruolo per il processo di autonomia del
diritto internazionale italiano con il grande merito di aver saputo
concretizzare giuridicamente le aspirazioni internazionali e nazionali, battendosi per la salvaguardia delle persone più in difficoltà,
come gli emigranti, nonché di essersi impegnato affinché il corpo
diplomatico consolare italiano avesse la giusta preparazione e formazione per rispondere alle richieste degli italiani all’estero.
Era proprio il professore di diritto internazionale a ricordare che:
«Non appena presi a esercitare l’ufficio arduo e delicato di legislatore, mi appalesai propugnatore di quelle riforme internazionali, che
trovavano un’eco vivissima nel cuore della nazione, e tenacemente
prestai omaggio ai principî, che la coscienza giuridica de’ popoli professa» [PIERANTONI 1907, p. VI].
L’intenso impegno politico-giuridico di Augusto Pierantoni
Ricostruendo l’intensa vita di Pierantoni ci sono delle parole chiave
che ricorrono, in forme diverse, a delineare alcune tappe significative della sua esistenza, quali la sua passione per la politica, l’attenzione alle vicende contemporanee e il suo impegno sociale. Nel 1860
si arruolò con il grado di caporale con Garibaldi. Dopo aver combattuto nella spedizione dei Mille, il consigliere della pubblica istruzione, Raffaele Prina, gli diede un incarico presso il Ministero della
pubblica istruzione di Napoli; successivamente si trasferì a Torino
come segretario particolare del patriota e poi ministro Carlo Matteucci, e del celebre giurista, deputato di sinistra e futuro ministro,
Pasquale Stanislao Mancini [SARTI 1898, pp. 433-434; PASSERO
2013, p. 1576].
129
Diritto internazionale ed emigrazione italiana tra Otto e Novecento
Con l’annessione al Regno d’Italia, Pierantoni tornò a Napoli,
dove nel 1865, in brevissimo tempo, si laureò in giurisprudenza (alcune fonti riportano che sostenne diciotto esami in un solo mese);
nello stesso anno diede alle stampe la sua prima opera giuridica intitolata Dell’abolizione della pena di morte e fu nominato professore di
diritto internazionale presso l’Università di Modena, cattedra che lasciò nel 1866, quando partecipò alla terza guerra d’indipendenza.
Pierantoni, infatti, si arruolò, come volontario, con la qualifica di
artigliere dell’esercito nazionale nella divisione comandata da Giacomo Medici, prendendo parte al bombardamento di Borgoforte; ai
combattimenti di Cismons, di Primolano, di Borgo e di Levico in
Trentino [Augusto Pierantoni nell’Anno XL dell’Insegnamento Universitario
1906, p. 8].
Terminato il conflitto, Pierantoni riprese l’insegnamento e successivamente durante la guerra franco-prussiana fu uno dei più attivi
membri del Comitato Nazionale per il Soccorso dei Feriti e, a seguito della caduta dell’Impero francese e della sconfitta di Napoleone III, fu incaricato dal Comitato dell’emigrazione nizzarda di Firenze di redigere una memoria rivolta alle potenze europee per la
rivendicazione da parte dell’Italia di Nizza e della Savoia. Tale scritto
non venne mai presentato né terminato, poiché la partenza di Garibaldi per la Toscana fece cambiare idea sulla pretesa di quei territori
[SARTI 1898, p. 434].
Sempre nel 1870, con la condanna a morte del giovanissimo caporale Pietro Barsanti, Pierantoni ricevette l’incarico da parte del
Comitato promotore per il monumento a Beccaria di cercare giuridicamente una soluzione per revocare la pena capitale, scrivendo altresì I fatti imputati a’ militari di Pavia e di Piacenza. Tuttavia nonostante
l’impegno di Pierantoni e l’impatto che la vicenda rivestiva a livello
nazionale, il caporale venne fucilato.
Sotto il versante del diritto internazionale partecipò alla creazione
dell’Institut du droit international, che fu fondato a Gand l’8 settembre
130
ELISABETTA FIOCCHI MALASPINA
1873. L’Institut era nato con lo scopo di favorire il progresso del diritto internazionale, proponendosi come organo della coscienza giuridica del mondo civile, di formulare principi generali, di diffondere
la conoscenza e infine offrire il suo concorso a ogni serio tentativo
di codificazione graduale e progressiva del diritto internazionale
[NUZZO 2012, p. 133; KOSKENNIEMI 2010, p. 39]. Il primo
presidente fu Pasquale Stanislao Mancini (1874), seguito nel 1882 da
Augusto Pierantoni.
Assieme a Mancini e Pierantoni, contribuirono a fondare l’Institut
illustri esperti di diritto internazionale quali: Emile de Laveleye
(Liege), Tobie Michel Charles Asser (Amsterdam), James Lorimer
(Edinburgh), Wladimir Besobrassof (San Pietroburgo), Gustave
Moynier (Ginevra), Jean Gaspar Bluntschli (Heidelberg), Carlos
Calvo (Buenos Aires), Gustave Rolin-Jaequemyns (Ghent), David
Dudley Field (New York).
Questi erano anche gli anni in cui Pierantoni muoveva i primi
passi nella politica del Regno d’Italia. Tra il 1874 e il 1880 fu eletto
deputato per tre legislature (XII, XIII e XIV), nel collegio di Santa
Maria Capua a Vetere e per una legislatura, la XV, dal 1882 al 1886,
per il 1° collegio di Caserta. Schierato a sinistra, fu uno dei partecipanti più assidui alle sedute parlamentari, fu impegnato in numerose
giunte speciali e commissioni. Fu scritto che non veniva presentata
all’esame dell’assemblea parlamentare «alcune quistione importante
senza che egli intervenisse autorevolmente a parlare» [SARTI 1898,
p. 434].
Tra le numerose proposte si ricorda quella discussa il 30 maggio
1876 in cui sostenne che il Codice penale militare fosse coordinato
con le regole contenute nella Convenzione di Ginevra del 1864 e
con le altre della Conferenza di Bruxelles del 1874, riguardanti il
trattamento dei prigionieri di guerra, poiché «la scienza e il mondo
civile si allieterebbero dell’opera di umanità da me raccomandata e
131
Diritto internazionale ed emigrazione italiana tra Otto e Novecento
[...] la patria nostra acquisterebbe nuovi titoli alla riconoscenza generale». Tale proposta venne approvata dalla Camera dei Deputati
all’unanimità e i regolamenti militari italiani si uniformarono alle
norme internazionali [PIERANTONI 1907, p. VII]. Fu anche membro della Corte Permanente dell’Aia, dove nel 1903 si occupò della
questione del Venezuela e inoltre a partire dal 1878 entrò a far parte
del Consiglio del Contenzioso diplomatico [PASSERO 2013, p.
1576].
Il 25 novembre 1883 fu nominato Senatore del Regno e convalidato nel dicembre dello stesso anno, mentre nel 1885 fu delegato
italiano alla Conferenza internazionale di Parigi per la stipula di un
trattato che regolamentasse la libera navigazione del canale di Suez.
Nel maggio 1889, a seguito della firma del Trattato di Uccialli con
Menelik, imperatore d’Etiopia, Pierantoni presentò alla Camera dei
Deputati una incisiva interpellanza riguardante l’art. 17 di tale trattato, secondo il quale il potere esecutivo sostanzialmente negoziava
con un altro Stato, senza che il Parlamento gli avesse concesso una
simile facoltà, mediante legge [PERTICONE 1962, p. 300].
Pierantoni aderì all’Unione Interparlamentare che venne fondata
a Parigi il 29 e il 30 giugno 1889 da William Randal Cremer e Frédéric Passy, con lo scopo di divenire un primo forum per la difesa della
pace e per le negoziazioni multilaterali degli Stati: in quell’occasione
fu eletto membro del consiglio direttivo, carica che mantenne anche
per i successivi anni durante i raduni dell’associazione a Oslo e Budapest [FIOCCHI MALASPINA 2015, pp. 890-891].
Nel 1884 prese parte alla Commissione che studiò il problema
delle scuole italiane in Tunisia; tra il 1893 e il 1894 fu in quella che
preparò il codice penale militare, nel 1904 in quella per l’esame del
disegno di legge per l’Assegnazione del vitalizio a Giosuè Carducci,
nel 1906 in quella dei Giochi Olimpici di Atene [SARTI 1890, pp.
763-764].
132
ELISABETTA FIOCCHI MALASPINA
Tra il 1865 e il 1910 si collocano anche le pubblicazioni più significative e interessanti concernenti il diritto internazionale, tra le
quali, a titolo esemplificativo si riportano: Il progresso del diritto pubblico
e delle genti (Modena 1866)1, Storia degli studi del diritto internazionale in
Italia (Modena 1869), La chiesa cattolica nel diritto comune (Firenze
1870); Gli arbitrati internazionali (Napoli 1872), Storia del diritto internazionale nel secolo XIX (Napoli 1876), Trattato di diritto internazionale
(1881); I trattati internazionali e lo statuto italiano (Napoli 1907).
Tra le numerose onorificenze si ricordano la nomina a Cavaliere,
Commendatore, Grande Ufficiale dell’Ordine della Corona d’Italia,
Commendatore dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro, Grande Ufficiale dell’Ordine di Carlo III (Spagna), dell’Ordine di Leopoldo
(Belgio), dell’Ordine di S. Michele di Baviera (Germania), dell’Ordine della Stella (Romania) e infine Cavaliere dell’Ordine del Salvatore (Grecia). Gli furono attribuite per meriti accademici la laurea
honoris causa nel 1895 dalle università di Oxford e di Edimburgo nel
1905 [SARTI 1890, pp. 763-764].
I contemporanei scrivevano che la figura di Pierantoni «torreggia
[...] su quella di tutti gli altri parlamentari italiani e quando cammina
coll’enorme cilindro in capo, sembra un monumento che s’avanzi»
[MALATESTA 1941, p. 320].
La morte lo colse il 12 marzo 1911 alle soglie dello scoppio della
prima guerra mondiale. Queste le parole del suo carissimo amico e
collega Lodovico Mortara, dette durante la commemorazione in
Parlamento:
1 Spedì un esemplare di questa opera anche a Giuseppe Garibaldi, il quale da San
Fiorano, dove era ospite dei Pallavicino gli scrisse: «Mio caro Pierantoni, grazie
per l’opera vostra bellissima che ho cominciato a leggere con tanto interesse. A
voi milite dell’intelligenza e del braccio, tocca il propugnare i diritti dell’umanità
ed emancipare l’Italia dall’impostura pretina che la travaglia» [Augusto Pierantoni
nell'anno XL dell'insegnamento universitario 1906, p. 9].
133
Diritto internazionale ed emigrazione italiana tra Otto e Novecento
La scienza giuridica italiana ha perduto veramente uno dei suoi
cultori molto illuminati, che fu dei più fecondi e benemeriti;
poiché senza dubbio Augusto Pierantoni, nella lunga sua attività d’insegnante, di pubblicista, di rappresentante della
scienza e del Governo d’Italia, in congressi, in riunioni diplomatiche, conferenze giuridiche e interparlamentari presso Stati
stranieri, ebbe sempre a tener alto nobilissimamente il decoro
della cattedra italiana, e fu degno erede di Pasquale Stanislao
Mancini nel rappresentare l’Italia come antesignana di quel
movimento degli studi giuridici che precorre le aspirazioni dei
cuori di tutte le persone benpensanti verso la meta dell’affratellamento dei popoli sotto una legge comune, sotto una
norma giuridica universale che rappresenti il trionfo della civiltà e della pace [MORTARA 1911, p. 4757].
Pierantoni sull’emigrazione: un problema di diritto internazionale
Come è stato acutamente osservato da Breccia molteplici sono le
tematiche che interessavano a Pierantoni giurista e politico, quali in
primis l’esigenza di una discussione seria sulla possibilità di estendere
il principio di territorialità in relazione alle leggi nazionali e l’inquadramento giuridico degli stranieri presenti nello Stato italiano, il crescente interesse alle questioni legate al diritto internazionale privato
che ben si palesava in casi successori o matrimoniali [BRECCIA
2017, pp. 47-61].
In tale senso, nella varietà di problemi affrontanti da Pierantoni,
dopo aver ripercorso alcuni eventi significativi della sua vita, è opportuno concentrare l’attenzione in modo più specifico sul ruolo
che ha avuto il giurista durante i dibattiti parlamentari per il discusso
tema dell’emigrazione italiana tra Otto e Novecento, in particolare
si prenderanno come esempio due differenti situazioni in cui il giurista fece sentire la propria voce: il primo è la promulgazione della
134
ELISABETTA FIOCCHI MALASPINA
legge n. 23 del 1901 e l’analisi di un saggio relativo all’emigrazione
scritto dopo di essa; il secondo è la fondazione da parte del governo
italiano della scuola diplomatico-coloniale, il cui scopo, oltre a quello
più squisitamente espansionistico coloniale, era quello di cercare di
offrire agli emigrati un corpo diplomatico-consolare preparato e
pronto a rispondere agli interessi di coloro che erano ormai lontani
dall’Italia.
L’impegno si concretizzava in proposte di legge e interventi in
Parlamento, tanto che fu definito come
[un] oratore forte, abbondante, dalla figura gigantesca, dalla
voce sonora, rivela il sentimento fortissimo di quello, che
dice, nel lampo degli occhi, nei lineamenti del viso. Egli trattò
infinite questioni sempre da un punto di vista elevato e liberale. Nelle due tribune parlamentari non portò l’abitudine
della cattedra, perché non trascurò i fiori del parlare, l’ironia,
l’epigramma: non sacrificò la verità alla opportunità politiche
anzi ebbe il coraggio di dimostrarla al chiaro giorno. In tanti
anni pieni di lavoro conserva tuttora un animo pieno di fede
nei migliori destini della patria e dell’umanità. La memoria
fortissima lo serve fedelmente per nutrire di fatti e di esempi
le sue dimostrazioni e per improvvisare discorsi che, tradotti
a stampa, sembrano lungamente meditati [Augusto Pierantoni
nell’anno XL dell’insegnamento universitario 1906, p. 9].
Al centro delle sue attività non c’era solo la politica ma anche l’istruzione accademica; egli si fece portavoce delle necessità sentite dagli
emigranti italiani, presenti in Africa e in Sud America e in più di una
occasione in Parlamento prese le loro difese affinché venissero loro
riconosciuti tutti di diritti spettanti a un cittadino italiano.
Rilevante è il saggio dato alle stampe nel 1901 intitolato La legge
per la emigrazione nei suoi rapporti col servizio militare e con la cittadinanza:
l’occasione fu la promulgazione della legge n. 23 del 31 gennaio
135
Diritto internazionale ed emigrazione italiana tra Otto e Novecento
1901. Pierantoni ripercorse, alternando le posizioni di illustri deputati e senatori, le tappe che portarono a questa legge, partendo dalle
prime disposizione adottate dopo l’unificazione italiana, come la circolare emessa nel 1868 dal presidente del Consiglio Menabrea o la
circolare Lanza (del 18 gennaio del 1873) sino a soffermarsi sulla
legislazione italiana tra Otto e Novecento. Il punto cruciale verteva
sulla ricostruzione delle modalità con cui il governo italiano nel
corso degli ultimi quarant’anni avesse garantito (o non garantito) i
propri emigranti, soprattutto nel caso di coloro che dovevano espletare il servizio militare [PIERANTONI 1901a].
La questione era decisamente molto delicata e complessa. Pierantoni era critico nei confronti della legge del 1901; già in sede di discussione del disegno aveva contestato con fermezza l’articolo 33
dove si statuiva al comma quarto che:
Gl’iscritti nati o residenti all’estero o espatriati, prima di aver
compiuto il sedicesimo anno di età in America, Oceania, Asia
(esclusa la Turchia), Africa (esclusi i domini e protettorati italiani, l’Egitto, la Tripolitania, la Tunisia, l’Algeria e il Marocco), qualora vengano arrolati, sono provvisoriamente dispensati dal presentarsi alle armi, finché duri la loro residenza
all’estero. In caso di mobilitazione generale dell’esercito o
dell’armata, saranno obbligati a presentarsi, con quelle eccezioni però che verranno allora stabilite, in relazione alla possibilità in cui essi si trovino di rimpatriare in tempo utile.
Per Pierantoni si faceva un danno enorme all’emigrazione e ai vincoli familiari, «creandosi da una parte l’arbitrio e dall’altra il privilegio. Bastava disporre che gl’Italiani, nati in paesi dove debbono sottostare al servizio militare, sono esenti dallo stesso servizio in Italia».
Il giurista era fermamente convinto che l’equivoco cristallizzato in
questa previsione normativa avrebbe avuto una serie di effetti per
così dire a cascata sulla gestione dei rapporti e interessi, non solo
militari, tra l’Italia e le sue colonie [PIERANTONI 1901].
136
ELISABETTA FIOCCHI MALASPINA
C’è un’ulteriore questione che emerge dagli scritti parlamentari e
dottrinali dell’avvocato proprio in occasione della promulgazione
della legge sull’emigrazione del 1901: si tratta del ruolo che avrebbero dovuto rivestire gli agenti diplomatici e in particolare il tema
della loro eccellente preparazione e formazione.
È opportuno precisare che scrivere di emigrazione tra Otto e
Novecento significava relazionarsi direttamente con il colonialismo:
si era dinnanzi a una tematica duplice che coinvolgeva da un lato il
cittadino italiano che si trasferiva all’estero, dall’altra le mire espansionistiche della politica coloniale italiana. È sotto quest’ultima veste
che si può comprendere l’iniziativa sostenuta da Pierantoni per la
creazione di una scuola diplomatico-coloniale. Pierantoni concretizzava quel lavoro di mediazione tra istanze “universali” e particolari,
tra colonialismo e istanze umanitarie che caratterizzava molti esperti
e professori di diritto internazionale lungo il corso dell’Ottocento2.
Era lo stesso Pierantoni a ricordare che: «Noi italiani più degli
altri dobbiamo comprendere i nostri diritti e i nostri doveri per il
grande aumento della nostra emigrazione» e che più che mai lo studio del diritto internazionale privato fosse necessario perché tale
materia deve «tutelare i diritti dei nostri cittadini all’estero» [PIERANTONI 1902b, pp. 12-13].
Si batté tantissimo perché nelle colonie venisse inviato un corpo
diplomatico preparato e cosciente dell’arduo lavoro che avrebbe dovuto compiere, non è infatti un caso che fu il fondatore della prima
Opportuno è riportare l’opera di mediazione offerta dai professori di diritto internazionale, che secondo Luigi Nuzzo e Milos Vec era chiamati a «mediate between universalism and nationalism, humanitarian aspirations and colonial impulses, technical, economic and financial challenges, nations and states, recognized states as subjects of knowledge; yet they also thought it necessary to spread
a new legal science over the world – with regard to that they incorporated a deep
supranational dimension into their general principles. International law became
the product of a historical reflection by an elite of intellectuals that, thought an
organic relationship with the conscience of civilized nations, translated value into
a scientific system» [NUZZO-VEC 2012, p. XII].
2
137
Diritto internazionale ed emigrazione italiana tra Otto e Novecento
Scuola diplomatico-coloniale italiana, antesignana della facoltà di
scienze politiche dell’università di Roma3.
L’interessamento e l’esigenza di un’istruzione coloniale, sebbene in relazione all’emigrazione, fu sentito anche dal governo
qualche mese dopo l’approvazione della legge n. 23 del 31 gennaio
1901. Nel maggio e nel giugno1901 durante il governo Zanardelli,
il ministro dell’Istruzione Nunzio Nasi, intervenendo alle Camere
e poi in Senato sul bilancio della Pubblica Istruzione, affrontò la
questione relativa all’insegnamento coloniale. Nasi, come illustrato
da Giancarlo Monina, precisò le sue intenzioni indicando la creazione di scuole speciali per l’emigrazione, l’istituzione di cattedre
di medicina tropicale e di corsi di legislazione coloniale, di geografia medica e commerciale, di igiene navale in alcune università. Proposte legate essenzialmente al crescente fenomeno migratorio
[MONINA 2002, p. 59].
Nell’ottobre successivo il ministro sottopose al Consiglio superiore della pubblica istruzione un programma più dettagliato che
prevedeva l’istituzione di nuove cattedre, un progetto di trasformazione della Scuola economico amministrativa annessa alla facoltà
3
La scuola era stata costituita con il regio decreto del 514 del 5.12.1901, ma, come
si vedrà, non ebbe lunga vita. Bisogna notare, comunque, che la scuola diplomatico-coloniale di Roma ebbe un certo rilievo nella storia delle istituzioni accademiche nazionali dal momento che essa nacque nel 1901 dalla trasformazione del
corso complementare di scienze economiche e amministrative, creato nel 1876
presso la Facoltà romana di giurisprudenza, il quale corso (posto sotto la guida di
Angelo Messedaglia ordinario di economia politica dell'Università di Pavia e docente incaricato di statistica all'Ateneo della Capitale) a sua volta derivava dalla
modificazione della Scuola economico-amministrativa istituita nel 1875 (per volontà del Ministro Francesco De Sanctis) nell'ambito della Facoltà legale romana.
In definitiva si può dire che la Scuola diplomatico-coloniale costituì una significativa anticipazione della futura facoltà di scienze politiche dell'Università di Roma.
Quest'ultima fu creata quando Giovanni Gentile era Ministro della pubblica Istruzione, con il regio decreto legge n. 1604 del 4.09.1925, il quale faceva seguito al
regio decreto legge n. 527 del 27.03.1924, istitutivo della Scuola di scienze politiche: [CARAVALE 1995].
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ELISABETTA FIOCCHI MALASPINA
giuridica di Roma in Scuola consolare-diplomatica, di cui il fondatore e primo direttore fu proprio Pierantoni. Il Regio decreto del 5
dicembre 1901 ne sancì la nascita con le finalità di preparare gli aspiranti alle carriere dipendenti dal ministero degli Affari Esteri; e in
generale di promuovere la diffusione di quelle cognizioni scientifiche relative all’emigrazione [MONINA 2002, p. 91].
Come si legge anche dalle carte ancora inedite di Pierantoni, conservate presso l’Istituto per la storia del Risorgimento italiano, il
corso della durata di due anni prevedeva gli insegnamenti di politica
dell’emigrazione e delle colonie, geografia politica e coloniale, diritto
diplomatico, politica commerciale e legislazione doganale comparate. Lo stesso Pierantoni vi insegnò storia e diritto dei trattati4.
La Regia Scuola tuttavia non fu recepita con favore soprattutto
dagli accesi esponenti coloniali che vi scorsero «una antica reminiscenza della legislazione scolastica italiana» e quattro anni dopo la
scuola fu soppressa il 24 novembre 1905 e sostituita con l’Istituto
superiore di studi commerciali e coloniali. Resta in ogni caso indiscusso l’apporto di Pierantoni, che come esponente moderato del
parlamento italiano sulle questioni coloniali si fece portavoce in veste di mediatore giuridico delle richieste degli emigranti italiani, nel
continuo desiderio di formazione culturale unita alla presenza di un
corpo diplomatico-consolare che sapesse rispondere anche ai bisogni dei propri concittadini.
Conclusioni
Martti Koskenniemi ha recentemente illustrato il complicato e articolato intreccio della storia delle storie del diritto internazionale: la
4 Il Fondo Pierantoni è conservato presso l’Archivio dell’Istituto per la Storia del
Risorgimento (Roma) alla segnatura MCRR. B. 767-784.
139
Diritto internazionale ed emigrazione italiana tra Otto e Novecento
diversità di presupposti, dei punti di partenza, della scelta delle tematiche nella sua narrazione crea una molteplicità di possibili rappresentazioni dell’evoluzione del diritto internazionale con ripercussioni anche fino ai nostri giorni [KOSKENNIEMI 2012, pp. 943971].
Era stato lo stesso giurista finlandese a sostenere che uno dei
possibili scenari della narrazione della storia del diritto internazionale, oltre alla visione non eurocentrica e alla storia intellettuale,
fosse proprio quello di “raccontare” la storia sociale che tenesse
conto delle diverse tipologie di società internazionali studiate in
connessione con sistemi normativi a essi collegati
[KOSKENNIEMI 2004, pp. 61-66].
Le prime ricerche esposte all’interno di questo saggio hanno
avuto l’obiettivo di perseguire proprio quest’ultima possibile strada:
attraverso «il racconto» della biografia di Augusto Pierantoni che
quale esperto di diritto internazionale si è trovato a rivestire diverse
cariche lungo il corso della sua vita, si è cercato di mettere in luce
l’ambiguità intrinseca della disciplina tesa verso le istanze giuridiche,
quelle politiche e quelle più strettamente “umane”, come il rispetto
e la cristallizzazione dei diritti spettanti ai migranti, in un periodo
storico molto significativo del Regno d’Italia tra Otto e Novecento.
La storia sociale del diritto internazionale attraversa anche le pieghe del pensiero di illustri professori, come Pierantoni, che contribuirono in prima persona alla traduzione giuridica dei bisogni giuridici provenienti dagli emigranti, alla promulgazione della legge del
1888 alla successiva del 1901, alla creazione di una apposita scuola
che tra colonialismo e tutela dell’emigrante sapesse garantire e tutelare i diritti di coloro che, per diverse ragioni, lasciavano l’Italia.
140
ELISABETTA FIOCCHI MALASPINA
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fine dei corsi il 2 giugno 1922, Ludovico Cecchini, Roma 1902.
PIERANTONI 1907: Pierantoni Augusto, La giustizia internazionale
e le leggi della guerra (1899). Il manifesto della II conferenza dell’Aja
(1907), Cooperativa Tipografica Manuzio, Roma 1907.
SARTI 1890: Sarti Telesforo, Il Parlamento subalpino e nazionale: profili
e cenni di tutti i deputati e senatori eletti e creati dal 1848 al 1890
(legislature XVI), Tip. Editrice dell’industria, Terni 1890, pp.
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SARTI 1898: Sarti Telesforo, Il parlamento nel cinquantenario dello Statuto: profili e cenni biografici di tutti i senatori e deputati, Tip. Agostiniana, Roma 1898, pp. 433-434.
TAVILLA 2017: Tavilla Elio, «Introduzione a Augusto Pierantoni,
Dell’abolizione della pena di morte», Historia et ius, n. 11/2017, pp.
1-8, www.historiaetius.eu-11/2017-paper18.
143
L’impatto (in)volontario (?) del Regolamento Eurodac 603/2013
per la raccolta e comparazione delle impronte digitali sulla
tutela dei diritti della persona umana
di Agostina Latino
Com’è noto, la disciplina del cd “Spazio di Libertà, Sicurezza e Giustizia” del Trattato di Lisbona ha caratteristiche del tutto peculiari
rispetto alle altre politiche europee, in quanto, seppur improntata a
un alto paradigma valoriale, è fra le più caldamente contestate. Le
politiche dell’immigrazione, dell’asilo e dei visti rientrano tra le competenze concorrenti dell’Unione europea (Ue), poiché connaturate
al tradizionale concetto di sovranità statale, sicché sono influenzate
da paure nazionali, ideologie rivali e sensibilità politiche contrastanti.
È sicuramente la vera e propria cartina al tornasole degli (auspicati?)
sviluppi del processo d’integrazione. A tal fine, l’Unione – con risultati parziali e differenziati quanto al concreto impatto sui singoli Stati
membri – si è dotata di un complesso insieme di strumenti normativi
che cercano di equilibrare l’esigenza di predisporre un sistema di difesa protettiva per contrastare le migrazioni auto-avviatesi, con
l’istanza di garantire porte di passaggio tali da permettere flussi specifici, soprattutto per coloro i quali hanno diritto al riconoscimento
dello status di rifugiato.1
L’articolato insieme di norme europee, di natura alquanto eterogenea, costituisce
il cd Sistema comune europeo di asilo (SECA). Già a pochi anni dall’entrata in
vigore del II Pacchetto SECA (2013-15), la Commissione ne ha proposto una
1
L’impatto (in)volontario (?) del Regolamento Eurodac 603/2013
In questo contributo si analizzerà in chiave critica la disciplina
legislativa europea in materia di rilevamento delle impronte digitali,
nell’ottica di un bilanciamento tra l’interesse dello Stato e delle amministrazioni pubbliche all’adempimento di un dovere e il rispetto
dei diritti umani fondamentali di chi, potenziale richiedente asilo,
fugge da guerre e persecuzioni.
Il 20 luglio 2015 è entrato in vigore il nuovo Regolamento Eurodac (Regolamento UE n° 603/2013)2, approvato dal Parlamento europeo e dal Consiglio il 26 giugno 2013 contemporaneamente al cd
Regolamento Dublino III3 che si applica già dal 1° gennaio 2014.
Conseguentemente, a partire dalla medesima data, risultano abrogati
il vecchio Regolamento Eurodac (Regolamento Ce n° 2725/2000) e
nuova modifica integrale: per un primo commento in dottrina si veda CAGGIANO 2016.
2 Regolamento n.603/2013, del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno
2013 che «istituisce l'“Eurodac” per il confronto delle impronte digitali per l'efficace applicazione del regolamento (Ue) n. 604/2013 che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l'esame di una
domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un
cittadino di un Paese terzo o da un apolide e per le richieste di confronto con i
dati Eurodac presentate dalle autorità di contrasto degli Stati membri e da Europol a fini di contrasto, e che modifica il regolamento (UE) n. 1077/2011 che istituisce un'agenzia europea per la gestione operativa dei sistemi IT su larga scala
nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia (rifusione)». La base giuridica del Regolamento si trova negli artt. 78 par. 2 lett. e); 87 par. 2 lett. a) e 88 par. 2 lett. a)
del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE). Il Regolamento
603/2013 si applica anche al Regno Unito (almeno fino a che non si perfezionerà
il suo recesso dall’Ue) e alla Danimarca, mentre l'Irlanda ha scelto di non esserne
vincolata, rimanendo però assoggettata alla versione precedente. Il testo è consultabile all’indirizzo web: http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/
?uri=CELEX% 3A32013R0603. Una scheda di sintesi del Regolamento si legge
alla pagina web: http://www.asiloineuropa.it/2011/05/21/regolamento-eurodac-scheda/
3 Regolamento n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 26 giugno
2013 che «stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro
competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata
in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo o da un apolide (rifusione)». Il testo è consultabile all’indirizzo web: http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2013:180: 0031:0059:IT:PDF
146
AGOSTINA LATINO
il suo regolamento applicativo (Regolamento Ce n. 407/2002). Il sistema Eurodac (European Dactyloscopie-Dattiloscopia europea), è il database dei dati biometrici su larga scala dell’Ue nel quale sono registrate le impronte digitali dei richiedenti asilo e dei cittadini di Paesi
terzi non appartenenti allo Spazio Economico Europeo (SEE), affinché tali dati possano essere condivisi e confrontati fra gli organi
preposti all’uopo nei vari Stati membri.4 Occorre ricordare che le
impronte digitali dei cittadini dell’Ue vengono memorizzate nei loro
passaporti ai sensi del regolamento (Ce) n. 2252/2004 del Consiglio,
del 13 dicembre 2004, che dispone l’inserimento dei dati biometrici
anche nei permessi di soggiorno Schengen. Gli individui che hanno
bisogno di un visto per entrare nello spazio Schengen devono registrare le loro impronte digitali nel Sistema di informazione visti
(Visa Information System - VIS), un sistema informatico di notevoli
dimensioni che contiene diversi milioni di impronte digitali e altri
dati personali, come ad esempio i segni fisici particolari.5
4 Per un’analisi dell’impatto del sistema Eurodac nel nostro ordinamento si veda
FULLERTON 2016, pp. 55 ss. Una panoramica generale, ricca di dati statistici, è
rinvenibile in FRATZKE 2015.
