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1980 I Fatti di Giarre il Delitto di due Giovani Gay, 2020

2020, 1980 I Fatti di Giarre il Delitto di due Giovani Gay

Nel 1980 a Giarre fu eseguito un duplice omicidio di due giovani omosessuali. Ne nacque un caso giudiziario e mediatico. E' diventato la pietra miliare delle conquiste sociali degli omosessuali e delle lesbiche italiani.

Dallo stesso autore: Lo Scautismo a Giarre (1998) Lo Scautismo a Giarre, una storia lunga cento anni (2010) Ionia, ovvero la storia delle città consorelle Giarre e Riposto (2015) La Contea di Mascali e le città di Giarre e Riposto - 1° Edizione (2016) La Contea di Mascali e le città di Giarre e Riposto - 2° Edizione (2017) La Colata Lavica del 1928 e la Rifondazione di Mascali (2018) [pubblicato in formato elettronico] L’Istruzione e le Superstizioni a Giarre e nel suo hinterland - 1761-1953 (2019) (pubblicato in formato elettronico) I Profughi della Grande Guerra, da Cismon del Grappa a Giarre (2019) L’Agricoltura e il Territorio Ionico-Etneo - Sec. XVIII-XX - (2020) (pubblicato in formato elettronico) Giarre – Ottobre 2020 Progetto grafico: Titolo | 1980 I Fatti di Giarre Il Delitto di due Giovani Gay Autore | Mario Cateno Cavallaro © Tutti i diritti riservati all'Autore Questa opera è pubblicata direttamente dall'Autore che detiene ogni diritto della stessa in maniera esclusiva. E’ permesso l’utilizzo dei testi citando la fonte. 2 Introduzione Giarre, fino agli anni Sessanta, Settanta del Novecento era un paesone della provincia catanese. Ricco, anzi ricchissimo per l’agricoltura prospera, per l’artigianato raffinato, per i commerci di ogni genere (all’ingrosso e al dettaglio), per gli esercenti le arti liberali che richiamavano clienti da tutto l’hinterland Jonico etneo. Gli avventori scendevano a frotte dai paesini circostanti, arrivavano perfino da Randazzo e dalle località della Valle dell’Alcantara. Portavano a Giarre i loro prodotti dell’agricoltura o dell’artigianato per essere trasformati e/o commercializzati nel rinomato emporio dove compravano anche i beni a loro necessari. Si servivano dei servizi offerti dalla città. Riconoscevano a Giarre il ruolo di comune leader del circondario. Negli anni Ottanta ci fu una vera e propria rivoluzione: Giarre cambiò fisionomia! Da paesone a città, anche se di provincia. L’espansione edilizia fu il chiaro esempio della ricchezza della città, dei suoi commercianti, dei suoi artigiani, dei suoi professionisti … di tutti i suoi abitanti. Moltissimi vennero ad abitare a Giarre vuoi perché vi lavoravano, vuoi perché i figli studiavano a Giarre, che era (ed è) sede di ogni tipo di scuola superiore. In poco tempo gli agrumeti e le campagne che la circondavano furono cancellati e al loro posto nacquero palazzoni anonimi e strade senza anima. La massima densità abitativa si ebbe nella Vigna del Principe che divenne il quartiere Jungo, ma anche tutte le altre periferie di un tempo divennero, nel corso degli anni, popolosi quartieri residenziali. Benché Giarre fosse sempre stata abituata a guardare al di fuori del proprio perimetro, al progresso tecnologico, alle arti e alla cultura non era preparata ad affrontare radicali cambiamenti sociali. Ma d’altronde nessuna realtà, in nessuna parte del mondo, riesce a modificare le abitudini sociali in modo repentino. Negli anni Ottanta del Novecento, 3 in Italia, si seguivano comportamenti sociali ancora fondati su schemi arcaici. Immutati ed immutabili. Giarre non faceva eccezione. La Società dell’epoca –con il suo moralismo– non gradiva che si uscisse fuori dai canoni imperanti ed imposti da secoli di perbenismo. Ma la vita vissuta non riusciva –e non riesce– a farsi ingabbiare da schemi precostituiti e consolidati. Giarre non faceva eccezione. In quel periodo in città ancora non si parlava apertamente di separazioni di sposi o di convivenze al di fuori del matrimonio. Ma c’erano. Poche, ma c’erano. Si faceva ricorso alla “fuitina” per riparare agli incidenti di percorso tra giovani fidanzati. Addirittura c’era (un caso di cui venni a conoscenza per caso) una specie di poligamia di fatto: un tizio viveva con la moglie e nella stessa casa con un’altra donna. Una condizione riprovevole? Certo. Un padre padrone? La condizione subalterna della donna? La prospettiva di mancanza di mezzi di sussistenza in caso di ribellione del sesso debole? Argomenti di cui si discute ancora oggi, nel 2020, in tutta Italia. Poi c’era una coppia di sposi separata di fatto che di giorno lavorava nella stessa attività commerciale, fianco a fianco, mentre poi la sera ciascuno tornava nella propria casa. Lui in quella della sua nuova famiglia. Nessuno scandalo per i clienti e per i conoscenti. Ad un certo punto in città successe un fatto che in Italia fece Storia, anche se dai giarresi fu dimenticato in un paio di settimane. Il 31 ottobre del 1980 furono rinvenuti i corpi, in avanzato stato di putrefazione, di due giovani. Due giovani omosessuali, parola bandita nell’uso comune. Ma gli omosessuali c’erano. Pochi? Certo. I più coprivano la loro omosessualità in un matrimonio di facciata. E’ difficile dire se un fatto luttuoso così grave sia stato in grado di scuotere gli animi dei giarresi. Una storia dentro un’altra storia. Un duplice omicidio eseguito in modo efferato che, di per sé, è un fatto gravissimo, compiuto su due omosessuali. Non ho la competenza per analizzare le masse di cittadini (vuoi di tutti gli italiani o limitata