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Le inquisizioni del Wilcock critico di Luciana Pasquini

2020, Mosaico Italiano, ISSN 21759537

Questo intervento prende le mosse da un’associazione di idee che avvicina Wilcock ad un antecedente settecentesco di fustigatore della coeva società letteraria e delle modalità stesse del fare letteratura, ad un personaggio cardinale di quella vivace temperie riformista che va sotto il nome di Giuseppe Baretti, meglio conosciuto con lo pseudonimo di Aristarco Scannabue, intellettuale che notoriamente fondò, all’uopo, ovvero per sferzare il malcostume che a suo avviso si andava coagulando intorno al “fatto letterario”, una testata apposita dal noto titolo “persecutorio".

ANO XIII - NUMERO 194 “Noi fatti di parola e di null’altro”: Juan Rodolfo Wilcock (1919-1978) - 2 Marzo 2020 Editora Comunità Rio de Janeiro - Brasil www.comunitaitaliana.com [email protected] Direttore responsabile Pietro Petraglia Editori Andrea Santurbano Fabio Pierangeli Patricia Peterle Revisore Elena Santi Grafico Wilson Rodrigues COMITATO SCIENTIFICO Andrea Gareffi (Univ. di Roma “Tor Vergata”); Andrea Santurbano (UFSC); Andrea Lombardi (UFRJ); Asteria Casadio (Univ. “G. d’Annunzio, Chieti e Pescara); Beatrice Talamo (Univ. della Tuscia di Viterbo) Cecilia Casini (USP); Cristiana Lardo (Univ. di Roma “Tor Vergata”); Daniele Fioretti (Univ. Wisconsin-Madison); Elisabetta Santoro (USP); Ernesto Livorni (Univ. WisconsinMadison); Fabio Pierangeli (Univ. di Roma “Tor Vergata”); Giorgio De Marchis (Univ. di Roma III); Giovanni La Rosa (Univ. di Roma “Tor Vergata”) Lucia Wataghin (USP); Mauricio Santana Dias (USP); Maurizio Babini (UNESP); Patricia Peterle (UFSC); Paolo Torresan (Univ. Ca’ Foscari); Roberto Francavilla (Univ. di Genova); Sergio Romanelli (UFSC); Silvia La Regina (UFBA); Wander Melo Miranda (UFMG). COMITATO EDITORIALE Affonso Romano de Sant’Anna; Alberto Asor Rosa; Beatriz Resende; Dacia Maraini; Elsa Savino (in memoriam); Everardo Norões; Floriano Martins; Francesco Alberoni; Giacomo Marramao; Giovanni Meo Zilio; Giulia Lanciani; Leda Papaleo Ruffo; Maria Helena Kühner; Marina Colasanti; Pietro Petraglia; Rubens Piovano; Sergio Michele; Victor Mateus ESEMPLARI ANTERIORI Redazione e Amministrazione Rua Marquês de Caxias, 31 Centro - Niterói - RJ - 24030-050 Tel/Fax: (55+21) 2722-0181 / 2719-1468 Mosaico italiano è aperto ai contributi e alle ricerche di studiosi ed esperti brasiliani, italiani e stranieri. I collaboratori esprimono, nella massima libertà, personali opinioni che non riflettono necessariamente il pensiero della direzione. “Noi fatti di parola e di null’altro”: Juan Rodolfo Wilcock (1919-1978) - 2 Come già annunciato due mesi orsono, in occasione dell’uscita del primo numero sul tema, diamo continuità alla pubblicazione di saggi dedicati allo scrittore italo-argentino Juan Rodolfo Wilcock, frutto del bellissimo convegno a lui dedicato dall’Università d’Annunzio di Chieti, il 5-6 dicembre scorso, con l’organizzazione di Andrea Gialloreto e Stefano Tieri, nell’ambito del progetto internazionale “Archivi reali e immaginari tra Italia e America Latina”. Vogliamo recuperare in questa circostanza parole già allora usate per presentare l’opera poliedrica di un autore tanto straordinario quanto scomodo e irriverente. Apolide letterario, iconoclasta dei generi, reinventore del quotidiano, umorista allucinatorio, virtuoso del concetto, deformatore grottesco, riscrittore di se stesso, satiro iperbolico, creatore di critici eteronomi, lettore eterodosso dei segni del tempo, Wilcock si trasferisce definitivamente in Italia cominciando a scrivere in italiano e entrando a far parte a tutti gli effetti della storia letteraria del belpaese, alla fine degli anni Cinquanta, con una serie già considerevole di opere scritte o pubblicate in spagnolo, che vanno dalla poesia, alla prosa, al teatro. Costruendo un collage di citazioni tratte dai saggi di questi due numeri, si può affermare che «accanto al “trasloco reale di casa, lingua, cultura” (che però significherà per lui, in perfetta coerenza con l’immagine di sé che ci ha lasciato, muoversi all’insegna della sinergia, della contaminazione, dell’osmosi, pur dentro una visione se non propriamente polemica, naturalmente anticonformistica) agisce in Wilcock un’altra e più intima specie di trasloco, che coinvolge la sua letteratura dall’interno: quella della transazione, all’insegna di un’intertestualità endogena, che trascorre lungo i diversi livelli dell’autocitazione e della riscrittura vera e propria». E nella grande opera creativa che viene così a costituirsi l’autore giunge a toccare «tutte le corde di uno strumento espressivo tanto personale quanto evocativo delle “dissonanze” epocali di cui il Novecento si è fregiato: dall’invettiva al grottesco, dal fantastico all’assurdo, dal macabro allo gnomico, dal lirismo agli algori della matematica e della filosofia del linguaggio». In questo secondo numero dedicato a Wilcock l’accento è posto, più specificamente, sulla sua attività di critico e recensore, sul particolare rapporto con macchine e dispositivi secondo quanto si evince da alcune sue pagine narrative e sul suo personale laboratorio poetico a cavallo tra due (e più) culture. In chiusura, una metodologia di studio del tutto originale sulla figura di uno scienziato, naturalista e botanico, Domenico Agostino Vandelli, che sarebbe senz’altro piaciuto allo stesso Wilcock, per un duplice motivo: in primo luogo perché ne segue lo stesso cammino seppur inverso, nato cioè in Italia e poi trasferitosi all’estero – in questo caso il Portogallo, acquisendo a tutti gli effetti cittadinanza culturale in ambito luso-brasiliano; in secondo luogo perché potrebbe anche lui annoverarsi – giocando per un attimo tra realtà e finzione – tra le famose gallerie wilcockiane di scienziati e inventori. SI RINGRAZIANO “Tutte le istituzioni e i collaboratori che hanno contribuito in qualche modo all’elaborazione del presente numero” STAMPATORE Editora Comunità Ltda. ISSN 2175-9537 2 Buona lettura! Gli editori Indice I segni del tempo: frammenti di un discorso (in)civile Seguito da: Tre articoli da «La Voce Repubblicana» di Juan Rodolfo Wilcock Andrea Gialloreto pag. 04 Le inquisizioni del Wilcock critico Luciana Pasquini pag. 11 Narrativa e dispositivo in Juan Rodolfo Wilcock Kelvin Falcão Klein pag. 15 “Chi non ha nome non può morire”: intorno alla poesia di Wilcock Patricia Peterle pag. 22 Domenico Vandelli in storie a fumetti. Un nuovo approccio metodologico nello studio della scienza moderna Ricardo Dalla Costa pag. 32 Rubrica Chi ruba il merito Francesco Alberoni pag. 38 PASSATEMPO pag. 39 3 I segni del tempo: frammenti di un discorso (in)civile Andrea Gialloreto Nell’opera creativa, Wilcock ha toccato tutte le corde di uno stru­ mento espressivo tanto personale quanto evocativo delle “dissonan­ ze” epocali di cui il Novecento si è fregiato: dall’invettiva al grotte­ sco, dal fantastico all’assurdo, dal macabro allo gnomico, dal lirismo agli algori della matematica e della filosofia del linguaggio, la scrittu­ ra dell’argentino rappresenta un costante sforzo di traduzione: del pensiero in immagine, dell’ossatu­ ra logica di una lingua nella struttu­ ra naturale di un’altra, dell’informe nelle inesauribili potenzialità del linguaggio. Nelle centinaia di arti­ coli dispersi, invece, al caleidosco­ pio di motivi e suggerimenti che ciò che comunemente appelliamo realtà offriva allo scrittore si presta un solo registro, riassumibile nel didascalismo venato di ironia e di quel leggero velo di compatimen­ to mediante il quale l’intelligenza osserva la stupidità in atto e ne trae la lezione amara del parados­ so e del non-sense. Erano queste le componenti di una conversazione che catturava gli interlocutori no­ nostante in apparenza li lasciasse 4 fuori dal terreno della contesa tra di dimessa contemplazione delle re» univocamente i segni del tem- lo scrittore i suoi demoni. I distillati rovine della civiltà occidentale po; l’uomo è afflitto da congenita dell’esperienza e di un disincanta­ quanto più rispondenti alla con­ cecità quando pronostica su se to esercizio della ragione raggiun­ dizione di una società marginale stesso: «Non è concessa all’uomo gevano livelli di concentrazione e subalterna quale quella della la visione storica del presente, allo inconsueti nell’Italia postbellica provincia Italiana o, per dir me­ stesso modo che al pesce fermo quando Juan Rodolfo intratteneva glio, della babelica Città Eterna nelle acque dei Caraibi non è con­ gli amici «monologando con uno (osservatorio privilegiato perché cesso di sapere dove va la corrente stile che sapeva di distacco e di ele­ i fenomeni generali di degrado del Golfo; neanche di conoscerne ganza, in obbedienza ad un cervel­ e “spettralità” vi si manifestano l’esistenza. La critica profetica ha lo lucido e controllato» . con maggiore virulenza facendo­ valore soltanto nella misura in cui La rubrica I segni del tempo, ne lo «specchio tremendo dell’in­ essa riesce ad avverarsi. Non ap­ che lo scrittore ha curato per «La conscia ideologia romana; perché pena avverata la profezia, essa Voce Repubblicana» dal secondo non è ancora il caso, spero, di diventa cosa del passato, curiosità semestre del 1966 al 1972, racco­ chiamarla italiana»). fanciullesca, gioco riuscito, né più 1 glie numerosi articoli il cui taglio L’impietoso esame dei prodot­ peculiare sarebbe difficile racchiu­ ti culturali di consumo – paralet­ dere in una formula: recensioni, teratura, cinema di genere, gior­ L’obliquità prospettica dello elzeviri, pagine corsare, saggi di nalismo di cronaca – e delle idées sguardo e l’eredità del “dispatrio” divulgazione scientifica, satire di reçues che, quando se ne appropria da altre latitudini salvaguardano costume, microracconti non dissi­ la Ragion di Stato come negli anni l’argentino dall’assumere su di sé i mili da quelli della Sinagoga degli dell’affaire Lysenko, rischiano di es­ complessi della tortuosa psicologia iconoclasti e dello Stereoscopio sere elevate a dogma inconfutabi­ nazionale e le linee di fuga del pen­ dei solitari, tutti questi modelli le, costituisce la pietra di paragone siero proprie degli indigeni: quegli convivono nella tensione al disve­ del giudizio su un intero assetto allegri indiani/italiani che, secondo lamento del luogo comune, nel sociale e sul futuro delle nazioni. la logica della dislocazione paro­ falò delle maschere e delle vanità La vocazione profetica – appan­ dica comune anche agli etruschi/ culturali, che sembrano impronta­ naggio di ciarlatani, demagoghi e neri dell’altro romanzo, popolano re il discorso di Wilcock sui mimi- utopisti – cede tuttavia il passo in incongruamente una terra di fanta­ ma moralia della contemporanei­ Wilcock alla consapevolezza della smi catodici, sedimentazione di ro­ tà, tanto più ricondotti a un piano difficoltà di interpretare, di «legge­ vine di civiltà estinte delle quali per­ né meno interessante di quello non riuscito». 