5
Cfr. Regolamento (CE) n. 767/2008 del Parlamento europeo e del Consiglio, del
9 luglio 2008, «concernente il sistema di informazione visti (VIS) e lo scambio di
dati tra Stati membri sui visti per soggiorni di breve durata (regolamento VIS)».
Lo scopo principale è quello di facilitare lo scambio dei dati biometrici e le decisioni prese al riguardo della richiesta di un visto di breve durata fra i Paesi membri,
agevolando sia la procedura per esaminare la richiesta di visto ai consolati, sia i
controlli ai valichi di frontiera esterni, poiché consente alle autorità di frontiera di
verificare se la persona che trovano di fronte è la medesima che ha ottenuto il
visto dal consolato. Questa prassi è di primaria importanza per ciò che riguarda la
protezione internazionale, in quanto tutti i Paesi di provenienza dei richiedenti
asilo sono inseriti nella cosiddetta “lista nera”, ossia la lista di quei Paesi i cui
cittadini sono soggetti all’obbligo di visto per entrare nell’area Schengen. Corollario immediato è che, per raggiungere uno degli Stati membri al fine di presentare
la propria domanda di protezione, ai richiedenti asilo non resta altra strada che
quella dell'ingresso irregolare, poiché non è infatti prevista la possibilità di chiedere un visto “per cercare protezione”.
147
L’impatto (in)volontario (?) del Regolamento Eurodac 603/2013
Ai sensi del nuovo Regolamento Eurodac, tutti i richiedenti asilo
e i migranti fermati per aver attraversato irregolarmente una frontiera – tranne i minori al di sotto dei 14 anni di età – devono fornire
le loro impronte digitali affinché queste siano archiviate nella banca
dati Eurodac: di tal guisa, quando gli Stati membri fermano migranti
in situazione irregolare all’interno del proprio territorio, possono
confrontare le loro impronte digitali con la banca dati Eurodac6.
Questo controllo, rapido e automatizzato, è volto a scongiurare, da
un lato, il rischio che un individuo possa chiedere in più Paesi membri l’asilo o che lo richieda in un altro a seguito di diniego (cd. asylum
shopping); dall’altro, il pericolo che i clandestini possano spostarsi liberamente nel territorio dell’Unione grazie alla tracciabilità dei loro
dati, custoditi in un unico archivio europeo comune e non frammentati in tanti archivi nazionali7.
L’Eurodac è funzionale al cd sistema di Dublino, il meccanismo
creato per individuare lo Stato membro competente per l’esame di
una domanda d’asilo: è stabilito infatti che, in assenza di connessioni
con un particolare Stato membro (ad esempio un visto o la presenza
di familiari sul territorio), incombe sullo Stato membro attraverso il
quale il richiedente asilo è entrato nell’Ue o nello spazio Schengen
6
In pratica, quando la forza di polizia procede all’identificazione e all’acquisizione delle impronte della persona, invia il tutto all'unità centrale situata presso
la Commissione europea la quale effettua in tempo reale i confronti nella base
dati al fine di individuare se al suo interno sono custodite le medesime impronte.
Il meccanismo è simile a quello dell'Automated Fingerprint Identification System
(AFIS, ovvero Sistema Automatizzato di Identificazione delle Impronte) utilizzato anche in Italia.
7 In verità, «dès l’origine l’objectif du fichier Eurodac n’a pas été lié à l’asile,
mais à la lutte contre l’immigration clandestine» e «l’addition d’un protocole
permettant d’étendre la prise d’empreintes digitales aux immigrés illégaux en est
la preuve éclatante» [PREUSS-LAUSSINOTTE 2000, p. 58]. Sulla funzione di
Eurodac quale freno per le domande di asilo “abusive”, si veda TOUSSAINT
1999, pp. 421 ss.
148
AGOSTINA LATINO
l’obbligo di esaminare la domanda di asilo.8 Ebbene, lo Stato membro di primo approdo solitamente viene individuato proprio attraverso la consultazione dell’Eurodac (anche se talvolta possano essere utilizzati altri elementi di prova, quale ad esempio i biglietti ferroviari) dato che nella più gran parte dei casi i richiedenti asilo non
possiedono documenti di identità validi – come un passaporto con
il timbro del Paese in cui hanno attraversato la frontiera europea –
che consentano di ricostruire in maniera puntuale il loro itinerario
di viaggio. Il sistema di Dublino può funzionare efficacemente soltanto se gli Stati membri possono agevolmente e rapidamente verificare se un individuo ha già presentato domanda di asilo, o è stato
fermato per aver attraversato irregolarmente una frontiera esterna in
un altro Stato membro dell’Ue o in un Paese associato a Schengen
(ossia Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera). Il rilevamento
delle impronte digitali per l’Eurodac contribuisce all’identificazione
dell’asilante poiché consente di stabilire un nesso tra questi e i dati
Eurodac inseriti in passato: a norma dell’art. 34 del Regolamento di
Dublino, laddove risulti un abbinamento dei dati, le autorità del
Paese presso cui è stata presentata la domanda di asilo possono fare
8
Peraltro il 19 ottobre 2017, con 43 voti a favore e 16 contrari, i membri della
commissione Libertà civili, Giustizia e Affari interni (Libe) del Parlamento europeo hanno approvato un testo che riforma profondamente il Regolamento n.
604/2013. In estrema sintesi le novità del nuovo Regolamento di Dublino IV si
imperniano su tre aspetti: 1. viene eliminato il nesso tra il Paese nel quale l’asilante
ha fatto ingresso irregolare e l’esame della sua domanda di protezione, poiché la
competenza dovrebbe essere individuata sulla base di quote che riguardano tutti i
Membri dell’Unione; 2. viene ampliata la nozione di famiglia che si estende ai fratelli e sorelle del richiedente nonché ai figli maggiorenni, purché; 3. assume rilievo
giuridico nella individuazione dello Stato Ue competente a esaminare la domanda
l’esistenza di “fattori di collegamento” tra l’asilante e il Paese nel quale lo stesso
chiede di recarsi, come ad esempio precedenti soggiorni, corsi di studio e formazione effettuati in precedenza e sponsorizzazione del richiedente da parte di un
ente accreditato. Per i primi commenti, comunque critici, in dottrina si veda PROGIN-THEUERKAUF 2017, pp. 61 ss.
149
L’impatto (in)volontario (?) del Regolamento Eurodac 603/2013
richiesta dei dati personali allo Stato membro che per primo ha inserito la persona in questione nella banca dati Eurodac.9
Il nuovo Regolamento Eurodac è uno strumento di più ampia
portata e respiro rispetto al precedente: il preambolo consta di ben
54 Consideranda (rispetto ai 23 del vecchio Regolamento) e gli articoli
passano da appena 27 a 46, divisi in 9 capi.
In effetti, la necessità di individuare con maggiore precisione i
dati da trasmettere, i sistemi di raccolta, trasmissione e conservazione degli stessi, nonché le nuove modalità di accesso a tali dati e i
diritti dell’interessato, danno vita a un atto giuridico estremamente
complesso, che necessita di un’analisi critica.
Innanzitutto, per quel che concerne il rilevamento delle impronte
digitali, il Regolamento Eurodac rimanda alle “prassi nazionali dello
Stato membro interessato” ma dispone in ogni caso che tale rilevamento debba avvenire «in conformità delle salvaguardie previste
dalla Carta dei dritti fondamentali dell’Unione europea, dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo» (art. 3, par. 5).
Nel dettaglio, in primo luogo, ex art. 9, il Regolamento prevede
l’obbligo degli Stati di procedere «tempestivamente al rilevamento
delle impronte digitali di tutte le dita di ogni richiedente protezione
9 Inoltre, l’art. 1, par. 3, del regolamento Eurodac, consente allo Stato membro di
primo approdo di confrontare le impronte digitali acquisite per le finalità di Eurodac con altre banche dati create in base alla legislazione nazionale, ad esempio
banche dati nazionali sugli stranieri. In determinate condizioni, l’art. 20 del regolamento Eurodac e gli artt. 21 e 22 del regolamento VIS consentono di cercare le
impronte digitali dei richiedenti asilo nel Sistema di informazione visti (VIS). Di
conseguenza, almeno in queste situazioni e in linea con il considerando 5 del regolamento Eurodac («Costituendo le impronte digitali un elemento importante per
la determinazione dell'identità esatta di tali persone, occorre istituire un sistema
per il confronto dei dati relativi alle loro impronte digitali»), le impronte digitali
rilevate per Eurodac potrebbero anche servire per determinare o verificare l’identità di una persona. Cfr. infra.
150
AGOSTINA LATINO
internazionale di età non inferiore a 14 anni non appena possibile e
in ogni caso entro 72 ore dalla presentazione della domanda», salve
alcune possibilità di proroga. I dati trasmessi (oltre alle impronte digitali, anche Stato di origine, sesso e altri) sono automaticamente
confrontati con gli altri dati registrati nel sistema centrale, da cui
viene inviata una risposta positiva (“HIT”: dato già registrato) o negativa (dato nuovo). Tali dati sono poi conservati nel sistema centrale per 10 anni, salvo che l’interessato acquisisca prima di quella
scadenza la cittadinanza di uno Stato membro. Questo termine è
predisposto a tutela della vita privata dell’individuo, ma anche per
evitare ritorsioni nel suo Paese di origine, così come del pari risponde alla medesima ratio il divieto di condividere con Paesi terzi i
dati raccolti da Eurodac. In secondo luogo, ai sensi dell’art. 14, è
sancito l’obbligo degli Stati di procedere «tempestivamente al rilevamento delle impronte digitali di tutte le dita di cittadini di Paesi terzi
o apolidi di età non inferiore a 14 anni che siano fermati dalle competenti autorità di controllo in relazione all’attraversamento irregolare via terra, mare o aria della propria frontiera in provenienza da
un Paese terzo e che non siano stati respinti». Anche questi dati (oltre alle impronte digitali, Stato di origine, sesso e altri) devono essere
trasmessi entro 72 ore dopo la data del fermo, salve alcune possibilità di proroga. Tali dati sono conservati per 18 mesi (salvo che all’interessato sia rilasciato prima della scadenza un titolo di soggiorno,
ovvero che lo stesso abbia lasciato il territorio dell’Ue ovvero abbia
acquisito la cittadinanza di uno Stato membro) per essere confrontati con i dati relativi ai richiedenti protezione internazionale che
verranno trasmessi al sistema centrale successivamente. Infine, in
terzo luogo, in base all’art.17, è prevista la facoltà per gli Stati di trasmettere al sistema centrale i dati relativi alle impronte digitali rilevate a un cittadino di Paese terzo o apolide di età non inferiore a 14
anni soggiornante irregolarmente nel loro territorio, al solo fine di
151
L’impatto (in)volontario (?) del Regolamento Eurodac 603/2013
stabilire se tale individuo abbia precedentemente presentato domanda di protezione internazionale in un altro Stato membro. Tali
dati, peraltro, non sono conservati nel sistema centrale.
Va sottolineato che il nuovo Regolamento introduce la possibilità
di consentire – a certe condizioni – l’accesso ai dati contenuti nel
sistema Eurodac anche alle autorità nazionali di contrasto al terrorismo o ad altri reati gravi nonché a Europol.
Questa prima – e senz’altro più rilevante – differenza rispetto al
Regolamento del 2000 si trova già nel titolo: non ci si limita più a
istituire l’Eurodac per il confronto delle impronte digitali per l’efficace applicazione del regolamento Dublino, ma si aggiunge «e per le
richieste di confronto con i dati Eurodac presentate dalle autorità di
contrasto degli Stati membri e da Europol a fini di contrasto».10
Detto in altri termini, la grande differenza (che ha costituito il
nodo cruciale nell’iter legislativo tra Parlamento europeo e Consiglio
UE)11 rispetto alla precedente versione del Regolamento Eurodac,
Questa finalità è ripresa nell’8° Considerando del Regolamento: «Nella lotta al
terrorismo e ad altri reati gravi è essenziale che le autorità di contrasto dispongano
delle informazioni più complete e aggiornate possibili per poter svolgere i loro
compiti. Le informazioni contenute nell’Eurodac sono necessarie a fini di prevenzione, accertamento o indagine di reati di terrorismo di cui alla decisione quadro
2002/475/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, sulla lotta contro il terrorismo,
o di altri reati gravi di cui alla decisione quadro del Consiglio 2002/584/GAI, del
13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri. È pertanto necessario che i dati dell’Eurodac siano messi a
disposizione delle autorità designate dagli Stati membri e dell’Ufficio europeo di
polizia (Europol) a fini di confronto, nel rispetto delle condizioni previste dal presente regolamento».
11 L’elaborazione del Regolamento ha avuto infatti un percorso travagliato e burrascoso. La prima proposta di rifusione del regolamento 2725/2000 risale al dicembre 2008 e fu modificata una prima volta nel settembre 2009. In quell'occasione comparve la possibilità di accesso ai dati da parte delle autorità di contrasto
del terrorismo e di altri reati gravi. La proposta del 2009 venne però ritirata per
motivi tecnici e, in una successiva bozza del 2010 non se ne prevedeva l’utilizzo.
Infine, nel 2012, la Commissione avanzò un’altra proposta che reintroduceva tale
possibilità di accesso ai dati, ritenendola necessaria per avanzare nei negoziati e
10
152
AGOSTINA LATINO
istituito esclusivamente per consentire la determinazione dello Stato
membro competente all’esame della domanda di protezione internazionale, sta dunque nel fatto che viene introdotta la possibilità tanto per le autorità “responsabili della prevenzione, dell’accertamento o
dell’indagine di reati di terrorismo o altri reati gravi” (art. 5), designate da
ciascuno Stato membro, quanto per l’Europol (art. 7) di chiedere, a
determinate condizioni, l’accesso ai dati conservati nel sistema centrale di Eurodac.
Premesso che l’art. 2 lett. k) del Regolamento chiarisce la nozione
di reati gravi individuandoli in quelli che danno luogo a consegna in
base al mandato di arresto europeo12, «se punibili conformemente al
diritto nazionale con una pena detentiva o una misura di sicurezza
privativa della libertà personale per un periodo massimo di almeno
tre anni», per quel che concerne le autorità designate dagli Stati
membri, l’art. 20 elenca le condizioni per il loro accesso, prevedendo
che siffatte autorità di contrasto possano chiedere alle autorità di
verifica (ossia alle autorità degli Stati membri responsabili della prevenzione, dell’accertamento e dell’indagine di reati di terrorismo o
di altri reati gravi)13 il confronto di impronte digitali con i dati conservati nel sistema centrale di Eurodac, soltanto se hanno precedentemente e infruttuosamente proceduto al confronto sia con banche
dati dattiloscopiche nazionali; sia con sistemi automatizzati d’identificazione dattiloscopica di tutti gli altri Stati membri (qualora tale
arrivare all'approvazione di tutti gli strumenti rinnovati del sistema europeo comune di asilo nei termini previsti. Sui profili critici del nuovo Regolamento evidenziati già all’epoca della sua formulazione si veda: UNHCR, An Efficient and
Protective Eurodac, November 2012 al sito: http://www.unhcr.org/50adf9749.pdf
12 Decisione quadro del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa «al mandato d'arresto
europeo e alle procedure di consegna tra Stati (2002/584/GAI)», il cui testo si legge
all’indirizzo web: http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/ALL/?uri=CELEX:32002F0584.
13 Ai sensi del Regolamento le autorità designate e l’autorità di verifica possono
anche far parte della medesima organizzazione ma l'autorità di verifica deve agire
con indipendenza.
153
L’impatto (in)volontario (?) del Regolamento Eurodac 603/2013
confronto sia possibile); sia con i dati raccolti nel sistema VIS. A tal
fine occorre la sommatoria di tre circostanze: che tale confronto sia
necessario (ossia che esista un interesse prevalente di sicurezza pubblica tale da rendere proporzionata l’interrogazione della banca dati),
che tale confronto sia necessario nel caso specifico (dunque non devono essere eseguiti confronti sistematici) e, che:
esistano fondati motivi per ritenere che il confronto contribuisca in modo sostanziale alla prevenzione, all’individuazione o all’investigazione di uno dei reati in questione […] in
particolare laddove sussista il sospetto fondato che l’autore
presunto o effettivo oppure la vittima di un reato di terrorismo o di un altro reato grave rientri in una delle categorie
contemplate dal presente regolamento (art. 20, par.1, lett. a,
b, c) [LAFARGE 2015, p 327 ss.]
In merito all’accesso da parte di Europol, l’art. 21 ne elenca le condizioni, disponendo che l’autorità designata da Europol possa chiedere all’autorità di verifica (composta sempre da funzionari di Europol ma che agisca in modo indipendente) il confronto di impronte
digitali con i dati conservati nel sistema centrale di Eurodac soltanto
se il confronto con i dati conservati nei sistemi accessibili a Europol
non siano sufficienti sicché non consentano di stabilire l’identità
dell’interessato, sempre a condizione che sussistano gli elementi di
necessità, fondatezza e gravità di cui sopra. Un punto su cui occorre
attirare l’attenzione, poiché si presta a facili abusi, è la previsione che
«in casi eccezionali di urgenza ove sia necessario per prevenire un
pericolo imminente associato a reati di terrorismo o ad altri reati
gravi» è possibile per l’autorità di verifica trasmettere subito i dati
relativi alle impronte digitali e verificare solo a posteriori se siano
154
AGOSTINA LATINO
state rispettate tutte le condizioni di cui sopra, «compresa l’effettiva
sussistenza di un caso eccezionale di urgenza» (art. 19 par. 3).14
Detto in altri termini, gli artt. 20 e 21 dispongono che il sistema
Eurodac possa essere usato nel caso di un richiedente asilo e/o migrante, trovato a soggiornare illegalmente in un Paese membro, purché questi dati siano necessari e contribuiscano in maniera sostanziale alla prevenzione, individuazione o investigazione del reato di
terrorismo o altri reati gravi, ma solo se vi siano ragionevoli motivi
per ritenere che i dati Eurodac forniscano un aiuto sostanziale alle
indagini e come extrema ratio in seguito a diversi altri controlli.
Un’ulteriore novità introdotta dal nuovo Regolamento è la gestione di Eurodac che viene affidata all’Agenzia europea per la gestione operativa dei sistemi IT su larga scala nello spazio di libertà,
sicurezza e giustizia. 15 Tale Agenzia, che regola e controlla l’utilizzo
14
Questa possibilità pone evidenti problemi nel bilanciamento degli interessi e dei
diritti in gioco: era stato opportunamente affermato già in fase di elaborazione del
nuovo Regolamento Eurodac che «just because the data has already been collected, it should not be used for another purpose which may have a far-reaching
negative impact on the lives of individuals. To intrude upon the privacy of individuals and risk stigmatising them requires strong justification and the Commission has simply not provided sufficient reason why asylum seekers should be singled out for such treatment»: European Data Protection Supervisor-Peter Hustinx, EURODAC: Erosion of Fundamental Rights Creeps Along, 5 September 2012,
https://edps.europa.eu/press-publications/press-news/press-releases/2012/eurodac-erosion-fundamental-rights-creeps-along_en. Il testo del documento Opinion of the European Data Protection Supervisor on the amended proposal for a Regulation of
the European Parliament and of the Council on the establishment of 'EURODAC' for the
comparison of fingerprints for the effective application of Regulation (EU) No […/…] [.....]
(Recast version), si legge all’indirizzo web: https://edps.europa.eu/sites/edp/files/publication/12-09-05_eurodac_en.pdf
15 L’Agenzia europea per la gestione operativa dei sistemi IT su larga scala nello
spazio di libertà, sicurezza e giustizia, con sede a Tallin (Estonia), ha avviato i suoi
lavori il 22 marzo 2012 con la prima riunione del Consiglio di amministrazione.
L'Agenzia è stata istituita dal Regolamento (Ue) n° 1077/2011 del Parlamento
europeo del Consiglio del 25 ottobre 2011. L’Agenzia, competente per la gestione
operativa di Eurodac, è stata costituita per un duplice motivo: da un lato, il bisogno di mantenere sempre in funzione e aggiornati gli ormai numerosi (e sempre
più grandi e complessi) sistemi di tecnologia dell'informazione (IT) che operano
155
L’impatto (in)volontario (?) del Regolamento Eurodac 603/2013
dei dati biometrici raccolti, evidentemente molto sensibili, in accordo con i dettami imposti dal Regolamento stesso, garantisce il
funzionamento del sistema 24 ore al giorno, sette giorni su sette.
Ancora, il Regolamento prevede una serie di disposizioni sulla
responsabilità in materia di trattamento dei dati, trasmissione dei
dati e modalità di effettuazione dei confronti e di trasmissione dei
risultati, diritti dell’interessato, vigilanza delle autorità nazionali di
controllo e del garante europeo della protezione dei dati, nonché
sulla sicurezza dei dati e sul divieto di trasferirli a Paesi terzi, organizzazioni internazionali o soggetti di diritto privato (Capo VII).
Infine, è prevista una prima valutazione del Regolamento da
parte della Commissione europea sui risultati conseguiti rispetto agli
obiettivi e l’impatto sui diritti fondamentali entro il 20 luglio 2018.
Gli Stati membri ed Europol sono tenuti a predisporre una relazione
nello spazio di libertà, sicurezza e giustizia e che garantiscono lo scambio dei dati
fra le autorità degli Stati membri (quali il Sistema di Informazione Schengen di
seconda generazione – cd SIS II – e il VIS, oltre che ovviamente a Eurodac);
dall'altro, la creazione di un organismo specializzato, incaricato della gestione di
tali sistemi IT, dovrebbe creare sinergie e di conseguenza economie di scala, che
permettano di risparmiare risorse, oltre che garantire un servizio di qualità elevata
e un livello elevato di protezione dei dati. Fra i principali compiti specifici dell'Agenzia, oltre allo svolgimento dei compiti relativi alla gestione dei sistemi IT su
larga scala esistenti, vi è la formazione sull'uso di tali sistemi (artt. 3, 4 e 5), quella
di (se così previsto) preparare, sviluppare e gestire futuri sistemi IT, oltre che fare
formazione sul loro uso (art. 6), quella di gestire l'infrastruttura di comunicazione,
in particolare per proteggerla da minacce e garantire la sicurezza dei dati (art. 7),
quella di seguire gli sviluppi della ricerca per la gestione dei sistemi IT su larga
scala (art. 8) e quella, su richiesta della Commissione, di realizzare progetti pilota
sullo sviluppo e/o la gestione operativa di tali sistemi (art. 9). È importante sottolineare che i sistemi IT gestiti dall'Agenzia non si scambiano dati o non consentono la condivisione di informazioni o di conoscenze, salvo se così previsto da
una specifica base giuridica (art. 14Il Regolamento istitutivo dell'Agenzia dunque
non esclude la possibilità che SIS II, VIS, Eurodac ed eventuali futuri sistemi IT
gestiti dall'Agenzia si scambino dati o informazioni, subordinata all'esistenza di
una base giuridica che lo permetta, come – appunto – l’art. 38 del nuovo Regolamento Eurodac.
156
AGOSTINA LATINO
annuale sull’efficacia del confronto dei dati relativi alle impronte digitali con i dati Eurodac ai fini di contrasto del terrorismo o altri
reati gravi (art. 40).
Come si è visto, il nuovo Regolamento Eurodac sposta in modo
strisciante il focus dalla gestione dei flussi migratori e delle domande
di asilo all’identificazione degli individui sospettati di aver posto in
essere un reato.16 Questo nuovo paradigma incide profondamente
nella sfera giuridica e psicologica di individui che si trovano generalmente in una situazione di particolare vulnerabilità, reduci da cd.
viaggi della speranza, affrontanti in condizioni estreme. Ciò sovente
comporta il rifiuto a rilasciare le proprie impronte digitali sia per il
timore di essere trattenuti nello Stato di primo approdo considerato
di mero transito, sia per il timore che la propria identità possa essere
comunicata al Paese di origine con nefaste ripercussioni sui propri
familiari che si trovano ancora in quel territorio, sia per precedenti
esperienze negative con le forze dell’ordine nel Paese di provenienza.17 Inoltre talvolta le impronte digitali sono inintelligibili perché usurate dal lavoro manuale. Ebbene: mentre nel Regolamento
16
Ciò spiega perché, in fase di elaborazione, il draft del Regolamento fosse stato
fortemente contrastata tanto dalla commissione Meijers, composta da esperti in
materia di immigrazione internazionale, diritto dei rifugiati e del diritto penale
(Meijers Committee, Note Meijers Committee on the EURODAC Proposal
(COM(2012) 254), 10 October 2012, http://www.commissiemeijers.nl), quanto
dall’autorità di controllo comune di Europol per la protezione dei dati, che ha
dichiarato di non aver «seen no evidence from the Commission to prove such
access is necessary» (Joint Supervisory Body of Europol, Opinion of the Joint Supervisory Body of Europol (Opinion 12/52) with respect to the amended proposal for a Regulation
of the European Parliament and of the Council on the establishment of EURODAC, 10
October 2012, all’indirizzo web: www.europoljsb.europa.eu/opinions/
others.aspx?lang=en) nonché dall'Alto Commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR, An efficient and protective Eurodac…cit.). Tuttavia, il nuovo testo è
stato approvato in Parlamento con quasi tre quarti (502 ossia il 73%) dei deputati
che hanno votato a favore. [Establishment of ‘Eurodac’ for the comparison of fingerprints,
VoteWatch Europe, www.votewatch.eu]
17 Proprio alla luce di tali comportamenti diffusi, la Commissione europea ha pubblicato un documento volto all’adozione di best practices da parte degli Stati in questi
157
L’impatto (in)volontario (?) del Regolamento Eurodac 603/2013
VIS sono previste norme specifiche per questa fattispecie, anche al
fine di formare e istruire i funzionari a distinguere queste ipotesi dai
casi in cui la superfice dei polpastrelli sia stata fraudolentemente alterata, stupisce che disposizioni similari manchino del tutto nel Regolamento Eurodac.
È di palmare evidenza l’impatto che della prassi imposta dal Regolamento Eurodac quanto all’acquisizione e al trattamento delle
impronte digitali ha o può avere sui diritti fondamentali della persona umana. In particolare rilevano alcuni diritti sanciti nella Carta
dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Carta) e nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), tanto di jus cogens – quali
il principio di non respingimento e il divieto di tortura e di pene o
trattamenti crudeli, inumani o degradanti –, quanto diritti che possono essere derogati, come ad esempio il diritto alla libertà (art. 6
della Carta e art. 5 della CEDU) o alla protezione dei dati personali
e della vita privata sancito dagli artt. 7 e 8 della Carta e dall’art. 8
della CEDU. In questa seconda ipotesi le contrazioni che questi diritti possono subire devono però rispettare le prescrizioni disposte
al tal fine, in specie, come stabilito nell’art. 52, par. 1 della Carta, essere
previste dalla legge, rispondere effettivamente a finalità di interesse
generale riconosciute dall’Unione o all’esigenza di proteggere i diritti
e le libertà altrui, rispettare il contenuto essenziale del diritto e il
principio di proporzionalità. Per quel che concerne l’uso della forza
per il rilevamento delle impronte digitali, questo può frequentemente essere ricondotto nell’alveo dei comportamenti che vengono
considerati una pena o un trattamento inumano o degradante vietato
dall’art. 4 della Carta e dall’art. 3 della CEDU: poiché qualsiasi uso
casi: Commission Staff Workimg Document, Implementation of the Eurodac Regulation
as Regards the Obligation to Take Fingerprints, SWD(2015) 150 final, Brussels, 2015,
che si legge all’indirizzo web: https://ec.europa.eu/home-affairs/sites/homeaffairs/files/e-library/documents/policies/asylum/general/docs/guidelines_on_the_implementation_of_eu_rules_on_the_obligation_to_take_fingerprints_en.pdf
158
AGOSTINA LATINO
della forza eccessivo diminuisce la dignità umana e, quindi, equivale
a un trattamento o a una pena inumani o degradanti, quando una
persona viene privata della libertà – che è ciò che spesso accade alle
persone fermate dopo l’attraversamento non autorizzato di una
frontiera – l’uso della forza fisica costituisce un illecito dello Stato
ogniqualvolta non sia strettamente necessario come conseguenza
del comportamento – concreto e non meramente potenziale –
dell’individuo, che, trovandosi in una situazione di particolare vulnerabilità, deve essere maggiormente tutelato. Di tal guisa, la prassi
del trattenimento per indurre gli individui a fornire le loro impronte
digitali innanzitutto deve restare una misura eccezionale, da prendere in considerazione solo se prevista dal diritto nazionale; in secondo luogo, deve essere finalizzata esclusivamente all’adempimento dell’obbligo di fornire le impronte digitali; ancora, non deve
essere punitiva; infine, deve avere una durata limitata e deve cessare
nel momento in cui l’obbligo viene adempiuto. Un uso, per così dire,
disinvolto delle nuove regole dettate dal Regolamento Eurodac sembra essere in rotta di collisione con questi diritti, poiché nel bilanciamento degli interessi contrapposti, ossia sicurezza delle frontiere e
rispetto della persona umana, sono questi ultimi a essere sacrificati
e compressi.
L’art. 29 del Regolamento Eurodac che impone di fornire adeguate informazioni agli individui le cui impronte devono essere rilevate è dunque frutto dell’obbligo previsto dal diritto alla protezione
dei dati personali sancito nella Carta e nella CEDU:18 occorre quindi
che i richiedenti asilo e i migranti in situazione irregolare siano pienamente informati di tutte le opzioni a loro disposizione, dei motivi
Ex plurimis, Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. Grande Camera (Strasburgo)
Caso S. & Marper c. Regno Unito, sentenza 4 dicembre 2008 (ricorsi nn. 30562/04
e 30566/04), punti: 68 e 84; Sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea
(Quarta Sezione) del 17 ottobre 2013, Michael Schwarz c. Stadt Bochum, Causa C291/12, punti 26-27. Una rassegna della prassi è compiuta da MITCHELL 2017,
pp. 295 ss.
18
159
L’impatto (in)volontario (?) del Regolamento Eurodac 603/2013
dell’acquisizione delle impronte digitali, del modo in cui queste ultime saranno trattate e delle conseguenze che comporta il non fornirle, prima (e non dopo!) di ricorrere a sanzioni o misure coercitive.
Particolarmente delicato è poi il rapporto che intercorre, da un
lato, fra il rifiuto di fornire le proprie impronte digitali e il principio
di non refoulement e, dall’altro, sulla procedura di asilo.
Sotto il primo profilo, il principio di non-respingimento vieta il
rimpatrio di un individuo verso le frontiere di territori in cui sarebbe
vittima di persecuzione o di gravi danni di altro tipo: tale principio,
sancito nell’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951 sui rifugiati, di cui costituisce la pietra angolare, è ripreso del pari dall’art. 18
della Carta, e rappresenta altresì un elemento fondamentale par ricochet del divieto di tortura, di trattamenti inumani, crudeli o degradanti ai sensi dell’art. 3 della CEDU, garantito esplicitamente
dall’art. 19 della Carta.19 Di tal guisa, salvo per le situazioni eccezionali contemplate dall’art. 21, par. 2, della Direttiva qualifiche,20 il
principio di non refoulement, diretto o indiretto, è assoluto, indipendentemente dallo status o dal comportamento dell’individuo, a prescindere che questi abbia o meno chiesto asilo, quindi anche laddove
questi si rifiuti di fornire le proprie impronte digitali.21
Sotto il secondo profilo, quanto all’impatto sulla procedura di
asilo di un ingiustificato rifiuto a fornire le proprie impronte digitali
19
Sul principio in esame, sia consentito rinviare a: LATINO 2016, p. 131 ss.
Direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 dicembre
2011 recante «norme sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta (rifusione)», il cui testo si legge
all’indirizzo
web:
http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=OJ:L:2011:337:0009:0026:IT:PDF
21 Gli individui tutelati dal respingimento, ossia i migranti in situazione irregolare,
devono poter godere dei diritti umani cui ha diritto ogni persona umana sottoposta alla giurisdizione di uno Stato, quali ad esempio, un livello almeno minimo di
accesso all’assistenza sanitaria; l’istruzione di base per i bambini; la possibilità di
registrare le nascite; la libertà di religione e di coscienza: cfr. UNHCR 2014.
20
160
AGOSTINA LATINO
per Eurodac, l’art. 13 della Direttiva sulle procedure di asilo22 impone ai richiedenti asilo l’obbligo di cooperare con le autorità e
quindi anche di fornire tutte le informazioni e i dati necessari per
consentire alle autorità nazionali di esaminare la loro domanda
d’asilo. In effetti, l’art. 13 prevede l’obbligo di cooperare per stabilire
la propria identità, ma non fa esplicitamente riferimento alle impronte digitali, come viceversa previsto dall’art. 9, par. 1, del Regolamento Eurodac. Ne deriva che anche un ingiustificato rifiuto a
fornire le proprie impronte digitali per Eurodac non può essere motivo di rigetto di una domanda di asilo tout court, poiché tale decisione
può essere adottata esclusivamente in seguito alla valutazione – nel
merito – relativa alla sussistenza dei requisiti del richiedente asilo o
protezione sussidiaria che abbia dato esito negativo. Del pari, siffatto rifiuto a fornire le proprie impronte digitali per Eurodac non
può di per sé essere interpretato come implicito ritiro della domanda
di asilo ai sensi dell’art. 28, par. 1, lett. a), della Direttiva sulle procedure di asilo, in quanto i dati delle impronte digitali per Eurodac non
costituiscono “informazioni essenziali” per la sua domanda a norma
dell’art. 4 della Direttiva qualifiche. In effetti, l’art. 31, par. 8, lett. i),
della Direttiva sulle procedure di asilo prevede la possibilità di esaminare gli asilanti che si rifiutino di fornire le impronte digitali per
Eurodac con una procedura accelerata e/o una procedura svolta alla
frontiera o in zone di transito. In base al diritto nazionale, tali procedure possono, inter alia, concretizzarsi dando priorità a specifiche
categorie di domande, prescrivendo termini di ricorso più brevi, riducendo il tempo necessario per il completamento della procedura
di appello e semplificando e/o stabilendo delle priorità per i ricorsi.
Anche in tal caso occorre che siano rispettate le tutele di base dei
22
Direttiva 2013/32/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno
2013, recante procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello
status di protezione internazionale, il cui testo si legge all’indirizzo web:
http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:32013L0032&from=IT
161
L’impatto (in)volontario (?) del Regolamento Eurodac 603/2013
diritti della persona umana garantite dal diritto europeo, in particolare quelle relative a un ricorso effettivo, più volte ribadite dalla
Corte di Strasburgo nella sua prassi relativa all’art. 13 della CEDU e
all’art. 47 della Carta.23 Ebbene occorre richiamare l’attenzione sulla
ratio delle procedure accelerate di asilo. Queste, infatti, sono state
previste per gestire le domande di asilo senza particolari difficoltà in
quanto chiaramente infondate o fondate, dando quindi modo alle
autorità nazionali di concentrare le proprie risorse sulle domande
che richiedono maggiore attenzione: tale motivo non ricorre – sempre e necessariamente – nei casi in cui un richiedente si rifiuti di
fornire le proprie impronte digitali, dal momento che questo aspetto
non ha alcuna relazione con il merito del loro caso, sicché sembra
legittimo dubitare del fatto che, alla luce del principio di non discriminazione, sia corretto e fondato in diritto gestire le domande di tali
individui attraverso procedure accelerate, che offrono minori garanzie giuridiche.
Come si è illustrato, ancorché brevemente, nei paragrafi precedenti, se, da un lato, l’inserimento di criteri di identificazione univoci, quali i dati biometrici, nel novero delle informazioni incluse
nell’archivio Eurodac può consentire la risoluzione dei problemi legati all’identità dei singoli soggetti, facilitando l’efficace operatività
del sistema di Dublino, dall’altro lato, le modalità di raccolta, conservazione e trasmissione di tali dati aumenta il rischio violazione di
diritti della persona umana avuto riguardo a categorie di individui
particolarmente vulnerabili (richiedenti asilo e migranti irregolari).
Questa potenziale ingerenza nei diritti fondamentali di un individuo
è resa ancora più pericolosa dal nuovo Regolamento Eurodac che
non si limita più alla raccolta e all’utilizzo di tali dati al fine di regolamentare dell’ingresso nel territorio della cd fortezza Europa da individui privi di visto regolare, ma li declina in chiave anti-criminalità,
23
Per una panoramica delle garanzie procedurali nelle procedure di asilo e di rimpatrio cfr. FRA/ECtHR 2014.
162
AGOSTINA LATINO
introducendo un pericoloso sotto-testo, corrispondente all’equazione: migrante=criminale/terrorista [VAVOULA 2015, p. 247 ss].
È quindi condivisibile la preoccupazione espressa dall’Altro
Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, secondo cui l’evoluzione (rectius: l’involuzione) del Regolamento Eurodac
may lead not only to interference with the right to privacy
and family life of asylum-seekers and refugees, but it may
also place a refugee and his/her family at significant risk of
harm, if the information is shared with countries of origin. It
may also result in stigmatisation of asylum-seekers as a group
by associating them with criminal activity. Furthermore, UNHCR takes note that (…) to include the possibility to search
latent fingerprints relies on technology in which the risk of
error has not been fully examined and eliminated (latent fingerprints) [UNHCR 2014].
Ebbene, le modalità di concreta applicazione del Regolamento non
devono esondare l’importanza dell’obiettivo perseguito, sicché in
virtù del rispetto del principio di proporzionalità occorre che si adoperino mezzi meno invasivi ogniqualvolta possibile, fra cui l’informazione e la consulenza, le attività per le comunità di migranti interessate o l’uso di altri elementi di prova per le finalità del sistema di
Dublino. Se è vero, come è vero, che sui richiedenti asilo e sui migranti, fermati per essere entrati in modo irregolare nel territorio europeo, incombe l’obbligo di fornire le loro impronte digitali per Eurodac, occorre sottolineare che l’adempimento di siffatto obbligo
deve essere garantito innanzitutto attraverso un’informazione e una
consulenza efficaci, realizzate tanto a livello individuale, quanto tramite azioni di sensibilizzazione rivolte a comunità di migranti. L’effettiva efficacia implica che le informazioni debbano essere trasmesse con strumenti adeguati, in una lingua comprensibile a chi le
riceve e tenendo conto di considerazioni di gender e del contesto cul-
163
L’impatto (in)volontario (?) del Regolamento Eurodac 603/2013
turale. Il tutto avendo sempre presente il perimetro di legalità circoscritto entro tre concetti cardine: i rifiuto di fornire le impronte digitali non fa venir meno l’obbligo degli Stati membri di rispettare il
principio di non refoulement; la privazione della libertà per esercitare
pressione – fisica e psicologica – sugli individui affinché acconsentano a fornire le impronte digitali deve essere una misura eccezionale
da non utilizzare con persone vulnerabili;24 l’uso della forza fisica o
psicologica per acquisire impronte digitali per Eurodac non è giustificabile. In caso contrario, Eurodac rischia una deriva che potrebbe
trasformarlo da strumento di identificazione in mezzo di repressione, preventivo e discriminatorio.
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24 Basti pensare
che, come è stato rilevato, con la proposta di riforma del Pacchetto
SECA «children travelling alone will be hit the hardest: if passed the proposals
will put children more at risk of detention, more at risk of forced transfer under
Dublin and also more at risk of forced finger printing under EURODAC – the
minimum age for this has been lowered from 14 to just 6 years old»: Jesuit Refugee Service Europe, The CEAS Reform Package: the Death of Asylum by a Thousand
Cuts?, Working paper Number 6, January 2017, in specie p.3.
164
AGOSTINA LATINO
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166
Pratiche di identificazione e traiettorie
dei migranti
La Sicilia dal 2013 all’approccio hotspots
di Emanuela Dal Zotto
Nel 2011 in seguito alla caduta di Ben Ali in Tunisia e di Gheddafi
in Libia e al venir meno del controllo delle partenze da parte di questi paesi, la rotta del Mediterraneo Centrale ha ripreso a essere una
delle più percorse dai migranti in direzione dell’Europa. Al protrarsi
della crisi libica in particolare va ricondotto il significativo aumento
di arrivi sulle coste italiane, passati da una media di 25 mila nel periodo 2004–2013 a una di 170 mila tra il 2014 e il 20161. Contemporaneamente la questione delle migrazioni via mare è andata occupando un sempre maggiore spazio nel discorso pubblico e
nell’agenda politica, sia a livello nazionale che europeo. Le operazioni di soccorso e pattugliamento che si sono alternate nel Mediterraneo nel corso degli ultimi anni, così come le diverse modalità
con cui sono state attuate le procedure per l’identificazione dei migranti, riflettono le trasformazioni più recenti delle frontiere europee
e degli atteggiamenti delle società riceventi nei confronti di chi le
attraversa.
A partire dall’attività di ricerca, condotta nel settembre del 2013
e nei mesi di settembre e ottobre del 2015, sulla prima accoglienza
dei migranti sbarcati in Sicilia, questo contributo ripercorre i passaggi attraverso i quali la politica migratoria italiana e quella europea
1
ISPI, Fact Checking: Migrazioni, 29 luglio 2017, http://www.ispionline.it/it/articoli/articolo/europa/fact-checking-migrazioni-17046, ultimo accesso 31 dicembre 2017.
Pratiche di identificazione e traiettorie dei migranti
sembrano aver fatto ritorno, in materia di arrivi via mare, alla chiusura senza alternative degli anni immediatamente antecedenti al
2011. Al tempo stesso, le pagine che seguono intendono porre in
evidenza come le pratiche di identificazione rappresentino un passaggio fondamentale nell’ attribuzione di uno status giuridico ai migranti al momento del loro ingresso nello spazio europeo e nella
successiva definizione dei loro percorsi.
2013: l’emergenza in Sicilia
Nel febbraio 2013, con la chiusura definitiva dello stato di emergenza proclamato due anni prima su tutto il territorio nazionale e lo
smantellamento del sistema di accoglienza straordinario denominato “Emergenza Nord Africa”, si concludeva per l’Italia un biennio
in cui l’aspetto dell’eccezionalità aveva fortemente caratterizzato sia
il racconto che la gestione degli arrivi via mare2. Anche il numero
stesso degli arrivi, sceso nel 2012 a 13.267, lasciava prefigurare che
il 2013 sarebbe stato un anno di ritorno all’ “ordinarietà” sia relativamente alla dimensione del fenomeno che all’organizzazione delle
misure di accoglienza. In realtà il 2013, che ha visto un sempre maggiore ricorso alla rotta del Mediterraneo Centrale da parte di cittadini
siriani ed eritrei e due drammatici naufragi nel mese di ottobre (con
oltre 600 vittime), ha inaugurato in sede europea un nuovo dibattito
2
Di fronte agli accadimenti che stavano interessando il Nord Africa agli inizi del
2011 noti come “Primavere Arabe” e alla preoccupazione che potessero alimentare le partenze di migranti da quelle aree, l’allora Presidente del Consiglio dei
Ministri Silvio Berlusconi decretò «fino al 31 dicembre 2011, lo stato di emergenza
nel territorio nazionale». Nei mesi successivi, la necessità di rinnovare il permesso
temporaneo concesso ai cittadini tunisini e quella di permettere alle Commissioni
territoriali di esaminare le richieste di asilo di quanti erano partiti dalla Libia (e che
erano stati accolti in un sistema di accoglienza straordinario affidato nella gestione
alla Protezione Civile) portò alla continua posticipazione della chiusura dello stato
di emergenza che fu infine fissata in modo definitivo per il febbraio 2013.
168
EMANUELA DAL ZOTTO
sulle responsabilità dell’Unione e dei singoli stati in materia di soccorsi in mare e di accoglienza dei migranti forzati che, come vedremo, ha raggiunto il suo culmine nel 2015.
Accanto all’attestarsi della nazionalità siriana e di quella eritrea
come le più ricorrenti tra quelle dichiarate dai migranti in arrivo via
mare in Italia, il 2013 ha visto la narrazione dei “soccorsi in mare”
prendere poco a poco il posto di quella degli “sbarchi”: a partire da
quell’anno infatti il numero di migranti soccorsi nel Mediterraneo
centrale dagli assetti navali di diverse appartenenze è andato crescendo fino a coincidere quasi totalmente con il numero di coloro
che sono giunti in Italia attraverso tale rotta3. Questo ha significato
non solo il pressoché totale esaurimento di approdi da parte di imbarcazioni che giungevano autonomamente fino alle coste italiane,
ma anche il sempre più frequente coinvolgimento di porti diversi da
quello dell’isola di Lampedusa, divenuta nel frattempo simbolo della
migrazione via mare verso l’Italia e l’Europa [CUTTITTA 2015].
Nel 2013 infatti, su indicazione del Maritime Rescue Coordination
Center di Roma, le imbarcazioni coinvolte nelle operazioni di salvataggio hanno iniziato a scortare quelle pericolanti da loro soccorse,
quando non gli stessi migranti tratti a bordo, in diversi porti italiani
e, in modo particolare, in quelli della Sicilia Orientale. Fatta eccezione per Pozzallo, dove nel 2010 era stato attivato un Centro di
3
Nel 2013 gli assetti navali di Guardia Costiera, Marina Militare, Guardia di Finanza, Carabinieri, Polizia, navi mercantili, dell’operazione HERMES dell’agenzia
FRONTEX, hanno soccorso in tutto 37.258 migranti, a fronte di un numero di
42.925 arrivi via mare registrati lo stesso anno in Italia. Dati del Comando generale
del corpo delle capitanerie di porto guardia costiera, Centro Nazionale di Coordinamento del soccorso in mare, Attività Sar nel Mediterraneo Centrale connesse al Fenomeno Migratorio, anno 2016, http://www.guardiacostiera.gov.it/attivita/Documents/attivita-sar-immigrazione-2016/rapporto-sull-attivita-sar-nel-mediterraneo-centrale-anno-2016.pdf, ultimo accesso 31 dicembre 2017.
169
Pratiche di identificazione e traiettorie dei migranti
Primo Soccorso e Accoglienza4, si trattava di località come Siracusa,
Porto Palo, Noto, Augusta e Pachino che per la prima volta si confrontavano con la necessità di predisporre in poche ore misure per
la prima assistenza e l’identificazione di centinaia di persone.
L’obbligo di identificare i migranti al loro ingresso in Italia non
deriva soltanto dall’ordinamento interno5, ma risponde anche a
quanto previsto dal quadro normativo europeo e, specificatamente,
dal regolamento (UE) n. 603 del 2013 (c.d. Regolamento EURODAC) e dal regolamento (UE) n. 604 del 2013 (c.d. Regolamento
Dublino III). Il principio alla base del Regolamento Dublino III, già
espresso nel regolamento 343/2003 del Consiglio del 18 febbraio
2003 (che a sua volta aveva sostituito la Convenzione di Dublino del
1990) è che a esaminare la domanda d’asilo di un richiedente che,
provenendo da un paese terzo, abbia attraversato illegalmente la
frontiera di uno Stato membro (per via marittima, terrestre o area)
debba essere quello stesso Stato membro. Si tratta di un principio
che di fatto tende a delegare agli Stati membri più esterni dell’Unione
il compito di analizzare la quota più consistente delle richieste di
protezione internazionale presentate in Europa, insieme a quello di
farsi carico dell’accoglienza dei richiedenti. Il fotosegnalamento,
cioè il rilevamento delle impronte digitali di tutte le dita dei richiedenti asilo e dei cittadini di paesi terzi o apolidi intercettati nell’attraversamento irregolare della frontiera di un paese europeo in provenienza da un paese terzo, come disposto dal Regolamento EURODAC, ha proprio lo scopo di permettere di risalire allo Stato
membro dal quale il richiedente ha effettuato l’accesso allo spazio
4
I Centri di Primo Soccorso e Accoglienza (CPSA) sono stati istituiti con il Decreto Interministeriale del 16 febbraio 2006 come strutture localizzate in prossimità dei luoghi di sbarco e destinate all’accoglienza dei migranti per il tempo occorrente al loro trasferimento presso altri centri (indicativamente 24/48 ore).
5 Cfr. articolo 5 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, commi 2 bis e 4 bis;
articolo 6 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, comma 4; articolo 5,
comma 1, lettera e), della legge 30 luglio 2002, n.189.
170
EMANUELA DAL ZOTTO
europeo e quindi allo stato competente per l’esame della richiesta di
protezione internazionale. Le impronte digitali, insieme ad altri dati
identificativi, devono essere inviate al Sistema Centrale entro le 72
ore successive al loro rilevamento: questo consente di attribuire a
ciascun migrante un’identità dattiloscopica, non necessariamente
corrispondente a quella anagrafica, ma univoca, che permette di registrarne i movimenti all’interno dell’area Schengen.
A differenza di quanto accaduto nel 2011, di fronte agli arrivi via
mare del 2013 non si è proceduto con la dichiarazione dello stato
d’emergenza né, a livello nazionale, quanto stava accadendo è stato
presentato dalla politica e dai media in termini emergenziali. Lo
stesso Ministro dell’Interno Alfano, nel corso della consueta conferenza stampa di Ferragosto del Viminale, osservava come, fino al 15
agosto appunto, l’arrivo di oltre 14.000 migranti sulle coste italiane
non si fosse trasformato in «un’emergenza ingestibile». Le interviste
condotte con attori istituzionali e operatori dell’accoglienza nella Sicilia orientale disegnano invece un quadro molto differente a livello
locale. L’arrivo – solo tra Siracusa, Porto Palo, Noto, Augusta e Pachino nel periodo cha va dal 21 gennaio al 4 novembre – di 12.673
persone (prevalentemente di nazionalità siriana ed eritrea)6, in
un’area che si confrontava per la prima volta in modo significativo
con questo fenomeno, ha reso necessario il ricorso a misure e strutture di tipo straordinario, in un contesto generale di incertezza sia
normativa che organizzativa. Questa incertezza ha investito non
solo la natura e la gestione dei centri di prima accoglienza (che in
alcuni casi si collocavano addirittura extra-legem), ma anche lo svolgimento delle procedure di identificazione che avvenivano al momento dello sbarco o, in caso di arrivi particolarmente numerosi,
dopo il trasferimento in questi centri.
6
Dati forniti dalla prefettura di Siracusa il 4 novembre 2013.
171
Pratiche di identificazione e traiettorie dei migranti
In una simile situazione, sia i migranti di nazionalità siriana che
quelli di nazionalità eritrea, a conoscenza delle conseguenze del rilascio delle proprie impronte digitali in Italia quale paese del loro ingresso in Europa, hanno iniziato a sottrarsi al fotosegnalamento. In
presenza di situazioni di accoglienza improvvisata e inadeguata
hanno cominciato a farsi sempre più numerosi gli allontanamenti
volontari dei migranti dalle strutture a cui erano stati destinati, come
denunciato anche da un comunicato dell’ASGI-SICILIA del 31 agosto 2013 a proposito di alcuni centri di accoglienza a Siracusa (quali
quello denominato “Umberto I” e quello di Priolo per minori stranieri non accompagnati) e in altre parti della regione (quali la tensostruttura di Porto Empedocle o l’impianto sportivo di Catania,
anch’essi divenuti strutture di accoglienza ad hoc in virtù dell’“emergenza”). Rappresentati come vittime di una drammatica situazione
di conflitto (i siriani) e di un duro regime (gli eritrei), i migranti sono
stati di fatto lasciati liberi di transitare verso paesi che essi stessi ritenevano potessero offrire migliori condizioni di accoglienza, maggiori opportunità di inclusione o in cui sapevano di poter contare
sull’appoggio di parenti o conoscenti [BELLONI 2016, GRIMALDI 2016, KUSHMINDER/KOSER 2017]. Se da un lato queste fughe sono forse la forma che l’incertezza dà alla possibilità dei
migranti di partecipare in modo attivo alla definizione della propria
condizione [BROEDERS/GODFRIED 2007] dall’altro, per l’invisibilità [CARTER 2010] che le caratterizza esse espongono i migranti a situazioni di sfruttamento e pericolo, primo fra tutti il ricorso a smugglers per il raggiungimento delle proprie mete.
Per quanto riguarda le autorità italiane, la discrezionalità applicata
nell’adempiere all’obbligo del fotosegnalamento può essere letta
come una reazione al rifiuto da parte dell’Unione Europea nel 2011
di attivare, di fronte alla dichiarazione dello stato di emergenza
dell’Italia, la Direttiva 2001/55/CE sulle «norme minime per la concessione della protezione temporanea in caso di afflusso massiccio
172
EMANUELA DAL ZOTTO
di sfollati e sulla promozione dell’equilibrio degli sforzi tra gli Stati
membri che ricevono gli sfollati e subiscono le conseguenze dell’accoglienza degli stessi». Così facendo infatti lo stato italiano non ha
soltanto permesso ai migranti siriani ed eritrei di transitare verso i
paesi di destinazione desiderati, ma ha anche sollevato il proprio sistema dall’onere della loro accoglienza. Rispetto infatti ai 9.834 eritrei e agli 11.3077 siriani giunti via mare in Italia nel 2013, le richieste
di asilo avanzate da persone di queste due nazionalità nello stesso
anno sono state rispettivamente 2.109 e 6358.
2014: l’operazione Mare Nostrum
La nazionalità eritrea e quella siriana sono anche le principali registrate tra le vittime dei naufragi del 3 e dell’11 ottobre 2013. Forse
proprio perché coinvolsero migranti in fuga da situazioni riconosciute internazionalmente come di gravi violazioni dei diritti umani
e di conflitto, questi due episodi suscitarono, accanto alla commozione e all’indignazione espresse a più livelli dalla politica e dalla società civile, proposte di intervento per offrire vie di accesso sicure
all’Europa a coloro che, per le ragioni della loro partenza, vengono
fatti rientrare nella categoria dei migranti forzati. La prima di queste
proposte a concretizzarsi fu quella del governo italiano che già il 18
ottobre lanciò l’operazione Mare Nostrum. Un’operazione dal carattere ambivalente, militare e umanitaria allo stesso tempo, che si
proponeva di salvaguardare la vita in mare e combattere il traffico
illegale di migranti operando congiuntamente alle attività previste da
7
Dati forniti dal Public Information Associate UNHCR di base a Catania il 2
novembre 2015.
8 Ministero dell’Interno, Dipartimento Libertà Civili e Immigrazione, Quaderno
Statistico per gli anni 1990-2016, http://www.libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it/sites/default/files/allegati/quaderno_statistico_per_gli_anni_ 19902016_.pdf, ultimo accesso 31 dicembre 2017.
173
Pratiche di identificazione e traiettorie dei migranti
FRONTEX, l’agenzia dell’Unione Europea che coordina il pattugliamento delle frontiere esterne degli Stati della UE.
Nel 2014, l’anno in cui si svolsero la maggior parte degli interventi dell’operazione, furono soccorse in mare 166.370 persone9
che, in continuità con quanto si era verificato nel 2013, dichiararono
di provenire principalmente da Siria (42.323) ed Eritrea (34.329).
Nonostante il proposito iniziale di effettuare le procedure di identificazione già a bordo delle navi impegnate nei soccorsi, gli alti numeri resero necessario posticipare tali procedure al momento dello
sbarco e, in alcuni casi, ancora una volta a dopo il trasferimento dei
migranti nei centri di accoglienza predisposti su tutto il territorio
nazionale. Se nel 2013 infatti la scelta fu quella di circoscrivere alla
sola Sicilia la gestione degli arrivi e l’insorgere dell’emergenza (formalmente dichiarata dalla giunta regionale il 15 ottobre 2013), nel
2014 ripresero i trasferimenti di migranti verso tutte le regioni italiane, come era stato per l’Emergenza Nord Africa del 2011. Laddove la disponibilità di posti nell’ordinario sistema di accoglienza
(composto dai centri di prima accoglienza – quali i già citati CPSA,
i Centri di Accoglienza e i Centri di Accoglienza per Richiedenti
Asilo10 – e dal Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo Rifugiati)
non appariva sufficiente a rispondere alle esigenze connesse all’entità degli arrivi, il Ministero dell’Interno invitò i Prefetti a individuare
nei territori di loro competenza delle strutture da adibire a questa
funzione11 successivamente denominate Centri di Accoglienza
9
Comando generale del corpo delle capitanerie di porto guardia costiera, cit.
Sul sito del Ministero dell’interno si legge che «I centri di accoglienza (Cda)
garantiscono prima accoglienza allo straniero rintracciato sul territorio nazionale
per il tempo necessario alla sua identificazione e all'accertamento sulla regolarità
della sua permanenza in Italia. Lo straniero irregolare che richiede la protezione
internazionale viene invece inviato nei centri di accoglienza per richiedenti asilo
(Cara), per l'identificazione e l'avvio delle procedure relative alla protezione internazionale», http://www.interno.gov.it/it/temi/immigrazione-e-asilo/sistema-accoglienza-sul-territorio/centri-limmigrazione, ultimo accesso 31 dicembre 2017.
11 Circolare del Ministero dell’Interno n. 104 dell'8 gennaio 2014.
10
174
EMANUELA DAL ZOTTO
Straordinari (CAS). Dai CAS di tutta Italia, come dai centri di prima
accoglienza in Sicilia, continuarono numerosi gli allontanamenti volontari da parte dei migranti. Sono di nuovo i numeri delle richieste
d’asilo avanzate in Italia a confermare questo dato evidenziando un
significativo scarto tra il numero degli sbarchi e quello delle domande di protezione di cittadini eritrei e siriani: in tutto il 2014, soltanto 474 quelle dei primi e 50212 quelle dei secondi. Tali numeri,
oltre che l’ipotesi di un diverso atteggiamento delle autorità italiane
nei confronti di queste due nazionalità rispetto ad altre, sostengono
anche quella di una minore informazione circa le politiche migratorie europee da parte dei migranti di provenienza sub-sahariana
[SQUIRE et al. 2017]. Per quanto riguarda infatti le altre nazionalità
dichiarate più frequentemente al momento dello sbarco in Italia nel
2014, ovvero maliana, nigeriana e gambiana, il numero delle persone
soccorse coincide pressappoco con quello delle domande di protezione inoltrate al paese.
La chiusura di Mare Nostrum, dichiarata a un anno esatto dal suo
avvio, fu accompagnata dalle polemiche per gli alti costi derivanti sia
dallo svolgimento delle operazioni di search and rescue che dall’accoglienza di quanti, una volta soccorsi e identificati, avevano inoltrato una domanda d’asilo. Mare Nostrum, che non riuscì nei suoi
dodici mesi di vita a ottenere la solidarietà europea, fu inoltre accusata di aver agito da fattore di attrazione per i migranti in partenza
dalle coste libiche incidendo sul significativo aumento degli arrivi
[PANEBIANCO 2016].
Ministero dell’Interno, Dipartimento Libertà Civili e Immigrazione, Quaderno
Statistico per gli anni 1990-2016, http://www.libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it/sites/default/files/allegati/quaderno_statistico_per_gli_anni_19902016_.pdf, ultimo accesso 31 dicembre 2017.
12
175
Pratiche di identificazione e traiettorie dei migranti
2015: l’introduzione dell’approccio hotspots
Il 18 aprile 2015, pochi mesi dopo la chiusura dell’operazione Mare
Nostrum, nel Mediterraneo centrale si registrò il naufragio di un’altra imbarcazione su cui viaggiavano clandestinamente migranti in
direzione dell’Europa. L’alto numero di vittime (almeno 800 secondo le stime) richiamò questa volta anche le istituzioni europee al
dovere di un intervento e il 23 aprile 2015 venne convocata una riunione straordinaria del Consiglio dell’Unione. Nella dichiarazione
approvata in quell’occasione furono ribadite sia la necessità di impedire i movimenti irregolari di persone che quella di accogliere i
richiedenti e i titolari di protezione internazionale in un quadro di
solidarietà e armonizzazione delle pratiche tra i paesi membri. In
linea con gli stessi obiettivi anche l’approccio hotspots, una delle misure previste dall’Agenda Europea sulla Migrazione presentata il 13
maggio: nell’anno della “crisi europea dei rifugiati” in cui oltre un
milione di persone entrarono illegalmente in Europa via mare13 e in
cui 1.255.60014 domande di protezione furono presentate negli stati
membri, questo approccio prevedeva l’apertura di strutture destinate alla prima identificazione dei migranti e all’individuazione dei
potenziali richiedenti asilo in quei punti della frontiera europea considerati critici per la gestione degli arrivi, quali le coste dell’Italia e
della Grecia. I primi centri aperti come hotspots in Italia sono stati,
tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016, quelli di Lampedusa, Trapani,
Pozzallo e Taranto, per un totale di 1.600 posti. Al loro interno operano congiuntamente le Forze di Polizia italiane, i team europei di
FRONTEX, EUROPOL e EASO (l’Ufficio Europeo di Supporto
13
UNHCR, Over one million sea arrivals reach Europe in 2015, 30 dicembre 2015,
http://www.unhcr.org/afr/news/latest/2015/12/5683d0b56/million-sea-arrivals-reach-europe-2015.html, ultimo accesso 31 dicembre 2017.
14 EUROSTAT, Record number of over 1.2 million first time asylum seekers registered in
2015, 4 marzo 2016, http://ec.europa.eu/eurostat/en/web/products-press-releases/-/3-04032016-AP, ultimo accesso 31 dicembre 2017.
176
EMANUELA DAL ZOTTO
per l’Asilo) oltre che personale sanitario, delle organizzazioni non
governative e delle organizzazioni internazionali (in particolare
dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni e dell’Alto
Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati)15. Dopo uno
screening medico, i migranti vengono intervistati e compilano un
foglio notizie da cui si evincono le ragioni dell’arrivo in Italia, ovvero
se siano da considerarsi potenziali aventi diritto alla protezione internazionale o migranti economici. Tale distinzione viene mantenuta
anche nelle successive operazioni di fotosegnalamento, dopodiché,
mentre per coloro che si trovano in posizione irregolare vengono
disposti il respingimento o l’espulsione, i migranti identificati come
richiedenti asilo vengono avviati all’iter per il riconoscimento della
protezione o, se ne hanno i requisiti, per la ricollocazione presso un
altro paese europeo. L’approccio hotspots risponde infatti anche alla
logica di un’equa ripartizione tra gli stati membri del carico derivante
dall’accoglienza dei richiedenti asilo, anch’essa prevista dall’Agenda
Europea sulla Migrazione e da perseguire mediante il meccanismo
della ricollocazione (o relocation) appunto. In parziale deroga al Regolamento Dublino III «i richiedenti protezione internazionale appartenenti a nazionalità (o apolidi residenti) per le quali il tasso di
riconoscimento della protezione internazionale è pari o superiore al
75%16 – sulla base dei dati EUROSTAT dell’ultimo quadrimestre –
possono essere trasferiti in uno Stato Membro – secondo le quote
messe a disposizione dai Paesi che hanno aderito al programma di
ricollocamento – nel quale sarà esaminata la loro domanda»17.
