ANO XIII - NUMERO 194
“Noi fatti di parola e di null’altro”:
Juan Rodolfo Wilcock (1919-1978) - 2
Marzo 2020
Editora Comunità
Rio de Janeiro - Brasil
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Revisore
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Grafico
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e Pescara); Beatrice Talamo (Univ.
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“Tor Vergata”); Daniele Fioretti (Univ.
Wisconsin-Madison); Elisabetta Santoro
(USP); Ernesto Livorni (Univ. WisconsinMadison); Fabio Pierangeli (Univ. di Roma
“Tor Vergata”); Giorgio De Marchis (Univ.
di Roma III); Giovanni La Rosa (Univ.
di Roma “Tor Vergata”) Lucia Wataghin
(USP); Mauricio Santana Dias (USP);
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(UFSC); Paolo Torresan (Univ. Ca’ Foscari);
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(UFBA); Wander Melo Miranda (UFMG).
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riflettono necessariamente il pensiero
della direzione.
“Noi fatti di parola e di
null’altro”: Juan Rodolfo
Wilcock (1919-1978) - 2
Come già annunciato due mesi orsono, in occasione dell’uscita del primo numero
sul tema, diamo continuità alla pubblicazione di saggi dedicati allo scrittore italo-argentino Juan Rodolfo Wilcock, frutto del bellissimo convegno a lui dedicato
dall’Università d’Annunzio di Chieti, il 5-6 dicembre scorso, con l’organizzazione di
Andrea Gialloreto e Stefano Tieri, nell’ambito del progetto internazionale “Archivi
reali e immaginari tra Italia e America Latina”. Vogliamo recuperare in questa
circostanza parole già allora usate per presentare l’opera poliedrica di un autore
tanto straordinario quanto scomodo e irriverente.
Apolide letterario, iconoclasta dei generi, reinventore del quotidiano, umorista
allucinatorio, virtuoso del concetto, deformatore grottesco, riscrittore di se stesso, satiro iperbolico, creatore di critici eteronomi, lettore eterodosso dei segni del
tempo, Wilcock si trasferisce definitivamente in Italia cominciando a scrivere in
italiano e entrando a far parte a tutti gli effetti della storia letteraria del belpaese,
alla fine degli anni Cinquanta, con una serie già considerevole di opere scritte o
pubblicate in spagnolo, che vanno dalla poesia, alla prosa, al teatro. Costruendo
un collage di citazioni tratte dai saggi di questi due numeri, si può affermare che
«accanto al “trasloco reale di casa, lingua, cultura” (che però significherà per lui,
in perfetta coerenza con l’immagine di sé che ci ha lasciato, muoversi all’insegna
della sinergia, della contaminazione, dell’osmosi, pur dentro una visione se non
propriamente polemica, naturalmente anticonformistica) agisce in Wilcock un’altra e più intima specie di trasloco, che coinvolge la sua letteratura dall’interno:
quella della transazione, all’insegna di un’intertestualità endogena, che trascorre
lungo i diversi livelli dell’autocitazione e della riscrittura vera e propria». E nella
grande opera creativa che viene così a costituirsi l’autore giunge a toccare «tutte le corde di uno strumento espressivo tanto personale quanto evocativo delle
“dissonanze” epocali di cui il Novecento si è fregiato: dall’invettiva al grottesco,
dal fantastico all’assurdo, dal macabro allo gnomico, dal lirismo agli algori della
matematica e della filosofia del linguaggio».
In questo secondo numero dedicato a Wilcock l’accento è posto, più specificamente, sulla sua attività di critico e recensore, sul particolare rapporto con macchine e dispositivi secondo quanto si evince da alcune sue pagine narrative e sul
suo personale laboratorio poetico a cavallo tra due (e più) culture.
In chiusura, una metodologia di studio del tutto originale sulla figura di uno scienziato, naturalista e botanico, Domenico Agostino Vandelli, che sarebbe senz’altro piaciuto allo stesso Wilcock, per un duplice motivo: in primo luogo perché
ne segue lo stesso cammino seppur inverso, nato cioè in Italia e poi trasferitosi
all’estero – in questo caso il Portogallo, acquisendo a tutti gli effetti cittadinanza
culturale in ambito luso-brasiliano; in secondo luogo perché potrebbe anche lui
annoverarsi – giocando per un attimo tra realtà e finzione – tra le famose gallerie
wilcockiane di scienziati e inventori.
SI RINGRAZIANO
“Tutte le istituzioni e i collaboratori
che hanno contribuito in qualche modo
all’elaborazione del presente numero”
STAMPATORE
Editora Comunità Ltda.
ISSN 2175-9537
2
Buona lettura!
Gli editori
Indice
I segni del tempo: frammenti di un discorso (in)civile
Seguito da: Tre articoli da «La Voce Repubblicana» di Juan Rodolfo Wilcock
Andrea Gialloreto
pag. 04
Le inquisizioni del Wilcock critico
Luciana Pasquini
pag. 11
Narrativa e dispositivo in Juan Rodolfo Wilcock
Kelvin Falcão Klein
pag. 15
“Chi non ha nome non può morire”: intorno alla poesia di Wilcock
Patricia Peterle
pag. 22
Domenico Vandelli in storie a fumetti. Un nuovo approccio metodologico nello studio della
scienza moderna
Ricardo Dalla Costa
pag. 32
Rubrica
Chi ruba il merito
Francesco Alberoni
pag. 38
PASSATEMPO
pag. 39
3
I segni del tempo:
frammenti di un
discorso (in)civile
Andrea Gialloreto
Nell’opera creativa, Wilcock ha
toccato tutte le corde di uno stru
mento espressivo tanto personale
quanto evocativo delle “dissonan
ze” epocali di cui il Novecento si
è fregiato: dall’invettiva al grotte
sco, dal fantastico all’assurdo, dal
macabro allo gnomico, dal lirismo
agli algori della matematica e della
filosofia del linguaggio, la scrittu
ra dell’argentino rappresenta un
costante sforzo di traduzione: del
pensiero in immagine, dell’ossatu
ra logica di una lingua nella struttu
ra naturale di un’altra, dell’informe
nelle inesauribili potenzialità del
linguaggio. Nelle centinaia di arti
coli dispersi, invece, al caleidosco
pio di motivi e suggerimenti che
ciò che comunemente appelliamo
realtà offriva allo scrittore si presta
un solo registro, riassumibile nel
didascalismo venato di ironia e di
quel leggero velo di compatimen
to mediante il quale l’intelligenza
osserva la stupidità in atto e ne
trae la lezione amara del parados
so e del non-sense. Erano queste le
componenti di una conversazione
che catturava gli interlocutori no
nostante in apparenza li lasciasse
4
fuori dal terreno della contesa tra
di dimessa contemplazione delle
re» univocamente i segni del tem-
lo scrittore i suoi demoni. I distillati
rovine della civiltà occidentale
po; l’uomo è afflitto da congenita
dell’esperienza e di un disincanta
quanto più rispondenti alla con
cecità quando pronostica su se
to esercizio della ragione raggiun
dizione di una società marginale
stesso: «Non è concessa all’uomo
gevano livelli di concentrazione
e subalterna quale quella della
la visione storica del presente, allo
inconsueti nell’Italia postbellica
provincia Italiana o, per dir me
stesso modo che al pesce fermo
quando Juan Rodolfo intratteneva
glio, della babelica Città Eterna
nelle acque dei Caraibi non è con
gli amici «monologando con uno
(osservatorio privilegiato perché
cesso di sapere dove va la corrente
stile che sapeva di distacco e di ele
i fenomeni generali di degrado
del Golfo; neanche di conoscerne
ganza, in obbedienza ad un cervel
e “spettralità” vi si manifestano
l’esistenza. La critica profetica ha
lo lucido e controllato» .
con maggiore virulenza facendo
valore soltanto nella misura in cui
La rubrica I segni del tempo,
ne lo «specchio tremendo dell’in
essa riesce ad avverarsi. Non ap
che lo scrittore ha curato per «La
conscia ideologia romana; perché
pena avverata la profezia, essa
Voce Repubblicana» dal secondo
non è ancora il caso, spero, di
diventa cosa del passato, curiosità
semestre del 1966 al 1972, racco
chiamarla italiana»).
fanciullesca, gioco riuscito, né più
1
glie numerosi articoli il cui taglio
L’impietoso esame dei prodot
peculiare sarebbe difficile racchiu
ti culturali di consumo – paralet
dere in una formula: recensioni,
teratura, cinema di genere, gior
L’obliquità prospettica dello
elzeviri, pagine corsare, saggi di
nalismo di cronaca – e delle idées
sguardo e l’eredità del “dispatrio”
divulgazione scientifica, satire di
reçues che, quando se ne appropria
da altre latitudini salvaguardano
costume, microracconti non dissi
la Ragion di Stato come negli anni
l’argentino dall’assumere su di sé i
mili da quelli della Sinagoga degli
dell’affaire Lysenko, rischiano di es
complessi della tortuosa psicologia
iconoclasti e dello Stereoscopio
sere elevate a dogma inconfutabi
nazionale e le linee di fuga del pen
dei solitari, tutti questi modelli
le, costituisce la pietra di paragone
siero proprie degli indigeni: quegli
convivono nella tensione al disve
del giudizio su un intero assetto
allegri indiani/italiani che, secondo
lamento del luogo comune, nel
sociale e sul futuro delle nazioni.
la logica della dislocazione paro
falò delle maschere e delle vanità
La vocazione profetica – appan
dica comune anche agli etruschi/
culturali, che sembrano impronta
naggio di ciarlatani, demagoghi e
neri dell’altro romanzo, popolano
re il discorso di Wilcock sui mimi-
utopisti – cede tuttavia il passo in
incongruamente una terra di fanta
ma moralia della contemporanei
Wilcock alla consapevolezza della
smi catodici, sedimentazione di ro
tà, tanto più ricondotti a un piano
difficoltà di interpretare, di «legge
vine di civiltà estinte delle quali per
né meno interessante di quello
non riuscito».
1 Gian Antonio Cibotto, Il principe stanco, Vicenza, Neri Pozza, 2002, p. 178.
5
mane solo una vaga connotazione
6
dal Countdown apocalittico).
mente truce “norma” borghese
rustica e “italica”. La lente della
Così, un contributo originale del
quando a quei valori tradizionali
deformazione, che lo scrittore ha
genio italiano quale lo spaghetti
si sostituisce il culto esclusivo del
magistralmente applicato nei suoi
western si eleva dal novero delle
denaro. Il paragone ironico con i
testi creativi, è abbinata negli scritti
realizzazioni minori destinate al
portati dell’avanguardia rispetto
giornalistici a quella d’ingrandimen
mercato (sub)culturale nel mo
al concetto novecentesco di «di
to, che accentua il carattere emble
mento in cui lo scrittore vi co
sumanizzazione
matico e significante degli oggetti
glie con sagacia i precoci segnali
fa che rafforzare il senso di futile
“culturali” (sovente ricondotti al
dell’imbarbarimento di un Paese
gratuità che emana da questa sa
rango di «materiali mitologici» o di
che cadrà di lì a pochi anni nelle
dica espressione di svago popo
barthesiani «miti moderni») appa
spire della violenza e del terrori
lare: «Sorta sotto il segno dell’a
rentemente destituiti di qualsiasi
smo. Alcuni elementi anomali –
narchia, segue inconsciamente,
valenza epistemologica che non
d’«avanguardia» precisa Wilcock
goffamente, i più truci precetti del
sia quella derivante da una blanda
– rispetto allo stadio della mora
teatro della crudeltà. Rifiuta qual
applicazione di strumenti sociolo
le corrente (il western all’italiana
siasi forma di sentimentalismo, e
gici e statistici (l’universo delle ana
infatti «si fa beffe della famiglia,
ciò la fa diversa da tutte le altre
lisi di Wilcock è gremito di numeri:
della religione, dell’onore, della
produzioni spettacolari di diverti
statistiche accanto alle cabale, dati
morale, della legge e del carattere
mento per le masse. Annuncia un
scientifici e bislacche elucubrazioni
tradizionalmente sacro del corpo
mondo e un tempo da e di sciacal
in veste di arcani, giochi matemati
umano») vengono rapidamente
li, di torture e di eccidi lungamen
colinguistici e danze di cifre sortite
riportati nell’alveo della egual
te covati, protratti e desiderati»; è
dell’arte»
non
significativo che a queste conclu
alla debolezza dei poeti italiani
di una possibile ripresa, della
sioni giunga un autore “crudele”
(da sempre la poesia rappresen
riedificazione dalle macerie di
come Wilcock, capace nei racconti
ta il punto di ricaduta ideale di
una nuova lingua, basica e meno
di Parsifal di inscenare un’efferata
una letteratura), al loro minima
complessa, come tutte le forme
teoria di violenze e brutalità per
lismo “crepuscolare”, la mancan
embrionali, ma foriera di rinno
demitizzare l’epica eroica denu
za di vigore della narrativa, che
vati equilibri tra i due estremi
dando il sostrato di violenza ar
avrebbe invece potuto attingere
della parola e del silenzio, germe
caica e di pulsionalità brada insito
all’energia dei grandi maledetti,
wittgensteiniano di verità e di ri
nelle favole di identità su cui l’uo
se gli uomini di questa tempra
gore: «Questa carenza di novità,
mo occidentale ha scommesso
non fossero estranei agli ambiti
altrimenti chiamata decadenza
per istoriare la narrazione di sé e
della cultura borghese («nessun
o stasi del pensiero, potrebbe
del proprio spazio (a)sociale.
grande maledetto. Maledetti ce
essere simbolo di qualcosa di
n’erano in Italia, sì; ma erano tut
più ampio, per esempio della
ti analfabeti»).
tra sformazione che è accaduta
L’articolo La materia della noia
è una riflessione sulla mancanza
in Italia di una vera «cultura del
Quella stessa assenza di ori
o sta accadendo nella società
romanzo»: laddove venga meno
ginalità che è per i romanzi un
mondiale. Come se dovesse se
l’influenza dei modelli francesi e
grave difetto, costituisce in fi
gnare la fine di un’epoca; ciò che
inglesi, la produzione italiana dei
losofia un possibile rimedio, at
nel male o nel bene impliche
romanzi da premio letterario si
traverso il ritorno alla tradizione
rebbe l’inizio di un’altra. Come
attesta sui livelli modesti del ri
del “già pensato” e delle verità
se ci fosse stato un mutamento
piegamento elegiacomemoriale,
eterne, alla Carestia di pensato-
quasi totale del linguaggio, e ora
delle cronache di vita di provin
ri ravvisabile nel nostro tempo.
i pensatori stessero studiando il
cia, del sentimentalismo dissol
Dalla pars destruens di un ragio
nuovo linguaggio, il quale forse
to in paesaggi convenzionali e
namento implacabile e serrato
non è stato ancora creato; un
trame noiose. Wilcock, con un
sulla crisi di civiltà dell’era posta
linguaggio più basso, come ogni
eccesso di ingenerosità, imputa
tomica Wilcock ricava l’annuncio
lingua nuova».