1 Gian Antonio Cibotto, Il principe stanco, Vicenza, Neri Pozza, 2002, p. 178. 5 mane solo una vaga connotazione 6 dal Countdown apocalittico). mente truce “norma” borghese rustica e “italica”. La lente della Così, un contributo originale del quando a quei valori tradizionali deformazione, che lo scrittore ha genio italiano quale lo spaghetti­ si sostituisce il culto esclusivo del magistralmente applicato nei suoi western si eleva dal novero delle denaro. Il paragone ironico con i testi creativi, è abbinata negli scritti realizzazioni minori destinate al portati dell’avanguardia rispetto giornalistici a quella d’ingrandimen­ mercato (sub)culturale nel mo­ al concetto novecentesco di «di­ to, che accentua il carattere emble­ mento in cui lo scrittore vi co­ sumanizzazione matico e significante degli oggetti glie con sagacia i precoci segnali fa che rafforzare il senso di futile “culturali” (sovente ricondotti al dell’imbarbarimento di un Paese gratuità che emana da questa sa­ rango di «materiali mitologici» o di che cadrà di lì a pochi anni nelle dica espressione di svago popo­ barthesiani «miti moderni») appa­ spire della violenza e del terrori­ lare: «Sorta sotto il segno dell’a­ rentemente destituiti di qualsiasi smo. Alcuni elementi anomali – narchia, segue inconsciamente, valenza epistemologica che non d’«avanguardia» precisa Wilcock goffamente, i più truci precetti del sia quella derivante da una blanda – rispetto allo stadio della mora­ teatro della crudeltà. Rifiuta qual­ applicazione di strumenti sociolo­ le corrente (il western all’italiana siasi forma di sentimentalismo, e gici e statistici (l’universo delle ana­ infatti «si fa beffe della famiglia, ciò la fa diversa da tutte le altre lisi di Wilcock è gremito di numeri: della religione, dell’onore, della produzioni spettacolari di diverti­ statistiche accanto alle cabale, dati morale, della legge e del carattere mento per le masse. Annuncia un scientifici e bislacche elucubrazioni tradizionalmente sacro del corpo mondo e un tempo da e di sciacal­ in veste di arcani, giochi matemati­ umano») vengono rapidamente li, di torture e di eccidi lungamen­ co­linguistici e danze di cifre sortite riportati nell’alveo della egual­ te covati, protratti e desiderati»; è dell’arte» non significativo che a queste conclu­ alla debolezza dei poeti italiani di una possibile ripresa, della sioni giunga un autore “crudele” (da sempre la poesia rappresen­ riedificazione dalle macerie di come Wilcock, capace nei racconti ta il punto di ricaduta ideale di una nuova lingua, basica e meno di Parsifal di inscenare un’efferata una letteratura), al loro minima­ complessa, come tutte le forme teoria di violenze e brutalità per lismo “crepuscolare”, la mancan­ embrionali, ma foriera di rinno­ demitizzare l’epica eroica denu­ za di vigore della narrativa, che vati equilibri tra i due estremi dando il sostrato di violenza ar­ avrebbe invece potuto attingere della parola e del silenzio, germe caica e di pulsionalità brada insito all’energia dei grandi maledetti, wittgensteiniano di verità e di ri­ nelle favole di identità su cui l’uo­ se gli uomini di questa tempra gore: «Questa carenza di novità, mo occidentale ha scommesso non fossero estranei agli ambiti altrimenti chiamata decadenza per istoriare la narrazione di sé e della cultura borghese («nessun o stasi del pensiero, potrebbe del proprio spazio (a)sociale. grande maledetto. Maledetti ce essere simbolo di qualcosa di n’erano in Italia, sì; ma erano tut­ più ampio, per esempio della ti analfabeti»). tra sformazione che è accaduta L’articolo La materia della noia è una riflessione sulla mancanza in Italia di una vera «cultura del Quella stessa assenza di ori­ o sta accadendo nella società romanzo»: laddove venga meno ginalità che è per i romanzi un mondiale. Come se dovesse se­ l’influenza dei modelli francesi e grave difetto, costituisce in fi­ gnare la fine di un’epoca; ciò che inglesi, la produzione italiana dei losofia un possibile rimedio, at­ nel male o nel bene impliche­ romanzi da premio letterario si traverso il ritorno alla tradizione rebbe l’inizio di un’altra. Come attesta sui livelli modesti del ri­ del “già pensato” e delle verità se ci fosse stato un mutamento piegamento elegiaco­memoriale, eterne, alla Carestia di pensato- quasi totale del linguaggio, e ora delle cronache di vita di provin­ ri ravvisabile nel nostro tempo. i pensatori stessero studiando il cia, del sentimentalismo dissol­ Dalla pars destruens di un ragio­ nuovo linguaggio, il quale forse to in paesaggi convenzionali e namento implacabile e serrato non è stato ancora creato; un trame noiose. Wilcock, con un sulla crisi di civiltà dell’era posta­ linguaggio più basso, come ogni eccesso di ingenerosità, imputa tomica Wilcock ricava l’annuncio lingua nuova». 7 Tre articoli da «La Voce Repubblicana» Un nostro contributo originale Proprio quando mi accingevo, per rendere forse più luttuose le allegre pagine della «Voce», a registrare alcune rifles­ sioni suggeritemi da uno dei più genuini, dei più notevoli fenomeni della vita intellettuale italiana di oggi, cioè il western italiano, accerto, col piacere che sempre procura una compagnia amica e congeniale, che Alberto Moravia ha fatto la stessa cosa che intendevo fare pubblicando sull’«Espresso» un breve saggio ispirato da questo non più puerile argomento. Si capisce che la stravaganza della stagione cinematografica ci ha spinti o costretti a vedere ciò che altrimenti forse non avremmo visto di buon grado. Un’esperienza non sempre ripetibile, ma istruttiva e per certi versi sbalorditiva. Nel mio caso si trattava di un prodotto buio e tetro intitolato Un dollaro tra i denti. Infatti, verso la fine del film, l’eroe del medesimo inserisce un dollaro tra i denti del nemico ucciso, e mi sono domandato, retoricamente, quanti fossero tra gli spettatori a sapere che questo gesto millenario rappresentava in realtà l’obolo con cui l’anima del morto avrebbe poi pagato il tragitto stigio a Caronte. Forse nessuno; ma ciò non interessa, e certamente non c’erano nel film in questione altri gesti difficili da interpretare: sembrava essere tutto fatto di lunghi silenzi, soltanto interrotti da calci in bocca, sevizie, uccisioni e furti. Non sul piano però dell’azione, come nei film avventurosi degli altri decenni: sul piano soltanto dell’odio, dell’astuzia e della malvagità fine a se stesse. Osserva giustamente Moravia: «Il western italiano, prodotto dalla mitologizzazione di quello americano, è molto di­ verso dal suo modello. Il western americano era basato sulla lotta tra il bene, rappresentato dai pionieri o da un solitario cavaliere raddrizzatore di torti, e il male, rappresentato sia dai banditi, sia dagli indiani. Il bene alla fine trionfava; e l’eroina virtuosa e valorosa era il premio del trionfatore. Il western americano, insomma, aveva un carattere edificante e rispecchia­ va, seppure remotamente, esperienze storiche reali del popolo americano. Nel western italiano, niente di tutto questo. L’ultima esperienza storica italiana è stata il machiavellismo; e infatti nel western italiano non c’è lotta tra bene e male; ma tra stupidità e ingegno, tra ingenuità e astuzia. Prevalgono l’ingegno, l’astuzia, naturalmente, ma in modo vuoto e melan­ conico, come qualità che si sanno ormai anacronistiche». Ora quest’assenza di carattere edificante (un suggerimento edificante c’è sempre, ma abbastanza infernale: che in questo mon­ do solo importa il denaro, anzi l’oro, qui chiamato «dollari» e che la sola via per raggiungerlo è il rifiuto di qualsiasi regola morale) fa di queste operine specchio tremendo dell’inconscia ideologia romana; perché non è ancora il caso, spero, di chiamarla italiana. Le donne, nel film di cui parlo, non vengono mai guardate, soltanto malmenate, e alla fine il giovane protagonista della vicenda se ne va, non con l’unica ragazza rimasta in vita, bensì con un sacco contenente cinquantamila dollari d’oro. Quest’oro apparteneva al governo (degli Stati Uniti): il pubblico approva, si identifica. Peraltro, tutti i personaggi del film sono sporchi, straccioni, ladri, crudeli, subumani; l’unico prete che osa farsi vedere viene annegato in una vasca di acqua come una gallina; l’unico bambino, si salva per caso di venire sgozzato, il protago­ nista, un vero accattone dall’aspetto, è a lungo picchiato, calpestato, frustato, preso a randellate e a calci sul naso o sul basso ventre, mitragliato (senza successo); ma in compenso riesce a uccidere (trascinandosi, perché ormai ha le braccia e le costole rotte) per lo meno venticinque nemici diversi: a mano a mano che li va uccidendo, riprende l’uso degli arti rotti. Un’operina così fatta, che indirettamente si fa beffe della famiglia, della religione, dell’onore, della morale, della legge e del carattere tradizionalmente sacro del corpo umano, per proporre invece la sola morale suddetta: «anzitutto il denaro», è fondamentalmente un’opera di estrema avanguardia, contemporanea più di molti esperimenti pensati e ripensati. Sorta sotto il segno dell’anarchia, segue inconsciamente, goffamente, i più truci precetti del teatro della crudeltà. Ri­ fiuta qualsiasi forma di sentimentalismo, e ciò la fa diversa da tutte le altre produzioni spettacolari di divertimento per le masse. Annuncia un mondo e un tempo da e di sciacalli, di torture e di eccidi lungamente covati, protratti e desiderati. Moravia