Ministero dell’Interno, Dipartimento delle Libertà Civili e Immigrazione, Procedure Operative Standard (SOP) - Standard Operating Procedures (SOP) applicabili agli hotspots italiani, http://www.libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it/sites/default/files/allegati/hotspots_sops_-_versione_italiana.pdf, ultimo accesso 31 dicembre 2017.
16 Quindi, attualmente, eritrei, siriani e centrafricani.
17 Ministero dell’Interno, Dipartimento Libertà Civili e Immigrazione, Relocation,
http://www.libertaciviliimmigrazione.dlci.interno.gov.it/it/relocation, ultimo accesso 31 dicembre 2017.
15
177
Pratiche di identificazione e traiettorie dei migranti
Da questa breve descrizione dell’approccio hotspots risulta evidente come per la sua efficacia sia necessario uno scrupoloso svolgimento delle pratiche di identificazione e fotosegnalamento. Per
questa ragione, il comportamento tenuto a tale proposito dall’Italia
dal 2013 ha portato nel dicembre del 2015 a una sua messa in mora
da parte della Commissione Europea e a un maggior rigore nell’applicazione del Regolamento EURODAC. Nelle Procedure Operative Standard applicabili agli hotspots italiani un punto è dedicato proprio ai casi di rifiuto di sottoporsi al fotosegnalamento da parte dei
migranti: accanto a uno sforzo di comprensione delle ragioni di tale
rifiuto e al ricorso alle figure dei mediatori culturali per rendere
chiaro ai soggetti da identificare lo scopo del fotosegnalamento,
viene indicato come doveroso anche il ricorso, ove necessario, a «un
uso della forza proporzionato a vincere l’azione di contrasto, nel
pieno rispetto dell’integrità fisica e della dignità della persona». Questa indicazione, al centro di un più ampio dibattito attorno alle violazioni dei diritti dei migranti all’interno dei centri hotspots18, rappresenta la sintesi delle trasformazioni più recenti della frontiera europea e del suo atteggiamento nei confronti dei migranti che vi giungono attraverso il Mediterraneo. Di fronte al deteriorarsi di alcune
situazioni che in Africa e Medioriente hanno dato origine a migrazioni forzate mai così numerose dopo la fine della seconda Guerra
Mondiale, l’Europa ha ulteriormente ristretto i criteri di accesso al
suo spazio, criteri che se da un lato preservano il fragile equilibrio
tra chiusura delle frontiere e tutela del diritto alla protezione su cui
le politiche migratorie dell’Unione si reggono ormai a partire dagli
anni Settanta, dall’altro generano marginalità ed esclusione.
18
Cfr. Amnesty International, Rapporto Hotspot Italia, 3 novembre 2016,
https://www.amnesty.it/rapporto-hotspot-italia/, ultimo accesso 31 dicembre
2017.
178
EMANUELA DAL ZOTTO
Ancora una volta il caso della Sicilia, identificata come la regione
italiana in cui collocare prevalentemente gli hotspots, risulta particolarmente utile a osservare il funzionamento e gli effetti delle politiche messe in atto. Tra il settembre e l’ottobre del 2015 la situazione
sul campo si presentava molto diversa da quella riscontrata negli
stessi luoghi della Sicilia Orientale due anni prima. Se nel 2013 a
livello locale era ampliamente diffusa la percezione di un’emergenza
relativa alla prima assistenza e all’accoglienza dei migranti soccorsi
in mare e condotti nei porti siciliani, nel 2015, in seguito all’esperienza di Mare Nostrum, le operazioni di sbarco sembravano aver
raggiunto un buon livello di organizzazione, così come i trasferimenti di migranti nelle strutture di accoglienza presenti su tutto il
territorio nazionale apparivano una prassi consolidata. Per questa
ragione (oltre che per un maggiore ricorso da parte dei cittadini siriani alla rotta del Mediterraneo orientale rispetto a quella del Mediterraneo Centrale nel corso del 201519) anche il fenomeno degli allontanamenti spontanei dalle strutture di accoglienza appariva drasticamente ridotto. Ciò che invece era divenuto già visibile, erano gli
effetti dell’entrata in vigore dell’approccio hotspots: nonostante la trasformazione del CPSA di Pozzallo da Centro di Primo Soccorso e
Accoglienza in hotspots non fosse ancora stata completata, la distinzione tra potenziali richiedenti asilo e rifugiati operata dalle Forze di
Polizia italiane insieme a quelle dell’agenzia FRONTEX, era già in
atto. Alcuni migranti arrivati in Italia nel settembre del 2015 e che
ho incontrato poco dopo in una parrocchia nei pressi di Siracusa
dove hanno trovato ospitalità, hanno raccontano che, dopo il loro
arrivo in Sicilia a bordo delle imbarcazioni italiane che avevano prestato loro soccorso durante il viaggio, sono stati immediatamente
raggiunti dall’ordine scritto di lasciare l’Italia entro sette giorni. I migranti, originari della Guinea Conakry, del Senegal e del Gambia, mi
Secondo i dati dell’UNHCR gli arrivi di migranti di nazionalità siriana in Sicilia
tra il gennaio e il settembre 2015 erano stati appena 7072.
19
179
Pratiche di identificazione e traiettorie dei migranti
hanno riferito di aver dichiarato la propria nazionalità a bordo delle
navi, ma di non aver ricevuto nessuna informazione in quella sede
circa la possibilità di chiedere asilo una volta a terra. Due di loro mi
hanno detto inoltre di avere sedici anni, ma anche che nessuno, nel
tempo intercorso tra il salvataggio in mare e l’ordine di espulsione,
ha appurato se fossero o meno minorenni. Tutti hanno affermato di
essere rimasti perché a Siracusa hanno trovato ospitalità e assistenza
legale, ma di essere in pochi rispetto a quanti come loro avevano
ricevuto l’ordine di espulsione e che, al momento in cui sono state
realizzate le interviste, si erano già allontanati dalla Sicilia e forse
dall’Italia, in condizioni di irregolarità.
Conclusioni
Dalla necessità di prestare assistenza e accogliere l’alto numero di
persone soccorse in mare e condotte nei porti siciliani fino all’introduzione dell’approccio hotspots, passando per l’operazione Mare Nostrum, il caso della Sicilia può dirsi emblematico delle trasformazioni
che negli ultimi anni hanno interessato l’atteggiamento dell’Unione
Europea e dei suoi stati membri nei confronti dei migranti in arrivo
via mare. Si tratta di trasformazioni che hanno visto alternarsi, nella
lettura e nella gestione del fenomeno, l’insistenza sull’aspetto securitario e quella sull’aspetto umanitario, ma che non hanno invece
investito l’orientamento di fondo delle politiche che, in continuità
con il processo di chiusura intrapreso negli anni Settanta, continuano ad avere come fine ultimo la protezione delle frontiere. Uno
dei principali effetti di queste politiche è la sempre maggiore difficoltà anche per coloro che sono in fuga da guerre e persecuzioni, di
accedere allo spazio europeo e presentare domanda di protezione. I
criteri sulla base dei quali viene consentito tale accesso sono sempre
più restrittivi ed è nell’accertamento della loro esistenza che le pratiche di identificazione (tra cui il fotosegnalamento) rivestono un
180
EMANUELA DAL ZOTTO
ruolo fondamentale. È nella fase dell’identificazione dei migranti
che viene posta in essere la distinzione tra migranti volontari e migranti forzati: distinzione che non tiene conto né dell’impossibilità
di distinguere nettamente tra i primi e i secondi per via del sempre
più intricato intreccio di cause oggi all’origine dei movimenti di popolazione [ZETTER 2007], né dei percorsi migratori che talvolta
(come accade in seguito al passaggio in determinati contesti di transito) trasformano in forzate migrazioni che al loro avvio non avevano tale connotazione [CIABARRI 2015]. L’utilizzo del dato della
nazionalità per operare tale distinzione infine contraddice il principio del diritto alla protezione quale diritto soggettivo e contribuisce,
assegnando insieme a uno status giuridico diseguali chances di mobilità, alla stratificazione della popolazione di coloro che cercano rifugio in Europa. [MARCHETTI 2006].
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EMANUELA DAL ZOTTO
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183
Le parole contorte dell’archivio
postcoloniale
Narrazioni minori e paradossi del diritto d’asilo
di Roberto Beneduce
«Lavorare sugli immigrati, significa lavorare sulla Francia: la Francia
di ieri, sulla storia della Francia dunque, la storia della popolazione
francese, e più ancora della nazione francese, sulla Francia di domani,
sull’avvenire della Francia, sull’integrazione della Francia e nella Francia, sulla potenza di assimilazione della Francia, della società francese, della lingua francese, della scuola francese» [SAYAD 1990, corsivo dell’A.]. Sayad, in un testo di ormai trent’anni fa, sottolineava le
dimensioni politiche ed epistemologiche (relative al sapere sociologico, in particolare) di qualsivoglia discorso o ricerca sugli immigrati.
L’insistenza ripetuta su uno dei due termini (“Francia”, “popolazione francese”, “società francese”, “lingua francese”, “scuola francese”) messo in relazione oppositiva con quello di “immigrati”, intendeva sottolineare la natura dolorosa di queste relazioni dialettiche
ancora lontane dal trovare una sintesi. Se pensiamo a quello che significò lo sradicamento di quasi la metà della popolazione rurale
nell’Algeria coloniale (circa tre milioni di persone, se si contano anche coloro che vissero l’esodo forzato), all’esperienza propriamente
“concentrazionaria” vissuta da migliaia di famiglie contadine spossessate della loro terra, i cui raccolti furono spesso bruciati insieme
a case e bestiame determinandone la proletarizzazione selvaggia a
vantaggio dei coloni [BOURDIEU e SAYAD 1964], si comprende
facilmente la ragione storica di quella polarità (Francia/immigrati)
ripetuta da Sayad in modo quasi ossessivo.
Le parole contorte dell’archivio postcoloniale
Al di là delle critiche rivolte alla sociologia di Bourdieu, considerata talvolta troppo rigidamente deterministica, e ai limiti di un modello (esodo rurale, proletarizzazione, emigrazione dalle ex-colonie)
quale quello adottato da SAYAD [2002] nell’analisi dei processi migratori, valido oggi solo in parte, la prospettiva indicata è suggestiva
e rimane vera per certi aspetti ancora di più quando si pensi al risorgere di quelle immagini di spossessamento e al risentimento che le
accompagna nell’inconscio e nell’immaginario di tanti giovani immigrati provenienti dai paesi del Nord Africa o dell’Africa subsahariana. E per rimanere alla storia dell’Algeria, l’analisi del conflitto fra
minoranze e gruppi marginali (i contadini berberi e lo stato postcoloniale) all’origine del peculiare profilo della migrazione da questo
paese, pone una sfida particolare alle categorie tradizionali dell’antropologia sociale o politica che formulimo con le parole di Jeanne
Favret-Saada: «Che cosa resta [del metodo dell’antropologia e della
sua ripproduzioneuna società] quando la società studiata non detiene più i prinicipi della sua interna causalità? Quando i fattori di
cambiamento sociale hanno la loro origine altrove?» [FAVRETSAADA 1967, p. 74].
Riflettere oggi sugli immigrati, sui rifugiati, sui richiedenti asilo,
significa dunque di fatto pensare la storia dell’Europa e l’avvenire delle
nostre società. La figura dell’immigrato, e per molti versi ancor più
quella del richiedente asilo, interpellano in modo diretto i fondamenti dello stato-nazione e ne mettono in rilievo, con la precisione
di un bisturi, le debolezze e le ansie, le ipocrisie (le politiche di sfruttamento delle risorse naturali nei paesi da cui giungono tanti immigrati) e la violenza. L’immigrato e il richiedente asilo non cessano di
essere, in altri termini, degli “analizzatori” e dei “rivelatori” delle società in cui emigrano [BENEDUCE 1998; TRIPIER 2004]. E come
nello studio delle società contadine algerine in epoca coloniale e
post-coloniale, l’antropologia della migrazione, e ancor più
quell’ambito che si è preso l’abitudine di definire refugee studies, sono
186
ROBERTO BENEDUCE
obbligati a percorrere incessantemente in un senso e nell’altro le caratteristiche eterodeterminate di questi processi e le caratteristiche
di questa popolazione, le cui esperienze vedono essenzialmente altrove il loro principio di “causalità”.
Nel vocabolario che scandisce il destino di migliaia di richiedenti
asilo, termini come “coerenza”, “credibilità”, “plausibilità”, adottati
in riferimento alle ragioni della fuga dal paese d’origine e alla domanda di protezione, hanno finito però sempre più con l’esprimere
una precisa forma di egemonia semantica, epistemologica e politica,
e una particolare espressione del dominio.
È a proposito di questi territori che BOHMER/SHUMER
[2007] hanno evocato la nozione di “epistemologie dell’ignoranza”,
laddove la pretesa di generare informazioni e conoscenze sul richiedente asilo, la sua biografia e le circostanze che l’hanno indotto ad
abbandonare il proprio paese, o i rischi in cui incorrerebbe se vi facesse ritorno, si trasforma spesso in un dispositivo burocratizzato che produce ignoranza, a cominciare dalla paradossale ignoranza che il richiedente asilo implacabilmente vive relativamente alla sua stessa esperienza allorquando quest’ultima è sottoposta a un esame che ne
scruta tempi, luoghi, forzata a tradursi all’interno di altri registri linguistici o morali, esposta a infiniti malintesi, finendo col diventare a
lui stesso opaca e come estranea.
Se le forme che assume questa ignoranza sono molteplici, talvolta
grottesche, i commenti e i giudizi degli operatori sono, quanto a
loro, caratterizzati spesso da un’evidente diffidenza, che l’adozione
di protocolli rivolti ad accrescere l’oggettività delle interviste nel
corso delle audizioni riesce a mala pena a mascherare, trasformando
le attività delle commissioni territoriali per il riconoscimento della
protezione internazionale in autentiche “tecnologie del sospetto”1.
L’espressione è adottata da CAMPBELL 2004. Sulla questione del sospetto e
della menzogna nelle politiche dell’asilo e nei racconti dei rifugiati, cfr. anche BENEDUCE 2015 e FASSIN/D’HALLUIN 2001.
1
187
Le parole contorte dell’archivio postcoloniale
Vorrei insistere però sin d’ora su una cifra particolare di questo
“sospetto”, che non è solo morale o politico ma anche e inestricabilmente epistemologico: relativo cioè allo statuto stesso delle affermazioni e delle esperienze riportate da molti richiedenti asilo.
Il sospetto al quale penso concerne in particolare quei racconti
che evocano minacce, violenze e decessi messi in rapporto a ciò che
per ora definisco provvisoriamente come il “mondo dell’invisibile”
(accuse di stregoneria, azioni di feticci, vendette da parte di membri
di società segrete): ciò che attribuisce alla nozione di “epistemologia
dell’ignoranza” una sfumatura particolare, che Bohmer e Shumans
non prendono in considerazione nel loro lavoro, e che a me sembra
invece decisivo per situare le politiche dell’asilo e l’incertezza che le
contraddistingue all’interno di uno scenario più ampio.
Del resto, il lavoro dal quale è tratta la formula “epistemologia
dell’ignoranza” è per molte ragioni suggestivo. Si tratta del libro
scritto da Charles Mills, The Racial Contract, dove l’autore suggerisce
l’importanza di prendere in considerazione la paradossale situazione
che si è generata intorno alla produzione di una non conoscenza, di
un’equivocazione sistematica (e forclusa, aggiungo io) del mondo,
della coscienza storica e dell’esperienza dei membri appartenenti alle
minoranze nelle odierne società razziali [MILLS 1997].
La domanda che queste mie considerazioni pongono è in definitiva perché questo equivoco, e l’epistemologia razziale che lo alimenta,
continuano ad assediare l’incontro con i richiedenti asilo.
Al tempo stesso, e a partire da queste narrazioni opache e “inverosimili”, mi interessa evocare un altro aspetto: che cosa significa
oggi, in seno alle istituzioni dello stato moderno, la testarda persistenza di discorsi e immaginari che fanno riferimento ad altre ontologie (minacce stregonesche, feticci, società segrete, ecc.)? In che
modo il sapere antropologico [GOOD 2004] è interpellato da tali
voci e discorsi, soprattutto quando l’antropologo è convocato in
188
ROBERTO BENEDUCE
qualità di esperto da parte di un tribunale o una commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale? A quali
orizzonti siamo confrontati quando le risposte dell’esperto antropologo sono di fatto anche una misura del valore e dell’autorevolezza
del sapere che egli incarna? In che misura egli può contribuire a contenere le conseguenze di una crescente incertezza determinata proprio dal ricorso a grammatiche dell’esperienza e a idiomi “culturali”?
Il “vocabolario dell’occulto”, i riferimenti a poteri spirituali, a sacrifici e patti rituali, o a società segrete, che scandiscono il racconto
di molti richiedenti asilo provenienti dall’Africa subsahariana, sembrano generare infatti una cascata di effetti ben al di là del territorio
del diritto umanitario, un singolare effetto di “indiscernibilità” [DELEUZE 1990, p. 93].
Muovendo dall’analisi dei verbali delle audizioni realizzate presso
le commissioni territoriali per il riconoscimento della protezione internazionale, dei ricorsi presentati dagli avvocati dei richiedenti asilo
o le risposte ricevute da parte dei tribunali, il mio scopo è in definitiva disegnare una nuova topografia di quei discorsi e di quelle esperienze che sembrano “intraducibili” [CASSIN 2004], o – come si
dice spesso nell’ambito del diritto d’asilo – inverosimili, falsi o semplicemente assurdi (termine, quest’ultimo, la cui etimologia è non
poco suggestiva).2
Ciò che vorrei esaminare non è tanto la questione della “modernità” della stregoneria o di pratiche rituali (quella del juju fra le donne
nigeriane, ad esempio), quanto, come ho già detto, il significato di
questo loro tenace abitare il territorio dei diritti e dello Stato-nazione
alla stregua di uno spettro. D’altronde, se la presenza di articoli di
Il termine “assurdo” deriverebbe dal latino “surdus”, e dunque indicherebbe
non solo ciò che è dissonante con la comprensione e la ragione, ma anche ciò che
“non è ascoltato” [CASSIN 2004]. Non esaminerò in queste note il ruolo, tutt’altro che trascurabile, della qualità della traduzione linguistica: una traduzione offerta da personale non sempre competente, che rende spesso ancora più fragile il
grado di “credibilità “o “plausibilità” di talune narrazioni.
2
189
Le parole contorte dell’archivio postcoloniale
legge facenti riferimento alla stregoneria o a concetti satellite (“traffico
di resti umani”, “sacrifici”, “atti di ciarlataneria”, “magia”, ecc.) in
non pochi codici penali africani rappresenta un nodo irrisolto nel
diritto di questi paesi [MARTINELLI/BOUJU 2012; CERIANA
MAYNERI 2014; DE ROSNY 2005], questo nodo si manifesta
sotto forme non meno controverse quando si presenta non più nei
tribunali di Sangmélima, Yaoundé o Bangui ma in quelli di Torino,
Roma o Amsterdam. Adottando una prospettiva ispirata da quella
che Althusser aveva definito “lettura sintomale” [ALTHUSSER/BALIBAR 1973], il mio interesse è in definitiva interrogare e
pensare, l’uno accanto all’altro, l’invisibile della stregoneria e l’indicibile
dello Stato-nazione3.
3
Penso ovviamente tanto agli stati-nazione europei quanto a quelli postcoloniali.
Il processo che in Nigeria ha visto affermarsi un “doppio spazio pubblico”, è
efficacemente descritto in prospettiva storica e sociologica da Ekeh: «When one
moves across Western society to Africa, at least, one sees that the total extension
of the Western conception of politics in terms of a monolithic public realm morally bound to the private realm can only be made at conceptual and theoretical
peril. There is a private realm in Africa. But this private realm is differentially
associated with the public realm in terms of morality. In fact there are two public
realms in postcolonial Africa, with different types of moral linkages to the private realm. At
one level is the public realm in which primordial groupings, ties, and sentiments
influence and determine the individual’s public behavior. I shall call this the primordial public because it is closely identified with primordial groupings, sentiments, and
activities, which nevertheless impinge on the public interest. The primordial public is moral and
operates on the same moral imperatives as the private realm. On the other hand, there is a
public realm which is historically associated with the colonial administration and
which has become identified with popular politics in post-colonial Africa. It is
based on civil structures: the military, the civil service, the police, etc. Its chief
characteristic is that it has no moral linkages with the private realm. I shall call this the civic
public. The civic public in Africa is amoral and lacks the generalized moral imperatives operative
in the private realm and in the primordial public» (EKEH 1975, p. 92; corsivo dell’A.).
190
ROBERTO BENEDUCE
Il mondo dell’invisibile nelle stanze dei diritti umani
Da quando l’orizzonte della migrazione ha conosciuto il suo graduale schiacciamento dentro il registro del diritto d’asilo, sola opportunità ormai per entrare in Europa, nuovi motivi hanno finito
col caratterizzare sempre più spesso i dialoghi fra istituzioni e richiedenti asilo provenienti dai paesi africani.
Come si può facilmente dedurre dalla lettura delle interviste realizzate nel corso delle audizioni, sembra che questi dialoghi, spesso
lacunosi, ricchi di refusi e nervosi (come testimonia il succedersi di
domande e sequenze “incassate” che lasciano poco margine a una
rievocazione serena delle proprie vicende, finendo col somigliare a
interrogatori polizieschi), finiscano solo per accrescere il sentimento
di confusione e di sospetto prima evocato: un sentimento che i numerosi rapporti pubblicati da agenzie internazionali non riescono a
dissolvere che in minima parte4.
L’UNHCR, ad esempio, pubblica da tempo schede sui contesti
di guerra, violazioni dei diritti umani, e sempre più spesso informazioni su culti e “sette”, pratiche rituali e “credenze”, ecc. Questi documenti, facilmente accessibili e sistematicamente consultati da avvocati e commissioni territoriali (ma forse anche dagli stessi richiedenti asilo), non mancano di riportare in qualche caso osservazioni
e ricerche propriamente etnografiche, sebbene al prezzo di una semplificazione che ne rende i dati rende spesso banali o grotteschi.
Nel caso più spesso incontrato nella mia ricerca, quello intorno a
minacce di natura “spirituale”, alle conseguenze di un giuramento
4
Mi riferisco alle informazioni disponibili su numerosi siti e relative ai particolari
contesti politici, economici e sociali che caratterizzano questo o quel paese: conflitti legati alla terra, violenze rituali, società segrete, ecc.
191
Le parole contorte dell’archivio postcoloniale
rituale infranto o alle azioni di società segrete, l’agenzia di documentazione Refworld5 cerca inoltre per altro di conservare l’anonimato
delle fonti, evitando di indicare i nomi degli esperti intervistati o limitandosi a utilizzare circonlocuzioni come «the political science
professor» e «the anthropology professor», ciò che – senza riuscire
a evitare che i riferimenti offerti permettano comunque l’identificazione degli esperti intervistati6 – contribuisce ad alimentare, anziché
diminuire, l’aura di incertezza e l’impressione di trovarsi di fronte a
informazioni prive di oggettività.
I documenti aggiungono in altri casi, con onestà, che non sempre
è stato possibile ottenere supplementi di informazione da parte del
mondo accademico: quasi a evocare una reticenza, o più semplicemente la difficoltà di una collaborazione fra scienze sociali e istituzioni internazionali che andrebbe interrogata7.
Ciò che voglio sottolineare è però soprattutto il labirinto di formule che fanno riferimento a esperienze, poteri o legami difficili da
5
«Refworld è la principale fonte di informazioni necessarie a prendere decisioni
valide sullo status di rifugiato. Contiene un’ampia raccolta di rapporti e informazioni riguardanti la situazione nei paesi di origine, documenti relativi alle politiche
e alle posizioni adottate e documenti relativi ai quadri giuridici internazionali e
nazionali», (https://www.unhcr.it/risorse/refworld)
6 «Two scholars did provide information about the Ogboni ‘secret society’ […].
One is a Professor of Political Science and Chair of the Department of African
American Studies at the State University of New York at Buffalo, who was Chair
of Political Science at the University of Ibadan from 1978 to 1983 and whose
research interests include ancient African civilizations and kinship and state in
Africa. He is an ethnic Nigerian (sic!)». (http://www.refworld.org/docid/3ae6ad6d40.html). Ma poi, perché dover mantenere l’anonimato di un ricercatore? Non è già questa esigenza l’ammissione esplicita che già il solo parlare di
certi temi potrebbe esporre a conseguenze?
7 «Additional Sources Consulted. Oral sources: Attempts to contact professors
from the following universities were unsuccessful: Stanford University, Oxford
University, University of Ottawa, University of Florida, University of California,
Obafemi
Awolowo
University»,
(http://www.refworld.org/cgibin/texis/vtx/rwmain?page=printdoc&docid=50aa3c6c2).
192
ROBERTO BENEDUCE
tradurre: un insieme di pratiche, di tecniche e di economie che resiste al vocabolario universale dei diritti umani. Una oscurità, o se si
vuole una oscenità epistemologica, dove a dominare è il malinteso, e ciò
sebbene non manchino ricerche che documentano in modo rigoroso la diffusione degli immaginari della stregoneria e il ricorso a
forme di protezione magica persino nelle élites dei paesi considerati
[ADEBANWI 2014], con buona pace di Warnier, che esclude invece categoricamente, sulla base di ricerche condotte da altri studiosi, il ricorso a pratiche occulte da parte degli imprenditori [2017,
p. 137]8.
8 Un’ampia letteratura materiale esiste d’altronde sulle vessazioni e le violenze perpetrate da società segrete quali quelle dell’Egbee Omo Oduduwa, della Black Axe, di
Owegbe, del Neo Black Movement, o dell’Eiye Fraternity in Nigeria, per ricordare i nomi
di quelle più spesso evocate dai richiedenti asilo in Italia. Un aspetto che non sarà
qui esplorato per motivi di spazio, meriterebbe tuttavia un’analisi approfondita:
che cosa ha fatto sì che le università, i “campus”, identificati nell’immaginario
occidentale come luoghi di dibattitto, di critica, di razionalità finissero con l’assumere in Nigeria il profilo cupo e rovesciato di spazi di violenza dove fioriscono
da anni organizzazioni segrete, al cui interno studenti si trasformano in autori di
estorsioni, minacce e crimini di ogni genere a danno di altri studenti? Il fenomeno
delle società segrete è stato largamente sottovalutato, e il caso della società Ogboni
è esemplare dell’intreccio di variabili eterogenee: nata in epoca pre-coloniale, essa
raggruppava anziani e leader che volevano così costituirsi in un’associazione in
grado di bilanciare il potere di re e capi. Dopo il 1914 essa si divide, dal momento
che alcuni membri, percependo come non cristiane le pratiche e i riti della società,
promuoveranno quella che prenderà il nome di Reformed Ogboni Frayenity allo scopo
di riconciliare la tradizione locale e la loro fede cristiana. Essa si espanse ben oltre
le regioni Yoruba diventando egemonica, dopo le elezioni del 1951, anche a Benin
City, e finendo con il trasformare l’Ogbonism in un vero e proprio sistema oppressivo agli occhi degli abitanti dell’Edo State, al quale si sarebbe opposto di lì a poco
la “comunità del Benin” (Otu Edo), a difesa delle proprie tradizioni e del proprio
regno (quello Oba). Ma al di là dello spazio politico-religioso, società iniziatiche
neo-tradizionali sorsero anche in seno all’università: quella di Ibadan, riconosciuta
da Londra, vide sorgere ad esempio, per iniziativa di sette studenti (fra i quali
Wole Soyinka) la società iniziatica della Pyrates Confraternity. Essa affiancava a finalità goliardiche (si vestivano in stile Long John Silver) scopi propriamente politicoculturali (la rivendicazione di una identità nigeriana, la costruzione di una società
migliore, l’asserzione della propria autonomia culturale e intellettuale rispetto ai
valori imposti dall’impero britannico), riproducendo in modo caricaturale («ape»,
193
Le parole contorte dell’archivio postcoloniale
Nelle pagine seguenti riporto una serie di estratti dai quali, malgrado la loro brevità, è facile dedurre il sentimento dei soggetti coinvolti e misurare l’indeterminatezza di un dialogo che rievoca a tratti
gli stessi malintesi e sospetti che marcarono la situazione coloniale.
Quelli discussi qui di seguito sono tratti dal ricorso presentato da un
richiedente asilo attraverso il suo legale.
O. E. è un giovane nigeriano, originario del Delta State, di
“etnia Bini”9 il cui padre, medico, “di religione Yoruba”, era «un
membro importante di una società segreta chiamata Secret society
Ogboni, meglio conosciuta come Reformed Ogboni Society»,
al cui interno «officiava rituali segreti»10.La madre lo aveva educato alla religione cristiana pentecostale «nella speranza che
scrive Ellis) lo stile severo e rituale dei college di Oxford e Cambridge (ELLIS
2016, pp. 46-50).
9 Fra virgolette sono riportate le parole tratte, in questo caso, dal ricorso presentato dall’avvocato del richiedente asilo. Spesso i testi citati nei documenti, sia da
parte dei legali – come in questo caso – sia da parte delle commissioni territoriali
o dai giudici nell’esporre le motivazioni del rifiuto della domanda d’asilo, fanno
riferimento a documenti dell’UNHCR o di altre agenzie umanitarie (Human Right
Watch, Amnesty International), a ricerche propriamente antropologiche o storiche, o a lavori tratti da siti internet (quello utilizzato in questo caso è, ad esempio,
un sito nigeriano: http://www.edo-nation.net/edotribe.htm).
10 I corsivi sono miei e vogliono mettere in rilievo espressioni improprie e l’effetto
di esotismo cognitivo determinato dalla scelta dei termini, ciò che è stato messo in
rilievo anche da altri lavori relativamente alla proliferazione del termine “voodoo”
in relazione alla prostituzione nigeriana in Europa (VAN DIJK 2001; TALIANI
2012). Nei verbali di audizione sui quali questa ricerca è stata condotta è inoltre
sorprendente la frequenza di errori e refusi (in particolare per quanto concerne il
genere, come se si utilizzasse un modello già redatto al maschile, senza aver poi la
cura di adeguare le domande e concordare i verbi al genere della persona:
«Quando è partito dalla Nigeria? Sono partita nel dicembre 2003»), ciò che – producendo un testo spesso opaco o francamente incomprensibile, e nel quale domande e risposte si succedono talvolta senza un nesso logico – indebolisce il grado
di efficacia narrativa del racconto, la sua plausibilità. Le informazioni sono relative
casi a seguiti presso il Centro Frantz Fanon (Torino) o tratte dalla documentazione gentilmente resa disponibile dagli amici dell’Associazione Studi Giuridici
sull’Immigrazione (ASGI). Tengo a esprimere una particolare gratitudine per il
loro aiuto a Salvatore Fachile, Ornella Fiore, Loredana Leo e Maurizio Veglio.
194
ROBERTO BENEDUCE
si sottraesse alla terribile setta praticata dal marito, sospettata
dalla moglie stessa di praticare rituali occulti».
O. E. fugge dal paese dopo aver ricevuto minacce di morte
dal padre e altri membri della società segreta per aver rifiutato di farne parte, in particolare sottraendosi alla richiesta di
partecipare all’esecuzione di un sacrificio dopo la morte di un
fratello. Il fratello e la madre sono morti a poca distanza
l’uno dall’altro a causa di una malattia. «In realtà, è scritto nel
ricorso, pare che i loro decessi, avvenuti rispettivamente nel 2000
e nel 2001, siano stati conseguenza dei rituali praticati dal padre»
[corsivo dell’A.]