7
Tre articoli da «La Voce Repubblicana»
Un nostro contributo originale
Proprio quando mi accingevo, per rendere forse più luttuose le allegre pagine della «Voce», a registrare alcune rifles
sioni suggeritemi da uno dei più genuini, dei più notevoli fenomeni della vita intellettuale italiana di oggi, cioè il western
italiano, accerto, col piacere che sempre procura una compagnia amica e congeniale, che Alberto Moravia ha fatto la
stessa cosa che intendevo fare pubblicando sull’«Espresso» un breve saggio ispirato da questo non più puerile argomento.
Si capisce che la stravaganza della stagione cinematografica ci ha spinti o costretti a vedere ciò che altrimenti forse non
avremmo visto di buon grado. Un’esperienza non sempre ripetibile, ma istruttiva e per certi versi sbalorditiva.
Nel mio caso si trattava di un prodotto buio e tetro intitolato Un dollaro tra i denti. Infatti, verso la fine del film, l’eroe
del medesimo inserisce un dollaro tra i denti del nemico ucciso, e mi sono domandato, retoricamente, quanti fossero tra
gli spettatori a sapere che questo gesto millenario rappresentava in realtà l’obolo con cui l’anima del morto avrebbe poi
pagato il tragitto stigio a Caronte. Forse nessuno; ma ciò non interessa, e certamente non c’erano nel film in questione
altri gesti difficili da interpretare: sembrava essere tutto fatto di lunghi silenzi, soltanto interrotti da calci in bocca, sevizie,
uccisioni e furti. Non sul piano però dell’azione, come nei film avventurosi degli altri decenni: sul piano soltanto dell’odio,
dell’astuzia e della malvagità fine a se stesse.
Osserva giustamente Moravia: «Il western italiano, prodotto dalla mitologizzazione di quello americano, è molto di
verso dal suo modello. Il western americano era basato sulla lotta tra il bene, rappresentato dai pionieri o da un solitario
cavaliere raddrizzatore di torti, e il male, rappresentato sia dai banditi, sia dagli indiani. Il bene alla fine trionfava; e l’eroina
virtuosa e valorosa era il premio del trionfatore. Il western americano, insomma, aveva un carattere edificante e rispecchia
va, seppure remotamente, esperienze storiche reali del popolo americano. Nel western italiano, niente di tutto questo.
L’ultima esperienza storica italiana è stata il machiavellismo; e infatti nel western italiano non c’è lotta tra bene e male; ma
tra stupidità e ingegno, tra ingenuità e astuzia. Prevalgono l’ingegno, l’astuzia, naturalmente, ma in modo vuoto e melan
conico, come qualità che si sanno ormai anacronistiche».
Ora quest’assenza di carattere edificante (un suggerimento edificante c’è sempre, ma abbastanza infernale: che in questo mon
do solo importa il denaro, anzi l’oro, qui chiamato «dollari» e che la sola via per raggiungerlo è il rifiuto di qualsiasi regola morale)
fa di queste operine specchio tremendo dell’inconscia ideologia romana; perché non è ancora il caso, spero, di chiamarla italiana.
Le donne, nel film di cui parlo, non vengono mai guardate, soltanto malmenate, e alla fine il giovane protagonista
della vicenda se ne va, non con l’unica ragazza rimasta in vita, bensì con un sacco contenente cinquantamila dollari d’oro.
Quest’oro apparteneva al governo (degli Stati Uniti): il pubblico approva, si identifica.
Peraltro, tutti i personaggi del film sono sporchi, straccioni, ladri, crudeli, subumani; l’unico prete che osa farsi vedere
viene annegato in una vasca di acqua come una gallina; l’unico bambino, si salva per caso di venire sgozzato, il protago
nista, un vero accattone dall’aspetto, è a lungo picchiato, calpestato, frustato, preso a randellate e a calci sul naso o sul
basso ventre, mitragliato (senza successo); ma in compenso riesce a uccidere (trascinandosi, perché ormai ha le braccia e
le costole rotte) per lo meno venticinque nemici diversi: a mano a mano che li va uccidendo, riprende l’uso degli arti rotti.
Un’operina così fatta, che indirettamente si fa beffe della famiglia, della religione, dell’onore, della morale, della legge e
del carattere tradizionalmente sacro del corpo umano, per proporre invece la sola morale suddetta: «anzitutto il denaro»,
è fondamentalmente un’opera di estrema avanguardia, contemporanea più di molti esperimenti pensati e ripensati.
Sorta sotto il segno dell’anarchia, segue inconsciamente, goffamente, i più truci precetti del teatro della crudeltà. Ri
fiuta qualsiasi forma di sentimentalismo, e ciò la fa diversa da tutte le altre produzioni spettacolari di divertimento per le
masse. Annuncia un mondo e un tempo da e di sciacalli, di torture e di eccidi lungamente covati, protratti e desiderati.
Moravia nel suo breve saggio afferma di credere che il genere stia per morire; ma sarebbe certo ottimistico supporre
che con esso possa scomparire la mentalità profondamente criminale, o in ogni caso contraria all’establishment, che l’ha
creato o per la quale è stato creato.
[I segni del tempo, in «La Voce Repubblicana», 78 settembre 1967]
8
La materia della noia
Ho visto con piacere che il romanzo di Matthew Shiel, La nube purpurea, già presentato e ripetutamente preannunciato
in questa stessa rubrica, diversi mesi fa, ha trovato a quanto pare l’approvazione unanime della critica italiana; e conse
guentemente, o forse soltanto contemporaneamente, ma in maniera notevole, il favore del pubblico. Al di là dei valori
intrinsechi [sic] dell’opera stessa, ciò mi ha fatto riflettere sui motivi generici di un tale successo; un successo che qualche
decennio fa (e il libro in questione ha l’età del secolo) sarebbe sembrato quasi impossibile. E il motivo principale mi pare
sia questo: che il pubblico è assetato di romanzi, di veri romanzi.
Assetato di romanzi interessanti, avvincenti: non convenzionali, densi, imprevedibili. Molto si vendono quelli insigniti
dai vari premi: Strega, Viareggio, Campiello, eccetera; ma, e non dico a lettura finita, bensì fin dall’inizio stesso, il lettore
di tali opere, sia pur dignitose e scritte bene, penetra nel mondo della noia, della materia nota della noia, e se mai riesce a
farsi in qualche modo strada tra quelle nebbie, lo fa soltanto perché si tratta di una noia alquanto diversa dalla sua propria.
Non vi aspettate, o lettori!, che un romanzo premiato in Italia cominci così: «Siccome mio zio aveva preso tante e così
efficaci misure per impedire che i suoi figli lo uccidessero, questi mi chiesero con familiare insistenza che mi occupassi io
della faccenda; anche perché tutti in paese erano rimasti favorevolmente impressionati dall’eleganza e dalla semplicità
con cui ero riuscito a disfarmi della mia fidanzata diciannovenne, annegata in un serbatoio di cherosene col bambino che
per mia effimera gioia portava in grembo…». Oh, no! Apriteli quei romanzi, leggete la pagina iniziale, e vedrete: che il pri
mo narra delle ombre di Milano alle sette del mattino, l’altro dei riflessi viola sul Tirreno al tramonto, il terzo delle cicale che
a mezzogiorno assordano la vecchia pergola nei pressi di Corigliano Calabro… Accanto a questi inizi di romanzo, quelli del
Verga (l’incendio di Mastro Don Gesualdo, per esempio) sono moderni almeno quanto James Bond o Diabolik.
Quello che per i loro autori è stata la principale preoccupazione dell’adolescenza, cioè la ricerca del salame da inserire tra
le due fette di pane tagliate dal babbo e distribuite dalla mamma, rimane in qualche modo la principale preoccupazione della
maturità. Con lo stesso salame, compatto benché trasfigurato, riempiranno i loro romanzi, e il risultato è quello che si vede.
Una delle cause di questa caparbia melensaggine rimane il fatto che l’Italia, nel Novecento, non ha avuto dei veri poeti
(non sono stati forse finora i poeti a dare il tono a una letteratura?), bensì dei piccoli poeti crepuscolari, addetti alle minuzie
casalinghe: nessun grande maledetto. Maledetti ce n’erano in Italia, sì; ma erano tutti analfabeti.
Un’altra delle cause è che dalla Francia, che fu in altri tempi la sola possibile maestra, da molti anni non arrivano romanzi inte
ressanti. Quanto ai romanzi anglosassoni, tradotti, o sono dei miraggi di romanzo (come quelli di Saul Bellow, di Mary Mac Carthy),
oppure presuppongono una «cultura del romanzo» così solida e conglomerata da sembrare su queste sponde impossibile.
E non parliamo di genialità, come quella che si svolge nell’arco che va da Genet alla ComptonBurnett; perché la genia
lità non propone, non può proporre modelli (che hanno imparato, e chi, da Italo Svevo?). Parlo soltanto di regolare ammi
nistrazione del romanzo; al livello, per fare un esempio, del riuscitissimo Tono-Bungay di H. G. Wells. Non per nulla il solo
romanzo «romanzo» degli ultimi anni rimane il recentemente ristampato Fratelli d’Italia di Arbasino, conoscitore isolato
della tradizione inglese.
Tra queste cause non credo invece che si debba dar gran peso, ormai, alla pur notevole stupidità di molti tra i consulenti
delle case editrici. Può dirsi infatti che oggi gli editori pubblicano tutto, in ogni caso tutto quello che capita tra le mani. Sarà
poi il lettore a definire e a conformare il mercato; guidato, malamente, dai critici letterari. I quali fanno, non senza onestà,
il loro mestiere: con la stessa onestà con cui un sarto di paese taglia per i suoi clienti, onestissimamente, quei vestiti impre
sentabili che contraddistinguono la piccola borghesia di provincia.
Quel che precede sembra presupporre, comunque, una possibilità che a prima vista rimane tuttora da dimostrare: che
si possano scrivere dei romanzi interessanti, non a forza di genio né di talento, ma per il solo fatto di essere l’autore inse
rito in una «cultura» adatta al romanzo. Credo che basterebbero a dimostrare questa possibilità Ray Bradbury o Lovecraft
negli Stati Uniti, Simenon in Francia. Arthur Machen o Eden Phillpotts in Inghilterra. Perfino un Fleming, pessimo scrittore,
creatore di un personaggio sciocco e ottuso ma a suo modo vivace, l’agente James Bond, sembra in Italia impensabile.
Qui, si direbbe, una persona che scrive mediocremente, non può fare, per mancanza di immaginazione, oltre che di tutto
quel che si è detto, di quella che ho chiamato la «cultura del romanzo», altro che riscrivere e riscrivere le suaccennate ombre
di Milano alle sette del mattino, i riflessi viola sul Tirreno al tramonto, le cicale che a mezzogiorno assordano la vecchia per
gola nei pressi di Corigliano calabro. Oppure qualcosa di più intransitabile ancora: un romanzo volutamente d’avanguardia.
[I segni del tempo, in «La Voce Repubblicana», 1415 settembre 1967]
9
Carestia di pensatori
Viaggiatori dell’Ottocento scoprirono che certi cani abbandonati dai bucanieri nelle isole Galapagos si erano riprodotti,
erano diventati selvatici, e infine avevano perso la capacità di latrare. Riportati alcuni di questi cani in Europa, e messi in
contatto con altre bestie della loro specie, si vide tuttavia che dopo pochi mesi essi imparavano ad abbaiare. Lo stesso
potrebbe accadere, se il caso vuole, ai pensatori. La loro filosofia era sublimazione del pensiero popolare, dunque aveva
radici, come d’altronde l’avevano la poesia e la musica; queste radici vennero tagliate il giorno in cui l’espressione «pen
siero popolare» perse il suo senso, divenne slogan politico o industriale, imposizione dall’alto, da un ceto culturale che per
quanto basso non nutre la speranza di diventare popolo, bensì burocrazia dominante.
Qualche radice rimase, è vero, alla filosofia; ma erano soltanto quelle radici parassitiche che traevano il loro succo dalla
filosofia del passato. Difficile far vivere l’albero in queste condizioni; d’altra parte, le piante parassitiche sono quasi sempre
piccole. L’avvenire della specie umana sembra ormai rinchiuso tra due alte muraglie: da un canto le mura della distruzione
in massa, dall’altro quelle sempre più incombenti della sovrappopolazione; il futuro è in stato di assedio. Noi che nel tem
po abitiamo, o abbiamo l’impressione di abitare, tra questi due astratti, il passato e l’avvenire, dobbiamo trovare a tutto
soluzioni provvisorie. Il pensiero tranquillamente pago di se stesso presuppone la possibilità di soffermarsi, nell’attesa di
un avvenire; dove non c’è avvenire non ci si può soffermare. Bisognerebbe che quelle muraglie venissero infrante, perché
lo sguardo possa di nuovo spaziare liberamente.
Non risulta che, dal secondo o dal terzo millennio prima di Cristo fino ad oggi, né il cervello né gli altri organi dell’uomo
siano percettibilmente mutati. Eppure, perfino agli occhi di un umanista o di uno scienziato mediocremente esigente, il pano
rama intellettuale mondiale si presenta oggi come un monotono deserto, che avvolge il pianeta nella sua nudità lunare, con
qua e là qualche cespuglio isolato ancora verde, molto lontano l’uno dall’altro. Davanti a un simile spettacolo, l’osservatore
sereno sorride e si domanda: a questo vasto vuoto tendeva dunque una così diligente preparazione? Gli ultimi capitoli della
storia del pensiero apparivano sempre più gremiti di nomi illustri: che quello finale dovesse invece dimostrarsi vuoto, non era
previsto nei libri sibillini dei romantici progressivi. Ciò che dimostra ancora una volta quanto siano incompatibili l’induzione e
la storia.
Questa carenza di novità, altrimenti chiamata decadenza o stasi del pensiero, potrebbe essere simbolo di qualcosa di
più ampio, per esempio della trasformazione che è accaduta o sta accadendo nella società mondiale. Come se dovesse
segnare la fine di un’epoca; ciò che nel male o nel bene implicherebbe l’inizio di un’altra. Come se ci fosse stato un mu
tamento quasi totale del linguaggio, e ora i pensatori stessero studiando il nuovo linguaggio, i1 quale forse non è stato
ancora creato; un linguaggio più basso, come ogni lingua nuova.
Non è concessa all’uomo la visione storica del presente, allo stesso modo che al pesce fermo nelle acque dei Caraibi
non è concesso di sapere dove va la corrente del Golfo; neanche di conoscerne l’esistenza. La critica profetica ha valore
soltanto nella misura in cui essa riesce ad avverarsi. Non appena avverata la profezia, essa diventa cosa del passato, curio
sità fanciullesca, gioco riuscito, né più né meno interessante di quello non riuscito.