nel suo breve saggio afferma di credere che il genere stia per morire; ma sarebbe certo ottimistico supporre che con esso possa scomparire la mentalità profondamente criminale, o in ogni caso contraria all’establishment, che l’ha creato o per la quale è stato creato. [I segni del tempo, in «La Voce Repubblicana», 7­8 settembre 1967] 8 La materia della noia Ho visto con piacere che il romanzo di Matthew Shiel, La nube purpurea, già presentato e ripetutamente preannunciato in questa stessa rubrica, diversi mesi fa, ha trovato a quanto pare l’approvazione unanime della critica italiana; e conse­ guentemente, o forse soltanto contemporaneamente, ma in maniera notevole, il favore del pubblico. Al di là dei valori intrinsechi [sic] dell’opera stessa, ciò mi ha fatto riflettere sui motivi generici di un tale successo; un successo che qualche decennio fa (e il libro in questione ha l’età del secolo) sarebbe sembrato quasi impossibile. E il motivo principale mi pare sia questo: che il pubblico è assetato di romanzi, di veri romanzi. Assetato di romanzi interessanti, avvincenti: non convenzionali, densi, imprevedibili. Molto si vendono quelli insigniti dai vari premi: Strega, Viareggio, Campiello, eccetera; ma, e non dico a lettura finita, bensì fin dall’inizio stesso, il lettore di tali opere, sia pur dignitose e scritte bene, penetra nel mondo della noia, della materia nota della noia, e se mai riesce a farsi in qualche modo strada tra quelle nebbie, lo fa soltanto perché si tratta di una noia alquanto diversa dalla sua propria. Non vi aspettate, o lettori!, che un romanzo premiato in Italia cominci così: «Siccome mio zio aveva preso tante e così efficaci misure per impedire che i suoi figli lo uccidessero, questi mi chiesero con familiare insistenza che mi occupassi io della faccenda; anche perché tutti in paese erano rimasti favorevolmente impressionati dall’eleganza e dalla semplicità con cui ero riuscito a disfarmi della mia fidanzata diciannovenne, annegata in un serbatoio di cherosene col bambino che per mia effimera gioia portava in grembo…». Oh, no! Apriteli quei romanzi, leggete la pagina iniziale, e vedrete: che il pri­ mo narra delle ombre di Milano alle sette del mattino, l’altro dei riflessi viola sul Tirreno al tramonto, il terzo delle cicale che a mezzogiorno assordano la vecchia pergola nei pressi di Corigliano Calabro… Accanto a questi inizi di romanzo, quelli del Verga (l’incendio di Mastro Don Gesualdo, per esempio) sono moderni almeno quanto James Bond o Diabolik. Quello che per i loro autori è stata la principale preoccupazione dell’adolescenza, cioè la ricerca del salame da inserire tra le due fette di pane tagliate dal babbo e distribuite dalla mamma, rimane in qualche modo la principale preoccupazione della maturità. Con lo stesso salame, compatto benché trasfigurato, riempiranno i loro romanzi, e il risultato è quello che si vede. Una delle cause di questa caparbia melensaggine rimane il fatto che l’Italia, nel Novecento, non ha avuto dei veri poeti (non sono stati forse finora i poeti a dare il tono a una letteratura?), bensì dei piccoli poeti crepuscolari, addetti alle minuzie casalinghe: nessun grande maledetto. Maledetti ce n’erano in Italia, sì; ma erano tutti analfabeti. Un’altra delle cause è che dalla Francia, che fu in altri tempi la sola possibile maestra, da molti anni non arrivano romanzi inte­ ressanti. Quanto ai romanzi anglosassoni, tradotti, o sono dei miraggi di romanzo (come quelli di Saul Bellow, di Mary Mac Carthy), oppure presuppongono una «cultura del romanzo» così solida e conglomerata da sembrare su queste sponde impossibile. E non parliamo di genialità, come quella che si svolge nell’arco che va da Genet alla Compton­Burnett; perché la genia­ lità non propone, non può proporre modelli (che hanno imparato, e chi, da Italo Svevo?). Parlo soltanto di regolare ammi­ nistrazione del romanzo; al livello, per fare un esempio, del riuscitissimo Tono-Bungay di H. G. Wells. Non per nulla il solo romanzo «romanzo» degli ultimi anni rimane il recentemente ristampato Fratelli d’Italia di Arbasino, conoscitore isolato della tradizione inglese. Tra queste cause non credo invece che si debba dar gran peso, ormai, alla pur notevole stupidità di molti tra i consulenti delle case editrici. Può dirsi infatti che oggi gli editori pubblicano tutto, in ogni caso tutto quello che capita tra le mani. Sarà poi il lettore a definire e a conformare il mercato; guidato, malamente, dai critici letterari. I quali fanno, non senza onestà, il loro mestiere: con la stessa onestà con cui un sarto di paese taglia per i suoi clienti, onestissimamente, quei vestiti impre­ sentabili che contraddistinguono la piccola borghesia di provincia. Quel che precede sembra presupporre, comunque, una possibilità che a prima vista rimane tuttora da dimostrare: che si possano scrivere dei romanzi interessanti, non a forza di genio né di talento, ma per il solo fatto di essere l’autore inse­ rito in una «cultura» adatta al romanzo. Credo che basterebbero a dimostrare questa possibilità Ray Bradbury o Lovecraft negli Stati Uniti, Simenon in Francia. Arthur Machen o Eden Phillpotts in Inghilterra. Perfino un Fleming, pessimo scrittore, creatore di un personaggio sciocco e ottuso ma a suo modo vivace, l’agente James Bond, sembra in Italia impensabile. Qui, si direbbe, una persona che scrive mediocremente, non può fare, per mancanza di immaginazione, oltre che di tutto quel che si è detto, di quella che ho chiamato la «cultura del romanzo», altro che riscrivere e riscrivere le suaccennate ombre di Milano alle sette del mattino, i riflessi viola sul Tirreno al tramonto, le cicale che a mezzogiorno assordano la vecchia per­ gola nei pressi di Corigliano calabro. Oppure qualcosa di più intransitabile ancora: un romanzo volutamente d’avanguardia. [I segni del tempo, in «La Voce Repubblicana», 14­15 settembre 1967] 9 Carestia di pensatori Viaggiatori dell’Ottocento scoprirono che certi cani abbandonati dai bucanieri nelle isole Galapagos si erano riprodotti, erano diventati selvatici, e infine avevano perso la capacità di latrare. Riportati alcuni di questi cani in Europa, e messi in contatto con altre bestie della loro specie, si vide tuttavia che dopo pochi mesi essi imparavano ad abbaiare. Lo stesso potrebbe accadere, se il caso vuole, ai pensatori. La loro filosofia era sublimazione del pensiero popolare, dunque aveva radici, come d’altronde l’avevano la poesia e la musica; queste radici vennero tagliate il giorno in cui l’espressione «pen­ siero popolare» perse il suo senso, divenne slogan politico o industriale, imposizione dall’alto, da un ceto culturale che per quanto basso non nutre la speranza di diventare popolo, bensì burocrazia dominante. Qualche radice rimase, è vero, alla filosofia; ma erano soltanto quelle radici parassitiche che traevano il loro succo dalla filosofia del passato. Difficile far vivere l’albero in queste condizioni; d’altra parte, le piante parassitiche sono quasi sempre piccole. L’avvenire della specie umana sembra ormai rinchiuso tra due alte muraglie: da un canto le mura della distruzione in massa, dall’altro quelle sempre più incombenti della sovrappopolazione; il futuro è in stato di assedio. Noi che nel tem­ po abitiamo, o abbiamo l’impressione di abitare, tra questi due astratti, il passato e l’avvenire, dobbiamo trovare a tutto soluzioni provvisorie. Il pensiero tranquillamente pago di se stesso presuppone la possibilità di soffermarsi, nell’attesa di un avvenire; dove non c’è avvenire non ci si può soffermare. Bisognerebbe che quelle muraglie venissero infrante, perché lo sguardo possa di nuovo spaziare liberamente. Non risulta che, dal secondo o dal terzo millennio prima di Cristo fino ad oggi, né il cervello né gli altri organi dell’uomo siano percettibilmente mutati. Eppure, perfino agli occhi di un umanista o di uno scienziato mediocremente esigente, il pano­ rama intellettuale mondiale si presenta oggi come un monotono deserto, che avvolge il pianeta nella sua nudità lunare, con qua e là qualche cespuglio isolato ancora verde, molto lontano l’uno dall’altro. Davanti a un simile spettacolo, l’osservatore sereno sorride e si domanda: a questo vasto vuoto tendeva dunque una così diligente preparazione? Gli ultimi capitoli della storia del pensiero apparivano sempre più gremiti di nomi illustri: che quello finale dovesse invece dimostrarsi vuoto, non era previsto nei libri sibillini dei romantici progressivi. Ciò che dimostra ancora una volta quanto siano incompatibili l’induzione e la storia. Questa carenza di novità, altrimenti chiamata decadenza o stasi del pensiero, potrebbe essere simbolo di qualcosa di più ampio, per esempio della trasformazione che è accaduta o sta accadendo nella società mondiale. Come se dovesse segnare la fine di un’epoca; ciò che nel male o nel bene implicherebbe l’inizio di un’altra. Come se ci fosse stato un mu­ tamento quasi totale del linguaggio, e ora i pensatori stessero studiando il nuovo linguaggio, i1 quale forse non è stato ancora creato; un linguaggio più basso, come ogni lingua nuova. Non è concessa all’uomo la visione storica del presente, allo stesso modo che al pesce fermo nelle acque dei Caraibi non è concesso di sapere dove va la corrente del Golfo; neanche di conoscerne l’esistenza. La critica profetica ha valore soltanto nella misura in cui essa riesce ad avverarsi. Non appena avverata la profezia, essa diventa cosa del passato, curio­ sità fanciullesca, gioco riuscito, né più né meno interessante di quello non riuscito. Il fatto è che ogni scritto avveniristico è in sé privo di valore storico; possiede semmai un valore personale, come espressione di un desiderio; più spesso come espressione del desiderio di contrastare il desiderio altrui. Perciò, anche se è possibile, perfino ineluttabile, riconoscere che i pensatori seri e importanti sono ormai scarsissimi – quasi tutti d’altronde sì occupano di fisica o di cosmologia – non è lecito invece, per quanto ciò possa sembrare attra­ ente – visto che l’uomo è cosi naturalmente portato a prediligere cataclismi, disastri e stragi – dedurre da questa scarsità l’imminenza di una definitiva carestia, epidemia