Il discorso dell’avvocato fa uso di formule dubbie (“religione Yoruba”), e i nessi causali suggeriti (i decessi di due familiari del richiedente asilo «pare […] siano stati conseguenza dei rituali») sono per lo più
allusivi. L’effetto è quello di accrescere il sentimento di incredulità
nel giudice al quale sarà presentato il ricorso anziché la credibilità
del racconto, e la probabilità che il parere del giudice sia quello di
una scarsa plausibilità della vicenda narrata viene così paradossalmente ad aumentare.
Il vocabolario sembra d’altro lato insistentemente evocare un’atmosfera di mistero e di terrore, di barbarie (“società segreta”, “rituali
segreti”, “rituali occulti”, “sacrificio”), al cui interno ritroviamo l’eco
di un dibattito che alcuni anni fa ha opposto Ranger a ter Haar ed
Ellis.
Ranger analizzava nel suo articolo il linguaggio adoperato dai media e da Scotland Yard dopo il ritrovamento a Londra del cadavere
di un ragazzo, di probabile nazionalità nigeriana, terribilmente amputato. Ma la sua critica era l’occasione per rileggere i lavori antropologici pubblicati in anni recenti sul nesso fra stregoneria, magia e
crimini rituali in Africa, il cui linguaggio sembrava essere singolarmente vicino a quello della polizia londinese. La conclusione è severa, là dove attribuisce a studiosi come COMAROFF [1999], DE
195
Le parole contorte dell’archivio postcoloniale
BOECK [2005] e appunto ELLIS e TER HAAR [2004] la responsabilità di contribuire ad alimentare una confusione concettuale che,
fra i suoi effetti, avrebbe quello di riprodurre gli stereotipi coloniali
sull’Africa.
Nel recensire il lavoro di Ellis e ter Haar, Ranger osserva inoltre:
They define “religion” in its widest sense – as «a belief in the
existence of an invisible world, often thought to be inhabited
by spirits that are believed to affect people’s lives in the material world» [p. 3]. This allows them, for instance, to include
belief in witchcraft which they describe as «just another of
the spiritual beliefs that many Africans share» [p. 27]. It also
allows them to include human sacrifice, trade in body parts,
secret societies, satanic cults and so on. [Yet] an account of
African religion which has too much to say about witchcraft,
or about human sacrifice, or trade in body parts or satanism
cannot help but be an un-representative and distorting account [RANGER 2007, p. 276].
Se il suggerimento di “disaggregare” e “storicizzare” l’occulto sulla
base di rigorose analisi etnografiche può essere accolto senza riserve,
così come la proposta di non adottare una stessa etichetta per denominare fenomeni diversi, soddisfa poco un uso della nozione di “occulto” che rimane, tutto sommato, ancora troppo generica, come
osserva MEYER [2009], e al cui interno vengono fatti confluire riferimenti a omicidi rituali, “uomini-leopardo”, profeti ciarlatani, accuse di stregoneria o riti voodoo…
La domanda torna a essere: come tradurre in modo adeguato argomenti e concetti che nascono all’interno di orizzonti di esperienza
(di ontologie, di prospettive) radicalmente diversi? Come concepire
forme di potere e di violenza che si esercitano mescolando modi
ordinari di coercizione con forme rituali il cui immaginario e i cui
simboli si ispirano a tradizioni locali, a un’altra nozione di moralità
e di “spazio pubblico” [EKEH 1975]?
196
ROBERTO BENEDUCE
Il vocabolario della coercizione e dell’assoggettamento
Nel labirinto semantico che contraddistingue le vicende di molti richiedenti asilo, il tema della stregoneria è senza dubbio quello che
più spesso costituisce l’origine di non pochi malintesi. La “stregoneria” è del resto per definizione una questione ambigua, come è stato
messo in evidenza più volte negli studi relativi al ruolo che essa occupa nelle società africane [ADEBANWI 2014; BENEDUCE
2010a; DE ROSNY 1974, 1981; GESCHIERE 1997, 2013; MALLART-GUIMERA 1981; YENGO 2016]: un’ambiguità originata
dal fatto che la stregoneria è per eccellenza la figura del negativo (ma
solo quando non è rivolta a lottare per il bene comune o contro
nemici comuni) e, insieme, per antonomasia, la tecnica utilizzata per
costruire talenti o realizzare il successo individuale (ma quale trionfo
individuale non rischia poi di suscitare gelosie o ferire desideri altrui?)11.
L’esperienza narrata dai richiedenti asilo interroga dunque, e a
uno stesso tempo, i modelli egemonici della responsabilità individuale e quelli del nesso causa/effetto. Insomma, si afferma come
ontologia alternativa. In quello che appare un vero e proprio nodo
epistemologico, la nozione di “persecuzione” opera come una passerella invisibile fra categorie del diritto umanitario, diagnosi psichiatriche (“idee di persecuzione”) e vocabolario stregonesco (e non è
un caso che le vittime di persecuzione, che dichiarano di essere minacciate, siano sospettate spesso di essere affette da allucinazioni o
11
A questi profili strutturalmente ambigui della nozione di stregoneria deve esserne aggiunto un’ulteriore: l’accusa di stregoneria, rivolta spesso nei confronti di
soggetti socialmente deboli (donne, anziani, ecc.), trasforma questi ultimi in oggetto di sanzioni e vessazioni persino da parte di tribunali, i quali trasformano così
il presunto stregone in una vittima della violenza istituzionale o di Stato, quando
non di quella sociale (CERIANA MAYNERI 2014; DE ROSNY 2005;
MGBAKO/KLENN 2011; SCHNOEBELEN 2009; SIEGEL 2002). Il caso del
giovane ghanese riportato più innanzi nel testo fa riferimento a quest’ultimo
aspetto.
197
Le parole contorte dell’archivio postcoloniale
sintomi deliranti). Quella di “persecuzione” costituisce in definitiva
una nozione che, nel traghettare esperienze da un territorio semantico a un altro, da un campo d’azione (religioso, psichico, giuridico,
ecc.) a un altro, lascia precipitare talvolta il richiedente asilo nel
vuoto: soprattutto quando, fedele ai codici simbolici del gruppo di
appartenenza, egli si aspetta di essere compreso nella letteralità eccedente della propria esperienza:
C.T. Per quali motivi ha lasciato il suo Paese?
R.A. Nel 2010 è morta mia madre, avvelenata. Non si è saputo
chi l’avesse avvelenata. Lei ci aveva detto che forse era stata
avvelenata quando era andata a una festa. Non sappiamo altro.
C.T. Non avete cercato di sapere? Siete andati alla polizia?
R.A. Non lo so, non so se mio padre è andato alla polizia.
C. T. Poi cosa è successo?
R. A. Nel 2013, non ricordo mese e data, è morto mio padre,
hanno chiamato me e mio fratello per dirci che uno dei due
doveva prenderne il posto. Non volevamo farlo perché eravamo cristiani. Un giorno mio fratello mi ha chiamato, per
dirmi che non stava bene. È stato portato in ospedale, operato a un occhio e bendato. È stato dimesso dall’ospedale,
ma dopo tre giorni ha avuto un incidente con la macchina ed è
morto. Da quel momento è diventato un problema per me,
perché ogni volta che dovevo bere o lavarmi l’acqua si trasformava in
sangue. Sono stato traumatizzato dalla faccenda. Ho pensato che
fosse dovuto al fatto che non volevo sostituire mio padre, e
sono andato a bruciare l’altare che usava mio padre. La cosa
è peggiorata, perché ogni volta che a casa mi coricavo mi sentivo
chiamare per nome, mi voltavo ma non c’era nessuno. Poiché questa
cosa non mi lasciava tranquillo, ho deciso di andare via dalla
Nigeria12.
12
Archivio Fanon, A/2015/3 H.A.
198
ROBERTO BENEDUCE
Che cosa sta raccontando quest’uomo? Che cosa è possibile dire
delle sue esperienze in cui dell’acqua si trasforma in sangue? Senza
dubbio, l’immaginario teologico martellante delle chiese pentecostali e il vocabolario dell’antico testamento qui affiorano in modo
evidente e letterale, mettendo a dura prova lo spirito laico del diritto
umanitario: la questione vera è però che cosa spinge un richiedente
asilo a riferire queste esperienze, queste immagini, che cosa gli impone
di parlare di questi ricordi, e aspettarsi che essi vengano considerati
come la “prova” delle minacce e dei pericoli dai quali è fuggito…
Il caso di un ragazzo proveniente dal Ghana, giunto in Italia ancora minorenne e al quale verrà concessa la protezione umanitaria13
ma non lo statuto di rifugiato, è pertinente per esplorare da un altro
punto di vista gli enigmi semantici ed esperienziali evocati.
Il racconto riportava in questo caso che le ragioni della fuga
erano state le violenze di cui era stato vittima insieme alla madre
quando quest’ultima, accusata di aver causato la morte di una donna
che viveva in affitto nella loro abitazione, era stata aggredita in sua
presenza. La sequenza è familiare a chi svolge ricerche in Africa e
sembra ripetere un tragico canone. Dopo aver consultato il pastore
di una chiesa, probabilmente pentecostale (il documento si limita a
dire “una Chiesa”), una donna che vive come affittuaria nella casa
del richiedente asilo apprende che non riesce ad avere figli a causa
della madre del ragazzo. Tornata a casa ne parla con il marito e minaccia la madre del richiedente asilo per quanto sta facendo contro
di lei, aggiungendo con toni particolarmente aggressivi che
gliel’avrebbe fatta pagare. Ma il giorno dopo la donna viene trovata
morta: un “sacerdote” (forse un pastore?) giunge a casa della defunta
Oggi come è noto questa possibilità è stata cancellata dal dispositivo dell’asilo
in virtù del tristemente noto “pacchetto sicurezza”, ossia il decreto governativo
firmato da Salvini dell’ottobre 2018, convertito poi in legge nel dicembre dello
stesso anno.
13
199
Le parole contorte dell’archivio postcoloniale
e rivolgendosi alla madre del richiedente asilo dichiara con tono minaccioso che, trascorsi tre giorni, i responsabili di quella morte sarebbero morti a loro volta.
Trascorsi tre giorni non accade nulla. Qualche giorno dopo però
alcuni uomini entrano di notte nella casa del richiedente asilo aggredendo sia lui sia la madre: a quest’ultima amputeranno due dita,
mentre il ragazzo, nascostosi invano sotto una coperta, sarà ferito
con un coltello agli arti inferiori (il documento recita: «mostra dei
segni al piede destro»), ustionato in diverse parti del corpo con delle
sigarette, e quasi accecato a causa dell’alcol (dell’etanolo) versato nei
suoi occhi.
Dopo alcune settimane madre e figlio accettano il consiglio di
una zia e si allontanano dal villaggio per sfuggire a ulteriori violenze.
Raggiungono il nord del paese e si stabiliscono a Boyansi, un piccolo
villaggio dove è stato aperto un centro (“witch camp”) nel quale
sono accolte donne accusate di stregoneria (nel racconto si fa notare
come in passato una sorella della madre avrebbe affermato che in
effetti quest’ultima era una strega, accusandola in particolare di aver
causato la morte del padre per impossessarsi della casa: un motivo
che proietta la vicenda della fuga e della richiesta d’asilo nell’oscura
trama di conflitti familiari).
Rimarranno a Boyansi circa due anni. Una notte la madre promette al figlio che gli «avrebbe dato qualcosa», ma qualche ora dopo
la donna misteriosamente muore, e lui non riuscirà a sapere che cosa
avrebbe voluto dargli.
Aiutato da una “signora bianca” si reca ad Accra, dove lavora
come apprendista autista. Un giorno, al mercato, incontra per caso
il vedovo della donna che viveva come affittuaria nella loro casa.
L’uomo lo riconosce e lo accusa pubblicamente di essere anch’egli
uno stregone, e lo aggredisce. Il ragazzo riesce a fuggire e a raggiungere un posto di polizia dove si nasconde per chiedere protezione e
200
ROBERTO BENEDUCE
sporgere denuncia, ma qui viene trattenuto e accusato di essere coinvolto in attività illegali.
Comprende che ormai è esposto al rischio di vendette e di violenze perché anch’egli sospettato, come già sua madre, di essere uno
stregone, e che il suo aggressore deve aver corrotto la polizia. Decide
allora di abbandonare il paese e giunge in Italia.
Il motivo del diniego dello statuto di rifugiato è espresso in modo
eloquente:
Considerato che la situazione lamentata dal richiedente, posta alla base della sua fuga dal Paese, non appare essere persecutoria nei suoi confronti né eccessivamente discriminatoria alla luce del
fatto che lo stesso aveva ricominciato la sua vita ad Accra
dopo la morte della madre […] e che ogni timore appare essenzialmente soggettivo, non essendo legato a una condizione di
reale ed effettiva minaccia fisica ma solo di pronostico funesto;
Ritenuto che per la carenza di verosimiglianza e sproporzione
del timore non sussistano elementi per considerare il timore
di persecuzione ai sensi dell’art 1 (A) della Convenzione di
Ginevra del 1951;
[…] non essendo emersi sufficienti elementi di fondatezza a
sostegno di un’ipotesi di “danno grave” nel senso indicato
dall’art. 14 […], in quanto non sembra che il richiedente sia
esposto a pena capitale o a trattamenti unmani e degradanti
[…], né che is aipotizzabile la possibilità del verificarsi di un
grave danno […] in quanto la situazione del paese di origine
del richiedente, il Ghana, non risulta essere di conflitto o violenza eneralizzata, come in BBC News, May 2015, Ghana
Country profile. Overview […]. La commissione all’unanimità
decide di non riconoscere la protezione internazionale14.
Vicende come questa parlano di malintesi epistemologici, di termini
intraducibili, ma soprattutto di una svalutazione dei modi attraverso
14
Archivio Fanon B/2017/1.
201
Le parole contorte dell’archivio postcoloniale
i quali è riportata l’esperienza («senza riscontro con il reale», «poco
plausibile», «soggettiva»): e ciò sebbene numerose ricerche documentino la frequenza con la quale nulla è più facile che corrompere
un poliziotto per chiedergli qualunque cosa, e che spesso le donne
che hanno lavorato come prostitute in Italia sfruttano la propria
condizione economica per regolare conflitti familiari o con i propri
vicini [ELLIS 2016].
Sono forme del parlare, quelle di tanti richiedenti asilo, che non
trovano facile accoglienza nel linguaggio egemonico del diritto o
della psicologia occidentali, discorsi il cui destino è simile, per certi
versi, a quello di altri “savoirs assujettis”, nel senso in cui Foucault
utilizza questa espressione: «savoirs naïfs, savoirs hiérarchiquement
inférieurs, savoirs en dessous du niveau de la connaissance ou de la
scientificité réquises» [FOUCAULT 1997, p. 9]15. A dominare queste narrazioni rimane dunque, da un lato, quella che ho definito altrove un’atmosfera, una struttura narrativa onirica («ogni volta che
dovevo bere o lavarmi l’acqua si trasformava in sangue»; «Una notte
la madre promette al figlio che gli avrebbe dato qualcosa, ma qualche
ora dopo muore»); dall’altro, un ascolto di queste esperienze fortemente orientato dal sospetto sulla loro natura.
Le parole dei richiedenti asilo s’infrangono così contro un’incomprensione che, paradossalmente, tanto più cresce quanto meno esse
cercano di aderire ai profili del “credibile” e del “plausibile”, quanto
più vogliono essere, si è tentati di dire, autentiche.
D’altronde, è noto che la contemporanea categoria di persona e di individuo,
le attuali espressioni della soggettività, siano state plasmate proprio a partire
dalle formulazioni sui diritti umani. Meriterebbe pertanto un particolare approfondimento il fatto che già Mauss, nel suo celebre articolo sulla nozione di persona e quella di «Io», scrivesse nelle conclusioni: «Da questo momento la rivoluzione delle menti è un fatto compiuto, ciascuno di noi ha il proprio «io», eco
delle Dichiarazioni dei Diritti che avevano preceduto Kant e Fichte» [MAUSS
1965, p. 380].
15
202
ROBERTO BENEDUCE
Fra le molte vicende che potrei evocare penso, in particolare, a
quella di un richiedente asilo, giornalista in un paese dell’Africa occidentale, che dopo aver indagato sui traffici di armi nel nord del
paese e le complicità fra alcuni esponenti dell’esercito e le milizie di
Boko Haram, era diventato oggetto di minacce e persecuzioni: l’auto
incendiata, il furto di documenti nella propria abitazione, la certezza
di essere spiato.
Dopo un arresto, riesce a fuggire e giungere in Europa. Ma la
commissione territoriale, e poi il giudice del tribunale, rifiutano di
prendere in considerazione le prove che egli aveva con sé: gli articoli
a propria firma scritti su diversi giornali, le interviste a rappresentanti
del governo sospettati di complicità con le milizie di Boko Haram
accessibili sui siti internet, le foto che lo ritraggono mentre parla con
esponenti delle forze di polizia.
Tutto quanto gli appariva utile a dimostrare oggettivamente il ruolo
avuto nell’indagare vicende sensibili, tutto quanto egli mostrava in
merito ai presupposti che avrebbero condotto al suo arresto e al periodo trascorso in prigione (compresi i certificati medici rilasciati
dopo essere stato ricoverato a seguito delle violenze subite in prigione), sarà ritenuto in Italia insufficiente a dimostrare la condizione
di perseguitato.
Una relazione medica che certifica la sua attuale sofferenza sarà
addirittura ripresa e rovesciata nel suo significato per suggerire (in
modo perverso, sono tentato di dire) che la percezione del rischio e
delle minacce alle quali sarebbe andato incontro se fosse tornato nel
proprio paese erano decisamente soggettive, prive di fondamento, e
suggerivano la presenza di idee persecutorie (in ciò ignorando un
dato elementare della clinica e del buon senso: e cioè che la violenza
e la tortura spesso trasformano nelle vittime la percezione della
realtà). Le conclusioni erano pertanto che la documentazione esibita
non poteva essere valutata come un elemento probante o utile a sostenere la richiesta di asilo.
203
Le parole contorte dell’archivio postcoloniale
Dopo pochi mesi dal diniego della commissione territoriale e la
decisione del tribunale di respingere il ricorso, J., ormai da oltre due
anni in Italia in una condizione di incertezza giuridica insostenibile,
sperimenta crescenti segni di malessere, sviluppa disturbi a livello
gastroenterico, ed è terrorizzato dall’idea che il governo del suo
paese possa inviare dei sicari per ucciderlo anche qui in Italia (da
giornalista sa che cosa è accaduto agli oppositori del governo in Camerun, e come siano stati in qualche caso uccisi anche all’estero con
la complicità di servizi segreti stranieri).
Tutto ciò però è poco, troppo poco per spingere una commissione
territoriale a considerare credibile e plausibile il racconto di un richiedente asilo. Un giorno J. viene al centro Fanon e afferma di essere seguito da giorni da due uomini di apparente “origine araba”…
Quello che le istituzioni spesso trascurano di riconoscere è insomma il dato secondo cui l’oppressione, la persecuzione, la violenza possono determinare anche gravi forme di sofferenza: politica
nella sua eziologia, psichica nelle sue espressioni.
Evocare sogni di morte, medici tradizionali o sacrifici fatti dinanzi alla porta della propria casa, affermare di svegliarsi “legati”16 e
parlare di sogni angoscianti come della prova dell’omicidio che uno
zio avrebbe tentato ai suoi danni, o come l’evidenza dei rischi ai quali
sarebbe esposto nel proprio paese, rischia di apparire così nient’altro
16
Dal verbale della commissione territoriale relativo a un richiedente asilo nigeriano riporto il seguente estratto: «C.T. Per quale motivo lei è dovuto andare da
un medico spirituale? R.A. Perché avevo un problema che era stato lanciato contro
di me. Mio zio aveva tentato di uccidermi, io stavo sognando, ero legato e picchiato e quando mi sono svegliato ero legato, io ho fatto fatica e sono riuscito a prendere
il telefono e ho chiamato il mio amico […] e mi ha portato ad Abuja. C.T. Come
ha tentato di ucciderla suo zio? R.A. Mio zio voleva prendermi le proprietà che
avevamo ereditato da mio padre. Io l’ho visto mio zio nel mio sogno, questo che vi ho
detto era il secondo tentativo, la prima volta ho sognato che mio zio faceva i sacrifici
davanti alla mia porta e quando mi sono svegliato ho visto queste cose davanti alla
porta, e poi alla fine mio zio si è appropriato dei miei beni».
204
ROBERTO BENEDUCE
che un discorso farneticante, sebbene questi riferimenti siano
quanto di più comune nell’etnografia africana17.
Eppure era questo, proprio questo il parlare che Ernesto de Martino aveva ascoltato e minuziosamente esplorato nel Meridione
d’Italia, suggerendo il concetto dell’essere-agiti-da nel costruire una fenomenologia di quelle esperienze di fascinazione e fattucchieria incontrate nella Lucania degli anni Cinquanta. La vittima, in quel caso,
si svegliava il giorno spossata e sofferente, con mani e piedi misteriosamente legati!18 Le immagini della ricostruzione fotografica di un
caso di legamento, riportate in Sud e magia, sono a questo proposito
illuminanti19.
Ma la possibilità di ascoltare in modo efficace che cosa un richiedente asilo sta raccontando presupporrebbe di disporre già delle categorie con le quali tradurre esperienze e vicende che esibiscono,
bisogna ammetterlo, una radicale alterità. È a causa delle «asperità»
di quest’ultima [DERRIDA 1989] che il vocabolario dei diritti
umani o delle convenzioni internazionali, rimane spesso inadeguato,
incapace di ospitare questi discorsi, a meno di non rubricarli come
falsi o implausibili.
Nel verbale di una commissione territoriale (Torino, 2012), le ragioni per rifiutare la richiesta d’asilo di una giovane donna nigeriana
17
È quanto sosteneva ancora recentemente Andras Zempléni (comunicazione
personale; Parigi, 5 marzo 2019). Non è possibile sviluppare qui per motivi di
spazio la fondamentale questione di che cosa sia assunto come “conoscenza”,
“credenza” o “prova” nelle epistemologie africane. Mi limito a rinviare al lavoro
di HALLEN e SODIPO 1986.
18 Quando si trattava di una “cosa fatta” invece ai danni degli animali, un cavallo
ad esempio, quest’ultimo sarebbe stato trovato il mattino dopo nella stalla madido
di sudore, i crini intrecciati…
19 «[La fascinazione] indica una condizione psichica di impedimento e di inibizione, e al tempo stesso di dominazione, un essere agito da una forza altrettanto
potente quanto occulta, che lascia senza margine l’autonomia della persona, la sua
capacità di scelta e di decisione» [DE MARTINO 1982, p. 8]. Sta qui a mio giudizio una delle possibili radici di quella che SIEGEL [2002] ha definito in un altro
contesto come la «verità della stregoneria».
205
Le parole contorte dell’archivio postcoloniale
coinvolta in attività di prostituzione (J.O.) erano state così formulate:
In audizione ella racconta di essere giunta in Europa credendo di avere come prospettiva la continuazione dei suoi
studi e solo giunta a […] avrebbe compreso di doversi prostituire. RILEVATO che tale versione dei fatti contrasta con
lo scarno racconto dei fatti e con la subita accettazione del lavoro
imposto che con il presunto giuramento juju – avvenuto a suo dire
in Nigeria – che le imponeva di omertà sugli avvenimenti…
Il tema del juju nelle società del golfo di Guinea, e in Nigeria in particolare, esigerebbe in sé un’analisi approfondita della sua semantica,
e dell’intreccio che esso manifesta oggi con un progetto migratorio
che, nella sua struttura rituale, e per quanto oggi a brandelli o piegata
a nuovi interessi, manifesta la sopravvivenza di antiche pratiche politico-amministrative a carattere “teocratico”20.
L’esito dell’audizione è, come è facile immaginare dai termini del
documento («scarno racconto», «presunto giuramento») negativo. I timori che la famiglia residente in Nigeria possa subire ritorsioni nel
caso la donna infranga il giuramento («C. T.: Ha paura del Juju o di
interventi concreti? J.O.: ho paura per la mia famiglia»), non appaiono
alla commissione sufficientemente dimostrati. Anche l’aver accettato di prostituirsi così rapidamente sembra contraddire l’idea di essere
stata sottoposta a una qualche forma di coercizione (sic!), e l’inconsapevolezza del destino al quale stava andando incontro (ciò che, in
effetti, le ricerche relative al contesto sociale e ai discorsi dei media
20 Sulla nozione di “amministrazione teocratica” nel delta del Niger, cfr. TALBOT 1933, p. 289. Sul potere degli altari denominati dagli inglesi “Long Juju” e
il loro legame con la stregoneria e le forme del debito nella Nigeria pre-coloniale, nonché con le nuove forme di benessere e di asserzione individuale o le
emergenti strategie della frode in epoca coloniale, rinvio ancora una volta a ELLIS 2016, pp. 29-35.
206
ROBERTO BENEDUCE
in Nigeria contraddicono, dal momento che recarsi in Italia è purtroppo diventato sinonimo di traffico sessuale).
La richiedente deciderà di presentare un ricorso.
Riprendo qui un estratto del dialogo fra J. O. e il giudice onorario
del tribunale che esamina il ricorso e la interroga nuovamente sulle
vicende del suo arrivo in Italia.
G. Perché è andata via dalla Nigeria?
R.A. Perché la donna mi ha detto che voleva aiutarmi
[…]
G. e questa donna di cui ha parlato, chi è? Come l’ha conosciuta?
R.A. L’ho conosciuta alla scuola dove lavoravo
[…]
G. Ricorda il nome di questa donna?
R.A. No, tanto penso che il nome che può avermi detto non
è vero
[…]
G. Siete partite insieme da xxxx
R.A. No, dopo che la donna mi ha visto, mi ha portato a yyyy
e mi ha fatto un voodoo con il mio sangue, dicendomi di non dirlo
a nessuno.
G. Che cos’è yyyy?
R.A. è fuori xxxx, come in campagna
D. Lei sapeva che avrebbe preso il suo sangue?
R.A. No, l’ho capito sul momento.
G. Può spiegarmi meglio?
R.A. Lì c’era anche un uomo, dopo il prelievo del sangue mi ha
dato da bere, poi mi ha riportato a casa dicendo di non dire
nulla a nessuno ci cosa avevano fatto.
G. Lei conosce il significato di questo voodoo?
R.A. No, solo che mi ha detto che non dovevo parlarne con nessuno
G. Quindi non era preoccupata per la sua incolumità?
R.A. Sì, perché se avessi detto questo a qualcuno mi hanno
detto che sarei morta.
207
Le parole contorte dell’archivio postcoloniale
G. Però adesso Lei lo sta raccontando e non sta morendo, perché in quel momento sarebbe potuta morire?
R.A. Come mi hanno spiegato, mi hanno messo paura.
[…]
G. Però le aveva anche fatto anche la promessa di ucciderla, quindi
perché ha creduto che l’avrebbe fatta andare a scuola?
R.A. ehh
G. Non sarebbe stato meglio non vedere mai più quella
donna?
R.A. Non era la donna a minacciare di uccidermi, era il voodoo che mi
avrebbe fatto morire.
G. Ma lei oggi crede che il voodoo possa far morire le persone?
R.A. ehh, sì perché è pericoloso.
La nozione di juju qui scompare lasciando la scena a un altro tema,
il voodoo. Ora è quest’ultimo evocare una minaccia di morte la cui
realtà vacilla nella domanda del giudice (d’altronde, come pretendere
che un giudice accetti l’idea che il voodoo possa far morire? come
pretendere che egli conosca i lavori di Cannon o Lévi-Strauss?). La
motivazione che ha condotto il giudice a respingere il ricorso e confermare quanto già deciso dalla commissione territoriale, e cioè che
«nei fatti raccontati» non erano «ravvisabili i presupposti per il riconoscimento di forme di protezione internazionale», è un documento
non meno eloquente dell’archivio che sto provando a esplorare. In
esso il giudice spezza l’argomento della richiedente asilo sulla base
della consapevolezza con la quale avrebbe accettato i vincoli rituali
e psicologici che ora invece denuncia:
La ricorrente ha tuttavia riferito come, prima di partire per
l’Europa con un passaporto falso, sarebbe stata sottoposta a
un rito voodoo, cui ha partecipato la donna che l’avrebbe poi
condotta in Italia, e un uomo, che ha officiato il rito. Il rito
serviva a vincolarla al segreto, tanto che le era stato detto che
208
ROBERTO BENEDUCE
se avesse parlato con qualcuno di quanto avvenuto, sarebbe
morta.
Correttamente la Commissione ha evidenziato come sia poco
credibile – a fronte delle minacce già rivolte alla ricorrente
prima ancora della partenza per l’Europa e quando già l’atteggiamento tenuto da questa donna le consentiva di capire
come l’interesse nei suoi confronti non fosse dettato dalla
generosità – che ella abbia comunque ritenuto di seguirla in
Italia. Tali circostanze depongono per la consapevolezza
delle ragioni per le quali le veniva pagato il viaggio per venire
in Italia […]
Una drammatica intraducibilità scandisce questi incontri. Che J. O.
abbia omesso e continui a omettere aspetti rilevanti della sua storia,
è evidente: la volontà di conservare segrete, o semplicemente opache, aree della propria esperienza, costituisce un tratto comune e
d’altronde pienamente comprensibile. Che nel corso dei controlli di
polizia in Italia abbia dato false generalità, è dimostrato (lo rivela il
casellario giudiziario, e d’altronde, per un immigrato clandestino, la
prima regola è quella di non declinare le proprie generalità quando
fermato dalle forze dell’ordine). Quanto poi al lavoro di pettinatrice,
ciò sembra al giudice in contraddizione con quanto risulta essere
invece il lavoro di prostituta: quasi che le due fossero attività fra loro
incompatibili…
Le dichiarazioni relative alle violenze subite dai familiari, infine,
saranno considerate «generiche». E così, esclusa la possibilità di evocare un caso di «tratta di esseri umani ai fini di sfruttamento sessuale», dal momento che la partenza dalla Nigeria sarebbe stata «volontaria»,21 e l’eventualità che una volta rientrata nel suo paese «possa
21
Non vi è qui modo per analizzare in dettaglio la complessa dialettica fra subalternità, desiderio, violenza, miseria, e scelta di emigrare [TALIANI 2012, 2017 e
2019]. La formula “choiceless decision”, proposta tempo fa da alcuni autori, ricorda la contraddittorietà e l’ambivalenza caratteristica di queste esperienze. Cfr.
209
Le parole contorte dell’archivio postcoloniale
essere nuovamente avviata alla prostituzione» (sic !), il ricorso sarà
respinto.
Corpi che si svelano?
Da qualche tempo il ruolo delle consulenze mediche o psichiatriche
allo scopo di verificare l’autenticità delle affermazioni dei richiedenti
asilo relativamente alle violenze subite e alla natura delle eventuali
conseguenze psichiche o fisiche (Disturbo da Stress Post-Traumatico22 e certificazione di cicatrici compatibili con gli eventi riportati,
in particolare) ha avviato una silenziosa metamorfosi del diritto
d’asilo, che da politico e giuridico è sospinto ormai sempre più verso
una sua radicale medicalizzazione. Questo processo trova testimonianza nella prevalenza della protezione internazionale concessa per
“motivi umanitari”, almeno sino a quando, come si è già detto, la
recente legge del governo italiano ha cancellato questa possibilità.