Il fatto è che ogni scritto avveniristico è in sé privo di valore storico; possiede semmai un valore personale, come
espressione di un desiderio; più spesso come espressione del desiderio di contrastare il desiderio altrui.
Perciò, anche se è possibile, perfino ineluttabile, riconoscere che i pensatori seri e importanti sono ormai scarsissimi
– quasi tutti d’altronde sì occupano di fisica o di cosmologia – non è lecito invece, per quanto ciò possa sembrare attra
ente – visto che l’uomo è cosi naturalmente portato a prediligere cataclismi, disastri e stragi – dedurre da questa scarsità
l’imminenza di una definitiva carestia, epidemia o moria di cervelli pensanti (i cervelli pensanti ci sono, solo che non sanno
più che cosa pensare). Sarebbe come predire un terremoto per dopodomani nell’isola di Madagascar. La terra è viva, e si
muove, ma poiché non ne sappiamo il perché, non ne sappiamo nemmeno il come né il quando.
E c’è chi afferma: benvenuta quella muraglia che ci impedisce ogni visione del futuro, ogni pensiero rivolto all’avvenire.
Forse tutto ciò che importa sapere, è stato già detto, e probabilmente anche scritto. Non è vana dunque questa smania
di pensieri nuovi? Come se dovessero essere nuovi, per essere interessanti, per essere illuminanti.
[I segni del tempo, in «La Voce Repubblicana», 2324 ottobre 1967]
10
Le inquisizioni del
Wilcock critico
Luciana Pasquini
Questo intervento prende le mosse da un’asso
ciazione di idee che avvicina Wilcock ad un ante
cedente settecentesco di fustigatore della coeva
società letteraria e delle modalità stesse del fare
letteratura, ad un personaggio cardinale di quella
vivace temperie riformista che va sotto il nome di
Giuseppe Baretti1, meglio conosciuto con lo pseu
donimo di Aristarco Scannabue, intellettuale che
notoriamente fondò, all’uopo, ovvero per sferzare
il malcostume che a suo avviso si andava coagulan
do intorno al “fatto letterario”, una testata appo
sita dal noto titolo “persecutorio”2.
I toni punitivi e l’acredine del piglio, che di fatto
mai subiscono flessioni nel corso dell’atto critico
barettiano, la famigerata proposizione di «mena
re la frusta addosso a tutti questi moderni goffi e
sciagurati, che vanno tutto dì scarabocchiando»
sovvengono in acuminata percezione analogica
nel corso della lettura del Reato di scrivere3: il li
bello del 2009, compilato per Adelphi da Edoardo
Camurri che (assumendosi l’onere di recuperare
nell’ottica esclusiva dell’identità tematica elzeviri
che Wilcock aveva dispensato, tra gli anni Sessanta
e Settanta, su due testate giornalistiche di rilievo,
il «Mondo» e la «Voce Repubblicana») di fatto re
stituisce le tessere di un profilo musivo ben deline
ato dell’impetuoso scrittore nella veste peculiare
di esegeta del fenomeno letterario coevo, inteso
a tutto tondo, nei risvolti mediatici, sociali ed etici.
Data quindi l’occasione e leggendo il Wilcock
articolista imponendosi un’attenzione di marca
meramente sinottica, si ha l’impressione che egli di
prassi si disponga a giudicare ponendosi in modo
1 Giuseppe Baretti (Torino, 1719- Londra, 1789), intellettuale e critico di alta caratura e di respiro europeo si erse a metaforico fustigatore degli scrittori (del passato e a lui contem
poranei) che non stimava ritenendoli responsabili dell’andamento deludente della produzione poetica italiana, impastoiata in un classicismo polveroso e retrivo, chiuso agli stimoli
provenienti da Oltralpe.
2 Il giornale da lui fondato era <<La frusta letteraria>> (1763 1765).
3 J. R. Wilcock, Il reato di scrivere, a cura di E. Camurri, Adelphi, Milano, 2009.
11
codifica di quelle che costituiscono
per Wilcock le perverse modalità
dei suoi meccanismi di affermazio
ne. Da questo tritacarne, sembra
concludere, non v’è modo di usci
re, se non sulle ali dell’ironia, caval
cando il pensiero che «l’ingiustizia
è la giusta punizione di chi si offre
al giudizio dei suoi inferiori»5.
“pregiudiziale” rispetto ad un li
bro, ad un autore, ad un evento
culturale. Ne scaturisce un’attitu
dine critica dura, severa, talvolta
anche ingiusta e animata da evi
dente sentimento inquisitorio se
non di antipatia verso lo scrittore o
la tematica prescelti, con lo scopo,
malcelato, di sminuire l’oggetto
dell’attenzione esegetica.
Un atteggiamento negativo,
dunque, che corrisponde eviden
temente a una insoddisfazione di
fondo, non filtrata, nei confronti
del mondo della cultura (il così de
finito “serraglio letterario”) ma an
che, evidentemente, del mondo in
genere. Si tratta di quella dispositio
animi che è stata definita, opportu
namente, la devozione alla «sprez
zatura»4 nell’intento di connotarne
la scrittura pungente e venefica. Il
volumetto dal titolo accattivante,
Il reato di scrivere è infatti, nella sua
costruzione, interamente dedicato
all’ambiente della lettere, indaga
to da un angolo visuale interno e
orientato prevalentemente alla de
La forte denuncia dello scritto
re, che ha innegabilmente un fon
do di verità, finisce per scatenare
però sentimenti di solidarietà tra i
colpiti dagli aspri strali, favorendo
il prevalere dell’omertà spacciata
per buon gusto6.
È certamente questo arrocca
mento su posizioni estreme che
ha fatto di Wilcock un solitario, un
non affiliato alle cordate che conta
no. Ma l’esclusione (se non l’emar
ginazione vera e propria con il suo
portato di alienazione) diviene poi
il prezzo da pagare per chi osi so
stenere la verità ad ogni costo.
Molto spesso, per dare sfogo
al suo risentimento di osservatore
deluso e arrabbiato, egli dà luogo
ad uno stile vorticoso, ove finisce
talvolta per perdere di vista l’argo
mento in cui si intrattiene, ceden
do a divagazioni, aprendo rivoli
intellettualistici che si sovrappon
gono fino ad alimentare una scrit
tura complessa e qualche volta
persino caotica, dato il parossismo
delle ragioni che si avvicendano, li
vide, le une alle altre, in una ridda
labirintica di riferimenti logici non
supportati però da antecedenti ai
quali il lettore possa appigliarsi.
Nel capitolo Lingua e morale7 è
ricompreso un esempio significa
tivo della falsificazione in atto nel
costume e nel modo tenuto dagli
intellettuali nell’uso del linguaggio:
se uno scienziato vero («non quelli
4 E. Camurri, Necessità della sprezzatura, in J. R. Wilcock, Il reato di scrivere, pp. 7788.
5 J. R. Wilcock, Sul reato di scrivere, in Id., Il reato di scrivere, p. 13.
6 Ibidem.
7 In J. R. Wilcock, Il reato di scrivere, pp. 2328.
12
che praticano la sociologiapropa
ganda o la psicanalisi») è portato
per status mentale e morale alla
concretezza e alla correttezza, un
esponente dell’ambiente umanisti
co tuona l’”inquisitore” sarà ten
tato dalla dissimulazione disonesta
ed utilizzerà il “codice” a suo uso
e consumo, in maniera intellettual
mente scorretta e finalizzata alla
mistificazione.
Ma è proprio in un atteggiamen
to scrupolosamente dettagliante e
inquisitorio, chiuso nei confronti
di un approccio più liquido verso
la realtà e i suoi aspetti psicologi
ci, che forse Wilcock inciampa, in
qualità di detentore di un profilo
di personalità nonevoluto, di cui
cioè non sembra avere realmente
coscienza, e che patisce quindi in
consapevolmente.
Portatore di una cosiddetta
“ferita narcisistica” (provenutagli
dall’intrinseca estraneità al pae
se nel quale si è apparentemente
naturalizzato, di un’estraneità so
stanziale, esorcizzata solamente
nelle dinamiche di superficie ma
che gli rimane addosso, evidente
mente, a livello subcosciente, per il
suo essere provenuto da un mon
do “altro”) Wilcock rivendica fuori
dai denti una genuinità ancestrale,
un imprinting morale tipico di stir
pi antiche, mansuete, violate, che
l’atto della scrittura, il più subdolo
delle spie emotive, rivela in tutta la
sua ingestibile lacerazione.
Infatti in Wilcock il ductus è
carico, pieno zeppo di “scarti” si
gnificativi, per dirla con i termini
della stilistica spitzeriana, ovvero
di quelle “violazioni individuali”
dello standard linguisticoespressi
vo che quanto più sono numerose
ed incisive, tanto più marcano l’al
lontanamento dello stato psichico
dell’autore nella direzione di una
diatesi inconsueta, di una condizio
ne spirituale difforme.
Il profilo enneatipico di Wilcock
(volendo servirsi di un ricorso sec
co a categorie della psicologia8),
ovvero il carattere del cosiddetto
EremitaOsservatore, è animato dal
distacco e dal complesso di supe
riorità legato ad un’attitudine co
noscitiva di matrice esclusivamente
cerebrale, contraddistinto dalla ten
denza a trattenere e a chiudersi di
fensivamente in un mondo interio
re. Dati i tratti di spiccata diffidenza,
tende a compensare l’impaccio re
lazionale con la costruzione di un
mondo fantasticoideale entro i cui
margini spesso si rifugia. E’ dotato
per questo di straordinarie capaci
tà intellettuali ma trova difficoltà
nell’affrontare gli aspetti pragma
tici dell’esistenza, in un disperato
tentativo di non dipendere, colti
vando una dimensione tendenzial
mente autonoma e onnipotente,
soffocato e minacciato da richieste
di reciprocità che, a qualunque livel
lo, teme di non poter soddisfare.
Sottoposto quindi a profilazione
psicologica, secondo metodi affatto
estranei all’approccio di certa critica
letteraria volta all’uso della psicana
lisi, spesso utile ai fini dell’esegesi a
tutto tondo di un “caso letterario”,
molto di Wilcock emerge con mag
giore chiarezza di senso: la vis po
lemica, la rabbia, l’atteggiamento
di dietrologia costante nel vedere il
male dappertutto, l’esito dell’emar
ginazione intellettuale, la scelta di
una dimora provinciale a discapito
della dilatata dimensione dell’Urbe,
nonché la collocazione presso un
editore di “cammei” come Adelphi,
più lontano rispetto ad altri dalla lo
gica industriale: il suo essere fuori
dal coro, insomma, si delinea come
il portato di una personalità segnata
da un vissuto incisivo, dal patimen
to di un’estraneità “per atto di na
scita” rispetto al luogo di elezione
dentro cui il processo di naturalizza
zione, seppur intervenuto, ha subito
un difetto di funzionamento, non ri
levato ma determinante.
Di fronte allo squallore dell’ar
rivismo contemporaneo, all’avidità
di successo da ottenere ad ogni co
sto, l’autore compie però un salto
da gigante, si eleva in un aereo bal
zo cavalcantiano e torna al classico
dei classici, niente meno che a Dan
te, definito «il poeta massimo della
letteratura europea». Occuparsi di
lui non significa accostarsi ad un
poeta qualsiasi, ma vuol dire entra
re nella sostanza stessa della po
esia, significa parlare «del miglior
poeta che ebbero le nostre lingue».
Il suo «mestiere» era consegnare
al linguaggio «un’alba nuova e me
morabile», come quella percepibile
nel tredicesimo endecasillabo del I
Canto del Purgatorio: «Dolce color
d’orïental zaffiro», verso impareg
giabile, già molto apprezzato da
Borges, lettore “edonistico” per
autodefinizione che ne esaltava
la mirabile eufonia, ulteriormente
8 C. Naranjo, Carattere e nevrosi. L’enneagramma dei tipi psicologici, Astrolabio, Roma, 1996.
13
adiuvata se possibile nelle confe
renze, dalla sua morbida pronuncia
di hispanohablante la quale rende
va giustizia melica alla dieresi appo
sta sulla ï, e alla conseguente scom
posizione arpeggiante del dittongo
ascendente ie, nonché alla esatta
resa acustica della z sonora, istinti
va sulla bocca dei latinos.
Come Borges, Wilcock esal
ta Dante dal versante del valore
estetico, linguistico, delle altezze
poetiche ma drastico com’è, con
un autentico hapax nel panorama
critico universale, dichiara estinta
qualsiasi forma di poesia dopo di
lui. Nessun autore regge il confron
to e quindi tutte le penne avrebbe
ro potuto e possono tacere, certe
di non suscitare il rimpianto dei
lettori. Ma il valore di Dante non
si esaurisce nella fattura magistra
le dei versi bensì si dispiega nella
potenza del messaggio universale
ad essi sotteso: la convinzione che
non siamo fatti «per vivere come
9 J. R. Wilcock, Dante nella cerchia atomica, in Id., Il reato di scrivere, pp. 4550.
14
bruti» costituisce l’eco e il senso
dell’esistenza umana nella dimen
sione che è data di conoscere.
Nelle pieghe più nascoste del
discorso di Wilcock si nasconde dun
que una prospettiva di miglioramen
to dell’individuo contemporaneo? Si
rintraccia una pars construens, appa
rentemente soffocata da tanto im
peto distruttivo fondata magari sulla
valorizzazione dell’istruzione e sul
conato moralizzatore e civilizzatore
proveniente da questa alla società,
ammesso che si sappia raccogliere
i suggerimenti che provengono dal
Medioevo dantesco e dal distillato su
blime della sua poesia? Egli si avvicina
dunque al pragmatismo del terribile
critico settecentesco che gli si era af
fiancato per molte analogie in incipit?
Il Baretti aveva ben chiaro lo
scopo della sua polemica: esponen
do al ludibrio il vecchiume lettera
rio intendeva offrire un’utile scuola
di emancipazione dal logoro mon
do del classicismo per chi intendes
se cimentarsi in maniera proficua,
da allora in poi, nella scrittura: una
preoccupazione estetica, formale
quanto sostanziale quindi, ed utile
come sprone per garantire lo svi
luppo di buona letteratura. Wilcock
invece, moderna anima lacerata, è
lontano da qualsiasi preoccupazio
ne inerente il secolare dibattito sul
canone, e preconizza invece l’apo
calisse, la fine dei tempi in senso
letterale: nel segmento intercor
rente tra la sua esistenza e l’avven
to dell’esplosione atomica, fermo
restando il fulgore del conchiuso
atomo dantesco9, egli, in balìa di
un’ossessione teriomorfa raffigura
di fatto, a livello trasversale nei suoi
scritti, uno scenario di intellettuali
scimmioidi, dispettosi e vanesi, in
voluti allo stadio di preominazione,
nel cui recinto scrivere la verità co
stituisce il più esecrabile dei reati.