o moria di cervelli pensanti (i cervelli pensanti ci sono, solo che non sanno più che cosa pensare). Sarebbe come predire un terremoto per dopodomani nell’isola di Madagascar. La terra è viva, e si muove, ma poiché non ne sappiamo il perché, non ne sappiamo nemmeno il come né il quando. E c’è chi afferma: benvenuta quella muraglia che ci impedisce ogni visione del futuro, ogni pensiero rivolto all’avvenire. Forse tutto ciò che importa sapere, è stato già detto, e probabilmente anche scritto. Non è vana dunque questa smania di pensieri nuovi? Come se dovessero essere nuovi, per essere interessanti, per essere illuminanti. [I segni del tempo, in «La Voce Repubblicana», 23­24 ottobre 1967] 10 Le inquisizioni del Wilcock critico Luciana Pasquini Questo intervento prende le mosse da un’asso­ ciazione di idee che avvicina Wilcock ad un ante­ cedente settecentesco di fustigatore della coeva società letteraria e delle modalità stesse del fare letteratura, ad un personaggio cardinale di quella vivace temperie riformista che va sotto il nome di Giuseppe Baretti1, meglio conosciuto con lo pseu­ donimo di Aristarco Scannabue, intellettuale che notoriamente fondò, all’uopo, ovvero per sferzare il malcostume che a suo avviso si andava coagulan­ do intorno al “fatto letterario”, una testata appo­ sita dal noto titolo “persecutorio”2. I toni punitivi e l’acredine del piglio, che di fatto mai subiscono flessioni nel corso dell’atto critico barettiano, la famigerata proposizione di «mena­ re la frusta addosso a tutti questi moderni goffi e sciagurati, che vanno tutto dì scarabocchiando» sovvengono in acuminata percezione analogica nel corso della lettura del Reato di scrivere3: il li­ bello del 2009, compilato per Adelphi da Edoardo Camurri che (assumendosi l’onere di recuperare nell’ottica esclusiva dell’identità tematica elzeviri che Wilcock aveva dispensato, tra gli anni Sessanta e Settanta, su due testate giornalistiche di rilievo, il «Mondo» e la «Voce Repubblicana») di fatto re­ stituisce le tessere di un profilo musivo ben deline­ ato dell’impetuoso scrittore nella veste peculiare di esegeta del fenomeno letterario coevo, inteso a tutto tondo, nei risvolti mediatici, sociali ed etici. Data quindi l’occasione e leggendo il Wilcock articolista imponendosi un’attenzione di marca meramente sinottica, si ha l’impressione che egli di prassi si disponga a giudicare ponendosi in modo 1 Giuseppe Baretti (Torino, 1719- Londra, 1789), intellettuale e critico di alta caratura e di respiro europeo si erse a metaforico fustigatore degli scrittori (del passato e a lui contem­ poranei) che non stimava ritenendoli responsabili dell’andamento deludente della produzione poetica italiana, impastoiata in un classicismo polveroso e retrivo, chiuso agli stimoli provenienti da Oltralpe. 2 Il giornale da lui fondato era <<La frusta letteraria>> (1763 ­1765). 3 J. R. Wilcock, Il reato di scrivere, a cura di E. Camurri, Adelphi, Milano, 2009. 11 codifica di quelle che costituiscono per Wilcock le perverse modalità dei suoi meccanismi di affermazio­ ne. Da questo tritacarne, sembra concludere, non v’è modo di usci­ re, se non sulle ali dell’ironia, caval­ cando il pensiero che «l’ingiustizia è la giusta punizione di chi si offre al giudizio dei suoi inferiori»5. “pregiudiziale” rispetto ad un li­ bro, ad un autore, ad un evento culturale. Ne scaturisce un’attitu­ dine critica dura, severa, talvolta anche ingiusta e animata da evi­ dente sentimento inquisitorio se non di antipatia verso lo scrittore o la tematica prescelti, con lo scopo, malcelato, di sminuire l’oggetto dell’attenzione esegetica. Un atteggiamento negativo, dunque, che corrisponde eviden­ temente a una insoddisfazione di fondo, non filtrata, nei confronti del mondo della cultura (il così de­ finito “serraglio letterario”) ma an­ che, evidentemente, del mondo in genere. Si tratta di quella dispositio animi che è stata definita, opportu­ namente, la devozione alla «sprez­ zatura»4 nell’intento di connotarne la scrittura pungente e venefica. Il volumetto dal titolo accattivante, Il reato di scrivere è infatti, nella sua costruzione, interamente dedicato all’ambiente della lettere, indaga­ to da un angolo visuale interno e orientato prevalentemente alla de­ La forte denuncia dello scritto­ re, che ha innegabilmente un fon­ do di verità, finisce per scatenare però sentimenti di solidarietà tra i colpiti dagli aspri strali, favorendo il prevalere dell’omertà spacciata per buon gusto6. È certamente questo arrocca­ mento su posizioni estreme che ha fatto di Wilcock un solitario, un non affiliato alle cordate che conta­ no. Ma l’esclusione (se non l’emar­ ginazione vera e propria con il suo portato di alienazione) diviene poi il prezzo da pagare per chi osi so­ stenere la verità ad ogni costo. Molto spesso, per dare sfogo al suo risentimento di osservatore deluso e arrabbiato, egli dà luogo ad uno stile vorticoso, ove finisce talvolta per perdere di vista l’argo­ mento in cui si intrattiene, ceden­ do a divagazioni, aprendo rivoli intellettualistici che si sovrappon­ gono fino ad alimentare una scrit­ tura complessa e qualche volta persino caotica, dato il parossismo delle ragioni che si avvicendano, li­ vide, le une alle altre, in una ridda labirintica di riferimenti logici non supportati però da antecedenti ai quali il lettore possa appigliarsi. Nel capitolo Lingua e morale7 è ricompreso un esempio significa­ tivo della falsificazione in atto nel costume e nel modo tenuto dagli intellettuali nell’uso del linguaggio: se uno scienziato vero («non quelli 4 E. Camurri, Necessità della sprezzatura, in J. R. Wilcock, Il reato di scrivere, pp. 77­88. 5 J. R. Wilcock, Sul reato di scrivere, in Id., Il reato di scrivere, p. 13. 6 Ibidem. 7 In J. R. Wilcock, Il reato di scrivere, pp. 23­28. 12 che praticano la sociologia­propa­ ganda o la psicanalisi») è portato per status mentale e morale alla concretezza e alla correttezza, un esponente dell’ambiente umanisti­ co ­tuona l’”inquisitore”­ sarà ten­ tato dalla dissimulazione disonesta ed utilizzerà il “codice” a suo uso e consumo, in maniera intellettual­ mente scorretta e finalizzata alla mistificazione. Ma è proprio in un atteggiamen­ to scrupolosamente dettagliante e inquisitorio, chiuso nei confronti di un approccio più liquido verso la realtà e i suoi aspetti psicologi­ ci, che forse Wilcock inciampa, in qualità di detentore di un profilo di personalità non­evoluto, di cui cioè non sembra avere realmente coscienza, e che patisce quindi in­ consapevolmente. Portatore di una cosiddetta “ferita narcisistica” (provenutagli dall’intrinseca estraneità al pae­ se nel quale si è apparentemente naturalizzato, di un’estraneità so­ stanziale, esorcizzata solamente nelle dinamiche di superficie ma che gli rimane addosso, evidente­ mente, a livello subcosciente, per il suo essere provenuto da un mon­ do “altro”) Wilcock rivendica fuori dai denti una genuinità ancestrale, un imprinting morale tipico di stir­ pi antiche, mansuete, violate, che l’atto della scrittura, il più subdolo delle spie emotive, rivela in tutta la sua ingestibile lacerazione. Infatti in Wilcock il ductus è carico, pieno zeppo di “scarti” si­ gnificativi, per dirla con i termini della stilistica spitzeriana, ovvero di quelle “violazioni individuali” dello standard linguistico­espressi­ vo che quanto più sono numerose ed incisive, tanto più marcano l’al­ lontanamento dello stato psichico dell’autore nella direzione di una diatesi inconsueta, di una condizio­ ne spirituale difforme. Il profilo enneatipico di Wilcock (volendo servirsi di un ricorso sec­ co a categorie della psicologia8), ovvero il carattere del cosiddetto Eremita­Osservatore, è animato dal distacco e dal complesso di supe­ riorità legato ad un’attitudine co­ noscitiva di matrice esclusivamente cerebrale, contraddistinto dalla ten­ denza a trattenere e a chiudersi di­ fensivamente in un mondo interio­ re. Dati i tratti di spiccata diffidenza, tende a compensare l’impaccio re­ lazionale con la costruzione di un mondo fantastico­ideale entro i cui margini spesso si rifugia. E’ dotato per questo di straordinarie capaci­ tà intellettuali ma trova difficoltà nell’affrontare gli aspetti pragma­ tici dell’esistenza, in un disperato tentativo di non dipendere, colti­ vando una dimensione tendenzial­ mente autonoma e onnipotente, soffocato e minacciato da richieste di reciprocità che, a qualunque livel­ lo, teme di non poter soddisfare. Sottoposto quindi a profilazione psicologica, secondo metodi affatto estranei all’approccio di certa critica letteraria volta all’uso della psicana­ lisi, spesso utile ai fini dell’esegesi a tutto tondo di un “caso letterario”, molto di Wilcock emerge con mag­ giore chiarezza di senso: la vis po­ lemica, la rabbia, l’atteggiamento di dietrologia costante nel vedere il male dappertutto, l’esito dell’emar­ ginazione intellettuale, la scelta di una dimora provinciale a discapito della dilatata dimensione dell’Urbe, nonché la collocazione presso un editore di “cammei” come Adelphi, più lontano rispetto ad altri dalla lo­ gica industriale: il suo essere fuori dal coro, insomma, si delinea come il portato di una personalità segnata da un vissuto incisivo, dal patimen­ to di un’estraneità “per atto di na­ scita” rispetto al luogo di elezione dentro cui il processo di naturalizza­ zione, seppur intervenuto, ha subito un difetto di funzionamento, non ri­ levato ma determinante. Di fronte allo squallore dell’ar­ rivismo contemporaneo, all’avidità di successo da ottenere ad ogni co­ sto, l’autore compie però un salto da gigante, si eleva in un aereo bal­ zo cavalcantiano e torna al classico dei classici, niente meno che a Dan­ te, definito «il poeta massimo della letteratura europea». Occuparsi di lui non significa accostarsi ad un poeta qualsiasi, ma vuol dire entra­ re nella sostanza stessa della po­ esia, significa parlare «del miglior poeta che ebbero le nostre lingue». Il suo «mestiere» era consegnare al linguaggio «un’alba nuova e me­ morabile», come quella percepibile nel tredicesimo endecasillabo del I Canto del Purgatorio: «Dolce color d’orïental zaffiro», verso impareg­ giabile, già molto apprezzato da Borges, lettore “edonistico” per autodefinizione che ne esaltava la mirabile eufonia, ulteriormente 8 C. Naranjo, Carattere e nevrosi. L’enneagramma dei tipi psicologici, Astrolabio, Roma, 1996. 