ai giarresi) del 1980 nell’approccio alla omosessualità. Mi sono assunto un compito, viceversa, un po’ più agevole per me, ovvero raccogliere in un unico documento i fatti come 4 narrati dai giornali dell’epoca senza aggiungere nessun mio commento, che lascio ai lettori. Provo solo a dare voce ai miei ricordi. Nel 1980 io ero universitario, capace di ricordare come si viveva a Giarre. Essendo passata una era geologica rispetto a quel periodo, ho ricordi che riaffiorano a macchia di leopardo, spesso sbiaditi. Non conoscevo quei due ragazzi in senso assoluto; così come non conoscevo buona parte dei giarresi. Ho appreso della loro omosessualità dai giornali che commentavano l’accaduto. Questo potrebbe essere successo per il clima di omertà che poneva un velo su tutto ciò che poteva infangare l’onore dei giarresi e della loro mascolinità, oppure (o in parallelo) semplicemente perché l’omosessualità non faceva scalpore. Almeno nell’ambiente universitario e giovanile in genere. Ricordo di alcune persone che, più o meno timidamente, manifestavano la loro omosessualità (ovviamente parlo di uomini, perché di donne non se ne aveva alcuna notizia). Riaffiorano nella mente quattro o cinque giarresi. Uno era conosciutissimo. Si vedeva per la città di sera spesso da solo, di giorno esercitava un lavoro pesante e gravoso. Lo ricordo sempre vestito elegantemente mai però in modo vistoso, al massimo indossava un accessorio un po’ eccentrico per quei tempi, ma nulla di più. Non ero suo amico e non ci siamo mai rivolti la parola. Questo a me è capitato con moltissimi giarresi, la stragrande maggioranza non li conoscevo anche se ci si incontrava tutti i giorni per strada. Sono nitidissimi i contorni e i dettagli di altre due persone con le quali ero amico ed ero cliente del loro negozio che si trovava a due passi da casa mia. Ricordo che c’è stato un timidissimo approccio di uno dei due nei miei confronti, ma al mio glissare (ho fatto finta di non aver sentito cosa avesse detto) l’amicizia e il rapporto professionale sono continuati come sempre. Infine ricordo un altro vicino di casa che gestiva una sala giochi in centro, sempre affollatissima di adolescenti e di persone anziane. Sarà 5 forse, da perfetto bigotto, che non mi sia accorto mai di nulla ma non ricordo alcun commento nei confronti dell’esercente. Al dibattito del 6 novembre 1980, che seguì il duplice omicidio, io ero presente tra i curiosi, mentre all’esterno della Biblioteca comunale, ricordo perfettamente, si era radunato un gruppo di balordi che schiamazzava e fischiava all’indirizzo dei convegnisti. Questa è la mia esperienza. Mi rendo conto tuttavia che in quel tempo, in certi ambienti, l’omosessualità poteva essere destabilizzante, al contrario di altre deviazioni dal sentire sociale che magari venivano accettate seppur sottobanco. Giarre, 30 ottobre 2020 L’Autore 6 1980 I Fatti di Giarre Il Delitto di due Giovani Gay 7 8 Dai giornali del mese di novembre 1980 "Occhi vispi, furbi, indagatori. Un dito di capelli biondi, non si direbbe neppure un siciliano, faccia grassoccia piena di lentiggini. Lingua svelta, pronta a rispondere e a rimbeccare, parlata quasi tutta in dialetto. Aria allegra, priva di qualsiasi accenno di turbamento. Un monellaccio, uguale a tanti". Così Panorama del 17 Novembre 1980 descrive un dodicenne -poi si seppe tredicenne ma in ogni caso non imputabile per legge- che in una prima fase delle indagini si assunse la colpa di un duplice omicidio avvenuto a Giarre a metà ottobre 1980: "è stato proprio 'u picciriddu' a confessare di avere ucciso a sangue freddo lo zio quindicenne Antonio Galatola e un giovane di 25 anni, Giorgio Giammona, legati, ormai è la convinzione di tutti in paese, da una impossibile relazione omosessuale in un ambiente ostile". Il 17 ottobre 1980, Antonio Galatola di 15 anni e Giorgio Agatino di 25 risultavano scomparsi; le ricerche delle Forze dell’Ordine non portarono a nulla. I familiari stessi si mobilitarono nella ricerca e perfino pubblicarono un avviso su di un giornale locale. Ma dei due giovani non si trovò alcuna traccia. Il 31 ottobre un pastore giarrese, mentre faceva pascolare il proprio gregge nella “vigna del principe, nella zona Jungo” –a quel tempo lembo estremo della immediata periferia di Giarre, oggi popoloso quartiere– fu attirato da un fortissimo odore nauseabondo. Pensando provenisse dalle carcasse di alcune sue pecore smarrite giorni prima, si mise a cercarle. Poco distante, sotto una pianta di limone a ridosso di un muretto, trovò i corpi di due giovani. Erano in avanzato stato di putrefazione, distesi a terra, mano nella mano. Senza perdere tempo il pastore si recò 9 nella caserma dei carabinieri, che si trovava a 500 metri, ed allertò i militari. Il quotidiano La Sicilia del 1 novembre 1980 -in un articolo dal titolo: “Omosessuale sopprime il partner e subito si uccide accanto a lui”- riporta le prime scarsissime informazioni sul rinvenimento dei due cadaveri che furono identificati con i due giovani scomparsi il 17 ottobre. Le indagini furono condotte dal capitano Borzì comandate della compagnia dei carabinieri di Giarre sotto la direzione del maggiore Pelella, comandante del reparto operativo dei carabinieri di Catania e coordinate dal pretore di Giarre dott. Assennato. Nelle tasche di Giorgio fu trovato un biglietto su cui era scritto: “Io e Tony abbiamo raggiunto la pace e la felicità, cara mamma perdonami”. Sul testo della lettera si scatenò la fantasia