Narrativa e dispositivo in
Juan Rodolfo Wilcock
Kelvin Falcão Klein
Il mio primo contatto con Juan Rodolfo Wilcock
come figura biografica è stato mediato da Rugge
ro Guarini. L’edizione spagnola di La sinagoga degli
iconoclasti inizia con un frammento di un articolo
di Guarini su Wilcock, un’evocazione in cui parla
dalla casa semplice casa in campagna, con pochi
mobili, alcune pentole e una libreria di legno. All’i
nizio della mia ricerca su Wilcock, ciò che mi inte
ressava di più dell’evocazione di Guarini era il riferi
mento alle letture di Wilcock, in particolare James
Joyce e Ludwig Wittgenstein. Volevo stabilire una
possibile archeologia delle letture di Wilcock, orga
nizzando i suoi riferimenti visibili e invisibili in una
struttura che comprendeva sia il periodo argenti
no che quello italiano.
Tornando all’evocazione più tardi, ho deciso di ri
flettere sul concetto di “biografema” di Roland Bar
thes e su come comprenderlo basato sulla descrizio
ne fornita da Guarini. In essa, Wilcock appare come
un personaggio con pochi possedimenti, portatile:
tre o quattro camicie vecchie, un cappotto con bu
chi e alcuni pantaloni in uno stato simile. L’obiettivo
era di mettere in relazione tale visione di Wilcock
con il lavoro di Peter Stallybrass sulla materialità del
la scrittura e della costruzione biografica, analizzan
do specificamente il saggio intitolato “Il cappotto di
Marx: abbigliamento, memoria e dolore”.
Per Stallybrass, il cappotto di Marx è una tragi
ca ed ironica, e quasi impercettibile, allegoria della
vita quotidiana di Marx e di tutta la sua opera. “Il
cappotto invernale di Marx era destinato ad entra
re e ad uscire dal Banco dei Pegni per tutti gli inver
ni, dagli anni '50 del 1800, fini all'inizio degli anni
'60”. E, continua Stallybrass, “Il suo cappotto de
terminava direttamente quale lavoro Marx poteva
fare o non poteva fare. Se il suo cappotto rimane
va presso il Banco dei Pegni nel corso dell’inverno,
15
pidità del mondo si getta indietro
una manica di lana sulla spalla, irri
tato, viperinamente minaccioso”1
egli, allora, non poteva recarsi al
British Museum. Se egli non pote
va andare al British Museum, allora
non poteva fare le sue ricerche per
Das Kapital. Gli abiti che Marx in
dossava determinavano così quel
lo che lui scriveva”.
È possibile dire che gli abiti che
Wilcock indossava determinavano
quello che lui scriveva? Questa non
è una conclusione precisa, almeno
non considerando solo il ritratto di
Guarini. Comunque, nella Sinagoga
alcuni personaggi sono diretta
mente collegati a ciò che indossano
– come Llorenz Riber che “arriva
come un angelo”, scrive Wilcock,
“leggero, quasi sulla punta dei pie
di (…). È molto giovane, eppure
è già riuscito a farsi un nome tra i
peggiori registi di Spagna. Invece di
portare il maglione sotto la giacca
lo porta al collo, a modo di boa, e
ogni volta che scatta di impazienza
davanti all’incomprensione e la stu
Non è un caso che l'abbiglia
mento sia importante per la descri
zione di Riber, un regista teatrale
che fa il suo lavoro organizzando
elementi in una scena. È esatta
mente nello stesso modo in cui
Wilcock lavora con gli elementi di
sposti nella sua letteratura, come
responsabile di uno scenario che
dovrebbe generare l'effetto più
brusco possibile nel minor tempo
possibile. Ogni pezzo della lettera
tura di Juan Rodolfo Wilcock è me
ticolosamente organizzato come
una scena, una serie di scene, come
il padiglione di un museo delle cere
o un museo di storia naturale.
Oggi il mio interesse è per alcu
ni di questi oggetti, molti dei quali
sono visibili nel ritratto di Guarini:
scrive che Wilcock usa il suo tele
fono per parlare con gli amici e
che tiene una buona radio a casa
per ascoltare Hugo Wolf e Anton
Webern. Il telefono e la radio, due
macchine per il viaggio nel tempo
e nello spazio, ignorate per essere
così visibili, così banali. Ritornando
al ritratto di Guarini e realizzando
questi elementi che fino ad allora
non avevo realizzato (anche per
me questi oggetti erano invisibili),
all'improvviso mi sono accorto del
la costante presenza di macchine
nella letteratura di Wilcock. Non
solo macchine, ma la presenza del
la tecnologia come nuovo modo di
essere nel mondo e come combu
stibile per la narrazione: per Wil
cock, l’osservazione della vita mec
canica ha fondato un nuovo campo
dello sperimentalismo letterario.
Un modo di osservazione tro
vato da Wilcock era leggere i gior
nali, trovando in loro storie varie
1 WILCOCK, Juan Rodolfo. La sinagoga degli iconoclasti. Milano: Adelphi, 2014, p. 170.
2 WILCOCK, Juan Rodolfo. La sinagoga degli iconoclasti, p. 28.
3 WILCOCK, Juan Rodolfo. Lo stereoscopio dei solitari. Milano: Adelphi, 1989, p. 169.
16
su macchine e dispositivi, come
evidenziato dalla pubblicazione di
Fatti inquietanti nel 1961. Oppure,
come dice la copertina dell’edizio
ne Bompiani: “fatti inquietanti del
nostro tempo: il futuro nascosto
e presente nei mille dati sconnessi
della vita e delle idee di ogni gior
no”. Voglio sottolineare qui l’idea
di un “futuro nascosto” che non
viene rivelato da un atto di crea
zione o immaginazione, ma da una
semplice e rigorosa attenzione ai
segnali emessi dai media, cioè dei
discorsi delle macchine sulle mac
chine. Un altro punto chiave è che
Wilcock spesso mette in corto cir
cuito passato e futuro, che si fon
dono attraverso eccentrici metodi
di interpretazione e previsione. Un
possibile esempio è quello di Aa
ron Rosenblum, personaggio della
Sinagoga, che vuole, a metà del XX
secolo, “riportare il mondo al 1580.
Abolire il carbone, le macchine, i
motori, la luce elettrica, il petro
lio, il cinematografo” e così via2.
Altro esempio è quello dell’aruspi
ce di Lo stereoscopio dei solitari, di
nome Malné, aruspice in privato,
scrive Wilcock, che “non fa profe
zie a pagamento. Ma la divinazione
per viscere è costosa; Malné è giu
stamente preoccupato per il conti
nuo aumento del costo della vita.
Ha dovuto disdire l’abbonamento
alla televisione, che d’altronde
fin troppo spesso interferiva con
le sue laboriose predizioni, sia in
campo internazionale che negli af
fari locali, in special modo per quel
che riguarda l’indagine e scoperta
di uccisori ignoti o di attentatori
senza scrupoli”3.
C'è una profonda connessione
tra macchina, temporalità, lettura,
creazione e stupidità in Wilcock.
Nel caso di Malné, ciò che viene
messo in discussione non è la di
vinazione per viscere ma l’inter
ferenza della televisione nel suo
lavoro, come se le informazioni dei
media fossero una sorta di distra
zione per il veggente, o come se
il substrato metafisico necessario
per il lavoro del veggente fosse
perso o confuso nel rumore bianco
emesso dal dispositivo. Alla fine del
racconto Wilcock ritorna a questa
relazione allo stesso tempo ango
sciante e necessaria: “Come queli
uomini che ogni mattina leggono i
giornali, anche se nulla di ciò che i
giornali riportano li riguarda nem
meno lontanamente, così Malné,
prima di andare in ufficio – lavora al
Ministero del Bilancio – scende nel
suo sgabuzzino profetico, con gli
appositi lacci fissa al tavolo il col
lo e le ali del suo pollo quotidiano,
strappa via le piume per l’incisione,
taglia e osserva”4.
Dispositivo mediatico e evisce
razione divinatoria si uniscono per
una dubbiosa illuminazione sul
futuro, entrambi coinvolti in una
logica di legittimazione che si svi
luppa nel tempo e nella storia. Tutti
questi elementi – assemblati in un
modo diverso – possono essere
ritrovati in un altro personaggio
della Sinagoga, che può aiutare a
comprendere meglio la delicata ar
tesania di Wilcock nel suo rapporto
con le macchine e i dispositivi. Mi ri
ferisco a Absalon Amet, orologiaio
e “precursore occulto di una parte
non trascurabile”, scrive Wilcock,
“di ciò che poi si sarebbe chiamato
la filosofia moderna”5. Uomo del
Settecento, uomo di meccanismi,
Amet altro non volle mostrare che
un meccanismo, il suo Filosofo Uni
versale, un apparecchio che consi
steva di un insieme di ruote dentate
caricate a molla e regolate nel loro
movimento da uno speciale conge
gno a scatto che periodicamente
fermava l’ingranaggio. Queste ruo
te erano coassiali com altrettanti
cilindri grossi e piccoli, interamente
ricoperti di targhette su ciascuna
delle quali era scritto un vocabolo.
Queste targhette passavano a tur
no davanti a uno schermo di legno
provvisto di finestrini rettangolari
in modo che a ogni scatto, guar
dando dall’altra parte dello scher
4 WILCOCK, Juan Rodolfo. Lo stereoscopio dei solitari, p. 171.
5 WILCOCK, Juan Rodolfo. La sinagoga degli iconoclasti, p. 67.
17
mo, si poteva leggere una frase,
“sempre casuale ma non sempre
priva di senso”6. La rivelazione del
le frasi è l'effetto principale della
macchina ed è proprio in questo
che risiede la promessa del futuro.
“Il rumore degli ingranaggi”, scrive
Wilcock, “evocava il rombo interno
di un cervello affaccendato, men
tre alla luce di una, di due e infine
di tre candele, ogni scatto le offriva
un pensiero, ogni combinazione un
motivo di riflessione, nelle lunghe
sere di autunno di fronte all’ocea
no grigio”. Absalon registrò nel suo
quaderno una pletora di frasi ba
nali; d’altra parte, come scrive Wil
cock, “quante volte ignara registrò
la sua penna concetti allora oscuri
e che un secolo, due secoli dopo
6 WILCOCK, Juan Rodolfo. La sinagoga degli iconoclasti, p. 68.
7 WILCOCK, Juan Rodolfo. La sinagoga degli iconoclasti, p. 70.
8 WILCOCK, Juan Rodolfo. La sinagoga degli iconoclasti, p. 70.
18
sarebbero stati detti luminosi.
Nella raccolta pubblicata a Nantes
nel 1774, col titolo Pensieri e parole
selezionate del filosofo meccanico
universale, troviamo per esempio
una frase di Lautréamont: ‘I pesci
che nutri non si giurano fraternità’,
un’altra di Rimbaud: ‘La musica sa
piente manca al nostro desiderio’,
una di Laforgue: ‘Il sole depone la
stola papale’. Quale senso dell’ir
realtà futura”, Wilcock si chiede,
“indusse l’autore a scegliere tra
migliaia di frasi insensate queste
che un giorno avrebbero meritato
l’antologia?”7.
Non solo l’antologia lettera
ria, ma anche e principalmente il
pensiero filosofico, una volta che
Wilcock afferma che più notevo
li sono quelle frasi di carattere
“prettamente filosofico, nel senso
più largo della parola. Sorprende
leggere in un libro del 1774: ‘Tutto
il reale è razionale’; ‘L’inferno sono
gli altri’; ‘L’arte è sentimento’;
‘L’essere è divenire per la morte’;
e tante altre combinazioni del ge
nere oggi diventate più o meno
illustri”8. Il dispositivo di Absalon
Amet contiene al suo interno,
come potenza, gran parte della let
teratura e della filosofia del futuro,
anche se non ne è consapevole. Il
Filosofo Universale di Amet racco
glie allo stesso tempo la potenza
e la potenza-di-non, è una figura
dell’opera e dell’inoperosità, per
dirlo com Agamben nel suo saggio
“Che cos’è l’atto di creazione?”:
“La potenza è un essere ambiguo,
che non solo può tanto una cosa
che il suo contrario, ma contiene
in se stessa un’intima e irriducibile
resistenza”9. Questa ambiguità si
trova non solo nel Filosofo Univer
sale, ma in tutti i personaggi della
Sinagoga degli iconoclasti e forse
in tutta l'opera di Wilcock. Uno
dei modi di Wilcock di presentare
narrativamente questa ambiguità
è quello di stabilire la relazione tra
macchine e futuro, cioè, un modo
di catturare quel “senso dell’irreal
tà futura” di Absalon Amet o quel
“futuro nascosto e presente nei
mille dati sconnessi della vita e del
le idee di ogni giorno” promesso
nella copertina di Fatti inquietanti.
Esiste una chiara corrispon
denza tra i dispositivi raccolti da
Wilcock nei giornali, per il proces
so di composizione del libro Fatti
inquietanti, e quelli sviluppati nar
rativamente anni dopo nella Sinagoga. Un pezzo del primo libro è
intitolato, ad esempio, “macchina
per leggere saggi”, un congegno
elettronico che è in grado di “legge
re” (tra virgolette) articoli, special
mente saggi di carattere scientifico,
e presentare all’istante un somma
rio o sintesi del loro contenuto, su
un cartellino perforato, a scopo di
classificazione e archivio. “La mac
china”, scrive Wilcock, “prende
nota di ogni parola del testo, e del
numero delle volte che la parola
viene ripetuta, scartando i vocabo
li meno importanti e ponderando
i periodi del testo, scegliendone
quelli che contengono un maggior
numero di parole significative. Così
viene peraltro soddisfatto”, finisce
Wilcock, “il bisogno di classificazio
ne, che è una delle caratteristiche
più spiccate della nostra epoca”10.
Qui vediamo di nuovo il rapporto
che Wilcock instaura tra macchina,
lettura e creazione: inoltre, la mac
china per leggere saggi serve a sod
disfare un’esigenza dell’epoca, del
lo spirito del tempo, cioè anticipare
il futuro. Nella Sinagoga troviamo
un caso simile nel capitolo dedica
to a José Valdés y Prom, dotato di
straordinarie facoltà telepatiche. In
questo caso, l'individuo è il disposi
tivo, è lui il medium, è attraverso il
tuo corpo che le emissioni vengo
no filtrate e alcuni dei suoi risultati
sono simili a quelli della macchina
per leggere saggi. “A certo punto”,
scrive Wilcock, “un spagnolo amico
suo volle mettere a profitto le facol
tà telepatiche del Maestro, apren
9 AGAMBEN, Giorgio. Il fuoco e il racconto. Roma: nottetempo, 2014, p. 46.
10 WILCOCK, Juan Rodolfo. Fatti inquietanti. Milano: Adelphi, 1992, p. 21.
19
do un’agenzia di notizie o come si
direbbe oggi un’agenziastampa.