13 adiuvata ­se possibile­ nelle confe­ renze, dalla sua morbida pronuncia di hispanohablante la quale rende­ va giustizia melica alla dieresi appo­ sta sulla ï, e alla conseguente scom­ posizione arpeggiante del dittongo ascendente ie, nonché alla esatta resa acustica della z sonora, istinti­ va sulla bocca dei latinos. Come Borges, Wilcock esal­ ta Dante dal versante del valore estetico, linguistico, delle altezze poetiche ma drastico com’è, con un autentico hapax nel panorama critico universale, dichiara estinta qualsiasi forma di poesia dopo di lui. Nessun autore regge il confron­ to e quindi tutte le penne avrebbe­ ro potuto e possono tacere, certe di non suscitare il rimpianto dei lettori. Ma il valore di Dante non si esaurisce nella fattura magistra­ le dei versi bensì si dispiega nella potenza del messaggio universale ad essi sotteso: la convinzione che non siamo fatti «per vivere come 9 J. R. Wilcock, Dante nella cerchia atomica, in Id., Il reato di scrivere, pp. 45­50. 14 bruti» costituisce l’eco e il senso dell’esistenza umana nella dimen­ sione che è data di conoscere. Nelle pieghe più nascoste del discorso di Wilcock si nasconde dun­ que una prospettiva di miglioramen­ to dell’individuo contemporaneo? Si rintraccia una pars construens, appa­ rentemente soffocata da tanto im­ peto distruttivo fondata magari sulla valorizzazione dell’istruzione e sul conato moralizzatore e civilizzatore proveniente da questa alla società, ammesso che si sappia raccogliere i suggerimenti che provengono dal Medioevo dantesco e dal distillato su­ blime della sua poesia? Egli si avvicina dunque al pragmatismo del terribile critico settecentesco che gli si era af­ fiancato per molte analogie in incipit? Il Baretti aveva ben chiaro lo scopo della sua polemica: esponen­ do al ludibrio il vecchiume lettera­ rio intendeva offrire un’utile scuola di emancipazione dal logoro mon­ do del classicismo per chi intendes­ se cimentarsi in maniera proficua, da allora in poi, nella scrittura: una preoccupazione estetica, formale quanto sostanziale quindi, ed utile come sprone per garantire lo svi­ luppo di buona letteratura. Wilcock invece, moderna anima lacerata, è lontano da qualsiasi preoccupazio­ ne inerente il secolare dibattito sul canone, e preconizza invece l’apo­ calisse, la fine dei tempi in senso letterale: nel segmento intercor­ rente tra la sua esistenza e l’avven­ to dell’esplosione atomica, fermo restando il fulgore del conchiuso atomo dantesco9, egli, in balìa di un’ossessione teriomorfa raffigura di fatto, a livello trasversale nei suoi scritti, uno scenario di intellettuali scimmioidi, dispettosi e vanesi, in­ voluti allo stadio di preominazione, nel cui recinto scrivere la verità co­ stituisce il più esecrabile dei reati. Narrativa e dispositivo in Juan Rodolfo Wilcock Kelvin Falcão Klein Il mio primo contatto con Juan Rodolfo Wilcock come figura biografica è stato mediato da Rugge­ ro Guarini. L’edizione spagnola di La sinagoga degli iconoclasti inizia con un frammento di un articolo di Guarini su Wilcock, un’evocazione in cui parla dalla casa semplice casa in campagna, con pochi mobili, alcune pentole e una libreria di legno. All’i­ nizio della mia ricerca su Wilcock, ciò che mi inte­ ressava di più dell’evocazione di Guarini era il riferi­ mento alle letture di Wilcock, in particolare James Joyce e Ludwig Wittgenstein. Volevo stabilire una possibile archeologia delle letture di Wilcock, orga­ nizzando i suoi riferimenti visibili e invisibili in una struttura che comprendeva sia il periodo argenti­ no che quello italiano. Tornando all’evocazione più tardi, ho deciso di ri­ flettere sul concetto di “biografema” di Roland Bar­ thes e su come comprenderlo basato sulla descrizio­ ne fornita da Guarini. In essa, Wilcock appare come un personaggio con pochi possedimenti, portatile: tre o quattro camicie vecchie, un cappotto con bu­ chi e alcuni pantaloni in uno stato simile. L’obiettivo era di mettere in relazione tale visione di Wilcock con il lavoro di Peter Stallybrass sulla materialità del­ la scrittura e della costruzione biografica, analizzan­ do specificamente il saggio intitolato “Il cappotto di Marx: abbigliamento, memoria e dolore”. Per Stallybrass, il cappotto di Marx è una tragi­ ca ed ironica, e quasi impercettibile, allegoria della vita quotidiana di Marx e di tutta la sua opera. “Il cappotto invernale di Marx era destinato ad entra­ re e ad uscire dal Banco dei Pegni per tutti gli inver­ ni, dagli anni '50 del 1800, fini all'inizio degli anni '60”. E, continua Stallybrass, “Il suo cappotto de­ terminava direttamente quale lavoro Marx poteva fare o non poteva fare. Se il suo cappotto rimane­ va presso il Banco dei Pegni nel corso dell’inverno, 15 pidità del mondo si getta indietro una manica di lana sulla spalla, irri­ tato, viperinamente minaccioso”1 egli, allora, non poteva recarsi al British Museum. Se egli non pote­ va andare al British Museum, allora non poteva fare le sue ricerche per Das Kapital. Gli abiti che Marx in­ dossava determinavano così quel­ lo che lui scriveva”. È possibile dire che gli abiti che Wilcock indossava determinavano quello che lui scriveva? Questa non è una conclusione precisa, almeno non considerando solo il ritratto di Guarini. Comunque, nella Sinagoga alcuni personaggi sono diretta­ mente collegati a ciò che indossano – come Llorenz Riber che “arriva come un angelo”, scrive Wilcock, “leggero, quasi sulla punta dei pie­ di (…). È molto giovane, eppure è già riuscito a farsi un nome tra i peggiori registi di Spagna. Invece di portare il maglione sotto la giacca lo porta al collo, a modo di boa, e ogni volta che scatta di impazienza davanti all’incomprensione e la stu­ Non è un caso che l'abbiglia­ mento sia importante per la descri­ zione di Riber, un regista teatrale che fa il suo lavoro organizzando elementi in una scena. È esatta­ mente nello stesso modo in cui Wilcock lavora con gli elementi di­ sposti nella sua letteratura, come responsabile di uno scenario che dovrebbe generare l'effetto più brusco possibile nel minor tempo possibile. Ogni pezzo della lettera­ tura di Juan Rodolfo Wilcock è me­ ticolosamente organizzato come una scena, una serie di scene, come il padiglione di un museo delle cere o un museo di storia naturale. Oggi il mio interesse è per alcu­ ni di questi oggetti, molti dei quali sono visibili nel ritratto di Guarini: scrive che Wilcock usa il suo tele­ fono per parlare con gli amici e che tiene una buona radio a casa per ascoltare Hugo Wolf e Anton Webern. Il telefono e la radio, due macchine per il viaggio nel tempo e nello spazio, ignorate per essere così visibili, così banali. Ritornando al ritratto di Guarini e realizzando questi elementi che fino ad allora non avevo realizzato (anche per me questi oggetti erano invisibili), all'improvviso mi sono accorto del­ la costante presenza di macchine nella letteratura di Wilcock. Non solo macchine, ma la presenza del­ la tecnologia come nuovo modo di essere nel mondo e come combu­ stibile per la narrazione: per Wil­ cock, l’osservazione della vita mec­ canica ha fondato un nuovo campo dello sperimentalismo letterario. Un modo di osservazione tro­ vato da Wilcock era leggere i gior­ nali, trovando in loro storie varie 1 WILCOCK, Juan Rodolfo. La sinagoga degli iconoclasti. Milano: Adelphi, 2014, p. 170. 2 WILCOCK, Juan Rodolfo. La sinagoga degli iconoclasti, p. 28. 3 WILCOCK, Juan Rodolfo. Lo stereoscopio dei solitari. Milano: Adelphi, 1989, p. 169. 16 su macchine e dispositivi, come evidenziato dalla pubblicazione di Fatti inquietanti nel 1961. Oppure, come dice la copertina dell’edizio­ ne Bompiani: “fatti inquietanti del nostro tempo: il futuro nascosto e presente nei mille dati sconnessi della vita e delle idee di ogni gior­ no”. Voglio sottolineare qui l’idea di un “futuro nascosto” che non viene rivelato da un atto di crea­ zione o immaginazione, ma da una semplice e rigorosa attenzione ai segnali emessi dai media, cioè dei discorsi delle macchine sulle mac­ chine. Un altro punto chiave è che Wilcock spesso mette in corto cir­ cuito passato e futuro, che si fon­ dono attraverso eccentrici metodi di interpretazione e previsione. Un possibile esempio è quello di Aa­ ron Rosenblum, personaggio della Sinagoga, che vuole, a metà del XX secolo, “riportare il mondo al 1580. Abolire il carbone, le macchine, i motori, la luce elettrica, il petro­ lio, il cinematografo” e così via2. Altro esempio è quello dell’aruspi­ ce di Lo stereoscopio dei solitari, di nome Malné, aruspice in privato, scrive Wilcock, che “non fa profe­ zie a pagamento. Ma la divinazione per viscere è costosa; Malné è giu­ stamente preoccupato per il conti­ nuo aumento del costo della vita. Ha dovuto disdire l’abbonamento alla televisione, che d’altronde fin troppo spesso interferiva con le sue laboriose predizioni, sia in campo internazionale che negli af­ fari locali, in special modo per quel che riguarda l’indagine e scoperta di uccisori ignoti o di attentatori senza scrupoli”3. C'è una profonda connessione tra macchina, temporalità, lettura, creazione e stupidità in Wilcock. Nel caso di Malné, ciò che viene messo in discussione non è la di­ vinazione per viscere ma l’inter­ ferenza della televisione nel suo lavoro, come se le informazioni dei media fossero una sorta di distra­ zione per il veggente, o come se il substrato metafisico necessario per il lavoro del veggente fosse perso o confuso nel rumore bianco emesso dal dispositivo. Alla fine del racconto Wilcock ritorna a questa relazione allo stesso tempo ango­ sciante e necessaria: “Come queli uomini che ogni mattina leggono i giornali, anche se nulla di ciò che i giornali riportano li riguarda nem­ meno lontanamente, così Malné, prima di andare in ufficio – lavora al Ministero del Bilancio – scende nel suo sgabuzzino profetico, con gli appositi lacci fissa al tavolo il col­ lo e le ali del suo pollo quotidiano, strappa via le piume per l’incisione, taglia e osserva”4. Dispositivo mediatico e evisce­ razione divinatoria si uniscono per una dubbiosa illuminazione sul futuro, entrambi coinvolti in una logica di legittimazione che si svi­ luppa nel tempo e nella storia. Tutti questi elementi – assemblati in un modo diverso – possono essere ritrovati in un altro personaggio della Sinagoga, che può aiutare a comprendere meglio la delicata ar­ tesania di Wilcock nel suo rapporto con le macchine e i dispositivi. Mi ri­ ferisco a Absalon Amet, orologiaio e “precursore occulto di una parte non trascurabile”, scrive Wilcock, “di ciò che poi si sarebbe chiamato la filosofia moderna”5. Uomo del Settecento, uomo di meccanismi, Amet altro non volle mostrare che un meccanismo, il suo Filosofo Uni­ versale, un apparecchio che consi­ steva di un insieme di ruote dentate caricate a molla e regolate nel loro movimento da uno speciale conge­ gno a scatto che periodicamente fermava l’ingranaggio. Queste ruo­ te erano coassiali com altrettanti cilindri grossi e piccoli, interamente ricoperti di targhette su ciascuna delle quali era scritto un vocabolo. Queste targhette passavano a tur­ no davanti a uno schermo di legno provvisto di finestrini rettangolari in modo che a ogni scatto, guar­ dando dall’altra parte dello scher­ 4 WILCOCK, Juan Rodolfo. Lo stereoscopio dei solitari, p. 171. 