Se il racconto dei richiedenti asilo offre spesso lo spettacolo un
«piccolo scandalo epistemologico» [BENEDUCE 2008, p. 506]
quando cerca di attraversare il sempre più impervio ordine nazionale
della verità23, è però il corpo il luogo dove si continua a cercare o
anche FARLEY 2015. ELLIS 2016 ricorda inoltre come l’economia che si è sviluppata intorno al mercato della prostituzione verso l’Italia, e che ha coinvolto in
larghissima parte di donne nigeriane provenienti dall’Edo State, ha preso avvio da
una trasformazione delle attività commerciali, inizialmente aventi come beni tessuti e vestiti, e avviate da pellegrini che dalla Nigeria si recavano in visita a Roma,
dal papa (sic!) alla stregua del pellegrinaggio verso la Mecca [p. 134].
22 Per una critica dell’abuso e della proliferazione della categoria diagnostica di
PTSD, in merito ai rifugiati e ai contesti di violenza, cfr. BENEDUCE 2010b;
FASSIN/D’HALLUIN 2007; SUMMERFIELD 2001.
23 Lo testimonia, fra l’altro, l’uso della cosiddetta “Language Analysis for Determination of Origin” (LADO) che, nel corso delle audizioni delle commissioni
territoriali, è utilizzata in molti paesi per individuare elementi che rendano riconoscibile la regione o il paese di socializzazione del richiedente asilo. La prudenza
dei linguisti è un indice eloquente dei rischi di abuso di un simile strumento, che
di fatto si trasforma in un’analisi delle tracce (semantiche, fonetiche ecc.) rivelatrici
210
ROBERTO BENEDUCE
estrarre il metallo puro della verità: «Asylum seekers are expected to
unveil themselves, to recount their histories, and to exhibit their
wounds» [FASSIN/D’HALLUIN 2005, p. 606].
In questo “svelamento” vi è un aspetto decisivo che, come in un
altro celebre svelamento, quello analizzato da FANON [2001, pp.
16-50], rivela e nasconde in un medesimo tempo un aspetto centrale
della dialettica vero/falso nelle esperienze di tanti richiedenti asilo.
Sono d’altronde proprio questi ultimi a mostrare spesso per primi il
proprio corpo, le loro cicatrici, esibite come la sola prova, la più efficace, in grado di attestare la verità delle loro esperienze.
La mia ipotesi è che questo svelarsi, nella misura in cui vede coinvolti frequentemente anche gli esperti della cultura24, produca la propria efficacia performativa all’interno di una regione particolare del
di eventuali menzogne: «Linguists should have the right and responsibility to qualify the certainty of their assessments, even about the country of socialization. It
should be noted that it is rarely possible to be 100 per cent certain of conclusions
based on linguistic evidence alone (as opposed to fingerprint or DNA evidence),
so linguistic evidence should always be used in conjunction with other (non-linguistic) evidence. Further, linguists should not be asked to, and should not be
willing to, express their certainty in quantitative terms (e.g. ‘95per cent certain that
person X was socialized in country Y’), but rather in qualitative terms, such as
‘based on the linguistic evidence, it is possible, likely, highly likely, highly unlikely’
that person X was socialized in country Y’. This is because this kind of language
analysis does not lend itself to quantitative statistics such as are often found in
some others kinds of scientific evidence», [ARENDS ET AL. 2004]. Lo scivolamento verso quella che sembra configurarsi come una liturgia del probabile («it is
possible, likely, highly likely, highly unlikely»), e il confronto suggerito dagli autori
con la certezza offerta invece dall’esame dattiloscopico o del DNA, suggeriscono
che si è comunque dentro il perimetro di una comune ossessione identificatoria.
24 Il ruolo degli antropologi come consulenti chiamati a esprimere un parere sulla
natura delle lesioni o delle cicatrici esibite meriterebbe un’attenzione per interpretare questa nuova espressione di un’antropologia applicata. Ad esempio, il Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense dell’Università di Milano è impegnato non solo nel decisivo compito di identificazione dei cadaveri degli immigrati
rinvenuti dopo i naufragi nel Mediterraneo, ma da qualche tempo anche nel progetto di conoscere il gruppo etnico di appartenenza di un richiedente asilo.
211
Le parole contorte dell’archivio postcoloniale
diritto occidentale: invitato a concentrarsi sempre meno sulle narrazioni, sulla loro coerenza o attendibilità, quanto piuttosto sulle prove
del corpo, e di un corpo razzializzato in particolare.
Ancora una volta siamo di fronte a un corpo che, come quello
delle donne algerine descritte da Fanon, nell’atto di scoprirsi, rimane
indecidibile: come sapere se quelle donne svelate erano la prova di
un’adesione definitiva ai valori della società occidentale, di una colonizzazione riuscita o se solo mascherassero, togliendosi il velo, il
proposito di un attentato? Nel nostro caso: come dimostrare che
quella cicatrice sia l’esito di una violenza rituale o di una tortura e
non l’effetto di cauterizzazioni prodotte nel corso di una terapia tradizionale? In queste “screziature” [BHABHA 2001], il corpo
dell’immigrato sembra giocare con le ansie epistemologiche e l’incertezza che abita oggi i confini dello stato-nazione, restituendo
all’osservatore proprio quanto si aspetta di vedere (i segni di pratiche
tribali, di violenza barbare…), e generando ancora una volta ulteriori
sospetti sull’Altro, le sue intenzioni, la sua storia inconoscibile.
Cicatrici sospette
C.A. è un cittadino nigeriano, originario di Uromi, che ha poco più
di vent’anni quando arriva a Torino. Ha avuto l’opportunità di essere accolto presso una famiglia italiana, in una condizione che costituisce di fatto un considerevole privilegio. Nel corso dell’incontro
realizzato con lui, dopo essere stati coinvolti dal suo legale allo
scopo di fornire una consulenza antropologica ed etnopsichiatrica,
sarà possibile correggere non poche delle informazioni riportate nel
verbale della commissione. Qui mi limito a riportare alcuni estratti
dell’audizione, e di seguito alcuni frammenti relativi alla risposta
della commissione, giunta nove mesi dopo:
C. T. per quali motivi ha lasciato il suo Paese?
212
ROBERTO BENEDUCE
R.A. Mio nonno aveva tre mogli e aveva tanti terreni. Dopo
la sua morte c’è stato un litigio tra mio padre e mio zio perché
mio zio voleva ereditare tutto. Mio zio fa parte di una setta
che si chiama Ogboni e quindi mio zio ha minacciato mio
padre se non gli avesse lasciato tutto. Mio padre ha rifiutato
e mio zio lo ha ucciso. Io avevo paura di essere il prossimo
perché ha minacciato di uccidermi. Mio zio ha fatto dei rituali
contro di me. È andato da un sacerdote voodoo e lui quando mi ha
visto mi ha lanciato dei rituali e mi ha colpito allo stomaco. Io sono
andato da un altro sacerdote per curarmi. Mio zio mi voleva
morto e visto che non mi aveva ucciso ha continuato a mandarmi altri rituali e mi minacciava di morte. Per paura di mio
zio sono scappato.
C. T. Quelle cicatrici che ci ha mostrato prima sono i rituali che
le ha lanciato quel sacerdote?
R.A. Sì.
C. T. Glieli ha lanciati da distante?
R.A. Non è successo fisicamente. È successo spiritualmente. Sono andato a dormire e quando mi sono svegliato avevo dei dolori
e sono dovuto andare da un altro sacerdote che mi ha curato
facendomi queste cicatrici.
Complice una traduzione che distorce il complesso significato di alcuni termini, rendendo il discorso a tratti bizzarro, le domande poste
dalla commissione sembrano concepite per rendere impossibile la
comunicazione, esprimendo quasi incredulità, se non sarcasmo
(«glieli ha lanciati da distante?»). Le risposte del richiedente asilo rivelano la diversa epistemologia implicita nel suo discorso («è successo spiritualmente»), e l’effetto finale è quello di esporsi al prevedibile giudizio di infondatezza:
C. T. […] RILEVATO che il richiedente […] dichiara di essere stato colpito da un maleficio e di essersi salvato grazie al
ricorso di un “sacerdote” che per sanarlo gli avrebbe scarificato in vari punti il petto e l’addome […]; RITENUTO che
213
Le parole contorte dell’archivio postcoloniale
si tratta di un racconto fondato su superstizione e argomenti privi
di oggettivo riscontro con la realtà; CONSIDERATO che appare,
inoltre, fantasioso e privo di situazioni che permettono di invocare la necessità della protezione prevista dalla Convenzione di Ginevra del 1951 […] HA DECISO di non riconoscere la protezione internazionale.
L’analisi di questa vicenda esigerebbe che si prendessero in esame i
modi con i quali il racconto, l’esperienza e il sapere dell’altro sono
demoliti in poche parole («racconto fondato su superstizione»,
«privo di oggettivo riscontro con la realtà»; «fantasioso»), e come
riaffiori il vecchio ritornello coloniale su quelle che non sarebbero
altro che infantili credenze, alle quali non è più concesso qui nemmeno il valore residuo di “metafora” (un tema trattato da West in
riferimento alle accuse di stregoneria e di metamorfosi fra i Mueda
del Mozambico [WEST 2007].
Il corpo di A.C., con le sue decine di cicatrici sul dorso e l’addome, suggeriscono l’esperienza di un trattamento terapeutico rituale: ma le ragioni dell’angoscia, la verità della sua esperienza, vengono respinte in blocco (d’altronde, come tradurre a una commissione territoriale l’idea di essere colpiti allo stomaco “spiritualmente” senza essere considerati fantasiosi o, peggio ancora, affetti
da disturbi dell’ideazione?). Le scarificazioni praticate da un guaritore non vengono minimamente interrogate in quanto tecnica di
protezione o di cura, e siamo di fronte a un paradossale effetto: più
il corpo è esibito dal richiedente asilo nel tentativo di offrirsi come
prova, più questo documento è frainteso.
H.A., il giovane nigeriano la cui madre era morta dopo un
avvelenamento, e racconta di aver visto trasformarsi in sangue l’acqua che beveva, parla invece dei suoi passati problemi
di salute e delle cure somministrate dal padre, un guaritore.
Sarà anche lui spinto ad esporre il proprio corpo nello sforzo
di mostrare una verità che le sue parole non sembrano poter
214
ROBERTO BENEDUCE
dire, opponendosi disperatamente all’incredulità della commissione (“Quindi le magie si verificavano solo a casa sua”?).
Il fianco sinistro, segnato da tre lunghe cicatrici a forma di losanga,
non attrae però l’interesse di nessuno. Appena un po’ più di curiosità
sembra sortire invece il racconto (e il corpo scarificato) di O. B. J.,
che dichiara di essere il figlio del principe di ****, una località non
lontana da Uromi, sempre in Nigeria. Convertitosi al cristianesimo
durante gli anni dell’adolescenza trascorsi a Lagos, non vuole diventare membro della società segreta di cui è sacerdote il padre, benché
in quanto primogenito non potrebbe rifiutarsi, tanto più dopo essere
stato sottoposto alla prima fase del rituale all’età di sei anni, quando
aveva assistito al sacrificio di un cucciolo di cane25. Dopo il rifiuto,
il padre elegge allora come erede il secondogenito, nato da una seconda moglie: quest’ultimo muore però poco dopo in circostanze
misteriose, segno – secondo quanto diranno gli anziani – che la divinità ha rifiutato la sostituzione. La maledizione è ormai sulla famiglia, e a O. B. J. non resta che fuggire.
Le cicatrici, i racconti di sacrifici rituali, i riferimenti alla setta
fanno scivolare sul terreno di un’alterità imperscrutabile le nozioni
del diritto d’asilo.
Nell’impossibilità di analizzare nel dettaglio le singole vicende,
come una corretta etnografia imporrebbe, il meno che si possa dire
è che i racconti di corpi scarificati nel corso di rituali, di acqua che
si trasforma in sangue, di divinità che si vendicano, di morti per avvelenamento, di malefici scagliati da parenti avidi e sacerdoti voodoo, costringono il discorso dei diritti, della cittadinanza, della laicità
a penetrare nuovamente in un territorio di “oscurità epistemologica”
25 È a quell’epoca che risalirebbero le cicatrici visibili sull’addome: di lunghezza
variabile, sottili e piane, alcune lunghe diversi centimetri, soprattutto nel lato sinistro, che si estendono dalla regione sotto-ascellare a quella inguinale e periombelicale, e che compongono nel loro insieme un disegno abbastanza geometrico con
linee che si intersecano nei diversi sensi.
215
Le parole contorte dell’archivio postcoloniale
[TAUSSIG 1974]. Difficilmente traducibili o verificabili, queste figure di violenza e coercizione, di inganno e di angoscia, rendono
evidenti i limiti di saperi, di tecniche di identificazione, di leggi o, ciò
che è lo stesso, evidenziano ancora una volta l’epistemologia
dell’ignoranza [MILLS 1997] e la violenza epistemica [FOUCAULT
1980] al cuore dello stato-nazione.
Se, in definitiva, queste inscrizioni corporee accrescono l’incredulità delle commissioni territoriali o dei tribunali, e determinano la
decisione di respingere una richiesta d’asilo («il racconto è contraddittorio, fondato solo su timori che non hanno alcun riscontro con la realtà
e denotano essenzialmente la non veridicità di quanto esposto», si
legge nella risposta della commissione territoriale di Torino alla richiesta di O.B.J.), dall’altro sfidano le categorie giuridiche ed epistemologiche del diritto internazionale, delle definizioni che ritagliano
il mondo dentro le formule più familiari di tortura, guerra, terrorismo, vittima, ecc. Ciò di cui siamo spettatori è forse solo un’altra
scena di quella che Foucault ha chiamato “bataille de vérité” [FOUCAULT 1980], e una nuova espressione di quella che ancora Foucault ha definito una “insurrection des savoirs” [FOUCAULT 1997,
p. 10].
Conclusioni.
L’antropologia e l’ascolto delle “narrazioni minori” dei richiedenti asilo
Le considerazioni proposte a partire dalle vicende di alcuni richiedenti asilo provenienti dall’Africa subsahariana hanno voluto indagare la crisi di legittimità delle politiche d’asilo da tre diversi punti di
vista.
In primo luogo esse hanno cercato di evidenziare le metamorfosi
delle forme di protezione umanitaria internazionale sullo sfondo di
216
ROBERTO BENEDUCE
un’incertezza strutturale (il succedersi di sigle e acronimi volti a denominare i centri di accoglienza o i servizi rivolti ai richiedenti asilo,
la durata dei permessi di soggiorno, il mutare continuo dei tempi di
detenzione per chi è senza visto di soggiorno, la soppressione della
“protezione umanitaria”), che nell’insieme, alimentando una provvisorietà permanente, allude anche alla incapacità di pensare l’altro
nelle nostre società se non al costo di una identificazione negativa.
All’interno di questo orizzonte, il secondo aspetto preso in considerazione è quello di una duplice forma di ignoranza alimentata dalle
contemporanee politiche dell’asilo: quella che finisce per indurre il
richiedente asilo a dubitare della sua stessa esperienza (ridicolizzata,
negata, o ritenuta semplicemente non plausibile), e quella che si produce negli operatori delle commissioni territoriali, che si scoprono
ignoranti e sempre esposti al rischio di essere ingannati.
È questo il motivo che spiega il proliferare del ricorso a esperti
(etnopsichiatri, linguisti, antropologi), chiamati a dire se quanto è
raccontato esiste davvero nei luoghi d’origine del richiedente asilo, se
le sue idee sono verosimili e culturalmente condivise, se i suoi ricordi
sono coerenti: chiamati a confermare, in altre parole, una credibilità
che non è possibile più riconoscere naturalmente nel racconto del richiedente asilo in quanto vittima della storia, come lo era stato in
passato.
La crescente inefficacia delle relazioni degli esperti nel consentire
l’accoglimento delle richieste d’asilo [BENEDUCE 2015; GOOD
2004], segnala però un passaggio decisivo e suggerisce che i saperi
convocati a stabilire il vero e il falso soddisfano soprattutto l’esigenza formale di ribadire la legittimità del dispositivo dell’asilo, il
rispetto di protocolli, ma non partecipano più di tanto alla sostanza
delle decisioni.
L’inatteso ritorno di questo universo esotico (sacrifici, riti voodoo, stregoneria), o tout court dell’alterità culturale, costituisce il terzo
aspetto che ho cercato di mettere in luce: un aspetto quanto mai
217
Le parole contorte dell’archivio postcoloniale
bisognoso di indagine, anche nei casi in cui si tratta di un’alterità da
paccottiglia, tradotta malamente, o addirittura inventata (forse ancor
più bisognosa di analisi in tali circostanze): un “retour de savoirs”,
potremmo ripetere prendendo a prestito la formula di FOUCAULT
[1997, p. 8].
È questo un tema che la mia etnografia interroga da tempo,
esplorando, analogamente a quanto fa Stefania Pandolfo in Marocco, il duello politico, epistemologico e morale che i saperi (quello
psichiatrico, nel suo caso) intrattengono con i loro pazienti, con le
loro esperienze dissidenti, o con i saperi tradizionali della cura26.
Se la stregoneria o il pensiero dell’influenza magica era stati già al
centro di un virulento dibattito nel secolo scorso, quando le ricerche
erano state condotte non più in luoghi esotici ma in Europa (penso
ai lavori di Ernesto de Martino, a quelli di Favret-Saada nel Bocage,
o di Camus in Bretagna) [DE MARTINO 1982; FAVRET-SAADA
1977; CAMUS 1988], la sfida lanciata dalle narrazioni dei richiedenti
asilo mi sembra rivelare un significato ulteriore.
In esse affiora infatti come la volontà di interpellare le nozioni di
persona, di diritto individuale, di autonomia o legame sociale che
fondano e puntellano l’ordine nazionale delle cose [MALKKI 1996].
Ma forse c’è ancora dell’altro. Nell’insistente presenza di miti o
immaginari come quelli ricordati (feticci, poteri occulti, ecc.), è possibile riconoscere il “linguaggio prediletto” da buona parte delle culture minoritarie, che sembrano essere tornate, sostiene Nandy, “per
assediare il sistema moderno dello stato-nazione” [NANDY 2003,
p. 2].
26
«Beyond the issue of culture, however, the fundamental objection to the possibility of engaging in a conversation with the “cures of the jinn” has to do with
modernist norms of subjectivity. At stake, according to the clinical psychiatrists
with whom I spoke, is the issue of personal responsibility: responsibility for one’s
own acts and speech, a sense of guilt, a sense of loss. For the psychoanalysts with
whom I raised the question, what is at stake, beyond the issue of responsibility, is
the possibility of the truth of the subject», [PANDOLFO 2018, p. 27].
218
ROBERTO BENEDUCE
Sono, a loro modo, scritture minori dell’esperienza, modi di dirsi
deterritorializzati nella lingua egemonica dei diritti umani, inchiodati
– in un senso assai vicino a quello suggerito da Deleuze e Guattari27
quando hanno esaminato il carattere della letteratura in Kafka – a
una triplice impossibilità: l’impossibilità di non raccontare questi timori di essere vittima di forze occulte, minacciati da feticci o da
stregoni, perché per molti di essi è questa la maggiore sorgente di
angoscia e la ragione che li spinge a chiedere protezione; l’impossibilità di dire tutto ciò altrimenti, perché il linguaggio dell’esperienza,
quando deve raccontarsi, è necessariamente quello costruito a partire dalle ontologie del corpo dentro cui si è nati e si è stati educati;
e l’impossibilità da parte delle commissioni territoriali o dei tribunali
di credere a questo inverosimile ordine di verità, perché essi sentono
che una distanza enorme separa la loro idea di diritto o di protezione
internazionale da quella di molti dei loro interlocutori.
D’altronde, più la “tirannia della burocrazia” (de Certeau) diventa
opprimente e le tecniche di identificazione aumentano il grado della
loro efficacia, più nei richiedenti asilo si moltiplicano i riferimenti al
mondo religioso, al mondo dell’invisibile, alla magia, in una parola:
a ciò che rimane ontologicamente indecidibile. Come identificare il
27
«Una letteratura minore non è quella di una lingua minore, è piuttosto quella
che una minoranza produce in una lingua maggiore. Ma il carattere principale è in
ogni caso il fatto che la lingua è influenzata da un forte coefficiente di deterritorializzazione. Kafka definisce in questo senso l’impasse che impedisce agli ebrei
di Praga l’accesso alla scrittura, e fa della loro letteratura qualcosa d’impossibile:
impossibilità di non scrivere, impossibilità di scrivere in tedesco, impossibilità di
scrivere altrimenti. Impossibilità di non scrivere, perché la coscienza nazionale,
incerta o oppressa, passa necessariamente attraverso la letteratura […]. L’impossibilità di scrivere altrimenti che in tedesco è, per gli ebrei di Praga, il sentimento
di una distanza irriducibile con la primitiva territorialità ceca. E l’impossibilità di
scrivere in tedesco è la deterritorializzazione della popolazione tedesca essa stessa,
minoranza oppressiva che parla una lingua separata dalle masse […]. In breve, il
tedesco di Praga è una lingua deterritorializzata, propria di usi strani e minoritari
(in un altro contesto oggi, ciò che i Neri possono fare con l’inglese americano)»
[DELEUZE/GUATTARI 1975, p. 30].
219
Le parole contorte dell’archivio postcoloniale
credo religioso di una persona o il suo orientamento sessuale al di là
di ogni ragionevole dubbio? Come provare la realtà di una conversione?
È legittimo ritenere “poco plausibile” il racconto di un richiedente
asilo quando non ricorda i nomi dei salmi o – a seconda dei casi –
quelli dei leader politici del gruppo di opposizione di cui si dice
membro? Come avere certezza che una cicatrice sia la conseguenza
di un’azione praticata nel corso di un rito segreto e non di un mero
trattamento medico “tradizionale”?
Alla massiccia presenza di quel paradigma dell’identificazione che si
affermò negli imperi coloniali [ABOUT 2011a e 2011b; FUSS 1995],
risponde, da parte dei richiedenti asilo, l’arretramento “tattico” (de
Certeau) in quella che potrebbe essere definita una zona di indeterminatezza epistemologica e morale.
È in questo territorio che si afferma oggi un’espressione senza
dubbio singolare della “débrouillardise” (le storie comprate presso
coloro che si suole definire come story seller, le impronte digitali o i
documenti d’identità bruciati prima di partire per rendere difficile
l’identificazione…). D’altronde, se il confine fra il mondo della
“nuda vita” e il mondo politico della cittadinanza è per definizione
indeterminato e contraddittorio, il processo di soggettivazione politica che nasce lungo questo confine non può che essere segnato dal
conflitto e dal “dissenso” [RANCIÈRE 2004]28.
28
«This is what I call a dissensus: putting two worlds in one and the same world.
A political subject, as I understand it, is a capacity for staging such scenes of dissensus. It appears thus that man is not the void term opposed to the actual rights
of the citizen. It has a positive content that is the dismissal of any difference between
those who ‘‘live’’ in such or such sphere of existence, between those who are or are not qualified
for political life. The very difference between man and citizen is not a sign of disjunction proving that the rights are either void or tautological. It is the opening
of an interval for political subjectivization. Political names are litigious names,
names whose extension and comprehension are uncertain and which open for
that reason the space of a test or verification. Political subjects build such cases
of verification. They put to test the power of political names, their extension and
comprehension. They not only confront the inscriptions of rights to situations of
denial; they put together the world where those rights are valid and the world
220
ROBERTO BENEDUCE
È nel corso di questo processo che vanno accumulandosi, come
scorie, come dossier di un archivio disordinato e indocile, le figure
della violenza e dell’inganno, le nuove espressioni del potere di
morte e di vita. Si tratta di un archivio singolare: inciso nelle memorie e nei corpi oltre che nei verbali e nei ricorsi al tribunale, dove è
possibile riconoscere la mano dei diversi incisori che si sono succeduti (le forme di coercizione rituale e gli immaginari della stregoneria, le economie morali della menzogna, la violenza della miseria, il
desiderio di emigrare, il discorso degli operatori umanitari, la tirannia della burocrazia, la cicatrice coloniale…). Bisogna che il sapere
antropologico sappia ritrovare in questo archivio singolare la capacità di penetrare fra le opacità del discorso di un Altro incontrato oggi
in edifici occupati, nei ghetti delle campagne dove si concentrano al
momento del raccolto, nei centri di accoglienza o nelle sale delle
commissioni territoriali.
In questi luoghi l’impegno dell’antropologia deve essere quello di
riuscire ad articolare efficacemente la parola dei richiedenti asilo con
le concrete pratiche sociali e le contraddizioni che emergono nei
loro discorsi a seconda dei contesti nei quali essi sono enunciati
(quel genere di contraddizioni che turba tanto gli operatori o i giudici, spingendoli spesso a concludere che si tratta solo di menzogne).
È un ascolto che può trarre vantaggio dall’alleanza (quanto meno
dal metodo, dalla postura) dell’ascolto caratteristico della psicoanalisi, suggerisce SEGATO [2010, p. 89].
Infine, un quarto aspetto, non trattato in queste considerazioni,
deve tuttavia essere – almeno nelle conclusioni – menzionato. L’antropologia oggi è invitata a moltiplicare le ricerche nei luoghi dove
le parole e le esperienze dei richiedenti asilo sono respinte per forza
di legge nell’illegalità, o come ho mostrato, nella menzogna, e a interrogare i volti dell’ordine sociale e della ragione umanitaria anche nei
where they are not. They put together a relation of inclusion and a relation of
exclusion», [2004, p. 304].
221
Le parole contorte dell’archivio postcoloniale
loro momenti “ordinari” [FASSIN 2013 e 2018]. È in questi momenti
che essa può farsi prezioso archivio degli arbitri e delle tragiche contraddizioni dello stato moderno. Come dopo l’attentato alle torri gemelle, quando ogni soppressione del diritto è sembrata a molti legittima [BUTLER 2004], o durante la cieca repressione di Genova,
sempre nel 2001, quando la tortura contro inermi manifestanti ha
mostrato sin dove possono giungere in uno stato democratico la
violenza delle forze dell’odine e l’umiliazione dei diritti individuali,
al di là della invero lapalissiana osservazione che lo Stato è anche
“storicamente costitutivo” di tali diritti [DEI 2017, p. 5]: salvo poi
comprimerne l’espressione ogni qualvolta lo ritenga opportuno. Ciò
che intendo suggerire è, in altri termini, la necessità di articolare sistematicamente l’analisi dei “maux-à-mots” della condizione dei rifugiati29 con la critica delle convulsioni dello stato moderno: poco
importa se queste si esprimano nelle politiche di morte alle frontiere
nazionali, nella condizione di abbandono degli accampamenti dove
sono stipati e maltrattati i richiedenti asilo [AGIER 2018], o all’interno dei territori nazionali contro le proteste sociali. Solo le etnografie della violenza che sapranno pensare e coniugare insieme questi
aspetti, rivelandone la connessione strutturale, riusciranno forse a
decolonizzare davvero l’antropologia, liberandola da una persistente
tentazione accademica.
29
Questa formula, relativa alla situazione migratoria, è ripresa da SAYAD 1990.
222
ROBERTO BENEDUCE
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230
Fare i conti con i giovani
Censimenti ed esclusione sociale in Marocco
di Irene Bono
L’esclusione come proprietà demografica
In un discorso alla nazione pronunciato il 20 agosto 2018 il re del
Marocco Mohamed VI ha espresso l’esigenza di porre l’inclusione
giovanile al cuore del progetto di sviluppo del regno e ha invitato le
autorità a promuovere una strategia integrata dedicata ai giovani che
permetta di definire i mezzi necessari per favorire la loro inclusione1.
La ricorrenza nella quale il messaggio reale è stato pronunciato, che
commemora lo sforzo congiunto del sovrano e della popolazione
nella lotta per l’indipendenza che ha posto fine al protettorato francese nel 19562, ha contribuito a fare dell’inclusione dei giovani una
priorità nazionale. L’attenzione riposta sulla questione giovanile non
è una specificità del Marocco, ma si è affermata in cima all’agenda
politica di molti paesi della regione a partire dal 20113. All’indomani
delle “Primavere arabe”, in effetti, assicurare opportunità di inclusione politica, economica e sociale alla popolazione giovanile delle
1
Discorso di Mohamed VI alla nazione in occasione del 65esimo anniversario
della “Rivoluzione del Re e del popolo”, 20 agosto 2018. Il testo del discorso è
pubblicato integralmente su www.maroc.ma.
2 Il 20 agosto 1953 il sultano Sidi Mohamed Ben Youssef venne esiliato con la sua
famiglia in Madagascar. Il ritorno della famiglia reale in Marocco divenne uno dei
simboli della lotta per l’indipendenza. Nel discorso che il sovrano pronuncia ogni
anno il 20 agosto sono in genere espresse le priorità nazionali.
3 Sulla questione giovanile all'indomani delle Primavere arabe si veda in particolare
CATUSSE/DESTREMAU 2016.
Fare i conti con i giovani
società nordafricane e mediorientali è diventato un obiettivo strategico per garantire la stabilità della regione e per contenere i flussi
migratori verso l’Europa.
La costruzione della “questione giovanile” come problema pubblico ha riportato l’attenzione a cifre e statistiche sui giovani. La prefazione di un rapporto della Banca Mondiale del giugno 2012 illustrava in modo emblematico questa tendenza:
Ci sono attualmente più di 100 milioni giovani dai 15 ai 29
anni in Medio Oriente e in Nord Africa (regione MENA).
Questi giovani rappresentano circa un terzo della popolazione totale della regione. Questa esplosione di giovani è
un’opportunità enorme, anche se comporta un certo numero
di sfide. I giovani possono essere motori di crescita e fonti di
innovazione, di produttività e di consumo. Tuttavia, hanno
bisogno di economie aperte e dinamiche che offrano delle
possibilità reali. La regione MENA fatica a creare queste
condizioni, malgrado un decennio che ha visto dei periodi di
forte crescita, e questo potenziale si è a poco a poco mutato
in frustrazione. Come è stato dimostrato dalla “Primavera
araba”, la pazienza dei giovani, che hanno poche opportunità
di partecipazione economica e politica, è finita [BANCA
MONDIALE 2012, p. IX].
La posizione dell’Ufficio internazionale del lavoro del Cairo, secondo il quale «un tasso di disoccupazione dei giovani estremamente
elevato, che raggiunge il 23,4% nel 2010, è stata una delle maggiori
cause di queste rivolte, benché non sia la sola4», si rifà logicamente
a questo approccio, traduce la tendenza a individuare nei giovani la
4
International Labour Organisation, Youth Unemployment in the Arab World is a Major Cause for Rebellion, 5 aprile 2011: «An extremely high youth unemployment rate
of 23.4 per cent in 2010, is one major but not the only cause for these popular
uprisings», http://www.ilo.org/global/about-the-ilo/newsroom/features/WCMS
_154078/lang--en/index.htm.
232
IRENE BONO
categoria della popolazione maggiormente toccata dall’ingiustizia
sociale denunciata dalle proteste.
In Marocco, una serie di trasformazioni istituzionali promosse a
partire dal 2011 hanno posto le condizioni per affrontare la fase di
mutamento politico garantendo una maggiore stabilità rispetto ad
altri paesi della regione. A marzo 2011 una commissione di nomina
regia è stata incaricata di formulare una nuova carta costituzionale,
che è stata approvata con referendum popolare nel mese di luglio.