Tre volte alla settimana saliva le
scale e il filippino in trance gettava
per lui il suo sguardo radar sulle ca
pitali del mondo civile. Fu questa la
prima agenziastampa di tipo mo
derno, nel senso che tutte le notizie
che diramava concernevano capi di
stato dediti alle loro normali attività
quotidiane, per esempio: ‘Roma. Il
Papa ha festeggiato il suo ottanta
duesimo compleanno celebrando
una messa nella Cappella Sistina’;
‘Berlino. Il Cancelliere di Ferro ha
inaugurato una statua di Bronzo
alla Nazione Prussiana’; ‘Montreux.
È stata ritrovata la valigia della Regi
na di Napoli’. I tempi non erano ma
turi per questo tipo di giornalismo
ad alto livello e l’agenzia non ebbe
successo”11.
Le facoltà telepatiche di Valdés y
Prom rendono possibile la creazione
di un’agenziastampa che anticipa la
11 WILCOCK, Juan Rodolfo. La sinagoga degli iconoclasti, p. 1415.
12 WILCOCK, Juan Rodolfo. La sinagoga degli iconoclasti, p. 71.
20
forma dell’esposizione narrativa della
macchina per leggere saggi. Sfortu
natamente i tempi non erano maturi
per questo tipo di giornalismo ad alto
livello, l’agenzia ha questa proprietà
di “non essere nel vero” del suo tem
po, per dirlo com il Michel Foucault
de L’ordine del discurso. Ed essere nel
vero significa rispettare le regole me
todologiche e l’ordine discorsivo che
una determinata disciplina, in una cer
ta fase storica, si è consapevolmente
assegnata. Questa è una delle lezioni
principali della lettura contrastiva dei
due libri di Wilcock: le macchine di
Fatti inquietanti anticipano un futuro
che vuole “essere nel vero”, che sem
bra sincronizzato con il vero del suo
tempo; gli eccentrici della Sinagoga,
d’altra parte, sembrano avere un’ine
vitabile mancanza di sincronizzazione
con il loro tempo.
Vorrei concludere il mio interven
to evocando un ultimo esempio di
Fatti inquietanti, quello del “cervel
lo elettronico della IBM”, un’altra
macchina da lettura. Il cervello elet
tronico, scrive Wilcock, “è stato ado
perato nella preparazione della ‘con
cordanza’ dei testi completi di san
Tommaso: anzi, si pensa che fra poco
tutti i lavori di erudizione di questo
genere, i quali finora richiedevano la
fatica di una vita intera di studioso,
e a volte di tutto un gruppo di spe
cialisti, verranno vantaggiosamente
affidati a macchine simili”12. Questo
primo passaggio del testo parla an
cora del futuro quando indica “che
fra poco tutti i lavori di erudizione di
questo genere” verranno affidati a
macchine. Nella Sinagoga troviamo
un caso simile nel capitolo dedicato
a Henry Bucher, studioso della storia
e sviluppatore di un sistema di con
trazione temporale: “presto mi ac
corsi”, scrive lui nelle sue memorie,
“che il compito di reperire, tradurre e
commentare l’intero corpus dei cro
nisti medievali esorbitava dalle misu
re previste: non mi sarebbe bastata
una vita, forse, per portalo a termi
ne”13. “Così che a un certo punto”,
continua Bucher, “bisognerebbe
poter fermare la cateratta dei giorni,
in modo da badare compiutamente
agli obblighi trascurati. Così feci, con
l’aiuto di un mio calendario perso
nale”. Bucher semplicemente “fer
mava la data”, rifiutando di girare il
foglio del calendario fino a quando
il lavoro non fosse terminato. Sarà il
cervello elettronico della IBM a dare
la soluzione al sistema di contrazione
temporale di Bucher.
“È stata appunto una di que
ste macchine”, continua Wilcock
nel già citato capitolo di Fatti inquietanti, “a permettere la verifica
della curiosa legge di EstoupZipf,
scoperta nel 1916. Dice questa leg
ge che se, in un testo abbastanza
esteso, si contano le volte che si
ripete ogni vocabolo, e poi si or
dinano le parole secondo la loro
maggiore o minore frequenza nel
testo, chiamando R il numero di
ordine e F la frequenza, si ottiene
che il prodotto RxF è approssimati
vamente costante.
Per esempio, nell’Ulysses di
Joyce ci sono 260.430 parole, fra le
quali 29.899 sono diverse; la paro
la più ripetuta, ossia la prima in or
dine di frequenza, appare 26.000
volte. Per tutte le altre il prodotto
RxF si mantiene infatti vicino alle
26.000: se si sceglie, diciamo, la
quarta per ordine di ripetizione,
la sua frequenza dovrebbe essere
all’incirca 26.000 diviso 4, cioè do
vrebbe ripetersi circa 6400 volte.
Il che è stato dimostrato per ogni
sorta di testi, sia per l’Iliade che
per l’intera edizione domenicale
di un quotidiano moderno”14.
Wilcock sembra intravedere
qui un regime di lettura in cui la
differenza tra l’Iliade e un quoti
diano moderno è già inutile poi
ché la macchina riconosce solo le
ripetizioni e la frequenza dei ter
mini nei testi. Più in profondità,
tuttavia, è possibile osservare in
Wilcock una riflessione continua
sul rapporto tra scrittura e dispo
sitivi. Le macchine computazio
nali e il cervello elettronico sono
solo manifestazioni recenti di un
contatto antico ed è per questo
che Wilcock, nei suoi scritti, de
naturalizza la macchina e i suoi
effetti, dimostrando che la mac
china non è un'estensione natu
rale e completamente adattata
dell’essere humano. Leggere Wil
cock oggi è sicuramente un invito
a gestire i dispositivi con più sag
gezza e ironia.
13WILCOCK, Juan Rodolfo. La sinagoga degli iconoclasti, p. 129.
14WILCOCK, Juan Rodolfo. Fatti inquietanti, p. 7172.
21
“Chi non ha nome non
può morire”: intorno
alla poesia di Wilcock
Patricia Peterle
Tutto ciò ch’è, è come lo vediamo,
e ogni interpretazione è come un’ombra
che si staccasse da quel che la produce
per diventare a sua volta un oggetto
passibile a sua volta di interpretazione
(J. R. Wilcock, Poesie)
La scrittura di Juan Rodolfo Wilcock viene fin da
subito delineata da Andrea Gialloreto, nel suo I cantieri dello sperimentalismo, come un “ricco deposi
to del fantastico e del grottesco” subordinato ad
una rigorosa precisione. Tale profilo, oltre ad evo
care le prime esperienze e i primi contatti con intel
lettuali argentini di grande calibro nella famosa ri
vista Sur1 – i nomi di Borges, Bioy Casares e Cristina
Ocampo sono fondamentali –, ci dice anche molto
del rapporto che lo scrittore argentino, emigrato
prima in Inghilterra e che poi ha adottato l’Italia,
come ambiente culturale e come lingua di scrittu
ra, presenta nei riguardi della lingua, della parola e
del linguaggio. Il raffinato contesto ibero-america
no, con un’impronta di forte carattere europeo, è
certamente un elemento di mediazione. Come ben
sottolinea Gialloreto, Wilcock è riuscito ad assestar
si nel flusso “della nostra tradizione mettendone a
soqquadro gli equilibri, ibridandola, contestando
la talvolta, a ogni modo bruciando le tappe di un
percorso di “acclimatamento” fulmineo quanto
misterioso”2. Gli spostamenti culturali e geografici,
quasi uno spogliarsi di sé stesso e al contempo un
reinventarsi, lo portano in qualche modo all’allon
1 Sur è l’emblematica rivista fondata da Victoria Ocampo nel 1939, con il progetto di pubblicare importanti titoli della letteratura e della filosofia occidentale.
2 Juan Rodolfo Wilcock, Poesie, op. cit., p. 18.
22
tanamento dalle prime inquietudi
ni giovanili e dal canone argentino
e, di conseguenza, al delinearsi di
uno sguardo obliquo e straniante.
Ed è appunto questo segno dell’o
bliquità che caratterizzerà la sua
scrittura, che scompiglia ciò che ci
viene dato il più delle volte come
“normale” o “scontato”. Le tappe
bruciate di acclimatamento, citate
dal critico, in qualche modo sono
concretizzate dallo stesso Wilcock
nelle parole indirizzate all’amico
Antonio Requeni: “Me voy a Italia
a escrivir em italiano, el castellano
no da para mas”. In queste parole
c’è forse un sentimento di stan
chezza generazionale, una consa
pevolezza dei limiti di certo campo
culturale, nonostante tutto il suo
cosmopolitismo. Wilcock quindi si
muove tra culture e tra le lingue
(forse nello scarto esistente tra di
esse), ne è un esempio l’instanca
bile lavoro di traduzione e auto
traduzione, seppure sia lo stesso
scrittore a dire che il libro tradotto
è sempre un altro, cioè una merce
avariata, in cui la poesia il più delle
volte in questo processo si perde.
Dalle traduzioni dall’inglese allo
spagnolo, passa alle traduzioni in
lingua italiana, alcune firmate in
sieme ad altri scrittori italiani come
Giorgio Caproni (“I paraventi” da
Tutto il Teatro, 1971 Il Saggiatore),
Edoardo Sanguineti e Alfredo Giu
liani (Poesie di James Joyce), oltre
a quelle firmate con il figlio adotti
vo Livio Bacchi Wilcock e poi quelle
da solo, come nel caso delle poe
sie di Beckett. Dal momento in cui
si trasferisce in Italia, il rapporto
con la lingua dell’altro diventa cen
trale: una lingua che non è la sua
tradotta in estensione una nuova,
ma, al contempo, è l’unica che ha:
densa pienezza, insomma di pren
come se l’italiano fosse in qualche
dere ogni immagine come se fosse
modo riposto nel suo spagnolo. “In
quella del ventaglio ripiegato”.5
quest’ottica la traduzione stessa è
In una breve ma significativa
una narrazione di sé, e implica per
descrizione di sé stesso, Wilcock
tanto sia lo svelarsi di un’identità
dice di essere nato a Buenos Aires
3
che i modi di quello svelamento”.
nel 1919, di aver iniziato a imparare
Questo groviglio potrebbe riman
il francese nel sud della Svizzera, il
dare a dei temi che gli sono cari
castellano a Londra e nel Colegio
come quello dello spostamento,
Nacional l’inglese e l’italiano; cioè
delle deformazioni, delle diversità
spostamento e dislocamento sono
anche linguistiche, delle distorsio
termini che appartengono ad uno
ni, tutti elementi di un unico venta
stesso campo semantico che pare
glio che si apre pian piano, e, nella
si imponga, mettendo in luce que
misura in cui il ritmo del suo pecu
sto carattere che si potrebbe dire
liare moto s’intensifica, è come se
ibrido. In una tale prospettiva,
stessimo davanti ad una lente che
l’eccentricità fin da subito diviene
si presenta il più delle volte sfoca
un segno, forse una resistenza ad
ta, scompigliando le molecole at
una presupposta normalità. Il cam
torno a sé. O, nelle parole di Wal
biamento di lingua è stato dunque
ter Benjamin, questo stesso moto
un aspetto centrale per il suo per
può essere letto come il “potere
corso, la condizione di scrivere in
della fantasia [che] è il dono d’in
una lingua altra, l’essere esiliato
terpolare nell’infinitamente picco
in un’altra lingua gli permettono
lo, d’inventare per ogni intensità
dunque una posizione comunque
4
3 Roberto Deidier, Tradurre, tradursi, in Mosaico, n. 192, genn. 2020, pp. 2425.
4 Il volume Segnali sul nulla curato da Roberto Deidier, nel 2002 per l’Istituto della Enciclopedia Treccani, rimane tutt’ora un riferimento obbligatorio a tutti quelli che si avvicinano allo
studio dell’opera di Wilcock.
5 Walter Benjamin, “Ventaglio”, in Opere Complete-Scritti 1923-1927, a cura di Enrico Ganni, 2001, p. 437.
23
seguente, “[…] il passato è uno col
che torneranno più tardi in altri te
futuro / e questa ruota matta della
sti. “L’esiliato”, di Luoghi comuni,
storia / è un nuovo stratagemma del
è forse una poesia i cui versi dialo
demonio”. L’inizio di quest’ordito
gano con quelli già citati, in parti
rovinoso è appunto la sua presen
colare la seconda strofa che segna
tazione in Italia come scrittore che
appunto
avviene tramite l’autotraduzione, in
componimenti giovanili, raccolti
cui passato e futuro si incrociano”.
due anni dopo, in Poesie spagnole,
Tratti che ritornano più tardi nella
pubblicate da Guanda, nel 1963.7
domanda fatta davanti alla tomba
La strofa formata da quattro versi
dei nonni in “Lago di Ginevra”, altra
recita: “Trova quella parola sola /
poesia inedita:
e per un attimo ridiventa / in que
6
l’allontanamento
dai
sto esilio che ti tormenta / il poeta
Là sul colle è la lapide di mio nonno,
che non sei più.”8. Il rapporto con
un cipresso ha coperto la scritta;
ciò che ha lasciato e, al contempo,
si chiamava Rodolfo Romegialli,
con ciò che inevitabilmente porta
e quel cipresso ha la mia età.
con sé appare in altri versi di que
Giù invece è il lago d’acqua senza sale
sta stessa raccolta, come in “Di
dove mia nonna nuotava da ragazza
sfarmi” il cui titolo diviene ora più
distesa e bella come adesso il suo scheletro
che emblematico. “Stendo verso il
[…]
mio passato / vani tentacoli […]”9,
altra, in una specie di soglia; che a
è un verso, in questa prospettiva,
modo suo e paradossalmente gli
Ho fatto male, nonni, a tornare in Europa?
più che significativo, poiché la fi
fa riprendere, rovesciando, l’espe
Una specie di amore mi attirava:
gura del ventaglio benjaminiano
rienza degli anni argentini.
venni, bevvi l’amore e persi i sensi.
succitata è qui spettrale. “Sten
Dopo pochi anni dal suo trasfe
Ma quando questo amore sarà speso
do” è in posizione iniziale e centra
rimento in Italia, Wilcock si auto
potrò essere anch’io scheletro nel bosco
le per la struttura della poesia che
traduce, lo spagnolo diventa lingua
che separa il cimitero dal lago. (p. 150151)
prende avvio da questo allungare
di partenza e l’italiano d’arrivo, e
i tentacoli verso il passato, gesto
questa è già un’eredità, riposta e
Il Caos (Adelphi, 1960) è la
che offre poi una serie di immagi
dormiente, che affiora e viene testi
prima opera pubblicata in Italia,
ni messe insieme quasi se fossero
moniata in alcuni versi delle prime
un’autotraduzione. E se il 1961 è
un montaggio; però qui il montare
pagine delle poesie inedite, pubbli
l’anno di Fatti inquietanti, esso è
non può che includere il suo rove
cate nel volume Poesie da Adelphi,
anche l’anno in cui Wilcocok pub
scio, preannunciato già dal titolo:
in cui Wilcock afferma l’ordito che
blica nella prestigiosa collana Bi
“Su, debbo andare a smontare /
ha attorno a sé: leggiamo tra le po
blioteca delle Silerchie, presso Il
questo tempio di me stesso”10. Il
esie inedite, “Con me il mio mondo
Saggiatore, con cui erano già state
rapporto col passato pare essere
sparirà, la rete / che mi sono tessuto
pubblicate delle sue traduzioni, il
qui la via verso il presente o, in al
come un ragno / che sta fermo in un
suo primo libro di poesia italiano,
tre parole, Wilcock fa su sé stesso
angolo della tela / e a volte mangia
Luoghi comuni, che presenta già
un’operazione archeologica, di
e a volte rammenda” e, nella pagina
aspetti rilevanti della sua poesia
struttiva e creativa, per ritrovare
6 Juan Rodolfo Wilcock, Poesie, Adelphi, 1980, pp. 144 e 145
7 Questo volume, anche si tratta di autotraduzione, è senz’altro un momento importante di ripensamento e di bilancio, come si evince dalla selezione drastica dei brani e dall’intro
duzione piena di ironia. Come dice Wilcock, “A ciascuno il dovere di ricostruire con i pezzi che per caso gli erano toccati” (p. xii). Poesie spagnole (1963) è infatti una selezione dei testi
pubblicati in Argentina, da Libro de poemas y canciones (1940) a Sexto (1953).