5 WILCOCK, Juan Rodolfo. La sinagoga degli iconoclasti, p. 67. 17 mo, si poteva leggere una frase, “sempre casuale ma non sempre priva di senso”6. La rivelazione del­ le frasi è l'effetto principale della macchina ed è proprio in questo che risiede la promessa del futuro. “Il rumore degli ingranaggi”, scrive Wilcock, “evocava il rombo interno di un cervello affaccendato, men­ tre alla luce di una, di due e infine di tre candele, ogni scatto le offriva un pensiero, ogni combinazione un motivo di riflessione, nelle lunghe sere di autunno di fronte all’ocea­ no grigio”. Absalon registrò nel suo quaderno una pletora di frasi ba­ nali; d’altra parte, come scrive Wil­ cock, “quante volte ignara registrò la sua penna concetti allora oscuri e che un secolo, due secoli dopo 6 WILCOCK, Juan Rodolfo. La sinagoga degli iconoclasti, p. 68. 7 WILCOCK, Juan Rodolfo. La sinagoga degli iconoclasti, p. 70. 8 WILCOCK, Juan Rodolfo. La sinagoga degli iconoclasti, p. 70. 18 sarebbero stati detti luminosi. Nella raccolta pubblicata a Nantes nel 1774, col titolo Pensieri e parole selezionate del filosofo meccanico universale, troviamo per esempio una frase di Lautréamont: ‘I pesci che nutri non si giurano fraternità’, un’altra di Rimbaud: ‘La musica sa­ piente manca al nostro desiderio’, una di Laforgue: ‘Il sole depone la stola papale’. Quale senso dell’ir­ realtà futura”, Wilcock si chiede, “indusse l’autore a scegliere tra migliaia di frasi insensate queste che un giorno avrebbero meritato l’antologia?”7. Non solo l’antologia lettera­ ria, ma anche e principalmente il pensiero filosofico, una volta che Wilcock afferma che più notevo­ li sono quelle frasi di carattere “prettamente filosofico, nel senso più largo della parola. Sorprende leggere in un libro del 1774: ‘Tutto il reale è razionale’; ‘L’inferno sono gli altri’; ‘L’arte è sentimento’; ‘L’essere è divenire per la morte’; e tante altre combinazioni del ge­ nere oggi diventate più o meno illustri”8. Il dispositivo di Absalon Amet contiene al suo interno, come potenza, gran parte della let­ teratura e della filosofia del futuro, anche se non ne è consapevole. Il Filosofo Universale di Amet racco­ glie allo stesso tempo la potenza e la potenza-di-non, è una figura dell’opera e dell’inoperosità, per dirlo com Agamben nel suo saggio “Che cos’è l’atto di creazione?”: “La potenza è un essere ambiguo, che non solo può tanto una cosa che il suo contrario, ma contiene in se stessa un’intima e irriducibile resistenza”9. Questa ambiguità si trova non solo nel Filosofo Univer­ sale, ma in tutti i personaggi della Sinagoga degli iconoclasti e forse in tutta l'opera di Wilcock. Uno dei modi di Wilcock di presentare narrativamente questa ambiguità è quello di stabilire la relazione tra macchine e futuro, cioè, un modo di catturare quel “senso dell’irreal­ tà futura” di Absalon Amet o quel “futuro nascosto e presente nei mille dati sconnessi della vita e del­ le idee di ogni giorno” promesso nella copertina di Fatti inquietanti. Esiste una chiara corrispon­ denza tra i dispositivi raccolti da Wilcock nei giornali, per il proces­ so di composizione del libro Fatti inquietanti, e quelli sviluppati nar­ rativamente anni dopo nella Sinagoga. Un pezzo del primo libro è intitolato, ad esempio, “macchina per leggere saggi”, un congegno elettronico che è in grado di “legge­ re” (tra virgolette) articoli, special­ mente saggi di carattere scientifico, e presentare all’istante un somma­ rio o sintesi del loro contenuto, su un cartellino perforato, a scopo di classificazione e archivio. “La mac­ china”, scrive Wilcock, “prende nota di ogni parola del testo, e del numero delle volte che la parola viene ripetuta, scartando i vocabo­ li meno importanti e ponderando i periodi del testo, scegliendone quelli che contengono un maggior numero di parole significative. Così viene peraltro soddisfatto”, finisce Wilcock, “il bisogno di classificazio­ ne, che è una delle caratteristiche più spiccate della nostra epoca”10. Qui vediamo di nuovo il rapporto che Wilcock instaura tra macchina, lettura e creazione: inoltre, la mac­ china per leggere saggi serve a sod­ disfare un’esigenza dell’epoca, del­ lo spirito del tempo, cioè anticipare il futuro. Nella Sinagoga troviamo un caso simile nel capitolo dedica­ to a José Valdés y Prom, dotato di straordinarie facoltà telepatiche. In questo caso, l'individuo è il disposi­ tivo, è lui il medium, è attraverso il tuo corpo che le emissioni vengo­ no filtrate e alcuni dei suoi risultati sono simili a quelli della macchina per leggere saggi. “A certo punto”, scrive Wilcock, “un spagnolo amico suo volle mettere a profitto le facol­ tà telepatiche del Maestro, apren­ 9 AGAMBEN, Giorgio. Il fuoco e il racconto. Roma: nottetempo, 2014, p. 46. 10 WILCOCK, Juan Rodolfo. Fatti inquietanti. Milano: Adelphi, 1992, p. 21. 19 do un’agenzia di notizie o come si direbbe oggi un’agenzia­stampa. Tre volte alla settimana saliva le scale e il filippino in trance gettava per lui il suo sguardo radar sulle ca­ pitali del mondo civile. Fu questa la prima agenzia­stampa di tipo mo­ derno, nel senso che tutte le notizie che diramava concernevano capi di stato dediti alle loro normali attività quotidiane, per esempio: ‘Roma. Il Papa ha festeggiato il suo ottanta­ duesimo compleanno celebrando una messa nella Cappella Sistina’; ‘Berlino. Il Cancelliere di Ferro ha inaugurato una statua di Bronzo alla Nazione Prussiana’; ‘Montreux. È stata ritrovata la valigia della Regi­ na di Napoli’. I tempi non erano ma­ turi per questo tipo di giornalismo ad alto livello e l’agenzia non ebbe successo”11. Le facoltà telepatiche di Valdés y Prom rendono possibile la creazione di un’agenzia­stampa che anticipa la 11 WILCOCK, Juan Rodolfo. La sinagoga degli iconoclasti, p. 14­15. 12 WILCOCK, Juan Rodolfo. La sinagoga degli iconoclasti, p. 71. 20 forma dell’esposizione narrativa della macchina per leggere saggi. Sfortu­ natamente i tempi non erano maturi per questo tipo di giornalismo ad alto livello, l’agenzia ha questa proprietà di “non essere nel vero” del suo tem­ po, per dirlo com il Michel Foucault de L’ordine del discurso. Ed essere nel vero significa rispettare le regole me­ todologiche e l’ordine discorsivo che una determinata disciplina, in una cer­ ta fase storica, si è consapevolmente assegnata. Questa è una delle lezioni principali della lettura contrastiva dei due libri di Wilcock: le macchine di Fatti inquietanti anticipano un futuro che vuole “essere nel vero”, che sem­ bra sincronizzato con il vero del suo tempo; gli eccentrici della Sinagoga, d’altra parte, sembrano avere un’ine­ vitabile mancanza di sincronizzazione con il loro tempo. Vorrei concludere il mio interven­ to evocando un ultimo esempio di Fatti inquietanti, quello del “cervel­ lo elettronico della IBM”, un’altra macchina da lettura. Il cervello elet­ tronico, scrive Wilcock, “è stato ado­ perato nella preparazione della ‘con­ cordanza’ dei testi completi di san Tommaso: anzi, si pensa che fra poco tutti i lavori di erudizione di questo genere, i quali finora richiedevano la fatica di una vita intera di studioso, e a volte di tutto un gruppo di spe­ cialisti, verranno vantaggiosamente affidati a macchine simili”12. Questo primo passaggio del testo parla an­ cora del futuro quando indica “che fra poco tutti i lavori di erudizione di questo genere” verranno affidati a macchine. Nella Sinagoga troviamo un caso simile nel capitolo dedicato a Henry Bucher, studioso della storia e sviluppatore di un sistema di con­ trazione temporale: “presto mi ac­ corsi”, scrive lui nelle sue memorie, “che il compito di reperire, tradurre e commentare l’intero corpus dei cro­ nisti medievali esorbitava dalle misu­ re previste: non mi sarebbe bastata una vita, forse, per portalo a termi­ ne”13. “Così che a un certo punto”, continua Bucher, “bisognerebbe poter fermare la cateratta dei giorni, in modo da badare compiutamente agli obblighi trascurati. Così feci, con l’aiuto di un mio calendario perso­ nale”. Bucher semplicemente “fer­ mava la data”, rifiutando di girare il foglio del calendario fino a quando il lavoro non fosse terminato. Sarà il cervello elettronico della IBM a dare la soluzione al sistema di contrazione temporale di Bucher. “È stata appunto una di que­ ste macchine”, continua Wilcock nel già citato capitolo di Fatti inquietanti, “a permettere la verifica della curiosa legge di Estoup­Zipf, scoperta nel 1916. Dice questa leg­ ge che se, in un testo abbastanza esteso, si contano le volte che si ripete ogni vocabolo, e poi si or­ dinano le parole secondo la loro maggiore o minore frequenza nel testo, chiamando R il numero di ordine e F la frequenza, si ottiene che il prodotto RxF è approssimati­ vamente costante. Per esempio, nell’Ulysses di Joyce ci sono 260.430 parole, fra le quali 29.899 sono diverse; la paro­ la più ripetuta, ossia la prima in or­ dine di frequenza, appare 26.000 volte. Per tutte le altre il prodotto RxF si mantiene infatti vicino alle 26.000: se si sceglie, diciamo, la quarta per ordine di ripetizione, la sua frequenza dovrebbe essere all’incirca 26.000 diviso 4, cioè do­ vrebbe ripetersi circa 6400 volte. Il che è stato dimostrato per ogni sorta di testi, sia per l’Iliade che per l’intera edizione domenicale di un quotidiano moderno”14. Wilcock sembra intravedere qui un regime di lettura in cui la differenza tra l’Iliade e un quoti­ diano moderno è già inutile poi­ ché la macchina riconosce solo le ripetizioni e la frequenza dei ter­ mini nei testi. Più in profondità, tuttavia, è possibile osservare in Wilcock una riflessione continua sul rapporto tra scrittura e dispo­ sitivi. Le macchine computazio­ nali e il cervello elettronico sono solo manifestazioni recenti di un contatto antico ed è per questo che Wilcock, nei suoi scritti, de­ naturalizza la macchina e i suoi effetti, dimostrando che la mac­ china non è un'estensione natu­ rale e completamente adattata dell’essere humano. Leggere Wil­ cock oggi è sicuramente un invito a gestire i dispositivi con più sag­ gezza e ironia. 