Nel mese di settembre sono state indette elezioni politiche anticipate, per esprimere un Parlamento che potesse godere della legittimazione del nuovo assetto costituzionale. Il Partito della Giustizia e
dello Sviluppo (Parti de la Justice et du Développement - PJD) ha
ottenuto una maggioranza relativa in Parlamento che lo ha portato
per la prima volta a fare il suo ingresso nella compagine governativa
come primo partito5. Tali trasformazioni politiche, caldeggiate dal
sovrano e salutate favorevolmente dai donatori internazionali a cominciare dall’UE6, hanno garantito le condizioni necessarie per sperimentare, sin dal 2011, politiche di inclusione dei giovani marginalizzati in un contesto in cui la questione giovanile è considerata un
problema strutturale ed endemico7: nel 2009-2010 si stimava che
circa il 30% della popolazione totale, e il 44% della popolazione in
età lavorativa, avesse tra i 15 e i 29 anni, e che uno su due non stesse
5 La letteratura sulle trasformazioni politiche occorse in Marocco all’indomani del
2011 è ampia. Si vedano, tra gli altri, DESRUES 2012; MOUNAH 2014.
6 Il Marocco è l’unico paese della regione MENA che dal 2008 è legato all’UE da
un accordo di cooperazione avanzata. Il ruolo del paese nel salvaguardare gli equilibri regionali, in particolare in materia di lotta al terrorismo e contenimento
dell’emigrazione clandestina, è una delle ragioni che hanno giustificato l’avvio
della cooperazione avanzata. Per un’analisi dello statuto di cooperazione avanzata
UE-Marocco si rimanda a MARTÍN 2009; sui rapporti internazionali del Marocco
si veda ABOURABI 2015.
7 Sull'attenzione posta all'inclusione giovanile in Marocco all'indomani delle Primavere Arabe mi permetto di rinviare a BONO 2013a.
233
Fare i conti con i giovani
né studiando né lavorando8. Questa esigua presenza dei giovani sul
mercato del lavoro è stata messa in rapporto con la loro fragile partecipazione alla vita pubblica, sia politica sia economica.
La questione giovanile è stata iscritta nell’agenda politica sulla
base di tale presupposto, traducendo l’ingiustizia generalizzata in
una classe d’età. Eppure non c’è unanimità sui parametri per definire
tale classe: se, nel suo rapporto, la Banca Mondiale considera la fascia 15-29 anni, nei Censimenti generali della popolazione in Marocco i giovani sono ripartiti in due fasce d’età: i 14-24 anni e i 2534 anni9. Tale distinzione è spesso ripresa dagli studi e dalle ricerche
promosse da organismi di policy nazionali, come il Conseil économique
et social (CES), che nel suo Rapport sur l’emploi des jeunes del dicembre
2011 stimava il tasso di disoccupazione dei giovani dai 25 ai 34 anni
al 14,8% e quello dei 15-24 anni al 16,7% [CONSEIL ÉCONOMIQUE ET SOCIAL 2011]. I parametri dei Censimenti generali non
sono però l’unico riferimento adottato a livello nazionale: il rapporto
dell’Haut-Commissariat au plan del 2013 sulla mobilità intergenerazionale, per esempio, considerava come «giovani» gli individui dai
20 ai 35 anni [HAUT-COMMISSARIAT AU PLAN 2011]. La
stessa istituzione, dal 2017 ha iniziato a considerare la fascia di popolazione compresa tra i 15 e i 24 anni per stimare il tasso di popolazione giovanile che non sta né studiando né lavorando (NEETS)
nell’inchiesta trimestrale sull’occupazione [HAUT COMMISSARIAT AU PLAN 2017]. Queste differenze non hanno impedito che,
nel discorso pubblico e nel dibattito accademico sui giovani in Marocco, e più generalmente nella regione MENA, si sia iniziato a fare
8 Banca mondiale, Promouvoir les opportunités et la participation des Jeunes, rapporto n°
68731-MOR, Rabat, giugno 2012, p. ix (traduzione dell’A.), consultabile al sito:
http://www.unicef.org/morocco/french/FR_Version_du_rapport_30_avril_%28Repaired%29.pdf
9
Recensement général de la population et de l’habitat 2014,
http://rgph2014.hcp.ma/
234
IRENE BONO
riferimento ai «giovani» come se il termine permettesse di identificare un gruppo sociale omogeneo, sufficiente da descrivere attraverso dati numerici10.
Non si tratta, in questa sede, di contestare il peso dei giovani sulla
popolazione in Marocco, la gravità dei fenomeni d’esclusione di cui
sono vittime, né l’importanza delle iniziative che mirano a favorire
la loro inclusione nella società. Pare però utile rilevare il peso che
l’identificazione della popolazione giovanile attraverso le categorie
utilizzate per quantificarla riveste tra gli argomenti con i quali le diseguaglianze socio-economiche sono trattate nel dibattito pubblico.
Mettere in relazione questioni appartenenti al registro dell’ingiustizia
sociale con la numerosità dei giovani è una modalità di trasporre un
dibattito politico sul piano demografico, ove le asimmetrie appaiono
più facili da giustificare. Qui di seguito saranno esplorati alcuni meccanismi di identificazione dei giovani tratti dall’attività di censimento
generale della popolazione condotta in Marocco a partire dagli anni
1920. L’ambizione di questo lavoro non è quella di offrire un contributo storico sulle trasformazioni dei censimenti o sulla crescita
demografica, ma quella di proporre una lettura storicizzata dei termini del dibattito politico contemporaneo sulla questione giovanile.
Il principale plesso documentario considerato è costituito dalla documentazione ufficiale di preparazione dei censimenti e dalla pubblicistica che ha diffuso nel dibattito pubblico i loro risultati11. Tale
documentazione è stata esplorata prestando particolare attenzione
alla relazione tra le tecniche di identificazione dei giovani adottate
10
Per un contributo interessante sul tema dei giovani nel dibattito scientifico sul
mondo arabo, che rimette in questione l’uniformità dei profili dei giovani, si veda
BONNEFOY/CATUSSE 2013.
11 Il corpus dei documenti ufficiali è stato ricostruito a partire dall’archivio delle
Gazzette ufficiali Bullettins Officiels 1912-2017 (qui di seguito BO) accessibile dal
sito del Segretariato generale del governo del Marocco: <www.sgg.gov.ma>. Il
corpus di pubblicistica è stato ricostruito prevalentemente a partire dalla pubblicazione del Bulletin Economique et Social du Maroc (qui di seguito BESM) accessibile
dal sito della Biblioteca Nazionale del Regno del Marocco www.bnrm.ma.
235
Fare i conti con i giovani
nei diversi censimenti e le modalità di costruzione dell’agenda politica in materia di “questione giovanile”. La realizzazione di interviste
a testimoni privilegiati ha consentito di approfondire la relazione tra
tecniche di identificazione demografica e produzione di frame nel
processo di formazione dell’agenda politica, e di ricollocare tali processi all’interno della congiuntura politica in cui si sono verificati12.
Si partirà dal presupposto che identificare un individuo come giovane non significhi semplicemente riconoscerne un attributo demografico, ma presupponga di stabilire una relazione sociale che assume significati specifici in relazione alle caratteristiche della società.
In altre parole, non si è giovani in termini assoluti, ma si è giovani
rispetto a qualcuno o a qualcosa. Georges Duby afferma che, nel
Medioevo, con il termine “giovane” si identificava una classe di popolazione che non era considerata ancora pronta ad assumere tutte
le responsabilità dei cittadini, né aveva accesso alla pienezza dei loro
diritti [DUBY 1964]. Per analogia, domandarsi quale sia il riferimento rispetto al quale si è definiti e identificati come giovani in
Marocco può informare sul tipo di ordine sociale in cui il ricorso a
questa categoria si colloca e contribuisce a stabilizzare [DESROSIERES 1993, p. 303].
Sulla base di tali presupposti, si cercherà di definire che cosa abbia comportato, in periodi specifici della storia recente del Marocco,
il fatto di essere identificati come giovani: osservare quali attori siano
stati definiti e contati come “giovani” in epoche diverse, ripercorrere
i processi che hanno portato alla loro quantificazione e all’elaborazione di stime sull’aumento della popolazione giovanile in prospettiva storica porta a concepire l’inclusione giovanile come un processo discontinuo e frammentato, che risulta da rapporti di forza e
negoziazioni dal funzionamento incerto e dai risultati ineguali. I dati
12
I risultati di questa analisi sono stati più ampiamente presentati e discussi in
relazione al processo di formazione dello Stato nazione in BONO 2015b.
236
IRENE BONO
demografici non saranno qui intesi come strumenti neutri per descrivere la consistenza della popolazione13, ma come tecniche di
identificazione dagli effetti concreti sui processi di legittimazione
della diseguaglianza all’interno della società. Ci si domanderà in particolare in relazione a quali problemi pubblici il peso della popolazione giovanile sia stato iscritto nell’agenda politica in diverse fasi
della storia recente. Tale operazione consentirà di osservare l’affermazione progressiva di un registro linguistico legittimo intorno alla
demografia. Si discuterà di come tale registro abbia portato a considerare i limiti delle dinamiche d’inclusione in Marocco come un problema che riguarda in primo luogo i giovani, a causa del loro peso
sull’insieme della popolazione.
Censimenti: tecniche e finalità dell’identificazione
Durante il mese di settembre 2014, in Marocco è stato realizzato il
sesto censimento dall’indipendenza14. I primi risultati del sesto Recensement général de la population et de l’habitat (RGPH) indicano che al
1° settembre 2014 la popolazione legale era di 33.848.242 individui,
di cui 33.762.036 marocchini e 86.206 stranieri. Come si può leggere
dalla nota che presenta i primi risultati, «la realizzazione di questo
censimento è stata conforme, da un punto di vista metodologico,
procedurale e di contenuto, agli standard adottati e raccomandati
dalle Nazioni Unite; quello che lo distingue dai precedenti censimenti è il suo tasso di copertura, che ha raggiunto il 98,62%»
[HAUT-COMMISSARIAT AU PLAN 2015]. L’allineamento progressivo delle tecniche di censimento agli standard internazionali
13
Un modo particolarmente originale di analizzare la vita politica dei numeri è
proposto da SAMUEL 2017.
14 Si veda il sito web dedicato alle ultime operazioni di censimento
<http://rgph2014.hcp.ma>.
237
Fare i conti con i giovani
conforta l’idea che il RGPH 2014 possa offrire una fotografia neutra
e obiettiva della popolazione del paese.
In marzo 2014, una lettera reale aveva pubblicato le linee guida
di questo censimento. Il ricorso a un linguaggio patriottico sembrava
rinnovare il significato performativo attribuito alle operazioni di
conteggio della popolazione nel dare consistenza al progetto nazionale: «Esortiamo in modo particolare tutti i cittadini, nelle città e
nelle campagne, ad accogliere i rilevatori e i coordinatori delle operazioni di censimento, facendo prova, come di consueto, di un elevato senso patriottico, in virtù dell’importanza di questa operazione
per gli obiettivi di sviluppo del paese15». In Marocco, come altrove,
la costruzione dei dati sulla popolazione è un’operazione a carattere
eminentemente strategico: sul piano simbolico, le informazioni demografiche permettono di dare consistenza materiale e una rappresentazione sintetica alla «comunità immaginata»16, fornendo allo
stesso tempo le conoscenze necessarie al governo della popolazione.
Nel corso della storia, in Marocco come altrove, le tecniche di identificazione della popolazione da censire si sono certamente trasformate. In questa sede pare importante rilevare come anche le ragioni
e le finalità dell’identificazione degli individui attraverso i censimenti
si siano modificate, insieme alle tecniche. Queste trasformazioni offrono una prospettiva importante per osservare come il progetto
statuale si affermi, si trasformi e si articoli con la società [DESROSIÈRES 2003, p. 28].
L’introduzione dei censimenti in Marocco risale al periodo coloniale: i primi sono stati realizzati nel 1921, 1926, 1931, 1936 e 1952
nella zona sotto protettorato francese, e nel 1930, 1940 et 1950 nella
15
Il testo integrale di questa lettera reale è consultabile al sito
<http://www.hcp.ma/Lettre-royale-RGPH-2014_a1360.html>.
16 ANDERSON 1996 e ROSANVALLON 2005. Sul caso marocchino, si veda
RACHIK 2002.
238
IRENE BONO
zona sotto protettorato spagnolo17. All’epoca i censimenti avevano
come obiettivo principale quello di stimare la popolazione francese
ed europea residente. La circolare residenziale che decretò il primo
censimento, nel febbraio 1921, invitava esplicitamente a censire la
popolazione europea, senza fare cenno alla popolazione locale18.
Cinque anni più tardi, nel 1926, fu decretato un nuovo censimento
della popolazione francese ed europea19, senza che fosse presente,
nei testi ufficiali, una qualche disposizione per includere la popolazione «indigena» nell’operazione. Dopo altri cinque anni, si nota un
cambiamento di lessico: la pianificazione del censimento del 1931 si
riferisce al «conteggio della popolazione della zona francese del Marocco», senza precisare se dovessero essere considerati parte di questa categoria solo i Francesi e gli Europei o anche la «popolazione
indigena»20. Tra il 1922 e il 1936, la concomitanza del censimento in
Marocco e in Francia mette in luce la logica di queste operazioni:
non si trattava tanto di censire la popolazione effettiva del Marocco
quanto di dare alla Francia strumenti statistici appropriati per governare efficacemente sulla sua popolazione, anche su quella residente
17
Tra la seconda metà del XIX secolo e l'inizio del XX secolo il Marocco fu progressivamente posto sotto tutela internazionale e la dinastia alaouita perse progressivamente di sovranità sul paese. Questo processo, che trova la sua prima
formalizzazione multilaterale con il trattato di Algesiras del 1906, culminò nel
1912 con l'istituzione del protettorato francese nella zona centrale e del protettorato spagnolo nel nord del paese e nelle province sahariane. Sui decenni precedenti all'istituzione dei protettorati si veda BURKE 2009. Sull'esperienza coloniale
si rimanda a AYACHE 1956; RIVET 1999 e a BIDWELL 2012.
18 Nella Gazzetta ufficiale (BO), non si trova traccia della circolare residenziale
del 3 febbraio 1921, che è citata in AUGUSTIN 1922.
19 Rispettivamente attraverso il Decreto del 4 dicembre 1925 che stabilisce la data
del censimento della popolazione francese del Marocco e il Decreto visiriale del
12 gennaio 1926 (27 joumada II 1344) che stabilisce la data del censimento della
popolazione europea nella zona francese dell’Impero alauita, (BO 692 del 26 gennaio 1926).
20 Dahir del 4 dicembre 1930 (12 rejeb 1349) che stabilisce la data del censimento
della popolazione della zona francese del Marocco, (BO 947 del 19 dicembre
1930).
239
Fare i conti con i giovani
al di fuori dei confini nazionali e imperiali. Il fatto che il Marocco
non facesse parte di tali confini, in quanto territorio di protettorato,
conferiva alle attività di censimento un’importanza particolare sul
piano simbolico: avere la capacità di censire anche la popolazione
che risiedeva nei territori sotto protettorato era una maniera di affermare l’unità della comunità nazionale anche al di fuori dei confini,
e di governarla nel suo insieme.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale fu realizzato un censimento eccezionale per stimare il numero di persone che doveva
beneficiare dei razionamenti alimentari, e la cifra di 8 milioni di marocchini fu senza dubbio gonfiata21. Le operazioni regolari di censimento ripresero soltanto nel 1951-1952 e per la prima volta non si
svolsero contemporaneamente a quelle francesi ma si riferirono al
«censimento generale della popolazione della zona francese del Marocco» [BERTRAND 1955], cosa che fa pensare che la popolazione
non europea sia stata considerata parte integrante della popolazione
effettiva da censire, anche se questa formula non si ritrova nel dahir
che ne precisa i criteri22.
Le operazioni di censimento si sono così estese progressivamente all’insieme della popolazione del Marocco senza che questo
fosse esplicitamente previsto sul piano normativo. Nelle operazioni
del 1921 il censimento della popolazione non europea fu condotto
in maniera collettiva: per non «offendere la sensibilità degli indigeni,
sempre inquieti quando si tratta di informazioni sulle famiglie, e che
vedono in queste operazioni il preludio all’applicazione della coscrizione o di nuove imposte», gli amministratori coloniali si limitarono
a «determinare il numero approssimativo di tende o di famiglie in
21
È la tesi di AYACHE 1956, p. 283.
Dahir del 24 febbraio 1951 (17 joumada I 1370) che ordina il censimento generale della popolazione della zona francese del Marocco nel 1951, (BO 2004 del
23 marzo 1951).
22
240
IRENE BONO
ogni villaggio e [a] moltiplicare questo numero per cinque» [AUGUSTIN 1922, p. 56]. A partire dal 1931 si nota una ripartizione sommaria per sesso e fasce di età della popolazione non europea, assente
nelle stime precedenti. Fino al 1952, la popolazione marocchina non
era identificata come un solo gruppo, ma veniva distinta fra musulmani e Israeliti; questi ultimi dal 1936 furono censiti sulla base delle
schede individuali usate per la popolazione europea [AUGUSTIN
1937, p. 86]. Nel censimento del 1952 la popolazione non europea
fu identificata per la prima volta per classi di età, al di là delle semplici categorie di bambini, adulti e anziani utilizzate in precedenza
[KROTKI/BEAUJOT 1975, p. 337] e venne offerta una rappresentazione della popolazione molto più completa di prima. Per la prima
volta, un’indagine sulla struttura della popolazione permise di disporre di dati sulla ripartizione secondo il sesso, l’età, lo stato matrimoniale e lo status professionale della popolazione marocchina
[BERTRAND 1955]. La distinzione fra non-Marocchini e Marocchini si affermò come prevalente, anche se le tecniche di censimento
di questi due gruppi non erano le stesse.
La dichiarazione comune franco-marocchina del 2 marzo 1956,
che riconobbe l’indipendenza proclamata dai nazionalisti marocchini nel novembre 1955, segnò una vera e propria svolta negli
obiettivi assegnati alla produzione e all’utilizzo dei dati demografici.
La precedente ripartizione fra popolazione musulmana, israelita ed
europea perse di significato davanti alla necessità di comprendere
meglio le caratteristiche della popolazione del nuovo Stato indipendente. Per governare, occorreva censire la popolazione del Marocco
nel suo insieme, descrivere la sua struttura per classi di età, ed effettuare delle previsioni di crescita a prescindere dai luoghi di residenza
o dai settori di attività. Come si legge in un commento dell’epoca,
«l’azione dei poteri pubblici deve essere illuminata da una conoscenza esatta della situazione, se vuole rispondere ai bisogni reali del
paese; per essere efficaci, la lotta contro la disoccupazione, il piano
241
Fare i conti con i giovani
di alfabetizzazione e scolarizzazione, il piano quinquennale presuppongono una base di informazioni» [DUBOIS 1958].
Il carattere sommario e non omogeneo delle operazioni di censimento della popolazione «indigena» durante il protettorato non
aveva impedito l’emergere di una rappresentazione demografica dei
Marocchini, fra il 1921 e il 1952. Questa rappresentazione aveva trovato un’eco crescente nel dibattito pubblico negli ultimi anni prima
dell’indipendenza. In un articolo del 1952 che commentava i metodi
adottati per il censimento, si legge: «Certo, le cifre circolano: si sente
facilmente parlare di 8, 9, 10 milioni di Marocchini, di una crescita
annuale di 250.000 persone, di un possibile raddoppio in venti anni.
Da dove vengono questi slogan?» [BERTRAND 1952, pp. 371373]. Il nuovo Stato indipendente dovette affrontare l’esigenza di
trasformare le rappresentazioni demografiche in stime il più possibile realistiche. In mancanza di dati attendibili per identificare statisticamente la popolazione al fine di farla esistere politicamente, i dati
sulla popolazione “indigena”, considerati fino a quel momento
come «congiunturali», vennero estrapolati da quelli sulla popolazione europea per costruire proiezioni sulla ripartizione geografica e
socio-economica degli individui [FORICHON/MAS 1957].
Nelle direttive ufficiali che prepararono il primo censimento
dell’indipendenza, nel 1960, vennero precisati per la prima volta i
criteri da seguire per identificare la popolazione nazionale: «Saranno
censite tutte le persone che non appartengono alle seguenti categorie: gli stranieri membri di corpi diplomatici che risiedono nelle ambasciate e nei consolati, i militari stranieri che vivono nelle caserme
o nei campi militari, gli stranieri di passaggio (turisti, persone in viaggio d’affari) a condizione che la durata del loro soggiorno in Marocco sia inferiore a sei mesi»23. Anche gli obiettivi del censimento
23
Decreto 2-59-1872 del 25 joumada II 1379 (26 dicembre 1959) che stabilisce le
modalità di censimento della popolazione del Regno del Marocco, art. 2,
(BO 2463 dell’8 gennaio 1960).
242
IRENE BONO
vennero precisati: «I risultati del censimento dovranno permettere
di determinare la popolazione legale del regno, cosi come quella di
ogni provincia, prefettura, circolo, caïdat, municipalità, centro e comune rurale. La popolazione legale di ciascuna delle circoscrizioni
amministrative menzionate precedentemente sarà costituita dall’insieme delle persone presenti o temporaneamente assenti di cui la
residenza principale, alla data del censimento, si situerà in questa
circoscrizione. I numeri che riguardano la popolazione legale di queste circoscrizioni amministrative saranno convalidati per decreto»24.
In virtù dell’esigenza di identificare con la massima precisione possibile la popolazione del nuovo Stato indipendente fu fatto divieto
alle persone che rientravano nelle categorie da censire di lasciare il
territorio nazionale per tutta la durata delle operazioni, salvo «su
presentazione alle autorità incaricate del controllo delle frontiere di
una attestazione dove si dichiara che sono state debitamente censite»25.
Crescita demografica e processi di inclusione: la naturalizzazione della questione sociale
Il censimento del 2014 ha registrato un aumento della popolazione
di 3.956.534 persone rispetto al 2004. Uno dei dati che sono stati
richiamati con maggior attenzione dai commentatori è stato quello
relativo al tasso di crescita demografica: il tasso di crescita globale è
stato stimato al 13,2% nel periodo considerato. Nel dibattito pubblico è stato commentato in particolare il rallentamento nel tasso di
24
Ibid., art. 4.
Decreto 2-60-315 dell’8 kaada 1379 (5 maggio 1960) che modifica il decreto 259-1827 del 25 joumada II 1379 (26 dicembre 1959) e stabilisce le modalità di
censimento della popolazione del Regno del Marocco, art. 2 (BO 2481 del
13 maggio 1960).
25
243
Fare i conti con i giovani
crescita annuale medio, che è stato stimato a 1,25% durante il periodo 2004-2014 contro 1,38% del decennio precedente [HAUTCOMMISSARIAT AU PLAN 2015]. L’attenzione riposta sul tasso
di crescita della popolazione è una costante fin dal primo censimento dopo la fine del protettorato, e ha caratterizzato il modo in
cui la popolazione in Marocco è stata rappresentata a partire dall’indipendenza.
Occorre precisare che in Marocco la registrazione dei nuovi nati
all’anagrafe è una pratica che si è affermata tardivamente, e gode
tutt’oggi di una fragile diffusione. La legislazione introdotta nei
primi anni del protettorato limitava le attività dell’anagrafe ai cittadini francesi e stranieri, per evitare “ogni interferenza obbligatoria
dell’autorità francese nelle manifestazioni familiari” della popolazione marocchina26. In città come Fès e Meknès tali restrizioni assunsero la forma di veri e propri divieti27. Le attività dell’Anagrafe
vennero estese alla popolazione marocchina nel 193128, e dal 1950
divennero obbligatorie per tutta la popolazione ma la loro diffusione
si affermò con difficoltà29. Un testimone dell’epoca, che nel 1954 fu
assunto all’anagrafe di Marrakech, ricorda che l’iscrizione all’anagrafe della popolazione marocchina cominciò a diffondersi tra gli
impiegati della pubblica amministrazione desiderosi di ottenere lo
scatto salariale corrisposto a chi potesse dimostrare di avere familiari
a carico30. La fragilità dei dati registrati dall’anagrafe contribuì a rendere incerta la conoscenza demografica e ad aumentare l’importanza
Protectorat de la République française au Maroc, Instructions sur l’état civil, Rabat,
1937, p. 1.
27 Ibidem.
28 Dahir del 2 settembre 1931 (18 rebia II 1350) che modifica il dahor del 4 settembre 1915 (24 chaoual 1333) sulla costituzione dell’anagrafe nella zona francese
del Marocco, (BO 992 del 30 ottobre 1931).
29 Dahir 18 joumada I 1369 (8 marzo 1950) sull’estensione del regime dell’anagrafe.
30 Intervista con un ex funzionario dell’anagrafe di Marrakech, Marrakech, aprile
2014.
26
244
IRENE BONO
dei risultati dei censimenti per ottenere stime sulla crescita della popolazione.
Il clamore causato dai risultati del censimento del 1960, che rivelò
una popolazione marocchina musulmana molto più numerosa rispetto al 1952, sono da comprendere alla luce della fragilità dei dati
disponibili all’anagrafe. Secondo i primi commenti pubblicati sulla
stampa, «la crescita demografica oltrepassa ampiamente la previsione degli esperti»31: l’aumento fu calcolato al 40%, in rapporto alle
stime che erano state ottenute combinando i risultati dei censimenti
precedenti delle zone nord e sud di allora, benché gli analisti
dell’epoca fossero coscienti che questa differenza poteva trovare
spiegazione nei limiti delle precedenti operazioni di censimento. Le
prime analisi rilevarono la presenza di circa due milioni e mezzo di
individui supplementari e portarono a calcolare una variazione relativa di circa il 29% rispetto alla precedente operazione di censimento
e a stimare una crescita della popolazione di circa il 3,25% all’anno.
Un tasso di crescita così elevato traduceva probabilmente il difetto
delle stime precedenti dovuto ai metodi collettivi di censimento e
alle difficoltà di identificare l’insieme della popolazione [NOIN
1962, p. 2].
Nel corso degli anni successivi, i dati demografici del primo censimento furono completati e corretti da numerosi studi. Uno studio
del 1975, in particolare, ridimensionò le stime di crescita avanzate
nel 1960 affermando che il difetto nella stima della popolazione marocchina del 1952 era dovuto all’omissione di gruppi interi della popolazione, specialmente nelle zone rurali, per effetto di una cattiva
gestione dei dati, ma anche per un’identificazione selettiva dalle
cause più disparate, come la tendenza a nascondere le ragazze prima
del matrimonio, le migrazioni interne stagionali o l’attività politica
31
La Vie économique, 2009, 16 septembre 1960.
245
Fare i conti con i giovani
nell’ultima fase della lotta per l’indipendenza [KROTKI KAROL/BEAUJOT 1975]. Queste considerazioni non trovarono eco
nei dibattiti dell’epoca. Nel Bulletin économique et social du Maroc
(BESM), non si trova nessun commento sul censimento del 1960
fino a diversi anni dopo. Nel dicembre 1963, la pubblicazione venne
sospesa, probabilmente a causa del deteriorarsi della situazione politica – nel 1965 fu proclamato lo stato d’eccezione. Nella prima nota
sul censimento del 1960, che fu pubblicata soltanto quando BESM
riprese la pubblicazione nel 196632, i dati relativi all’aumento della
popolazione, e in particolare all’aumento della popolazione attiva,
vennero commentati senza nessuna allusione agli studi che avevano
ridimensionato le stime sulla crescita:
La struttura per fasce di età della popolazione del Marocco
fra i due censimenti conferma le osservazioni sull’accelerazione del tasso di crescita della popolazione. Infatti, gli appartenenti alla fascia d’età 0-4 anni hanno visto un aumento
del 41% e quelli della fascia 5-9 anni del 50%. Nel 1960, il
46% della popolazione ha meno di 15 anni, questa percentuale elevata di una popolazione “economicamente dipendente” pone delle gravi difficoltà in materia di salute, educazione e lavoro33.
Secondo lo stesso articolo, la popolazione in età attiva era aumentata
del 21% tra il 1952 e il 1960.
Per il nuovo Stato indipendente, l’emergere di due milioni e
mezzo di marocchini rappresentò una grande sfida. Poco importava
sapere se questo aumento era legato a cause naturali o a miglioramenti nelle tecniche di identificazione degli individui: nuovi nati o
Il primo numero dopo l’interruzione è Bulletin économique et social du Maroc, 100,
1966.
33 «Annexes statistiques, A. Démographie», Bulletin économique et social du Maroc, 100, 1966, p. 150.
32
246
IRENE BONO
nuovi censiti, si trattava di nuovi soggetti da governare. L’accento
posto sulla crescita demografica fu uno degli argomenti attraverso i
quali passò la “naturalizzazione della questione sociale”, vale a dire
la tendenza a considerare i problemi sociali allo stesso tempo ineluttabili, a causa dell’aumento imprevedibile della popolazione, e insormontabili, in ragione dello scarso margine di governo a disposizione
delle autorità nei primi anni dell’indipendenza34. Nel 1966 fu istituita
la Commissione superiore della popolazione, presieduta dal Ministro della Salute e articolata sul territorio in Commissioni locali,
all’interno delle quali il personale medico venne incaricato di «elaborare e coordinare la politica adottata dal governo in materia di crescita demografica, di provvedere alla sua realizzazione e di coordinarne l’esecuzione»35. Sul piano della politica economica, non furono invece introdotte misure esplicitamente volte a sollecitare una
crescita commisurata all’aumento stimato della popolazione, né vennero promosse politiche per l’occupazione capaci di assorbire i giovani che si affacciavano sul mercato del lavoro. Per tutto il decennio
che seguì la promulgazione dello Stato d’Eccezione del 1965, l’accento fu posto piuttosto sull’esigenza di riaffermare la sovranità sul
piano economico come condizione necessaria per garantire che la
crescita della popolazione non diventasse un’aggravante della questione sociale. Nel 1965 furono dapprima nazionalizzate le esportazioni agricole, che vennero poste sotto l’autorità dell’Ufficio di
Commercializzazione e di Esportazione (OCE)36. L’anno successivo
fu istituita la Società Nazionale degli Investimenti (SNI), che venne
Per un’analisi approfondita del processo di naturalizzazione della questione sociale in Marocco mi permetto di rimandare a BONO 2015a.
35 Decreto reale 180-66 del 10 joumada I 1386 (26 agosto 1966) che ordina la
creazione di una Commissione superiore e di Commissioni locali della popolazione, BO 2809, 31 agosto 1966.
36 L’Office de Commercialisation et d’Exportation (OCE) fu istituito con il decreto reale
223.65 del 9 luglio 1965, un mese dopo la promulgazione dello stato d’eccezione
(BO 2750 del 14 luglio 1965).
34
247
Fare i conti con i giovani
incaricata di acquisire partecipazioni statali in compagnie private a
capitale straniero37. La promulgazione delle leggi sulla “marocchizzazione” nel 1973 stabilì l’obbligo per le imprese commerciali e industriali di avere un azionariato costituito per il 51% da capitale marocchino38.
In parallelo a tali politiche, si assistette alla progressiva sparizione
dal dibattito pubblico dei temi legati alla diseguaglianza e all’inclusione sociale. Nonostante gli investimenti profusi nella generalizzazione dell’insegnamento primario, i tassi di scolarizzazione rimasero
bassi. L’insufficienza delle politiche attive per l’impiego, la scarsa
crescita del lavoro salariato e il rafforzamento progressivo dei movimenti migratori resero aleatori i meccanismi di inclusione nella società attraverso il lavoro. Tali fenomeni trovavano sempre meno
spazio nel dibattito pubblico, che si concentrava sulla crescita demografica. La rivista Lamalif, che dal 1966 al 1988 divenne la tribuna
dell’opposizione progressista, è tra le rare pubblicazioni dell’epoca
in cui si possono trovare articoli che non si limitano a riportare le
tendenze della crescita demografica, ma si interrogano sui processi
di diseguaglianza e di esclusione sociale che le rappresentazioni demografiche della popolazione possono tradurre. Un articolo pubblicato sulle pagine della rivista all’indomani del censimento del 1971
offre un esempio eloquente di tale tendenza, avanzando dubbi sulla
possibile deformazione della rappresentazione ottenuta: «In numerose regioni del Marocco, si contano come bambini solo i maschi e
non le femmine. Porre direttamente la questione “Da quanti mesi
37
Decreto legge reale 194-66 del 7 rejeb 1386 (22 ottobre 1966) relativo alle Società d’investimenti e alla Société nationale d'investissements (BO 2818 del 2 novembre 1966).