dei giornalisti. Ogni giornale aveva una propria versione. Addirittura spuntò una versione ribaltata rispetto alle altre e la fece propria il Corriere della Sera del 2 novembre: “Vicino al volto di Antonino una lettera con poche parole: «La nostra vita era legata alle dicerie della gente»”. La sera del 31 ottobre, poiché era già sopraggiunto il buio (il rinvenimento dei cadaveri era avvenuto alle 17,45), non fu possibile eseguire la prima ispezione in modo completo sui cadaveri -che erano in fase avanzata di putrefazione- e sui luoghi tanto è vero che si pensò che la morte fosse avvenuta per avvelenamento. “La testa di ciascuno dei due cadaveri era stata macerata dalla putrefazione. C’è voluta l’autopsia in laboratorio per rendersi conto che i fori nelle ossa temporo-parietali dell’Agatino erano due e invece uno soltanto in quelle di Tony Galatola” (La Sicilia del 5 novembre). Per lo stesso motivo non è stato possibile accertare, neppure con l’autopsia, se i due avessero assunto stupefacenti, narcotici o altre sostanze. Per gli inquirenti nell’immediatezza non vi fu alcun dubbio: un 10 omicidio-suicidio. Per la stampa –intravedendo sin dall’inizio un caso interessante- fu evidente che l’episodio avvenne per la disperazione di una coppia continuamente vessata dai pregiudizi dei compaesani. Il Corriere della Sera del 2 novembre fu categorico: “li univa un profondo rapporto affettivo, una passione nata in un ambiente ostile. Giarre è spietata con gli omosessuali, li discrimina, li addita alla pubblica condanna”. Sin dal titolo in prima pagina il giornale non ha dubbi: “Derisi da tutto il paese due omosessuali siciliani si fanno uccidere da un ragazzo di 12 anni abbracciati”. Gli elementi mediatici c’erano tutti, a partire dalla morte di due giovani omosessuali. I cronisti incominciarono a vivisezionare la vita e le famiglie dei due giovani, di cui uno era minorenne, che furono risucchiati dentro un caso molto più grande di loro; mentre Giarre ed i giarresi divennero i mandanti del duplice omicidio. Ma questi pregiudizi potevano essere così gravi da generare un simile delitto in una tranquilla città della anonima provincia siciliana? L’omosessualità poteva generare un simile abominio? Evidentemente, si! Le indagini dei carabinieri e dei giornalisti, ciascuno per il proprio ruolo, aprivano ogni giorno scenari nuovi. Le svolte più o meno improvvise fecero tenere alta l’attenzione degli inquirenti e dei lettori dei giornali ponendo sotto una luce nuova, ed ogni volta completamente diversa, gli eventi accaduti di quel venerdì 17 ottobre 1980. Giorgio Agatino dai giornali nazionali era chiamato Giorgio Giammona ma in realtà il suo cognome era Agatino. Leggiamo sul Giornale del Sud dell’1 novembre, infatti, che “lui si chiama Agatino che è il cognome di suo padre, ma vive col convivente di sua madre che si chiama Giammona, ed è uno dei più ricchi commercianti del paese”. Il giovane aveva qualche precedente penale per piccoli furti così come si legge su La Sicilia del 1 Novembre: “I carabinieri di Giarre tempo addietro avevano 11 denunciato Giorgio Agatino dopo averlo sorpreso con lo stesso Galatola e altri minori di Giarre mentre rubavano nella zona delle scuole. Il minore era stato denunciato a piede libero, mentre Agatino era stato arrestato”. Un soggetto un po’ “strano” anche se suo padre lo definisce “solo un po’ ritardato di testa” (Panorama del 17 novembre). Sul Giornale del Sud del 9 novembre dichiara “No, Non era omosessuale. Aveva affetto per dei ragazzini perché era solo, aveva bisogno d’amicizia. C’era chi ne approfittava”. Il giovane a volte regalava, o vendeva per pochi spiccioli, costosi strumenti musicali che prendeva dal negozio di famiglia. Il padre conclude: “Io credo che lo ricattavano. Si è ribellato e per questo lo hanno ammazzato. E poi l’hanno portato là dove li hanno trovati”. Antonino Galatola, invece, figlio di un venditore ambulante di giocattoli, era considerato un bravo ragazzo che aiutava spesso i genitori a sbarcare il lunario nel mestiere di venditori ambulanti. Alcuni mesi prima l’Agatino “si era messo a lavorare con Antonio Galatola e con il padre di questi”. Ben presto i due giovani iniziarono una relazione omosessuale apertamente, alla luce del sole, anche se i commenti di chi li incontrava per strada mano nella mano, riferiti dai giornali, erano tanto eloquenti quanto sarcastici: “arrivaru i ziti” oppure “talia i puppi”; purtroppo l’ambiente cittadino, bigotto, pur non oltrepassando il limite dello scherno verbale, tendeva ad emarginare i pochi diversi che osavano manifestare la propria omosessualità. Panorama del 17 novembre raccoglie talune dichiarazioni: “Alcuni omosessuali, durante un dibattito […], hanno negato di essere sottoposti a linciaggio morale, a persecuzione. Ma, hanno precisato, non cambia molto: «Per noi la vita a Giarre è comunque difficile, talvolta impossibile. Dobbiamo fare finta di essere come tutti gli altri, mimetizzarci, nasconderci». Chi non rispetta queste regole viene messo da parte. Anche tra i giovani”. 