13WILCOCK, Juan Rodolfo. La sinagoga degli iconoclasti, p. 129. 14WILCOCK, Juan Rodolfo. Fatti inquietanti, p. 71­72. 21 “Chi non ha nome non può morire”: intorno alla poesia di Wilcock Patricia Peterle Tutto ciò ch’è, è come lo vediamo, e ogni interpretazione è come un’ombra che si staccasse da quel che la produce per diventare a sua volta un oggetto passibile a sua volta di interpretazione (J. R. Wilcock, Poesie) La scrittura di Juan Rodolfo Wilcock viene fin da subito delineata da Andrea Gialloreto, nel suo I cantieri dello sperimentalismo, come un “ricco deposi­ to del fantastico e del grottesco” subordinato ad una rigorosa precisione. Tale profilo, oltre ad evo­ care le prime esperienze e i primi contatti con intel­ lettuali argentini di grande calibro nella famosa ri­ vista Sur1 – i nomi di Borges, Bioy Casares e Cristina Ocampo sono fondamentali –, ci dice anche molto del rapporto che lo scrittore argentino, emigrato prima in Inghilterra e che poi ha adottato l’Italia, come ambiente culturale e come lingua di scrittu­ ra, presenta nei riguardi della lingua, della parola e del linguaggio. Il raffinato contesto ibero-america­ no, con un’impronta di forte carattere europeo, è certamente un elemento di mediazione. Come ben sottolinea Gialloreto, Wilcock è riuscito ad assestar­ si nel flusso “della nostra tradizione mettendone a soqquadro gli equilibri, ibridandola, contestando­ la talvolta, a ogni modo bruciando le tappe di un percorso di “acclimatamento” fulmineo quanto misterioso”2. Gli spostamenti culturali e geografici, quasi uno spogliarsi di sé stesso e al contempo un reinventarsi, lo portano in qualche modo all’allon­ 1 Sur è l’emblematica rivista fondata da Victoria Ocampo nel 1939, con il progetto di pubblicare importanti titoli della letteratura e della filosofia occidentale. 2 Juan Rodolfo Wilcock, Poesie, op. cit., p. 18. 22 tanamento dalle prime inquietudi­ ni giovanili e dal canone argentino e, di conseguenza, al delinearsi di uno sguardo obliquo e straniante. Ed è appunto questo segno dell’o­ bliquità che caratterizzerà la sua scrittura, che scompiglia ciò che ci viene dato il più delle volte come “normale” o “scontato”. Le tappe bruciate di acclimatamento, citate dal critico, in qualche modo sono concretizzate dallo stesso Wilcock nelle parole indirizzate all’amico Antonio Requeni: “Me voy a Italia a escrivir em italiano, el castellano no da para mas”. In queste parole c’è forse un sentimento di stan­ chezza generazionale, una consa­ pevolezza dei limiti di certo campo culturale, nonostante tutto il suo cosmopolitismo. Wilcock quindi si muove tra culture e tra le lingue (forse nello scarto esistente tra di esse), ne è un esempio l’instanca­ bile lavoro di traduzione e auto­ traduzione, seppure sia lo stesso scrittore a dire che il libro tradotto è sempre un altro, cioè una merce avariata, in cui la poesia il più delle volte in questo processo si perde. Dalle traduzioni dall’inglese allo spagnolo, passa alle traduzioni in lingua italiana, alcune firmate in­ sieme ad altri scrittori italiani come Giorgio Caproni (“I paraventi” da Tutto il Teatro, 1971 Il Saggiatore), Edoardo Sanguineti e Alfredo Giu­ liani (Poesie di James Joyce), oltre a quelle firmate con il figlio adotti­ vo Livio Bacchi Wilcock e poi quelle da solo, come nel caso delle poe­ sie di Beckett. Dal momento in cui si trasferisce in Italia, il rapporto con la lingua dell’altro diventa cen­ trale: una lingua che non è la sua tradotta in estensione una nuova, ma, al contempo, è l’unica che ha: densa pienezza, insomma di pren­ come se l’italiano fosse in qualche dere ogni immagine come se fosse modo riposto nel suo spagnolo. “In quella del ventaglio ripiegato”.5 quest’ottica la traduzione stessa è In una breve ma significativa una narrazione di sé, e implica per­ descrizione di sé stesso, Wilcock tanto sia lo svelarsi di un’identità dice di essere nato a Buenos Aires 3 che i modi di quello svelamento”. nel 1919, di aver iniziato a imparare Questo groviglio potrebbe riman­ il francese nel sud della Svizzera, il dare a dei temi che gli sono cari castellano a Londra e nel Colegio come quello dello spostamento, Nacional l’inglese e l’italiano; cioè delle deformazioni, delle diversità spostamento e dislocamento sono anche linguistiche, delle distorsio­ termini che appartengono ad uno ni, tutti elementi di un unico venta­ stesso campo semantico che pare glio che si apre pian piano, e, nella si imponga, mettendo in luce que­ misura in cui il ritmo del suo pecu­ sto carattere che si potrebbe dire liare moto s’intensifica, è come se ibrido. In una tale prospettiva, stessimo davanti ad una lente che l’eccentricità fin da subito diviene si presenta il più delle volte sfoca­ un segno, forse una resistenza ad ta, scompigliando le molecole at­ una presupposta normalità. Il cam­ torno a sé. O, nelle parole di Wal­ biamento di lingua è stato dunque ter Benjamin, questo stesso moto un aspetto centrale per il suo per­ può essere letto come il “potere corso, la condizione di scrivere in della fantasia [che] è il dono d’in­ una lingua altra, l’essere esiliato terpolare nell’infinitamente picco­ in un’altra lingua gli permettono lo, d’inventare per ogni intensità dunque una posizione comunque 4 3 Roberto Deidier, Tradurre, tradursi, in Mosaico, n. 192, genn. 2020, pp. 24­25. 4 Il volume Segnali sul nulla curato da Roberto Deidier, nel 2002 per l’Istituto della Enciclopedia Treccani, rimane tutt’ora un riferimento obbligatorio a tutti quelli che si avvicinano allo studio dell’opera di Wilcock. 5 Walter Benjamin, “Ventaglio”, in Opere Complete-Scritti 1923-1927, a cura di Enrico Ganni, 2001, p. 437. 23 seguente, “[…] il passato è uno col che torneranno più tardi in altri te­ futuro / e questa ruota matta della sti. “L’esiliato”, di Luoghi comuni, storia / è un nuovo stratagemma del è forse una poesia i cui versi dialo­ demonio”. L’inizio di quest’ordito gano con quelli già citati, in parti­ rovinoso è appunto la sua presen­ colare la seconda strofa che segna tazione in Italia come scrittore che appunto avviene tramite l’autotraduzione, in componimenti giovanili, raccolti cui passato e futuro si incrociano”. due anni dopo, in Poesie spagnole, Tratti che ritornano più tardi nella pubblicate da Guanda, nel 1963.7 domanda fatta davanti alla tomba La strofa formata da quattro versi dei nonni in “Lago di Ginevra”, altra recita: “Trova quella parola sola / poesia inedita: e per un attimo ridiventa / in que­ 6 l’allontanamento dai sto esilio che ti tormenta / il poeta Là sul colle è la lapide di mio nonno, che non sei più.”8. Il rapporto con un cipresso ha coperto la scritta; ciò che ha lasciato e, al contempo, si chiamava Rodolfo Romegialli, con ciò che inevitabilmente porta e quel cipresso ha la mia età. con sé appare in altri versi di que­ Giù invece è il lago d’acqua senza sale sta stessa raccolta, come in “Di­ dove mia nonna nuotava da ragazza sfarmi” il cui titolo diviene ora più distesa e bella come adesso il suo scheletro che emblematico. “Stendo verso il […] mio passato / vani tentacoli […]”9, altra, in una specie di soglia; che a è un verso, in questa prospettiva, modo suo e paradossalmente gli Ho fatto male, nonni, a tornare in Europa? più che significativo, poiché la fi­ fa riprendere, rovesciando, l’espe­ Una specie di amore mi attirava: gura del ventaglio benjaminiano rienza degli anni argentini. venni, bevvi l’amore e persi i sensi. succitata è qui spettrale. “Sten­ Dopo pochi anni dal suo trasfe­ Ma quando questo amore sarà speso do” è in posizione iniziale e centra­ rimento in Italia, Wilcock si auto­ potrò essere anch’io scheletro nel bosco le per la struttura della poesia che traduce, lo spagnolo diventa lingua che separa il cimitero dal lago. (p. 150­151) prende avvio da questo allungare di partenza e l’italiano d’arrivo, e i tentacoli verso il passato, gesto questa è già un’eredità, riposta e Il Caos (Adelphi, 1960) è la che offre poi una serie di immagi­ dormiente, che affiora e viene testi­ prima opera pubblicata in Italia, ni messe insieme quasi se fossero moniata in alcuni versi delle prime un’autotraduzione. E se il 1961 è un montaggio; però qui il montare pagine delle poesie inedite, pubbli­ l’anno di Fatti inquietanti, esso è non può che includere il suo rove­ cate nel volume Poesie da Adelphi, anche l’anno in cui Wilcocok pub­ scio, preannunciato già dal titolo: in cui Wilcock afferma l’ordito che blica nella prestigiosa collana Bi­ “Su, debbo andare a smontare / ha attorno a sé: leggiamo tra le po­ blioteca delle Silerchie, presso Il questo tempio di me stesso”10. Il esie inedite, “Con me il mio mondo Saggiatore, con cui erano già state rapporto col passato pare essere sparirà, la rete / che mi sono tessuto pubblicate delle sue traduzioni, il qui la via verso il presente o, in al­ come un ragno / che sta fermo in un suo primo libro di poesia italiano, tre parole, Wilcock fa su sé stesso angolo della tela / e a volte mangia Luoghi comuni, che presenta già un’operazione archeologica, di­ e a volte rammenda” e, nella pagina aspetti rilevanti della sua poesia struttiva e creativa, per ritrovare 6 Juan Rodolfo Wilcock, Poesie, Adelphi, 1980, pp. 144 e 145 7 Questo volume, anche si tratta di autotraduzione, è senz’altro un momento importante di ripensamento e di bilancio, come si evince dalla selezione drastica dei brani e dall’intro­ duzione piena di ironia. Come dice Wilcock, “A ciascuno il dovere di ricostruire con i pezzi che per caso gli erano toccati” (p. xii). Poesie spagnole (1963) è infatti una selezione dei testi pubblicati in Argentina, da Libro de poemas y canciones (1940) a Sexto (1953). 