38 Dahir portant loi n° 1-73-210 del 21 moharrem 1393 (2 marzo 1973) relativo
all’esercizio di certe attività (BO 3149 del 7 marzo 1973) e Dahir portant loi n° 173-339 del 4 rebia II 1393 (7 maggio 1973) che modifica il Dahir portant loi n° 173-210 (BO 3158 del 9 maggio 1973). I dahir del 2 marzo 1973 e del 7 maggio
1973 precisano che cosa si intenda per “società marocchina”.
248
IRENE BONO
lei è senza lavoro?” può provocare delle reazioni d’orgoglio tra i disoccupati, o tra chi lavora in settori in crisi», si legge in un articolo
del 1971. Benché il censimento generale fosse stato disposto nel
1969 venne in effetti realizzato soltanto nelle settimane che seguirono il colpo di Stato tentato il 10 luglio 1971 al palazzo reale di
Skhirat. Secondo il nuovo censimento, la popolazione legale aveva
raggiunto il numero di 15.379.259. Rispetto alle statistiche precedenti, il censimento del 1971 registrò un nuovo aumento della popolazione, circa 4 milioni di abitanti in più rispetto ai dati del 1960.
Giovani e diseguaglianza legittima
Il rapporto del 2012 di Banca Mondiale sui giovani si apre con una
constatazione allarmante: benché l’economia del Marocco avesse
mantenuto negli anni precedenti un tasso di crescita di circa il 5% –
più del doppio di quello della popolazione, stimato al 2,4% –, i giovani non avevano beneficiato del valore prodotto ed erano rimasti
ai margini della popolazione attiva. Benché la ripartizione tra attivi
e inattivi dipenda molto più dalle caratteristiche del mercato del lavoro che non dalla struttura demografica della popolazione, la corrispondenza funzionale fra un «giovane» e un individuo potenzialmente attivo è una costante nel dibattito pubblico, in Marocco come
altrove. In Marocco, fin dall’epoca dell’indipendenza, le stime sulla
crescita della popolazione sono state adottate come degli indicatori
utili alla definizione del tasso di crescita economica da raggiungere39.
Questa maniera di pensare ha contribuito a tracciare i limiti entro
cui i processi economici sono concepiti ancora oggi, e a definire il
margine ridotto entro cui tali processi sono governati: le diseguaglianze connesse al funzionamento del mercato del lavoro, e i limiti
39
La relazione fra censimenti demografici e pianificazione economica, così come
l’utilizzo politico di dati demografici, è sviluppata in maniera convincente in
BLUM/MESPOULET 2003.
249
Fare i conti con i giovani
dell’intervento governativo per correggerle, sono state progressivamente tradotte in una proprietà demografica capace di renderle, se
non «meno ingiuste», almeno «più giustificabili».
Nel novembre del 1959, durante la fase di preparazione del primo
piano quinquennale, il primo censimento non era ancora stato realizzato ma si stimò che per stare al passo della crescita demografica
occorresse creare 350 mila posti di lavoro40. Dieci anni dopo, la
stampa di opposizione denunciava che le priorità del piano quinquennale del 1973-1977 fossero state mantenute «senza che si conoscessero i risultati del censimento» affermando con ironia:
Se, nei risultati del censimento, trovassimo più di 15 milioni
di marocchini, sarebbe veramente spiacevole, poiché il Piano
68-72 non ha previsto strumenti per questi numeri. Pensate
a cosa potrebbe succedere se identificassimo 18 milioni di
abitanti in questo paese! Visto che il 50% sono giovani, non
ci sarebbero scuole previste per un milione e mezzo di persone… [MOUNIR 1971, p. 13]
L’introduzione del Piano di aggiustamento strutturale del 1983 rimise radicalmente in discussione le politiche economiche promosse
in Marocco fino a quel momento, ma l’equivalenza fatta tra i «giovani» e gli «attivi potenziali» fu mantenuta e il numero di giovani
disoccupati divenne il parametro sul quale pianificare la creazione di
opportunità d’inclusione. Il Conseil national de la jeunesse et de l’avenir
(CNJA) fu istituito nel 1991 per offrire uno spazio di concertazione,
ma anche delle proposte concrete per rispondere alle «aspirazioni
40
In un articolo pubblicato in un settimanale economico, si legge ad esempio:
«Ogni anno un contingente demografico di 90.000 persone (differenza fra i giovani che arrivano sul mercato del lavoro e gli anziani che terminano ogni attività)
contribuisce ad aumentare questa popolazione». Si veda «350 000 emplois à
créer», La Vie économique, 1965, 13 novembre 1959.
250
IRENE BONO
dei giovani»41. Per la prima volta, non si cercava più soltanto di contare i giovani, ma si provò tracciare un profilo rappresentativo
dell’insieme di questa classe d’età. Venne condotta un’indagine su
un campione di 100.000 individui, costruito per essere statisticamente rappresentativo della popolazione diplomata di età compresa
fra i 18 e i 35 anni. Come riporta un consulente, all’epoca rilevatore
per il CNJA, «avevamo il mandato di ricostruire la situazione dei
giovani diplomati disoccupati: quando avevano ottenuto il loro diploma, che cosa avevano fatto dopo gli studi, se avevano lavorato
oppure no, quante domande di lavoro avevano inviato…»42.
Negli anni 2000 le politiche sociali sono state ridefinite su base
territoriale, dopo che una serie di studi di Banca Mondiale avevano
denunciato le condizioni sociali preoccupanti in cui versava una
parte significativa della popolazione del Marocco43. Questi studi stabilivano una soglia che teneva conto di un insieme di beni di consumo alimentari e non alimentari: la popolazione di cui il livello di
consumo si situava al di sotto di questa soglia venne considerata
«povera», quella di cui il livello di consumo si situava appena al di
sopra venne qualificata «vulnerabile»44. Combinando i dati sul consumo delle famiglie e quelli sul censimento della popolazione, l’amministrazione procedette a una stima del numero degli individui con
un livello di vita corrispondente a queste nuove categorie statistiche,
e alla loro ripartizione geografica nei comuni e nei quartieri. L’Ini-
41
Dahir 1-90-190 del 5 chaabane 1411 (20 febbraio 1991) sulla creazione del Conseil national de la jeunesse et de l’avenir, BO 4088, 6 marzo 1991. Su questa esperienza, si veda EL MALKI 1999.
42 Intervista, Rabat, settembre 2012.
43 Banca mondiale (2001), Kingdom of Morocco. Poverty Update, rapporto n. 21506MOR; (2004), Royaume du Maroc. Rapport sur la pauvreté: comprendre les dimensions géographiques de la pauvreté pour en améliorer l’appréhension à travers les politiques publiques,
rapporto n. 28223-MOR (2007), Se soustraire à la pauvreté au Maroc.
44 Sulla definizione delle politiche di lotta alla povertà occorse all’inizio degli anni
2000, mi permetto di rinviare a BONO 2010.
251
Fare i conti con i giovani
ziativa nazionale per lo sviluppo umano (INDH), lanciata dal sovrano nel 2005 come principale politica di contrasto alla povertà,
adottò come target principale la popolazione residente in tali quartieri e comuni: si trattava, prima di tutto, di affrontare il «deficit sociale» dei quartieri e dei comuni rurali identificati come «i più poveri»
in funzione dei parametri adottati45. Le classificazioni demografiche
e topografiche si sono così rinforzate reciprocamente, marginalizzando ogni considerazione di ordine politico nelle riflessioni sui
meccanismi di inclusione sociale46.
Dopo le trasformazioni occorse a partire dal 2011 l’iscrizione
della questione giovanile in cima all’agenda politica ha recepito tale
orientamento: l’adozione dei «giovani dei quartieri marginalizzati»
come target principale delle politiche nazionali e dei donatori internazionali traduce un orientamento che esclude che le determinanti
dell’esclusione possano essere attribuite al mercato che non offre
possibilità di impiego, o alla mancanza di iniziativa politica in materia, o ancora meno alle asimmetrie costitutive dei meccanismi di produzione di appartenenza alla comunità nazionale. Come dimostra
l’investimento crescente riposto nelle strategie di miglioramento e
certificazione dell’occupabilità dei giovani, l’esclusione è affrontata
principalmente sollecitando uno sforzo volontaristico e responsabile degli individui che ne sono vittime [BONO 2013b]. Che si tratti
di «giovani» o di «poveri», o della «gioventù dei quartieri poveri», le
politiche si limitano ad accompagnarli nell’acquisizione delle competenze considerate necessarie per trovare una via di accesso al mercato, come se l’esclusione sociale fosse collegata all’incapacità o al
rifiuto di integrarsi di certi gruppi della popolazione. Da tale pro-
45
Nel 2007, queste stime sono state attualizzate sulla base dei dati del censimento
del 2004 e dell’inchiesta sui consumi del 2007. http://omdh.hcp.ma/Carte-dela-pauvrete-2007_a185.html.
46 Su questo aspetto BONO 2014.
252
IRENE BONO
spettiva, l’impossibilità di ottenere un lavoro pare essere una questione di volontà e competenze che possono essere regolate grazie
all’«aggiornamento professionale» e al «rafforzamento delle capacità» degli individui, affinché la mancanza di lavoro non si trasformi
in pericolo sociale. Che si tratti di una fascia di età o di una soglia di
consumo, la costruzione di una nomenclatura che permetta di intervenire sul gruppo degli esclusi porta a lasciare ai margini del politicamente pensabile le considerazioni sull’immobilità sociale, la fragilità e l’asimmetria dei meccanismi di inclusione nella comunità nazionale che caratterizzano la formazione dello Stato.
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English summaries and keywords
Roberto Beneduce, The Battles for Truth and Forgery in Asylum Policies
In the context of asylum policies and interpretation of asylum seekers’ narratives, the role of the anthropologist is a singular one, and
decisive: first of all, it is a matter of removing these narratives from
the stereotyping that is determined by the very procedure of the
meeting, the hearing and the registration of asylum seekers’ experiences. Speaking of such complex matters would ideally require time,
a thick translation, and respect for those experiences and idioms that
challenge common ontologies. This is the case of references to
witchcraft and mystical threats.What I would like to examine is not
so much the question of the so-called "modernity" of witchcraft or
ritual practices (as of juj among Nigerian women, for example), but
the meaning of their tenacious living in the territory of human rights,
citizenship, and the nation-state like a specter of the past. On the
other hand, if the presence of articles of law referring to witchcraft
or satellite subjects ("trafficking of human remains", "sacrifices",
"acts of quackery", "magic", etc.) in many African criminal codes
constitutes an unresolved knot, this issue is no less controversial
when it occurs no longer in the courts of African countries but in
those of Turin, Rome or Amsterdam. By adopting a perspective inspired by what Althusser called “symptomatic reading”, my interest
is ultimately to question and think, side by side, the invisible of
witchcraft and the unspeakable of the state-nation.
Keywords: Sub-Saharan Africa, Witchcraft in politics of asylum,
Ontologies of subjugation
ENGLISH SUMMARIES AND KEYWORDS
Irene Bono, Dealing with Young People. Census and Social Exclusion in
Morocco
Over the last decade, North African and Middle Eastern societies
have considered youth inclusion as a strategic objective to ensure
stability in the region and to contain migration flows to Europe. The
construction of the youth question as a public problem has drawn
attention to figures and statistics on young people in the region. This
essay examines some mechanisms for youth identification through
the data produced in the general population census in Morocco,
which has succeeded to maintain a certain political stability after the
"Arab Springs". The ambition of this work is not to offer a historical
contribution on demographic growth or on census transformations
in Morocco, but to propose a historicized analysis of the terms of
contemporary political debate on the youth question. The demographic identification of the excluded youth is among the main arguments adopted for discussing socio-economic inequalities in the
public debate. Linking issues belonging to the register of social injustice with the statistics on the weight of youth in society is a way
of transposing a political debate on the demographic level, where
asymmetries seem easier to justify.
Keywords: Morocco, Youth identification, Social injustice
Alessandro Buono, Between Surveillance and Rights. Some Notes on the
Phenomenon of Identity Registration
This article aims to offer a reflection on the historiographic trends
that have characterized the study of the history of personal identification and identity registration practices in recent years. Unlike
those scholars who have adopted a Weberian or Foucauldian perspective, interpreting the birth of identification and registration systems in the wake of the Western paradigm of modernization, I will
260
ENGLISH SUMMARIES AND KEYWORDS
try to show the fruitfulness of a bottom-up and comparative perspective, starting from some recent World History scholarship on
the subject. Taking into account the fact that surveillance and endowment of rights are always two sides of identity registration and
recognition, I will try to challenge the abovementioned prevailing
narrative, highlighting the role of actors’ practices and negotiation,
especially in the context of premodern societies.
Keywords: Identity registration, Surveillance, Rights
Emanuela Dal Zotto, Identification Practices and Prajectories of Migrants.
Sicily since 2013 to the Hotspots Approach
In 2011, following the fall of Ben Ali in Tunisia and Gaddafi in Libya
and the disappearance of the departure control by these countries,
the Central Mediterranean route has once again become one of the
most travelled by migrants towards Europe. In addition, the Libyan
crisis has generated a significant increase in arrivals on Italian shores,
from an average of 25 thousand in the period 2004-2013 to one of
170 thousand between 2014 and 2016. At the same time, the issue
of migrations by sea has been occupying more and more space in
public discourse and in the political agenda, both at national and
European level. Rescue and patrolling operations that have alternated in the Mediterranean over the last few years, as well as the
different ways in which the procedures for identifying migrants have
been implemented, reflect the most recent transformations of European borders and the attitudes of receiving society towards those
who pass through them. Starting from the research activity carried
out in September 2013 and in the months of September and October 2015 on the first reception of migrants landing in Sicily, this
contribution traces the steps through which Italian and European
migration policies seem to have returned, in the matter of arrivals
261
ENGLISH SUMMARIES AND KEYWORDS
by sea, to the closure without alternatives of the years immediately
prior to 2011. At the same time, the pages that follow intend to
highlight how identification practices represent a fundamental step
in the attribution of a legal status to the migrants at the moment of
their entry into the European space and in the subsequent definition
of their paths.
Keywords: Migrations by sea, Sicily, Identification
Michele Di Giorgio, At the Origins of Control Techniques. Identification
and Surveillance in Liberal Italy from Unity to the Great War
The period between the Italian Unification and World War I was
characterized by a lively debate, within the Interior Ministry Police,
about surveillance, identification and control techniques of criminals and dangerous classes. This essay analyzes that debate through
the pages of the main and oldest Police magazine of the liberal Period, the “Manuale del funzionario di sicurezza pubblica e di polizia
giudiziaria”, founded and directed by Carlo Astengo. For fifty years
– from 1863 to 1912 – this journal played a crucial role in the training and in the legal, scientific and technical enhancement of most of
the police chiefs of the liberal Period, constantly updating its readers
on the improvements of the police knowledge.
Keywords: Carlo Astengo, Identification, Police
Elisabetta Fiocchi Malaspina, International Law and Italian Emigration
between Nineteenth and Twentieth Centuries: the Legal Vision of Augusto
Pierantoni
262
ENGLISH SUMMARIES AND KEYWORDS
The aim of the paper is to present the first results of an ongoing
research that focuses on the experts of Italian international law as
protagonists in the dialogue between national and international institutions on the delicate issue of the Italian emigration. Particularly
the attention is on their influence and their role within Italian legislative laws and Italian policy between the nineteenth and twentieth
centuries.
The analysis will focus on the jurist, politician and lawyer Augusto Pierantoni (1840-1911), who worked for the unification of Italy and at the same time for the proper application of the principles
of international law by the nascent Italian state.
Keywords: History of international law, Scuola diplomatico-coloniale, Augusto Pierantoni
Agostina Latino, The (in)voluntary (?) Impact of Eurodac Regulation
603/2013 for the Collection and Comparison of Fingerprints on the Protection
of Human Rights
The European Commission has proposed to revise the Eurodac
Regulation to expand the scope so it can also be used to control
irregular immigration and movement within the European Union.
Facial images and personal data can also be stored instead of just
fingerprints and basic data such as gender and Member State. Eurodac was originally intended to prevent multiple asylum applications
and unauthorised entry. Under the new Eurodac Regulation, however, access is no longer be restricted to immigration authorities, but
include police and public prosecutors, such as Europol: so the new
Eurodac Regulation allows for considerable interference into fundamental rights.
Keywords: Eurodac Regulation, Fingerprints, Fundamental rights
263
ENGLISH SUMMARIES AND KEYWORDS
Gaetano Morese, Identification, Recognition, Registration: The Cavour Rule
Identification, recognition, and registration of people are historically
based on the institution’s activities and norms interacting with social
and individual factors. In the state-building process, the bureaucracy
was set up to protect interest, morals, order and public health by
controlling specific types of people. The Cavour Rule on prostitution introduced in 1860 an identification process to recognize and
record prostitute, assigning a document attesting her position within
the society. The Rule and its application were based on social and
gender discrimination, interacting with citizens, identifying and
monitoring the prostitutes and entering in the intimacy of personal
relationships. Economic returns and public health justified this bureaucratic apparatus that progressively articulated its procedures
regulated from above with the urban and rural contexts. Women
came under such an identification, recognition and registration as
prostitutes, used it, paradoxically, to have access to the rights of citizenship that the Rule partly allowed and on the other hand denied.
Liberal ruling classes tool, the Rule was the first norm to promote
identification and social control policies of prostitution in Italy, continued with different denominations and norms until the abolition
of tolerated prostitution in 1958.
Keywords: Cavour Rule, Prostitution, Bureaucracy
Umberto Signori, The Role of Legal Resources in Identification Disputes.
Venetian Consuls in the Ottoman Empire (1670-1715)
This paper aims at an analysis of the necessity to identify foreigners
and to be identified as such in the early modern period, in a context
where recording the identity was also a mean to assign membership.
Firstly, I will analyse decrees and letters exchanged between diplomats and consuls in order to underscore the role played by consuls
264
ENGLISH SUMMARIES AND KEYWORDS
in the diffusion of legal procedures of identification and registration.
Secondly, I will focus on the procedures of identification, interpreted as a method to assign and recognise membership in registration practices. I will present several case studies that involved large
claims between migrants from the Greek-speaking islands of Venice
and Ottomans officials. This article concludes that, far from being
a firmly established practice, in the early modern period the identification of migrants was a matter of local justice that required an
ongoing negotiation between sovereignty, governmental, and nongovernmental actors.
Keywords: Identification of foreigners, Membership and legal empowerment, Mobility in the early modern period
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Notizie sugli autori
Roberto Beneduce è antropologo e psichiatra, docente di Antropologia culturale all’Università di Torino. Fra i suoi campi di ricerca:
l’antropologia della violenza e della memoria, i saperi della cura e la
sofferenza psichica in Africa subsahariana, l’etnopsichiatria e i postcolonial studies. A Torino ha fondato nel 1996 il Centro Frantz Fanon, il primo centro in Italia ad aver introdotto la figura del mediatore etno-clinico nell’ascolto e nella cura di immigrati, rifugiati, richiedenti asilo. Visiting professor nelle università di Berkeley, Tolosa,
Libreville, i suoi lavori sono apparsi in numerose riviste internazionali. Fra gli scritti più recenti: (con N. Gibson) Frantz Fanon, Psychiatry and politics, 2017; L’Histoire au corps. Mémoires indociles et archives du
désordre dans les cultes de possession en Afrique, 2016; Archeologie del trauma.
Un’antropologia del sottosuolo, 2010.
Simona Berhe è laureata in Storia presso l’Università degli Studi di
Milano e diplomata in lingua e cultura araba presso l’IsIAO. Ha conseguito il titolo di dottoressa di ricerca in Storia e comparazione delle
istituzioni politiche e giuridiche europee presso l’Università di Messina. È
stata assegnista presso l’Università degli studi di Bergamo e l’Istituto
storico germanico di Roma. Attualmente è assegnista presso il Dipartimento di Studi storici dell’Università degli Studi di Milano, dove
insegna Storia delle Istituzioni politiche e collabora con la cattedra
di Storia contemporanea. È autrice di diversi saggi sul colonialismo
italiano in Libia e sulla Prima guerra mondiale in Africa. Nel 2015
ha pubblicato la monografia Notabili libici e funzionari italiani: l’amministrazione coloniale in Tripolitania (1912-1919), Soveria Mannelli, Rubbettino.
Irene Bono insegna scienza politica all’Università di Torino ed è
presidente del Fonds d’Analyse des Sociétés Politiques (FASOPO).
NOTIZIE SUGLI AUTORI
Nelle sue ricerche si interessa in particolare al rapporto problematico tra la costruzione dei dati e la definizione delle categorie d’analisi
delle trasformazioni politiche e sociali in Medio Oriente e Nord
Africa, in particolare in Marocco. Adottando questa prospettiva ha
lavorato sulla partecipazione associativa, sull’inclusione dei giovani
in politica, sul governo della questione sociale, sulle figure del conflitto e sui movimenti nazionalisti.
Alessandro Buono è Professore associato di Storia moderna presso
l’Università di Pisa. Si è interessato alla storia delle istituzioni politiche e militari della Lombardia spagnola (su cui ha pubblicato Esercito,
istituzioni, territorio. Alloggiamenti militari e «case herme» nello Stato di Milano (secoli XVI e XVII), Firenze 2009), e più di recente alle procedure di identificazione delle persone e dei beni, in particolare con
riferimento alle trasmissioni ereditarie, nelle società di antico regime
(tema sul quale ha in corso di stampa «Tener persona». Sur l’identité et
l’identification dans les sociétés d’Ancien Régime, in «Annales. Histoire,
Sciences Sociales»).
Emanuela Dal Zotto è assegnista di ricerca in sociologia presso il
Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università degli
Studi di Pavia, dove collabora al progetto di Ateneo per il supporto
di studenti rifugiati, e membro del comitato scientifico del Centro di
Ricerca Coordinato “ESCAPES – Laboratorio di Studi Critici sulle
Migrazioni Forzate” dell’Università Statale di Milano. Dal 2011
svolge attività di ricerca e didattica nel campo delle migrazioni forzate, con particolare attenzione ai sistemi di accoglienza e ai processi
di inclusione di richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale.
268
NOTIZIE SUGLI AUTORI
Michele Di Giorgio è assegnista di ricerca presso l’Università di
Siena. Ha conseguito il dottorato in Storia Sociale Europea all’Università Ca’ Foscari Venezia. Si occupa di storia della polizia nell’Italia
contemporanea. Nel 2019 ha pubblicato con i tipi di Viella una monografia dal titolo: Per una polizia nuova. Il movimento per la riforma della
Pubblica Sicurezza (1969-1981). Recentemente ha curato, insieme a
Nicola Labanca, un’antologia degli scritti (1883-1934) di Salvatore
Ottolenghi (Unicopli, 2018), un’antologia del “Manuale del funzionario di sicurezza pubblica e di polizia giudiziaria” (1863-1912) di
Carlo Astengo (Unicopli, 2015) e sta attualmente lavorando ad
un’antologia del “Bollettino della Scuola di Polizia Scientifica”
(1910-1939) e ad un’antologia del "Magistrato dell’Ordine" (19241939).
Elisabetta Fiocchi Malaspina, dottore di ricerca in diritto, «Storia
della cultura giuridica europea» (Università degli Studi di Genova,
XXIV ciclo), è professore assistente presso la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Zurigo. Specialista in storia del diritto internazionale, è autrice della monografia L’eterno ritorno del Droit des gens
di Emer de Vattel (secc. XVIII-XIX). L’impatto sulla cultura giuridica in
prospettiva globale, Global Perspectives on Legal History, Max Planck
Institute for European Legal History Open Access Publication,
Frankfurt am Main 2017, http://dx.doi.org/10.12946/gplh8.
Enrico Gargiulo laureato in Sociologia all’Università La Sapienza
di Roma, ha conseguito il dottorato di ricerca in Sociologia e ricerca
sociale presso l’Ateneo Federico II di Napoli. Successivamente, è
stato assegnista di ricerca, docente a contratto e ricercatore a tempo
determinato nelle Università di Torino, Piemonte orientale e Venezia Ca’ Foscari. Da luglio 2019 è professore associato in Sociologia
generale all’Università di Bologna. Si occupa di cittadinanza, politiche di integrazione, appartenenze territoriali e saperi di polizia. Ha
269
NOTIZIE SUGLI AUTORI
pubblicato due monografie – l’ultima si intitola Appartenenze precarie.
La residenza tra inclusione ed esclusione (Utet, 2019) – oltre a diversi saggi
in volumi collettanei e riviste.
Agostina Latino, Ph.D. in diritto internazionale, Professore aggregato – Ricercatore universitario confermato a tempo indeterminato
della Scuola di Giurisprudenza dell’Università di Camerino, dove insegna Diritto dell’Unione europea, Tutela internazionale dei diritti
umani, Diritto delle migrazioni. È altresì titolare di insegnamenti
presso la Luiss-Guido Carli di Roma, l’Università Milano Bicocca e
la Scuola di Specializzazione delle Professioni Legali dell’Università
di Teramo. Nei suoi studi si è occupata principalmente di diritti della
persona umana, di diritto internazionale dell’economia, di politiche
dell’Unione europea.
Gaetano Morese, dottore di ricerca in «Storia dell’Europa mediterranea» (Università della Basilicata), più volte docente a contratto, ha
collaborato con le fondazioni Nitti e Gianturco, con l’Archivio di
Stato di Potenza, la Regione Basilicata. Membro del gruppo Sissco
sul referendum istituzionale, impegnato in una ricerca finanziata con
il Vibeke Sørensen Grant dell’European University Institute, si occupa di storia rurale, del paesaggio e delle vicende storiche relative a
istituzioni e ceti dirigenti, ha partecipato a seminari e convegni nazionali ed internazionali ed è autore di diversi saggi e monografie.
Umberto Signori è attualmente ricercatore di Storia moderna affiliato al Dipartimento di lingue e letterature italiane dell’Università
nazionale e Capodistriana di Atene. Ha ottenuto il titolo di dottore
di ricerca nel 2018 presso l’Università degli studi di Milano con una
tesi intitolata Proteggere i privilegi dello straniero. I consoli veneziani nell’Impero ottomano tra Sei e Settecento. È stato titolare di una borsa di studio
presso l’Istituto Italiano per gli Studi Storici a Napoli. Ha pubblicato
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NOTIZIE SUGLI AUTORI
diversi articoli relativi alla storia delle comunità straniere, ai consoli
veneziani nel Mediterraneo, alle procedure di identificazione, e alle
migrazioni nella prima età moderna.
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Notizie sui Peer reviewers
Livio Antonielli, già Professore Ordinario in Storia delle Istituzioni
politiche presso l’Università degli Studi di Milano.
Sara Borrillo, Assegnista presso l’Università degli Studi di Napoli
L’Orientale.
Giuseppe Campesi, Professore Associato in Filosofia del Diritto
presso l’Università degli Studi di Bari.
Laura Di Fiore, Ricercatrice in Storia delle Istituzioni politiche
presso l’Università degli Studi di Napoli Federco II.
Valeria Ferraris, Rcercatrice in sociologia giuridica, della devianza e
mutamento sociale presso l’Università degli Studi di Torino.
Miguel Mellino, Professore Associato in Antropologia culturale
presso l’Università degli Studi di Napoli L’Orientale.
Claudio Povolo, già Professore Ordinario in Storia delle Istituzioni
politiche presso l’Università degli Studi di Venezia.
Giovanna Tosatti, Professore Associato in Storia delle Istituzioni
politiche presso l’Università degli Studi della Tuscia.
Pubblica con noi
La collana di studi Matrix Studies è pensata per offrire a tutti gli studiosi, fin dall’inizio della loro carriera, una sede editoriale valida sia
sul piano scientifico che su quello editoriale: la collaborazione con la
casa editrice QuiEdit s.n.c. garantisce il rispetto degli standard formali per la pubblicazione di testi scientifici (ISBN, de- posito legale,
iscrizione nei cataloghi librari, print on demand ) mentre la diffusione in
open access assicura una distribuzione capillare dei prodotti editoriali
(attraverso biblioteche digitali, mailing list, piattaforme social di LabMatrix).
Matrix Studies accoglie sia volumi collettivi che individuali, proposti dalle équipe di LabMatrix, dai singoli membri del Network oppure da soggetti esterni al Laboratorio (in quest’ultimo caso, è richiesta una lettera di referenza firmata da uno studioso di chiara fama).
Tutte le opere proposte per la pubblicazione sono sottoposte al vaglio
del comitato scientifico-editoriale e, in seguito all’esito positivo, vengono sottoposte anche alla valutazione anonima da parte di peer reviewers, scelti in base all’argomento trattato nella pubblicazione.
Ogni autore interessato alla pubblicazione è pregato di contattarci attraverso i recapiti elettronici di LabMatrix:
A
:
[email protected]
: Laboratorio Matrix
: LabMatrix
Fingerprints
Il volume Fingerprints analizza il tema dell’identificazione delle persone in un’ottica
ampia, in senso cronologico e spaziale, e in modo interdisciplinare. La collettanea
raccoglie i saggi di studiose e studiosi con background scientifici diversificati, portatrici e portatori di saperi specialistici che, interagendo tra loro, possono favorire
un avanzamento della conoscenza in materia. Il volume vuole quindi promuovere
un approccio metodologico innovativo e versatile, che consenta di mettere in relazione, in maniera fruttuosa, passato e presente.
SIMONA BERHE, è laureata in Storia presso l’Università degli Studi di Milano e
diplomata in lingua e cultura araba presso l’IsIAO. Ha conseguito il titolo di dottoressa di ricerca in Storia e comparazione delle istituzioni politiche e giuridiche europee presso
l’Università di Messina. È stata assegnista presso l’Università degli studi di Bergamo e
l’Istituto storico germanico di Roma. Attualmente è assegnista presso il Dipartimento
di Studi storici dell’Università degli Studi di Milano, dove insegna Storia delle Istituzioni politiche e collabora con la cattedra di Storia contemporanea. Si occupa di storia
coloniale, storia delle migrazioni umane e identificazione. Nel 2015 ha pubblicato la
monografia Notabili libici e funzionari italiani: l’amministrazione coloniale in Tripolitania (19121919), Soveria Mannelli, Rubbettino.
ENRICO GARGIULO, laureato in Sociologia all’Università La Sapienza di Roma, ha
conseguito il dottorato di ricerca in Sociologia e ricerca sociale presso l’Ateneo Federico II di Napoli. Successivamente, è stato assegnista di ricerca, docente a contratto e
ricercatore a tempo determinato nelle Università di Torino, Piemonte orientale e Venezia Ca’ Foscari. Da luglio 2019 è professore associato in Sociologia generale all’Università di Bologna. Si occupa di cittadinanza, politiche di integrazione, appartenenze
territoriali e saperi di polizia. Ha pubblicato due monografie - l’ultima si intitola Appartenenze precarie. La residenza tra inclusione ed esclusione (Utet, 2019) - oltre a diversi saggi
in volumi collettanei e riviste.