12 In modo diretto si potrebbe dire che erano costretti a reprimere la loro omosessualità. Poche ore dopo il ritrovamento dei due corpi, a “venticinque centimetri” di distanza o forse “un metro” o anche più, fu ritrovata la pistola del duplice delitto con la matricola non abrasa, leggermente sotterrata e con la sicura abbassata. Un colpo di scena che fece abbandonare la pista dell’omicidio-suicidio per avvelenamento. Il ritrovamento della Bernardelli calibro 7,65 pose diversi interrogativi. Come si fa a sparare ad un altro, suicidarsi, abbassare la sicura della pistola e sotterrarla poco distante? Decisamente impossibile. Il Corriere della Sera del 3 Novembre scende nei particolari: “I carabinieri avevano trovato a distanza di qualche metro, sotterrata, una pistola «Bernardelli», calibro 7,65, con sette colpi mancanti. Impossibile, hanno detto, che l'ultimo a spararsi abbia avuto la forza di compiere quel percorso e seppellire l'arma per poi ritornare dall'amico ad esalare l'ultimo respiro. Impossibile anche che le piogge di questi ultimi giorni avessero contribuito a far scivolare la pistola a tale distanza, coprendola di melma. Tutto faceva allora pensare ad un rito infernale, con i due gay che decidono di morire ma non hanno la forza di spararsi reciprocamente”. A questi interrogativi immediatamente fu data una risposta. Dalle indagini era emerso che un nipote di Antonio, il tredicenne paffutello descritto dal settimanale Panorama, era stato l’ultimo a vedere in vita i due ragazzi e che “solo pochi giorni prima aveva detto di avere ricevuto in regalo un orologio da uno dei due uccisi, fu condotto in caserma” (Stampa Sera del 3 novembre), dove confessò di avere ucciso i due giovani su loro stessa richiesta. Quel pomeriggio i tre lo avevano trascorso insieme in piazza, poi si avviarono in direzione della periferia di Giarre e arrivarono in un agrumeto dove oggi sorge una scuola. 13 In quel luogo gli consegnarono una pistola e lo minacciarono: “o ci spari tu o spariamo a te”. E così il “picciriddu” eseguì la sentenza timoroso per quella intimidazione. “Ho accostato la canna della pistola alla testa di Antonio e ho premuto il grilletto. Poi ho fatto la stessa cosa con Giorgio”. Il Corriere della Sera del 3 novembre fornisce altri particolari: “Dalla pistola mancano sette colpi: due sono finiti nei crani degli uccisi. E gli altri? Si affaccia l'ipotesi che siano stati esplosi da Giorgio per insegnare al piccolo omicida l'uso dell'arma”. Il quotidiano aggiunge ancora: “Non si esclude che le vittime, dopo aver insegnato al ragazzo a usare la pistola, si siano narcotizzate per affrontare incoscienti la morte”. La confessione fece abbandonare la pista della malavita locale. Il Corriere della Sera del 2 Novembre infatti citando il capitano Borzì riferisce: “La pista seguita ha avuto due direzioni: quella della malavita locale e quella degli «amici» dei due uccisi. Si è cercato tra i disperati, tra i giovani - cosi definiti - capaci di uccidere per soldi o anche, più follemente, per ricambiare un favore ricevuto”. Un ulteriore elemento di rilievo lo fece emergere L’Ora del 3 novembre. Una strana telefonata che ricevette la madre di Tony giovedì 30 ottobre, il giorno precedente del rinvenimento dei due cadaveri: “Mamma, mamma, sono Antonio… aiutami». La madre sostiene ora che l’autore della telefonata era sicuramente il figlio Tony. Impossibile. Il medico legale ha stabilito che Tony è sicuramente morto almeno 15 giorni fa. Chi ha telefonato? E perché? Solo uno sciacallo? oppure il baby killer? No, lui non può aver telefonato. Quella mattina lavorava in cantiere con il nonno”. La vicenda così come si presentò ai giornalisti fece emergere parecchi dubbi. I contorni non erano ben definiti; nella confessione del ragazzo c’erano spazi vuoti: “A questo punto 14 della confessione il minore ha un vuoto di memoria. I carabinieri gli domandano: «Ma prima di consegnarti la pistola i tuoi amici hanno bevuto qualcosa?». Pensano a sostanze allucinogene, a barbiturici. Non rammenta. Dice soltanto: «Antonio e Giorgio hanno alzato la voce: se ci svegliamo, stai sicuro che ti ammazzeremo» –leggiamo sul Corriere della Sera del 3 novembre– Gli inquirenti incalzano: «Ma quando hai sparato?» Il ragazzo risponde: «Ad un certo momento avevo deciso di obbedire, per le minacce ricevute. Ho accostato la canna della pistola alla testa di Antonio e ho premuto il grilletto. Poi ho fatto la stessa cosa con Giorgio». Ora, un altro vuoto di memoria. Tutto quello che ha fatto successivamente appartiene agli accertamenti degli investigatori. Da lui si è avuto soltanto qualche cenno d'assenso. La pistola è stata trovata a un metro di distanza dai due corpi, sotterrata e con la sicura. Chi l'ha messa? Il bambino, dicono i carabinieri, senza ombra di dubbio, Allora, prima di essere uccisi, i due amici gli avevano anche detto come doveva comportarsi dopo la loro morte? Il ragazzo ha ammesso, con un racconto alquanto nebuloso, questa circostanza: gli avrebbero indicato il luogo e il modo di mettere la pistola. E' possibile tutto questo? Pare proprio di si. Ma di chi era la pistola? Ancora non è stato scoperto il proprietario, anche se l'arma non ha la matricola abrasa”. Per i carabinieri e per il pretore di Giarre, con la piena confessione, il caso era risolto. Chiuso brillantemente in poche ore. Trovati movente, arma ed assassino. Tutto chiaro, solido e incrollabile. I giornali però avanzarono ulteriori dubbi. Risultava troppo semplice, quasi incredibile che un bambino potesse aver fatto una azione così forte per poi restare tranquillo –aria allegra, priva di qualsiasi accenno di turbamento– per quindici giorni (il delitto si era consumato all’atto della scomparsa dei giovani il 17 ottobre, come riportato dagli atti ufficiali). 