8 Juan Rodolfo Wilcock, Poesie, op. cit., p. 41. A questo proposito è interessante la ricerca in corso di Jeremías Bourbotte sull’autotraduzione in Wilcock. Nel Mosaico (n. 192, genn.
2020), nel suo saggio si legge: “In effetti, alcune delle poesie contenute in Luoghi comuni furono riscritte dall’autore” (p. 28), facendo riferimento alle raccolte argentine. Tra queste,
Bourbotte cita appunto “L’esiliato” che era già stata pubblicata sul n. 256 della rivista Sur, nel gennaio 1959, col titolo “La Villa Barberini”.
9 Juan Rodolfo Wilcock, Poesie, op. cit., p. 34.
10 Ibidem.
24
in questo processo una possibilità
per il presente.11
Ma riprendiamo la prima pa
rola della poesia “Stendo”, di uso
raro o letterario, ricorrente nelle
opere dantesche, soprattutto, il
Convivio e la Commedia. Per cui,
si potrebbe ipotizzare che que
sta scelta sia più che un indizio
del luogo da dove parla Wilcock,
il quale fa dunque uso della tradi
zione italiana (il suo presente più
che vivo) per guardare ciò che ha
lasciato – allungando i tentacoli –,
per carpire (altro termine dante
sco) oggetti e carte. È quindi da un
atteggiamento di appropriazione
della tradizione altra, ormai anche
sua, che partono i tentacoli verso
il passato, i quali prospettano in
questo crocevia di tempi e culture
una possibilità. Tradizione questa
che gli era già stata offerta dalla
figura della madre (forse un altro
dei punti d’insorgenza o una pre
storia della storia?): “madre ho
un brivido quando penso / che mi
hai dato come a tutti i tuoi figli /
una parola almeno in dono, una /
soltanto delle migliaia di basalto /
che furono di Dante Alighieri”12 –.
In tal senso non è un caso che in
Tre stati se una cosa dovrà salvarsi,
do” di “Liriche e canzoni da “La
nel quarto verso della quinta par
notte di San Giovanni”:
Questa notte tra sacro e pro
fano, carica di magia e presagio,
questa festa solstiziale, è addirit
te, essa è: “il più grande poema
è la Commedia”13. Simulazioni e
Vivere è percorrere il mondo
tura quella scelta per accogliere
dissimulazioni, per ricordare i ter
attraversando ponti di fumo;
versi che possono essere un’alle
mini usati da Roberto Deidier nel
quando si è giunti dall’altra parte
goria, sia per il suo rapporto con
suo saggio dedicato alla poesia di
che importa se i ponti precipitano.
le lingue sia, da un altro versante,
Wilcock, “Stratigrafie poetiche.
Per arrivare in qualche luogo
per la sua riflessione sulla parola
Dante, Eliot, Borges”14: forse de
bisogna trovare un passaggio,
e sul linguaggio. Qui faccio alcune
gli attraversamenti sintetizzati nel
e non fa niente scesi dalla vettura
ipotesi: da un lato, questi ponti
verso “Vivere è percorrere il mon
si scopre che questa era un miraggio.15
che precipitano dopo l’attraversa
11 Il saggio di Roberto Dedier, Tradurre, tradursi, op. cit, pp. 2427, fa un’analisi molto attenta e precisa di questo processo, che implica un rapporto continuo tra presente e passato.
12 Juan Rodolfo Wilcock, Poesie, op. cit., p. 164.
13 Juan Rodolfo Wilcock, Poesie, op. cit., p. 73.
14 Roberto Deidier, Stratigrafie poetiche: Dante, Eliot, Borges, in Roberto Deidier (a cura di) Segnali sul nulla. Studi e testimonianze per Juan Rodolfo Wilcock, Istituto della Enciclpedia
Italiana, Roma, 2002, p. 79.
15 Juan Rodolfo Wilcock, Poesie, op. cit., p. 47.
25
verso che fa sì che questo stesso
ordine si smantelli e riveli il com
plesso ordito, artificioso costruito
dai luoghi comuni che si mischiano
sempre di più nel linguaggio – si
ricordi che questi sono gli anni del
boom. O ancora, nei versi tratti da
un’altra poesia, in cui la presen
za dell’enjambement accentua la
rima “invenzione:immaginazione”,
scrive ancora Wilcock: “Ricorda
che c’è una sola cosa / affermati
va, l’invenzione: /il sistema invece
è caratteristico / della mancanza
d’immaginazione”17. La seduzione
non è nel pensiero ordinato, e ar
gomentare eccessivamente signifi
ca sperperare “il nostro legato”18,
perciò il primo verso di questo
componimento che non a caso ha
come titolo “Consiglio” dice: “Ri
pudiamo la facilità” e nella strofa
mento possono fare riferimento
trale per Wilcock. La sesta poesia
finale “Cerchiamo soltanto di stes
appunto al processo di traduzio
di Luoghi comuni già annuncia la
sere / dal tessuto di ogni ora / ciò
ne, che si presenta comunque
posizione di rilievo occupata dal
che ci nutre”19.
come un ponte pieno di ostacoli
linguaggio letterario o, per meglio
Il gioco paradossale, nonché
e buche; e dall’altro, questi stessi
dire, la sua esigenza: “Nonostante
aporetico, in cui Wilcock si muo
ponti – senza escludere i processi
i trionfi della scienza applicata / gli
ve, problematizzando non solo il
traduttori che sono un complesso
strumenti migliori per osservare
nome e il discorso, ma soprattutto
lavorio con e sulla lingua – possono
l’universo / sono ancora la pene
lo scarto indistricabile ivi esistente,
essere un riferimento al linguag
trante lampada del verso” . C’è
è forse un aspetto colto nella let
gio, un passaggio che è anche un
qui un rovesciamento, nei confron
tura di un altro poeta, Giorgio Ca
miraggio, come sottolinea la rima
ti di certo linguaggio che dispone
proni. Essa è testimoniata in alcune
della poesia. L’immagine metafori
una parola dopo l’altra in cerca
righe di saggi e recensioni, riunite
ca “ponte di fumo” mette insieme
della conoscenza dell’universo – la
poi nelle Prose Critiche. Il dubbio
la concretezza di questo oggetto
figura di Adamo appare nella prima
sul potere di rappresentazione e di
della costruzione civile accanto
poesia di questa raccolta –, infatti
dire della parola, presente nei ver
alla leggerezza e al carattere gas
è la frana di quest’ordine che viene
si wilcockiani dell’epigrafe (“Tutto
soso del secondo termine, mutan
racchiusa nell’espressione la “lam
ciò ch’è, è come lo vediamo, / e ogni
dolo così in una cosa altra. Fin da
pada del verso”. L’idea della luce
interpretazione è come un’ombra /
questi versi, dunque, si potrebbe
che illumina (non esiste luce senza
che si staccasse da quel che la pro
dire che si fa presente la riflessione
buio), cioè che fa vedere meglio,
duce / per diventare a sua volta un
e il problema del linguaggio, che
non è quella della scienza, col suo
oggetto / passibile a sua volta di
diverrà come si sa un nodo cen
ordine disciplinato, ma è quella del
interpretazione) tocca da vicino il
16 Juan Rodolfo Wilcock, Poesie, op. cit., p. 17.
17 Juan Rodolfo Wilcock, Poesie, op. cit., p. 36.
18 Juan Rodolfo Wilcock, Poesie, op. cit., p. 38.
19 Ibidem.
26
16
poeta per eccellenza dei paradossi,
limiti in cui riesce ad esserlo la
cadenze e a volutamente ester
Caproni appunto, che incarna una
poesia), il libro di Delfini, quello
ne rime (“Noi siamo gli imposto
delle esperienze più singolari del
di Wilcock e l’altro di Nelo Risi
ri mimetici / che girano nell’om
20
secondo Novecento. Nel 1961, su Il
bra dei casolari / per sostituire
Punto, annotando delle “Novità di
Affermando che la poesia “è
i volti familiari / con altri volti
Poesie” per i lettori, tra cui testi di
in perpetuo moto di avanscoper
simili ma ermetici) che, stando
Leonardo Sinisgalli, Antonio Delfi
ta” senza alcuna possibilità di “ri
di continuo sul filo d’una metri
ni, Biagio Marin, Nelo Risi, Caproni
petizione o di ristagno”, Caproni
ca e d’un repertorio ormai d’uso
non lascia passare inosservato l’e
introduce la figura e i versi italiani
commerciale (cui più volentieri
sordio poetico di Wilcock con Luo-
di questo “argentino di nascita, ma
ricorre la pubblicità quando vuo
ghi comuni:
con sangue italiano nelle vene”. E
le esprimersi in poesia, sul cano
continua così il suo consiglio per le
vaccio del martelliano di comica
vacanze del ’61:
tradizione),
Non siamo invadenti, e cerchia
mo di metter le cose a pun
riescono
spesso
a pigmentare un altro vuoto
to. Dobbiamo segnalare tre
[…] in questi suoi Luoghi comu-
dell’anima che si va cercando,
o quattro libri per le vacanze.
ni, dove la molta cultura dell’au
vuoto tragico ch’è pur sempre
Messi nella valigia, di straforo,
tore, unita a una non frequente
quello di tutti noialtri, figli del
quelli già indicati, i quali del re
esperienza di altre letterature
progreditissimo ma amarissimo
sto potrebbero già bastare, se
(il suo campo par soprattutto
secolo esistenziale.21
gnaliamo ancora, per chi invece
quello del modernismo ispano
volesse orientare la scelta sul
americano, perfino nella nume
Wilcock, con un lavorio con e
versante della novità (di qual
razione del verso) non gli impe
nella lingua, si inserisce nella di
cosa di diverso e di stuzzicante:
disce, anzi, di dar ironica vivacità
scussione dei temi circa il fare po
di “scandaloso”, magari, nei
o vitalità a volutamente semplici
etico che ha segnato gli anni ‘60 in
20 Giorgio Caproni, Prose Critiche, a cura di Raffaella Scarpa, con un’introduzione di GianLuigi Beccaria, Aragno, Torino, 2012, p. 1456.
21 Ibid, pp. 14561457.
27
Italia, nonché in quello di più ampio
La parola morte è il titolo del suo
delle trappole di un linguaggio che
raggio, già anticipato, riguardante
secondo libro di poesie italiane, ed è
si presenta sempre più consunto.
il linguaggio, che segna tanti dibat
il primo pubblicato sulla Bianca nel
“Cristo ogni tanto torna, / se ne va,
titi filosofici e poetici. La parola è
1968, al numero 50 della collezione.
chi l’ascolta… / Il cuore della città / è
un elemento necessario alla signi
Se il ’68 da un lato può far venire in
morto, la folla passa / e schiaccia – è
ficazione, ma al contempo essa è
mente i movimenti socioculturali
buia massa / compatta, è cecità…”
frutto di una tradizione che ha for
(operai, studenti…), che si espan
sono i versi sulla copertina della
se cercato la conoscenza attraver
sero in vari paesi del mondo, senza
Bianca numero 53, che introducono
so il nominare le cose, cioè un pro
25
dimenticare ovviamente il Pasolini
Il terzo libro di Giorgio Caproni, pub
cesso di codificazione. Ed è proprio
de “Il Pci ai giovani”, dall’altro gli
blicato nello stesso anno di La parola
qui che l’uso che Wilcock fa del lin
anni ’60 per la poesia italiana della
morte. Un libro strano che però già
guaggio gli permette di entrarvi e
seconda metà del Novecento in poi
annuncia quello che verrà poi chia
scavarlo, mettendo in scena non il
sono più che emblematici. Certa
mato da Caproni in “Controcanto”,
nome ma il silenzio o i fili sfilacciati
mente in questo libro di Wilcock,
nel Conte di Kevenhuller (1986), ri
che esso porta con sé. L’idea dun
come in altri dello stesso periodo,
facendosi ai primi versi della Com-
que dell’uomo come detentore di
c’è uno sguardo attento, critico e
media, “morte della distinzione”:
un linguaggio che gli possa aprire
pessimista nei confronti dei cambia
smantellamento e sgretolamento,
mondi si sfarina, “la rottura del
menti della società – il mutamento
per dire con un termine caproniano
patto tra parola e mondo”.
antropologico detto da Pasolini –, e
“frana” di alcune categorie.
22
23
24
26
22 “Wilcock rilegge i propri esordi spagnoli, senza più la lente – fantastica, anamorfica – del gusto borgesiano, di cui conserva, piuttosto, una componente allegorica. E reinventa se
stesso come poeta dell’intelligenza, addomesticando i grandi temi lirici dell’amore e della morte a una sorta di saggismo morale, di satura dove confluiscono la passionalità dell’eros,
la citazione, la sofferenza per il declino della civiltà contemporanea (quindi l’ironia e l’invettiva), la freddezza della meditatio mortis condotta sui binari del pensiero linguistico di Witt
genstein: la “parola morte””, in Roberto Deidier, Stratigrafie poetiche: Dante, Eliot, Borges, op. cit, p. 79
23 Nel suo saggio già citato, dedicato ai rapporti di Wilcock com Borges, Florencia Ferrante sottolinea il fatto che la riflessione sul linguaggio il suo uso e la sua manipolazione diviene
un problema sempre più caro allo scrittore italoargentino.
24 George Steiner, Vere presenze, Garzanti, Milano 1998, p. 95.
25 Certamente il nome di Pasolini evoca di per sé una serie possibile di rapporti intellettuali e artistici con J. R. Wilcock, non solo per la partecipazione come Caifa al Vangelo secondo
Matteo, ma anche per il suo Trasumanar e organizzar (1971) o per la recensione alla Sinagoga degli Iconoclasti, in Pasolini, Pier Paolo, “J. Rodolfo Wilcock, “La Sinagoga degli iconoclasti”,
in Tempo, 14 gennaio 1973, poi in Descrizioni di descrizioni, a cura di G. Chiarcossi, Milano, Garzanti, 1979. Ma, purtroppo, in questa sede si vuole più che altro pensare a delle possibilità
di incontri poetici che potranno in futuro avere un ulteriore sviluppo.