15 Il giorno dopo il ragazzo raccontò ai giornalisti una nuova verità. Il quotidiano L’Ora del 3 novembre raccolse e pubblicò l’ultima versione nonché la motivazione così come raccontata dal tredicenne al cronista: “Ieri mattina alle 10 e mezzo quattro carabinieri sono venuti a casa. Mi hanno caricato sulla loro macchina e poi mi hanno portato in caserma. Lì, un maresciallo mi ha subito dato in mano una pistola. E mi ha detto infilagli il caricatore se sei capace. Dopo un po' di fatica io sono riuscito ad infilare il caricatore. Penso che quella era la pistola con cui hanno ucciso zio Tony e Giorgio Agatino». Poi il ragazzo raccontò come si svolse l’interrogatorio. «Hanno cominciato a dirmi che se non confessavo avrebbero arrestato mio nonno Francesco. L’avrebbero messo in galera. Lì ho avuto molta paura. Quando poi mi hanno preso a schiaffi mi sono messo a piangere ed ho fatto la pipì addosso. Ho raccontato che li avevo uccisi io. Loro mi gridavano: sei stato tu, sei stato tu ed io alla fine ho detto di sì”. Anche La Repubblica del 4 novembre riporta la nuova versione fornita dal ragazzo ai giornalisti: “I carabinieri mi minacciavano. Dicevano se non parli arrestiamo tuo nonno. Allora mi sono inventato tutto”. Panorama scende nei dettagli: “Ha parlato con durezza di minacce («il capitano bestemmiava come un porco») e di botte durante un interrogatorio di otto ore. Alla fine, stanco e impaurito avrebbe inventato tutto. Di essersi inginocchiato tra Antonio e Giorgio stesi per terra, in campagna, mano nella mano, decisi a morire. Di aver premuto il grilletto, di aver nascosto la pistola. E tanti altri particolari. Immagini viste al cinema, sostiene adesso, addirittura copiate da un film del suo eroe preferito, il tenente Colombo. Per i carabinieri però la versione vera è l'altra. E per il capitano Antonino Borzì, militare brusco e sbrigativo, il caso è ormai chiuso”. 16 Espresso Sera del 4 novembre titola in prima pagina: “Ho un alibi di ferro” e poi prosegue “Non sono stato io a commettere il delitto – ha detto il bambino, come recitando a memoria un copione –. Quel giorno sono sempre stato in compagnia di mio padre prima, di mia cognata dopo e di mio nonno la sera. Ditemi come potevo fare a commettere il delitto”. A questo punto il caso non poteva ritenersi chiuso. Le indagini dovevano essere riprese dato che il bambino aveva ritrattato la precedente confessione fatta ai carabinieri. Il giudice Antonino Assennato, pretore di Giarre, però, sempre su Panorama del 17 novembre, aggiunse un particolare non certo secondario: “il bambino, dopo la confessione, era preoccupato solo di quello che avrebbero detto i suoi amici, aveva paura che lo mettessero al bando per quanto aveva fatto. Sono stato io per rincuorarlo a suggerirgli: tu rispondi che erano tutte bugie. Lui ha seguito il consiglio. Che cos'altro doveva fare?”. Appena arrivò a Giarre quel settimanale il pretore dichiarò al quotidiano L’Ora dello stesso 17 novembre: “Non smentisco e non confermo questa mia dichiarazione”. Per i carabinieri in ogni caso quella ritrattazione resa ad un giornale non aveva alcun valore ai fini dell’indagine e quindi il caso poteva essere ridimensionato, almeno per gli aspetti più scabrosi. Per la stampa, no. I carabinieri, mantenendo lo stretto riserbo che il caso richiedeva, proseguirono le indagini e il Giornale del Sud del 5 novembre rivela: “Novità - nonostante le smentite - in mano ai carabinieri, nelle indagini per Antonio Galatola e Giorgio Agatino? Si potrebbe non escluderlo, almeno a giudicare dall'urgenza con cui ieri nella tarda mattinata gli ufficiali dell'Arma (fra cui il colonnello Licata) sono stati visti allontanarsi dalla caserma di Giarre verso destinazione non nota”. 17 Il padre del baby killer da sempre proclamava l’innocenza del figlio. Al quotidiano La Stampa del 4 novembre dichiarò: “Mio figlio non ha commesso il duplice omicidio. Ad un bambino come lui non riesce possibile esplodere tanti colpi di pistola calibro 7.65. Dopo il primo colpo, il braccio non gli avrebbe più risposto, invece mi si dice che sono stati sparati sette colpi” [NdR i colpi messi a segno furono tre]; proseguendo nella sua ricostruzione (La Sicilia del 4 Novembre) egli precisa che il bambino quel giorno “dopo le 5 del pomeriggio fu mandato fuori a comprare dei bidoni di plastica” e poi, riferendosi all’interrogatorio, dice all’Espresso Sera del 3 Novembre: “Lui mi ha detto di avere scoperto che i carabinieri volevano arrestargli il nonno al quale lui è particolarmente legato, poi l'interrogatorio incalzante cui è stato sottoposto, e poi lo stesso ambiente. Mio figlio certamente si deve essere trovato al centro di un gruppo di persone che lo interrogavano senza dargli la possibilità di riprendere fiato. Così alla fine deve avere detto di essere stato lui a sparare, pur di chiudere quella parentesi”. Su 7, il magazione del Corriere della Sera, del 23 ottobre 2020, il sostituto procuratore della Repubblica di Catania dott. Giuseppe Foti, che come vedremo ebbe una parte nella vicenda giudiziaria, dichiara: “all’epoca poteva accadere che l’imputato potesse venire forzato a fare delle dichiarazioni”. Il 5 novembre La Sicilia avanzò tre ipotesi: la prima confermava che il bambino fosse stato l’omicida; la seconda vedeva il ragazzo presente nella scena del crimine, senza essere l’esecutore materiale dell’omicidio commesso da altri (“in tal caso ora egli è spinto a tacere il nome del vero killer per paura di chissà quale rappresaglia”); la terza immaginava che il ragazzo si trovasse altrove immolandolo in quanto minore non imputabile per nascondere un duplice omicidio eseguito da un adulto (“ed è stato costretto ad accollarsi tutto da chi gli ha 18 imposto di recitare a memoria un “copione” che gli ha fatto ripetere chissà quante volte. Tant’è vero che il fanciullo ripete pappagallescamente ciò che fece nel pomeriggio di quel tragico venerdì 17 ottobre”). Per rendere il caso intrigante in paese si parlò perfino di certi festini. L’Ora del 5 novembre trascrive le interviste raccolte in città: “Si parla sempre più infatti di strane feste alla periferia del paese, di collegamenti di Giorgio Agatino e altri omosessuali catanesi. C’è addirittura chi è pronto a giurare - ma chissà con quali prove - che il duplice omicidio sarebbe stato compiuto in un posto diverso dal limoneto dove i due corpi sono stati poi trovati e dove i parenti delle due vittime sostengono con forza averli cercati invano alcuni giorni prima del ritrovamento dei cadaveri”. Così prende piede l’ipotesi che il duplice delitto sia stato eseguito altrove e poi i cadaveri siano stati trasportati in quell’agrumeto per essere casualmente scoperti. Questo interrogativo già lo aveva evidenziato il Corriere della Sera del 3 Novembre “La gente di Giarre s'interroga: due cadaveri non possono scomparire e riapparire improvvisamente. Forse sono stati uccisi in un altro posto e trasportati sotto la pianta di limoni. E' inevitabile che la fantasia popolare si scateni. Eppure sono particolari di grande importanza nell'economia dell'indagine”. Tra le tante ipotesi riemerse la pista della malavita, che comunque i carabinieri avevano già abbandonata. Il Giornale del Sud del 5 novembre la ripropose un’altra volta: “La quarta, sostenuta dal padre del povero Antonino contempla l'eventualità di un delitto di malavita: vecchie conoscenze, o rivali o manutengoli; delle vecchie scorrerie di Giorgio Agatino avrebbero ucciso i due e ne avrebbero poi portato i corpi dove furono ritrovati”, ipotesi che era stata ventilata anche da L’Ora 19 del 3 novembre: “Un agguato? Un regolamento di conti? Una vendetta? Un mistero appunto”. Il Giornale del Sud del 6 novembre ricostruisce la vicenda aggiungendo il proprio punto di vista: “A nostro parere è ben difficile assassinare due persone, cioè ucciderle contro la loro volontà, con tre pallottole nelle tempie: dovremmo pensare ad una esecuzione in piena regola da parte di un gruppo di Killers professionisti, capaci di immobilizzare un ragazzo di 15 anni ed un giovane di 23 e di ammazzarli con tre colpi di pistola precisi e micidiali, sparati a bruciapelo in testa eliminando ogni traccia di un'eventuale colluttazione ed infine allestendo, con macabra fantasia, la messa in scena che tutti conosciamo”. Il quotidiano poi aggiunse di essere in possesso di alcune indiscrezioni che in quel frangente non potevano essere rivelate: “Noi possiamo aggiungere soltanto di essere venuti a conoscenza di alcuni di questi particolari che per il momento vengono protetti dal segreto istruttorio. Se tali indiscrezioni corrispondessero a verità, dovremmo concludere effettivamente che il ragazzo partecipò (non sappiamo in che modo) nel pomeriggio di quel 17 ottobre al terribile rito con cui Giorgio e Nino posero fine alla loro vicenda terrena. Pare infatti che il bambino non solo abbia indicato l’esatto numero dei colpi di pistola esplosi contro i due amici, ma sia stato in grado di riconoscere l’arma del delitto, indicandola senza esitazione fra altre quattro pistole. Ed ancora il piccolo avrebbe anche mostrato ai carabinieri come aveva inserito la sicura nell’arma (ed in effetti la 7,65 fu ritrovata in posizione di sicura...) precisando persino la posizione dei due corpi: distesi l'uno accanto all’altro e con i giubbotti arrotolati dietro la nuca a mò di cuscino. Se il bambino ha realmente fornito queste indicazioni nel corso dell'interrogatorio è chiaro che in un modo o nell’altro era presente in quel limoneto di contrada Junco venerdì 17 20 ottobre. Se poi il piccolo si è limitato ad assistere impotente al suicidio dei due amici (magari nascondendo poi ingenuamente la pistola, dopo avervi inserito la sicura) o se effettivamente Giorgio e Nino lo abbiano costretto a sparare, non crediamo sia possibile dirlo per il momento: un dubbio legittimo ed amaro”. La questione aveva assunto la connotazione di evento mediatico nazionale facendo riversare nella sonnolente Giarre i cronisti di tutte le testate giornalistiche italiane sia della carta stampata e sia della TV. Divenne un caso che fece risvegliare l’interesse degli Italiani ingabbiati in schemi sociali che non lasciavano spazio a chi non si omologava all’imperante perbenismo (di facciata) dell’epoca, per di più accaduto nell’arretrato sud, nell’arcaica Sicilia. “Giorgio Giammona era conosciuto in paese per le sue tendenze. «Morbose amicizie» precisa burocraticamente il capitano dei carabinieri «nessuno di noi ha mai parlato di omosessualità». Parola tabù. Non la vuole neppure sentire il padre del giovane, Salvatore, che minaccia querele. «Mio figlio era solo un po’ ritardato di testa. Mostra dieci anni di meno della sua età. Per questo si accompagnava con chi era più piccolo di lui. Però senza secondi fini”. Il settimanale Panorama prosegue con le testimonianze raccolte: «Ai funerali di ’Ntoni la chiesa era strapiena. A quelli di Giorgio, nello stesso posto, subito dopo, c'erano poche persone. Ma in realtà la condanna della gente di Giarre per la diversità di Giorgio quanto ha pesato