28
Nei testi raccolti in La parola
zia: l’impossibilità di significare è
nella pura natura / non ancora fo
morte, il termine morte nelle sue
ribadita poi nei due versi anaforici
rata dal tarlo umano […]”30.
variazioni (sia di classe gramma
(“vuol dire morte”).
A questo proposito si deve ri
ticale che di numero) è forse fra i
Se la facoltà di nominare le cose
cordare della sua rubrica sul Pun-
più ricorrenti. In queste pagine la
è un tratto dell’umano, frutto della
to, forse non casualmente intito
tensione dovuta all’impossibilità di
convenzionalità delle lingue, che ci
lata La Biblioteca di Babele, in cui
descrivere a parole ciò che fa parte
distingue dagli animali, prima an
Wilcock problematizza il tortuoso
della natura umana non è poca.27
cora di questa raccolta che mette
rapporto col linguaggio: “il lin
Nella poesia numero 9 (“Amore è
a fuoco uno dei principali temi fi
guaggio non è uno specchio fede
orbite piene di terra”), per esem
losofici e poetici del XX secolo, c’è
le del mondo reale”, continuando
pio, tale difficoltà sgretola le paro
bisogno di recuperare l’esperienza
in questo testo del 1962:
le nella seconda strofa di questo
avviata con la rivista Intelligenza29,
componimento, il cui primo verso
diretta dallo stesso Wilcock, e che
Il linguaggio non è più, come
è composto da lettere: “A, bi, ci, di,
ha avuto solo due numeri tra il 1962
siamo
e, effe, gi, / vuol dire morte, / tra
e il 1963, sulla quale sono usciti i
un’elastica fodera che cinge
sumanar significar per verba, / vuol
versi de “I Tre Stati”: “Lo sguardo
strettamente il mondo reale,
dire morte.”28. Nel riprendere il fa
si distoglie dal disordine / benché
bensì un leggero quasi indi
moso verso del primo Canto del Pa-
nel voltarsi esso non possa / non
pendente velo, appoggiato
radiso, Wilcock se ne appropria, lo
stendere sul caos qualche velo di
alla meno peggio sulla realtà
aggiorna e al contempo lo poten
pace, / più che altro si compiace /
tangibile e visibile.
portati
a
credere,
26 Cfr. Enrico Testa, Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000. Einaudi, Torino, 2005.
27 A questo punto ci si confronta con un’altra aporia, cioè, se la lingua è ciò che definisce e determina l’uomo, essa è anche, a sua volta, modificata e determinata dall’uomo. Perciò, è
fondamentale l’esperienza che si fa della lingua e, in tal senso, la poesia ha un ruolo fondamentale nel processo e divenir storico.
28 Juan Rodolfo Wilcock, Poesie, op. cit., p. 84.
29 Wilcock collaborerà e parteciperà ad altre iniziative in Il Mondo, Tempo presente in cui sostituisce Nicola Chiaromonte alla rubrica sul teatro, per non parlare di giornali come La
Nazione di Firenze, L’Espresso, La Voce Repubblicana, Il Punto, Il Messaggero. Ed è appunto in questi anni, subito dopo il suo arrivo in Italia, che inizia la frequentazione e si inserisce in
un tessuto letterario e intellettuale più che vivo: oltre al nome del già citato Chiaromonte si possono ricordare quelli di Elsa Morante, Alberto Moravia, Ennio Flaiano, Roberto Calasso,
Ginevra Bompiani, tra gli altri.
30 Juan Rodolfo Wilcock, Poesie, op. cit., p. 68.
29
Non è allora una semplice
do investighiamo verbalmente
e, al contempo, è esso stesso
coincidenza che nella terza parte
il mondo, la risposta è sempre
che ci uccide. Il moto insito di
del poemetto “I Tre Stati”, pub
una descrizione del linguaggio,
questa poesia più che circolare
blicato appunto nel 1963, sulle pa
mai una descrizione del mondo”
potrebbe essere quello della spi
gine di Intelligenza, quindi prima
(1965, Il Punto).
rale delineante, un vortice che si
de La parola morte, egli ci offra in
muove labirinticamente. L’ordito
questa prospettiva uno sguardo
Noi fatti di parole e di null’altro,
del linguaggio è una specie di ra
obliquo: “Inoltre, esiste la paro
noi fabbricati a caso da un linguaggio,
gnatela alla quale gli uomini sono
la, / con cui gli oggetti vengono
ci domandiamo perché soltanto noi
appesi come trapezisti, ci dice un
nominati / e i concetti creati, /
dobbiamo essere uccisi da un linguaggio,
altro testo di La parola morte; il
ciò che ci fa diversi dalle bestie,
mentre le bestie vivono, le piante vivono
rischio della morte, di cadere, è
/ un poco, ma non troppo”31. La
e noi si muore grammaticalmente,
continuo in questa danza di salti
riflessione sul linguaggio ce ne
ma anche le bestie e vivere sono parole,
mortali e, se si vuole, di “legame
riporta un’altra fondamentale nel
né ci deve stupire che una parola
musaico”. Lo sguardo per inqua
suo laboratorio poetico e narra
o gruppo di parole siano parole,
drare i trapezisti va qui verso l’al
tivo che è quella sulla “realtà”32:
stupisce invece ch’io sia parola
to, ma la vita “è sotto nel silen
la certezza empirica viene messa
o gruppo di parole dette dal niente
zio / dei vegetali immortali e gli
in dubbio così come dirà, in modi
al niente, e come dette, e quando e dove?
insetti / che senza tempo vivono
diversi, che la stessa realtà non è
ma come, quando e dove sono parole
per sempre”34. Questa è la poe
conoscibile attraverso il linguag
[…]33
sia da cui è stato tratto il titolo
di questo intervento e che forse
gio, perché esso nel momento in
cui viene messo in moto fa altro.
La sensazione di scompiglio
espone il carattere paradossale e
Nelle parole di Wilcock riportate
si fa più che presente in questi
aporetico del nostro aver luogo
da Florencia Ferrante: “[…] quan
versi, si è fatti di un linguaggio
nel linguaggio.
31 Juan Rodolfo Wilcock, Poesie, op. cit., p. 71.
32 Il testo sul Punto, del 1965, dedicato alle scatole cinesi, affronta proprio questo rapporto col reale: “Perché se è stato osservato che tutto ciò che può essere pensato esiste, conviene
aggiungere che nulla può essere pensato se non può essere detto, dunque la affermazione diventa: “tutto ciò che può essere detto, esiste””. Nelle parole di Florencia Ferrante, “Que
sta è in chiusura, l’estrema conclusione wilcockiana: ciò che può essere detto (e, aggiungiamo noi, scritto), esiste. I voli del pensiero, che sono i voli della sintassi, non solo consentono di
creare e immaginare altri mondi, ma la bellezza di quei mondi è proprio assoluta indipendenza dalle ristrettezze di una troppo angusta empirica, come dimostra in definitiva l’esistenza
e la possibilità dei paradossi, delle scatole cinesi e degli scandagli logici.”, in Florencia Ferrante, “Paradossi, pulci cinesi, e altri scandali della logica: appunti per un percorso borgeano
attraverso gli scritti giornalistici di Juan Rodolfo Wilcock”, in Rassegna iberistica, vol. 42, n. 111, giug. 2019, p. 113.
33 Juan Rodolfo Wilcock, Poesie, op. cit., p. 86.
34 Juan Rodolfo Wilcock, Poesie, op. cit., p. 87.
30
Chi non ha nome non può morire,
to, e portano con sé anche il di
re, ma colui che è immerso in
la bestia ignora il proprio nome e vive,
sincanto nei confronti del sentito
un campo di forze e di tensioni.
chi non ha la parola non perisce.
progresso caotico. La lingua di
Usare il linguaggio non è in que
Wilcock è depotenziata , o per
sta prospettiva un’esecuzione,
Chi non ha la lingua non si scrive nel libro
meglio dire inoperosa; esige cioè
la messa in atto di un “ingranag
che a alcuni metri dalla terra gli uomini
la sua inoperosità dinanzi ad una
gio”, ossia la maestria nell’ado
scrivono, il libro delle defunzioni. (pp. 8687)
società che si presenta o si vuole
perarlo, ma diviene uno sguar
35
più che “produttrice” , inciden
do e un’istanza critica di questa
Riflessioni in parallelo pos
do nella lingua stessa; e, questa
stessa operazione e dell’uso che
so essere rintracciate nei libri di
incisionescissione non può esse
se ne fa. Si potrebbe dire addi
Giorgio Caproni e di Vittorio Se
re che politica. Il poeta, infatti,
rittura che certa apparente con
reni di questi stessi anni, i quali
rovescia i dispositivi del linguag
traddittorietà sia la scintilla di
hanno inoltre dedicato un’im
gio, rimettendo in discussione il
quest’operazione, che non è mai
portante riflessione al linguaggio
linguaggio stesso, che è forse l’u
del tutto padroneggiata proprio
nelle loro poesie. Alcuni momenti
nica cosa che ci determina.
perché ciò che rimane intrinse
del Congedo, il carattere stranian
Trattasi allora di un proces
co ad essa è giustamente il suo
te del Terzo libro, l’emblematico
so continuo di appropriazione
tratto dialettico36: “Ogni parola
titolo degli Strumenti umani sono
e disappropriazione, e proprio
nome di una cosa / è un nome
appunto dedicati a questa parola
per questo l’artista non è colui
singolare della morte / tranne la
che scappa, che dissolve l’ogget
in grado di creare e di realizza
vita che non è parola”37.
35 “Lo scompiglio ludico del senso, con cui l’autore sistematicamente aggredisce le formule stereotipe che depotenziano la lingua e adulterano ogni forma di rivelazione verbale, ne
riflette lo sguardo di lucido disincanto sulla società italiana del miracolo economico, affidato ad una pronuncia amaramente consapevole della degradazione in atto”, Katia Trifirò,
Dell’uomo e di altri mostri. La drammaturgia di Juan Rodolfo Wilcock, Edizioni Sinestesie, 2019, p. 55.
36 C’è sempre uno stupore come indica Adorno: “Quanto più fittamente gli uomini (il che è altra cosa che lo spirito soggettivo) hanno involto tutto nella ragnatela categoriale, tanto
più profondamente si sono disabituati dalla meraviglia provata per quell’alterità e con crescente fiducia si sono ingannati sull’alieno. Debolmente l’arte cerca di risarcire ciò, quasi con
un gesto rapidamente staccantesi. A priori essa porta gli uomini a meravigliarsi.”, in Theodor W. Adorno, Teoria estetica, trad. E. De Angelis, Einaudi, Torino, 1977, p. 214.
37 Juan Rodolfo Wilcock, Poesie, op. cit., p. 88.
31
Domenico Vandelli in storie a fumetti.
Un nuovo approccio metodologico
nello studio della scienza moderna
Ricardo Dalla Costa
Nei primi anni Sessanta del XVIII secolo, un illu
stre personaggio fece la differenza nelle questioni
accademiche che coinvolgevano lo Stato e la scien
za portoghese. Mi riferisco a Domenico Vandelli
(17351816), un importante nome del sapere luso
brasiliano. Di formazione medica e di storia natu
rale, Vandelli nacque a Padova, nella penisola ita
lica, e si radicò in Portogallo nel 1764, su invito del
Marchese di Pombal (Sebastião José de Carvalho e
Melo, 16991782), principale ministro del Re Dom
José I, tra il 1750 e il 1777.
Durante la sua permanenza in Portogallo, nel
Collegio dei Nobili, il professore tenne conferen
ze di scienze, matematica, chimica, fisica e storia
naturale. Tuttavia, la resistenza e lo scarso en
tusiasmo da parte dell’aristocrazia portoghese
impedirono progressi in un moderno modello di
insegnamento.
Di fronte all’impasse delle proposte educative
pombaline, assunse incarichi importanti, come la
direzione del Museo di Storia Naturale (Real Mu
seu) e del Giardino Botanico di Ajuda, nel 1768. Suc
cessivamente, occupò la direzione del Laboratorio
Chimico dell’Università fino al 1791.
Nel 1772, divenne membro importante nella ri
forma dell’Università di Coimbra e, il 17 maggio del
1774, assunse attività elettive e l’incarico di “lente
proprietário” delle cattedre di chimica e di storia
naturale per quasi vent’anni.
Nel 1779, Vandelli collaborò alla fondazione dell’Ac
cademia Reale e, come uomo di scienza, influenzò, fu
32
protagonista e ottenne rispetto fra i
Figura 1 – L’Accademia
soci nelle sue pubblicazioni.
Metodologia a fumetti
Studiare la scienza moderna nel
contesto interdisciplinare della Sto
ria della Scienza e della Storia Econo
mica, è lo standard sperato agli occhi
del lettore abituato al rigore dello
scientismo; eppure, in questo ela
borato, è presentata una proposta
metodologica parallela e temeraria.
Figura 2 – Stranieri felici
Si tratta della tecnica del fumetto. A
prima vista sembra sconcertante e
strana, ma è la pura e semplice ma
nifestazione dei messaggi sottintesi
registrati nei fumetti, dell’essenza
nel contesto e del piacere nel com
prendere l’argomento.
A proposito della storicità, lo
svolgimento è tracciato su approc
ci (parole, frasi o segmenti testua
li) estratti da fonti documentali
La Scienza Moderna
ria”. La satira si trova nel susseguir
correlate al contesto storico nella
La figura 1 è una striscia che pre
si delle informazioni (la lingua del
forma di humor moderno, poiché
senta informazioni che vanno oltre
re) alla luce della scienza moderna
non sempre il lettore è abituato alla
a una satira, cioè, una storia reale
(a esempio delle Memorie Econo
letteratura e alla forma esibita nei
alla fine del XVIII secolo portoghese.
miche) alla fine del XVIII secolo.
fumetti. Le illustrazioni sono state
Nel primo riquadro, alcune
La figura 2 illustra una parte
sviluppate attraverso il sito Toon-
“voci” risuonano dall’interno del
di una corrispondenza fra Van
doo1 in quanto rende disponibile
castello (stemma stampato sui
delli e il maestro Lineu (Carl von
un’interfaccia grafica di facile utiliz
Tomi dell’Accademia Reale delle
Linné, 170778)3, pubblicata nella
zo e con diversi diagrammi per cre
Scienze di Lisbona) per tutti gli uo
Memória Sobre Algumas Produções
are le storie a fumetti. I personaggi
mini di scienza, proferendo le se
Naturais Deste Reino das Quais se
saranno presentati mediante foto o
guenti parole: emitte lucen tuam.