nella tragica fine dei due ragazzi? Per padre Diego, il frate cappuccino che ha celebrato entrambi i funerali «la vera colpa di Giarre è di avere il culto del denaro; una società consumistica per eccellenza che bada solo agli affari, agli interessi, non ai sentimenti». L’articolo prosegue riportando l’intervista al sindaco di Giarre, il medico Nello Cantarella, che alla domanda se il paese fosse intollerante rispose: «A1 contrario, sa comprendere tutto, anche 21 le debolezze della natura umana»”. E ancora più avanti: “E Nicolò Mineo, docente nella facoltà di lettere dell’università di Catania, uno dei pochi uomini di cultura di Giarre, conferma: «Nei salotti, quando si sa che uno è diverso o soltanto lo si sospetta, sorrisetti e battute si sprecano. Siamo onesti: a Giarre nessuno, perfino tra gli intellettuali, sarebbe sereno fino in fondo se avesse un amico omosessuale»”. Le indagini degli inquirenti (Pretore e Carabinieri di Giarre e Carabinieri di Catania) procedevano nell’iter prescritto tuttavia: “Il Sostituto Procuratore di Catania, Giuseppe Foti, al quale è stata assegnata la sconvolgente storia, non è convinto della confessione” (Panorama del 17 Novembre). I giornali sollevarono mille dubbi sulla qualità delle indagini ipotizzando che si volesse chiudere presto e alla bell’e meglio il caso. I giornalisti ritenevano infatti che l’inchiesta fosse stata fatta male anche perché le indagini dissero non furono estese ai familiari, ma ristrette solamente a sentire “u picciriddu”. Evidenziarono le molteplici incongruenze nella storiella raccontata in fase di confessione; sembrava preconfezionata da altri e ripetuta sistematicamente ed in modo schematico. La stampa scandagliò il territorio ed alla fine non fu trovato nulla di eclatante. Il 6 novembre nella sala conferenze della Biblioteca comunale di Giarre si tenne un incontro dibattito dal titolo “Omosessuali: orgoglio e pregiudizio” organizzato dal Fuori! (Fronte unitario omosessuale rivoluzionario italiano). Su Stampa Sera del 6 Novembre troviamo che il pomeriggio precedente “Esponenti del Fuori, provenienti da varie città italiane, hanno distribuito nel pomeriggio cinquemila manifestini agli abitanti di Giarre, il paese vicino a Catania, dove due omosessuali hanno scelto la morte perché al centro di impietosi commenti”. La Sicilia del 7 novembre fece un breve resoconto del dibattito –a cui presero parte un centinaio di persone tra “omosessuali provenienti da 22 diverse parti d’Italia” e curiosi, ma con l’assenza dell’Amministrazione e del Consiglio comunale– che lanciò un “messaggio per importanti politici nazionali, affinché varino subito il progetto di legge che introduce l’educazione sessuale nelle scuole”. In un articolo dal titolo: “E’ stata Giarre ad ucciderli” del Giornale del Sud del 5 novembre furono riportate le dichiarazioni di due esponenti del Fuori, Enzo Francone e Bruno Donati, che per rivendicare i diritti degli omosessuali ricondussero la vicenda in termini meno altisonanti, inquadrandola in una dimensione nazionale. “Francone: "La drammaticità del fatto è legata a quella della piccola cittadina di provincia che è in questo caso Giarre, ma potrebbe essere Cuneo, Chieti o altri centri relativamente modesti rispetto alle grandi metropoli. Se certe difficoltà, che sono poi eguali indipendentemente dal posto in cui ci si trova, creano dei problemi di vuoto, in un piccolo centro la situazione diventa terrificante. Essere coscientemente e liberamente omosessuali a Giarre è difficile poiché la pressione che avviene in un paese dove tutti si conoscono è quella di uniformarci alla normalità”. Nel corso dell’articolo leggiamo ancora: “Se un rimprovero viene fatto alla maggior parte dei partiti laici diciamo è normale - ha continuato Francone - anche se da questi certamente ci si aspetterebbe una maggiore comprensione e di conseguenza una minore grettezza, una maggiore attenzione a quelle trasformazioni sociali (come dicono ogni tanto i non laici), specie quando investono milioni di persone: ma un'accusa maggiore deve essere lanciata sempre a chi fa il portabandiera del discorso umano”. Il sindaco Cantarella il 27 novembre accolse in municipio una delegazione del Fuori dichiarando di essere disponibile a sottoscrivere la proposta avanzata dall’assemblea del 6 novembre 23 per poi, come da richiesta degli organizzatori, trasmetterla alle Autorità competenti (Giornale del Sud del 28 novembre). L’evento delittuoso, in un’epoca bigotta che non permetteva di debordare da schemi sociali ben consolidati, diede forza agli omosessuali di tutta Italia tanto che nel dicembre 1980 si arrivò alla costituzione di un primo nucleo dell’Arcigay a Palermo. A quel primo circolo ne seguirono altri in tutta Italia che nel 1985 si unirono nell’omologa associazione nazionale in occasione di una affollatissima assemblea tenuta a Bologna. Grazie alla loro opera di sensibilizzazione gli italiani, a poco a poco, presero coscienza che i diritti degli omosessuali –e delle lesbiche– dovessero essere riconosciuti e tutelati dalla legge. Le indagini degli inquirenti proseguirono accumulando sempre più indizi ritenuti stringenti: “abbiamo dettagli ed elementi sufficienti – dichiara il comandante del reparto operativo dei carabinieri magg. Pelella – per considerare del tutto chiusa la vicenda. Non possiamo rivelarli perché siamo vincolati dal segreto istruttorio. Siamo rimasti noi stessi sgomenti davanti al racconto di quello che voi avete definito un «baby killer»” (La Sicilia del 4 novembre). La Sicilia del 5 Novembre fornisce i primi dettagli. Il ragazzo fece un racconto minuzioso dei fatti e precisò di avere sparato due colpi in testa ad Agatino e poi un solo colpo al Galatola: “E’ stata questa precisa conta dei colpi esplosi a fornire ai carabinieri la “prova del nove” per risolvere il puzzle in senso a lui negativo”. Un ulteriore sopralluogo venne disposto dalle Autorità inquirenti per passare al setaccio la scena del delitto che fruttò il rinvenimento di una pallottola dell’identico calibro di quelle esplose quel tragico pomeriggio. “E’ stata chiarita così una delle macchie ancora oscure di quella complessa esecuzione” e che permise di accertare che il duplice omicidio era stato consumato 24 in quel limoneto. Contemporaneamente vennero convocati dal sostituto Procuratore della Repubblica dott. Torresi al Palazzo di Giustizia di Catania i nonni e il padre del ragazzo per essere uditi come testimoni e non come persone sospette o in stato di fermo (La Sicilia del 7 Novembre). “Alla procura della Repubblica si fanno delle osservazioni logiche: c'era stata, prima della ritrattazione, una confessione piena e dettagliata. Ed era stata raccolta oltre che dai carabinieri dal pretore di Giarre dott. Assennato. Il magistrato, competente per gli atti urgenti, ha smentito categoricamente che quella confessione del ragazzo fosse il risultato di vessazioni di qualsiasi genere. La confessione pertanto c'è ed è un atto perfettamente valido. Almeno fino a quando non sarà stato contraddetto da un altro atto giuridicamente rilevante. La successiva ritrattazione del baby-killer, invece, non essendo stata finora “formalmente” raccolta da alcun magistrato, resta un semplice episodio. E, come tale, dovrà essere sottoposto al vaglio del sostituto Procuratore della Repubblica competente nel caso in specie il sostituto dott. Foti” (La Sicilia del 12 novembre). A Catania, nel Palazzo di Giustizia, nel frattempo si aprì un giallo. Almeno così sembra dall’articolo pubblicato sul Giornale del Sud del 9 novembre. Il 31 ottobre, il giorno della scoperta dei due cadaveri, assolveva alle funzioni di magistrato di turno il dott. Foti a cui spettava, per una regola non codificata ma sempre rispettata, la competenza sull’atto criminoso. Pochi giorni dopo il dott. Foti, pur non avendo ancora letto l’incartamento “espresse una sua opinione assolutamente personale cioè da uomo e non da magistrato: vale a dire che quel ragazzino che prima aveva confessato il delitto e poi aveva ritrattato, probabilmente non aveva detto la verità, e che dunque le indagini meritavano un approfondimento per la scoperta di altre eventuali e più atroci responsabilità. 25 Il quotidiano sottolineò che la dichiarazione del dott. Foti era stata solamente un’opinione “espressa prima ancora di prendere visione dei verbali”. Quando poi il magistrato chiese il relativo fascicolo apprese che la competenza era stata assegnata ad un suo collega, il dott. Torresi: “il quale si è messo addirittura già all’opera ed ha personalmente interrogato il bambino”. Il dott. Foti ritenendo che ci fosse stato un equivoco di competenze andò a riprendersi il verbale di interrogatorio e cominciò a sua volta l’inchiesta. Alla fine il Procuratore della Repubblica dott. Scalia, ovvero il capo della Procura catanese, dichiarò a quel giornale: “A questo punto, considerata la situazione, non ho ancora deciso a chi affidare questo "caso". Forse a Torresi che, ha già svolto i primi atti urgenti. Potrei affidarlo a Foti che ha già letto l'incartamento, forse ad un terzo magistrato, o addirittura ad un collegio di giudici. Devo valutare con estrema attenzione la situazione anche per evitare qualsiasi equivoco. […]. Comunque per ora il fascicolo è sul mio tavolo. Lo detengo io e lo sto studiando io personalmente”. Il dott. Scalia avocò a sé le indagini. La Sicilia del 12 novembre rivela che “il minorenne che finora i carabinieri ritengono autore del duplice «omicidio del consenziente», sarà di nuovo interrogato. Data l'eccezionale delicatezza del caso (si tratta di ratificare una situazione certamente penosa per il fanciullo e che potrebbe pesargli per sempre nell'avvenire come un marchio infamante), il procuratore capo della Repubblica dott. Rosario Scalia ha deciso di seguire gli ulteriori sviluppi dell’inchiesta. Inchiesta che, peraltro, sta seguendo il normale iter. E che, a meno di qualche clamoroso colpo di scena (al momento non prevedibile: l'istigazione, a uccidere cui potrebbe essere stato - per esempio - sottoposto il piccolo da persona diversa dalle sue stesse due «vittime») si 26 dovrebbe esaurire tra non molto con la trasmissione di tutto l'incarto alla procura della Repubblica presso il Tribunale dei minorenni”. Il dott. Scalia dispose ulteriori interrogatori sia a Catania e sia Giarre per vagliare tutti gli elementi disponibili. Per accertarsi personalmente di ciò che era accaduto ascoltò i genitori e un fratello dei due ragazzi uccisi, i nonni e il padre del baby killer (“che ha condotto una difesa oltranzistica dell’innocenza del figlio”), interrogò anche il pastore che aveva rinvenuto i cadaveri, ma alla fine, come titola in un articolo La Sicilia del 19 novembre 1980: “Si conclude (con un nulla di fatto) la “revisione” della sconvolgente vicenda dei due “gay” uccisi dal baby killer”. L’Ora del 17 novembre, ridimenzionando la vicenda mediatica, aggiunse: “Il giallo, quindi, non c’è stato”. 27