Poderia Tirar Utilidade.4
approssimazioni figurate (porcella
Nel secondo riquadro, Domeni
Nel primo riquadro Vandelli
ne, castelli, giullare di corte, re etc.)
co Vandelli risponde: nisi utile est
dice: “Mi sono ricordato, maestro
per aiutare nell’ambientazione e/o
quod facimus stulta est gloria2. Nel
Lineu, che esclamava…”. Nel ri
nello sfondo del disegno. Il meto
terzo riquadro si trova la traduzio
quadro seguente Lineu risponde
do in sé non è innovativo, ma gli
ne delle vulgate latine. Il re Dom
in latino: Bonne Deus! Si Lufitani
approcci rivelano nuove forme di
João VI di Portogallo ripete: “ir
nofcent fua bona nature, quam in-
diffusione e materializzazione dei
radia la tua luce”, e il suo suddito
felices effent plerique alii, qui non
lavori che in passato risvegliarono
(Vandelli) risponde: “se non è utile
poffident terras exoticas!
la curiosità di lettori e ricercatori.
ciò che facciamo, stolta è la glo
Infine, nel terzo riquadro, il giul
1 Disponibile al sito <http://www.toondoo.com/>.
2 Questa vulgata si trova sul Frontespizio dei Tomi da I a V delle Memorie Economiche dell’Accademia Reale delle Scienze di Lisbona.
3 Botanico e creatore della nomenclatura binomiale e della classificazione scientifica.
4 VANDELLI, Domingos. Memória sobre algumas Produções Naturais deste Reino, das quais se poderia tirar utilidade. In: Memórias Econômicas da Academia Real das Ciências de Lisboa,
tomo I, 1789, p. 1812.
33
Figura 3 – Lettere fra naturalisti
(Svezia) al Lineu a Lisbona (Portogal
lo), congratulandosi per il capolavoro
stampato nei suoi scritti, e ancora,
dando ad una pianta il nome di Draca
ena Vandelli, in onore al suo pupillo.5
Nel terzo riquadro, Vandelli,
pieno di gioia, ringrazia, con molta
rispettabilità, il maestro per l’ami
cizia reciproca.
L’ultima vignetta è una bozza
di un albero, propriamente det
to, che secondo Vandelli aveva un
grande uso commerciale, poiché
se ne estraeva vernice.6
La Figura 4 è l’estensione della
Figura 3, mostrando nella prima vi
gnetta il pensiero di Vandelli, e nel
la seconda, l’albero reale in piena
esuberanza in suolo portoghese.
La Figura 5 illustra Vandelli e
José Bonifácio de Andrada e Silva
(17631838). José Bonifácio è co
nosciuto in Brasile come Patriarca
dell’Indipendenza (grazie alla sua
laurea in Diritto e al suo contributo
nella formazione della prima Costi
tuzione del Brasile imperiale), ma
lare di corte traduce ai non iniziati
possiedono terre esotiche!”
la scienza moderna: “Buon Dio! Se
Un’altra corrispondenza fra gli uo
i portoghesi e gli spagnoli conosce
mini di scienza del Settecento è mo
ranno i beni della tua natura, quan
strata nella Figura 3. Nei primi due ri
to infelici saranno gli altri, che non
quadri, Lineu scrive lettere da Uppsala
Figura 4 – Vandellia
nel suo soggiorno in Portogallo e
in alcuni paesi dell’Europa, venne
conosciuto come un grande uomo
di scienza (grazie alla sua forma
zione di naturalista, e in particola
re, in mineralogia).
Così, in forma di satira, Bonifacio
chiede al maestro se c’è qualcosa di
utile nella “Terrinha” (riferendosi al
Portogallo), e come risposta, nella
seconda vignetta Vandelli risponde
che c’è “espato fusivel”7, cioè, una
denominazione della nomenclatu
ra della chimica antica che mesco
lata con argilla fornisce la materia
prima di un certo tipo di porcellana.
5 VANDELLI, Domenico; LINNE, Carl von. De Linneu para Vandelli: Correspondência Entre Naturalistas. In: CAMARGOMORO, Fernanda de et al. O Gabinete de curiosidades de Domenico
Vandelli, v. 2. Rio de Janeiro: Dantes Editora, 2008, p. 19 e 88.
6 VANDELLI, Domenico. Memória Sobre Algumas Produções Naturais das Conquistas, as Quais ou São Pouco Conhecidas ou não se Aproveitam. In: Memórias Econômicas da Academia Real
das Ciências de Lisboa, tomo I, 1789, p. 19698 e VANDELLI, Domenico. Memória Sobre as Produções Naturais do Reino e das Conquistas, Primeiras Matérias de Diferentes Fábricas, ou
Manufaturas. In: Memórias Econômicas da Academia Real das Ciências de Lisboa, tomo I, 1789, p. 225.
7 VANDELLI, Domingos. Memória sobre algumas Produções Naturais deste Reino, das quais se poderia tirar utilidade. In: Memórias Econômicas da Academia Real das Ciências de Lisboa,
tomo I, 1789, p. 179.
34
Figura 5 – Stoviglie Vandelli
Vandelli aveva due fabbriche di
Figura 6 – Nostalgia dei maestri
stoviglie, la prima a Rossio di San
ta Clara, conosciuta come “Sto
viglie di Vandelles”, che funzionò
a Coimbra, dal 1784 al 1810, e la
seconda, di Vila Nova di Gaia, che
era conosciuta come Fabbrica del
Cavaquinho.8
La terza vignetta illustra l’unico
esemplare di stoviglia fabbricata in
una delle sue aziende che scampò
a un incendio nel 1810 e che rivela
con esclusività il disegno del viso di
Vandelli.
E dato che non potrei lasciar
passare quel momento nostalgico
dei bei tempi dell’Accademia, la fi
gura illustra la successione di gran
di uomini di scienza, professori per
generazioni.
La prima vignetta mostra Dom
Pedro II (18251891), imperatore
del Brasile, ricordando in età avan
zata la compagnia e la tutela dell’il
di condurre le giovani intelligenze
lustre José Bonifácio de Andra
e preparare gli uomini del futuro”
da al sapere della scienza moderna.
da e Silva in tenera età. A questo
Nella seconda vignetta, José Bo
proposito, si fanno opportune le
nifácio ricorda il maestro Vandelli.
parole di D. Pedro II: “se non fos
Nella terza vignetta Vandelli ricorda
In mezzo a varie pubblicazioni
si imperatore, desidererei essere
il maestro Lineu, e infine, Lineu ri
(alcune inedite, scritte a mano e
professore. Non conosco missione
corda il suo pupillo che fu nelle lon
non pubblicate), emergono cinque
più grande e più nobile che quella
tane terre lusitane ad aprire la stra
collezioni stampate nell’Accade
Le Memorie Economiche nel Regno Lusitano
8 COSTA, Ricardo Dalla. Ciências Naturais e Econômicas na obra de Domingos Vandelli (1735-1816). 2017. 116f. Tese (Doutorado em História da Ciência) – Pontifícia Universidade Católica
de São Paulo. São Paulo, 2017, p. 44.
35
mia Reale delle Scienze di Lisbona,
Memória Sobre Algumas Pro-
duçoes Naturais do Reino e das
in cui l’autore contribuì nei primi
duçoes Naturais Deste Reino das Quais
Conquistas, Primeiras Matérias de
quattro tomi. Infatti, furono undici
se Poderia Tirar Utilidade: descrizione
Diferentes Fàbricas ou Manufaturas:
memorie economiche, delle quali
dei vantaggi nell’arte dell’estrazione
esposizione delle basi e delle diffi
sei nel primo (1789), due nel secon
dei beni minerali e della buona agri
coltà nell’aumento della produzio
do (1790), due nel terzo (1791) e
coltura, oltre a sottolineare l’impor
ne in Portogallo, alla fine del XVIII
una nel quarto tomo (1812).
tanza dei regni animale e vegetale;
secolo; brevi appunti sulla bassa
-
Memória Sobre Algumas
crescita demografica portoghese e,
lo e la sinopsi delle memorie (econo
Produçoes Naturais das Conquistas,
di conseguenza, la mancanza di for
miche) del primo tomo con rilevanza
as Quais ou São Pouco Conhecidas ou
za lavoro per la coltivazione di ali
politica agraria con interpretazione
não se Aproveitam: esposizione delle
menti nel campo, la quale giustifica
fisiocratica alla fine del XVIII secolo:
ricchezze del Regno e delle conqui
va la preferenza degli investimenti
Memória Sobre a Ferru-
ste, mostrando le fragilità dello sfrut
in agricoltura anziché nell’industria;
gem das Oliveiras: analisi sull’in
tamento delle mine di oro, che non
setto che riduce la produzione e la
sempre erano possibili e, non rara
cia que em Portugal se Deve Dar a
qualità degli ulivi;
mente, sorgevano casi di coltivazioni
Agricultura Sobre as Fàbricas: enfasi
Memória Sobre a Agricul-
abbandonate. Mostrava che l’oppor
sulla preferenza all’agricoltura an
tura Deste Reino e das suas Conqui-
tunità di coltivare una buona agricol
ziché alle industrie, in Portogallo,
stas: critica alle terre incolte e alla
tura, rendeva possibile una maggior
poiché non si sarebbe potuta pre
mancanza di coltura in piante utili
ricchezza fornita dalla natura;
giudicare la forza lavoro utilizzata
Così, per esempio, seguono il tito
-
-
al commercio portoghese;
-
-
Memória Sobre as Pro-
-
Memória Sobre a Preferen-
nell’agricoltura con iniziative volte
allo sviluppo di nuove fabbriche.
Figura 7 – Memorie Economiche
Sotto forma di satira, la figura 7
mostra i ricordi di Vandelli con una
sorprendente lucidità:
La presenza del pensiero fisio
cratico, in Portogallo, portò riflessi
nell’opera di Vandelli, con enfasi sia
alle produzioni naturali più abbon
danti nei territori lusitani, sia a quel
le che esigevano lavoro agrario.
Vandelli svolse un lavoro signifi
cativo alla Corona portoghese con la
spiegazione del migliore metodo di
sfruttamento dei beni offerti dalla na
tura per superare la crisi economica e
politica che impattava il Portogallo,
soprattutto nell’attività mineraria
e nell’agricoltura. La sua collabora
zione consolidò gli studi sulla storia
naturale nel Regno e nelle Colonie,
principalmente, in Brasile.
La figura 8 illustra una classe, e
in particolare, i sedici brasiliani che
furono accademici a Coimbra sotto
la direzione di Vandelli, come Vicen
te Coelho da Silva Seabra e Telles
(17641804), José Bonifácio de An
36
drada e Silva (17631838), Manuel
da Silva Lisboa (Visconte di Cairu,
non permette soltanto la revisione
Ferreira da Câmara Bittencourt e Sá
17561781), Luís António Furtado de
e il fissaggio dei documenti tratta
(l’“Intendente Câmara”, 17621835),
Castro Mendonça e Faro (6º Viscon
ti, ma anche una forma parallela di
Thomé Rodrigues Sobral (1759-1829)
te di Barbacena, 17541830), José
studiare e verificare l’importanza
e Constantino Antônio Botelho de
Álvares Maciel (17611804), Baltasar
di un padovano in terre lusitane.
Lacerda Lobo (17541820).
da Silva Lisboa (17611840), Joaquim
Studiare Domenico Vandelli e ve
Oltre a questi, i naturalisti: Ale
Veloso de Miranda (17501817), Ber
rificare gli ammirevoli servizi che pre
xandre Rodrigues Ferreira (1756
nardino Antônio Gomes (17681823).
stò nel Regno, nelle Colonie e per la
1815), João da Silva Feijó (17651815),
In evidenza, la persona di José Bo
scienza moderna, dà l’opportunità di
José Vieira Couto (17521811), Frei
nifácio de Andrada e Silva (17631838),
uno studio di caso tra i più appropriati
Manuel Arruda da Câmara (1752
il discepolo più prolifico del maestro.
per evidenziare la stretta relazione fra
1810), Frei José Mariano da Con
Considerazioni finali
i fattori politicoeconomici che prese
ceição Veloso (1741/21811), José
L’approccio in forma di fumetti
ro forma negli scritti dell’autore.
Figura 8 – Accademici brasiliani a Coimbra
37
Chi ruba il merito
Quando un uomo privo di fantasia, ma molto ambizioso raggiunge una
posizione di potere come fa a conservarla? Prima di tutto si circonda di
persone mediocri che tiene legate a sé con il denaro, con i ricatti e con la
paura. Poi creando ostacoli e impedimenti alle persone di valore e creative
per rallentare la loro ascesa e costringerli a ubbidire ai suoi ordini. Il me
diocre anche quando è potente, di fronte all’inventore, al creatore, prova
un insopportabile sentimento di rancore e di invidia. Allora fa di tutto per
ostacolarlo, per danneggiarlo, per umiliarlo. Il regista Forman ce lo ha rap
presentato stupendamente nel film Amadeus, dove il compositore Salieri
dedica la sua vita a odiare e a distruggere Mozart. Ma c’è il direttore di
giornale invidioso del giornalista famoso, l’editore invidioso dello scritto
re, il professore del suo allievo. E se, col tempo, il creatore, l’innovatore,
ha tanta tenacia, tanta forza da affermarsi ugualmente allora il mediocre
potente può decidere di cambiare strategia nei suoi riguardi.
Anche le persone incapaci, infatti, per conservare il proprio potere e accre
scerlo, hanno bisogno di gente creativa. Poiché non vogliono circondarsi
di persone di valore che temono e invidiano, di solito comperano le loro
prestazioni e poi se ne sbarazzano. Ma c’è anche chi non si fa comperare
e allora il mediocre ambizioso decide di sedurlo con la lusinga, con l’ingan
no. Avvicina l’individuo creativo che fino a quel momento ha osteggiato,
lo corteggia, gli dice che ha capito il suo genio, che lo aiuterà, basta che
si lasci guidare da lui. E si dà da fare, lo sostiene, lo finanzia, si presenta
no insieme in pubblico, poi quando le cose sono avviate, ci va da solo e
si prende il merito di ciò che hanno realizzato. Infine, quando l’opera è
conclusa incomincia a trovargli dei difetti, a criticarlo, a denigrarlo finché
non lo allontana, lo fa sparire e resta solo il suo nome. Molti monumenti
commemorativi non ricordano il creatore, l’inventore, ma il potente che
per molto tempo ha ostacolato l’inventore, poi lo ha sfruttato e, alla fine,
è riuscito a farlo dimenticare e a prenderne il posto.
Francesco Alberoni
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PASSA
TEMPO
DIVERTIMENTO
Le rondini che in primavera iniziano la loro
migrazione verso il Nord Europa hanno scoperto una
«scorciatoia». Per evitare i venti ancora freddi delle
vette alpine, esse passano in Svizzera attraverso il
tunnel del San Bernardo.
PUZZLE
CURIOSITÀ
SOLUZIONI
PUZZLE
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