8 Juan Rodolfo Wilcock, Poesie, op. cit., p. 41. A questo proposito è interessante la ricerca in corso di Jeremías Bourbotte sull’autotraduzione in Wilcock. Nel Mosaico (n. 192, genn. 2020), nel suo saggio si legge: “In effetti, alcune delle poesie contenute in Luoghi comuni furono riscritte dall’autore” (p. 28), facendo riferimento alle raccolte argentine. Tra queste, Bourbotte cita appunto “L’esiliato” che era già stata pubblicata sul n. 256 della rivista Sur, nel gennaio 1959, col titolo “La Villa Barberini”. 9 Juan Rodolfo Wilcock, Poesie, op. cit., p. 34. 10 Ibidem. 24 in questo processo una possibilità per il presente.11 Ma riprendiamo la prima pa­ rola della poesia “Stendo”, di uso raro o letterario, ricorrente nelle opere dantesche, soprattutto, il Convivio e la Commedia. Per cui, si potrebbe ipotizzare che que­ sta scelta sia più che un indizio del luogo da dove parla Wilcock, il quale fa dunque uso della tradi­ zione italiana (il suo presente più che vivo) per guardare ciò che ha lasciato – allungando i tentacoli –, per carpire (altro termine dante­ sco) oggetti e carte. È quindi da un atteggiamento di appropriazione della tradizione altra, ormai anche sua, che partono i tentacoli verso il passato, i quali prospettano in questo crocevia di tempi e culture una possibilità. Tradizione questa che gli era già stata offerta dalla figura della madre (forse un altro dei punti d’insorgenza o una pre­ storia della storia?): “madre ho un brivido quando penso / che mi hai dato come a tutti i tuoi figli / una parola almeno in dono, una / soltanto delle migliaia di basalto / che furono di Dante Alighieri”12 –. In tal senso non è un caso che in Tre stati se una cosa dovrà salvarsi, do” di “Liriche e canzoni da “La nel quarto verso della quinta par­ notte di San Giovanni”: Questa notte tra sacro e pro­ fano, carica di magia e presagio, questa festa solstiziale, è addirit­ te, essa è: “il più grande poema è la Commedia”13. Simulazioni e Vivere è percorrere il mondo tura quella scelta per accogliere dissimulazioni, per ricordare i ter­ attraversando ponti di fumo; versi che possono essere un’alle­ mini usati da Roberto Deidier nel quando si è giunti dall’altra parte goria, sia per il suo rapporto con suo saggio dedicato alla poesia di che importa se i ponti precipitano. le lingue sia, da un altro versante, Wilcock, “Stratigrafie poetiche. Per arrivare in qualche luogo per la sua riflessione sulla parola Dante, Eliot, Borges”14: forse de­ bisogna trovare un passaggio, e sul linguaggio. Qui faccio alcune gli attraversamenti sintetizzati nel e non fa niente scesi dalla vettura ipotesi: da un lato, questi ponti verso “Vivere è percorrere il mon­ si scopre che questa era un miraggio.15 che precipitano dopo l’attraversa­ 11 Il saggio di Roberto Dedier, Tradurre, tradursi, op. cit, pp. 24­27, fa un’analisi molto attenta e precisa di questo processo, che implica un rapporto continuo tra presente e passato. 12 Juan Rodolfo Wilcock, Poesie, op. cit., p. 164. 13 Juan Rodolfo Wilcock, Poesie, op. cit., p. 73. 14 Roberto Deidier, Stratigrafie poetiche: Dante, Eliot, Borges, in Roberto Deidier (a cura di) Segnali sul nulla. Studi e testimonianze per Juan Rodolfo Wilcock, Istituto della Enciclpedia Italiana, Roma, 2002, p. 79. 15 Juan Rodolfo Wilcock, Poesie, op. cit., p. 47. 25 verso che fa sì che questo stesso ordine si smantelli e riveli il com­ plesso ordito, artificioso costruito dai luoghi comuni che si mischiano sempre di più nel linguaggio – si ricordi che questi sono gli anni del boom. O ancora, nei versi tratti da un’altra poesia, in cui la presen­ za dell’enjambement accentua la rima “invenzione:immaginazione”, scrive ancora Wilcock: “Ricorda che c’è una sola cosa / affermati­ va, l’invenzione: /il sistema invece è caratteristico / della mancanza d’immaginazione”17. La seduzione non è nel pensiero ordinato, e ar­ gomentare eccessivamente signifi­ ca sperperare “il nostro legato”18, perciò il primo verso di questo componimento che non a caso ha come titolo “Consiglio” dice: “Ri­ pudiamo la facilità” e nella strofa mento possono fare riferimento trale per Wilcock. La sesta poesia finale “Cerchiamo soltanto di stes­ appunto al processo di traduzio­ di Luoghi comuni già annuncia la sere / dal tessuto di ogni ora / ciò ne, che si presenta comunque posizione di rilievo occupata dal che ci nutre”19. come un ponte pieno di ostacoli linguaggio letterario o, per meglio Il gioco paradossale, nonché e buche; e dall’altro, questi stessi dire, la sua esigenza: “Nonostante aporetico, in cui Wilcock si muo­ ponti – senza escludere i processi i trionfi della scienza applicata / gli ve, problematizzando non solo il traduttori che sono un complesso strumenti migliori per osservare nome e il discorso, ma soprattutto lavorio con e sulla lingua – possono l’universo / sono ancora la pene­ lo scarto indistricabile ivi esistente, essere un riferimento al linguag­ trante lampada del verso” . C’è è forse un aspetto colto nella let­ gio, un passaggio che è anche un qui un rovesciamento, nei confron­ tura di un altro poeta, Giorgio Ca­ miraggio, come sottolinea la rima ti di certo linguaggio che dispone proni. Essa è testimoniata in alcune della poesia. L’immagine metafori­ una parola dopo l’altra in cerca righe di saggi e recensioni, riunite ca “ponte di fumo” mette insieme della conoscenza dell’universo – la poi nelle Prose Critiche. Il dubbio la concretezza di questo oggetto figura di Adamo appare nella prima sul potere di rappresentazione e di della costruzione civile accanto poesia di questa raccolta –, infatti dire della parola, presente nei ver­ alla leggerezza e al carattere gas­ è la frana di quest’ordine che viene si wilcockiani dell’epigrafe (“Tutto soso del secondo termine, mutan­ racchiusa nell’espressione la “lam­ ciò ch’è, è come lo vediamo, / e ogni dolo così in una cosa altra. Fin da pada del verso”. L’idea della luce interpretazione è come un’ombra / questi versi, dunque, si potrebbe che illumina (non esiste luce senza che si staccasse da quel che la pro­ dire che si fa presente la riflessione buio), cioè che fa vedere meglio, duce / per diventare a sua volta un e il problema del linguaggio, che non è quella della scienza, col suo oggetto / passibile a sua volta di diverrà come si sa un nodo cen­ ordine disciplinato, ma è quella del interpretazione) tocca da vicino il 16 Juan Rodolfo Wilcock, Poesie, op. cit., p. 17. 17 Juan Rodolfo Wilcock, Poesie, op. cit., p. 36. 18 Juan Rodolfo Wilcock, Poesie, op. cit., p. 38. 19 Ibidem. 26 16 poeta per eccellenza dei paradossi, limiti in cui riesce ad esserlo la cadenze e a volutamente ester­ Caproni appunto, che incarna una poesia), il libro di Delfini, quello ne rime (“Noi siamo gli imposto­ delle esperienze più singolari del di Wilcock e l’altro di Nelo Risi ri mimetici / che girano nell’om­ 20 secondo Novecento. Nel 1961, su Il bra dei casolari / per sostituire Punto, annotando delle “Novità di Affermando che la poesia “è i volti familiari / con altri volti Poesie” per i lettori, tra cui testi di in perpetuo moto di avanscoper­ simili ma ermetici) che, stando Leonardo Sinisgalli, Antonio Delfi­ ta” senza alcuna possibilità di “ri­ di continuo sul filo d’una metri­ ni, Biagio Marin, Nelo Risi, Caproni petizione o di ristagno”, Caproni ca e d’un repertorio ormai d’uso non lascia passare inosservato l’e­ introduce la figura e i versi italiani commerciale (cui più volentieri sordio poetico di Wilcock con Luo- di questo “argentino di nascita, ma ricorre la pubblicità quando vuo­ ghi comuni: con sangue italiano nelle vene”. E le esprimersi in poesia, sul cano­ continua così il suo consiglio per le vaccio del martelliano di comica vacanze del ’61: tradizione), Non siamo invadenti, e cerchia­ mo di metter le cose a pun­ riescono spesso a pigmentare un altro vuoto to. Dobbiamo segnalare tre […] in questi suoi Luoghi comu- dell’anima che si va cercando, o quattro libri per le vacanze. ni, dove la molta cultura dell’au­ vuoto tragico ch’è pur sempre Messi nella valigia, di straforo, tore, unita a una non frequente quello di tutti noialtri, figli del quelli già indicati, i quali del re­ esperienza di altre letterature progreditissimo ma amarissimo sto potrebbero già bastare, se­ (il suo campo par soprattutto secolo esistenziale.21 gnaliamo ancora, per chi invece quello del modernismo ispano­ volesse orientare la scelta sul americano, perfino nella nume­ Wilcock, con un lavorio con e versante della novità (di qual­ razione del verso) non gli impe­ nella lingua, si inserisce nella di­ cosa di diverso e di stuzzicante: disce, anzi, di dar ironica vivacità scussione dei temi circa il fare po­ di “scandaloso”, magari, nei o vitalità a volutamente semplici etico che ha segnato gli anni ‘60 in 20 Giorgio Caproni, Prose Critiche, a cura di Raffaella Scarpa, con un’introduzione di GianLuigi Beccaria, Aragno, Torino, 2012, p. 1456. 21 Ibid, pp. 1456­1457. 27 Italia, nonché in quello di più ampio La parola morte è il titolo del suo delle trappole di un linguaggio che raggio, già anticipato, riguardante secondo libro di poesie italiane, ed è si presenta sempre più consunto. il linguaggio, che segna tanti dibat­ il primo pubblicato sulla Bianca nel “Cristo ogni tanto torna, / se ne va, titi filosofici e poetici. La parola è 1968, al numero 50 della collezione. chi l’ascolta… / Il cuore della città / è un elemento necessario alla signi­ Se il ’68 da un lato può far venire in morto, la folla passa / e schiaccia – è ficazione, ma al contempo essa è mente i movimenti socio­culturali buia massa / compatta, è cecità…” frutto di una tradizione che ha for­ (operai, studenti…), che si espan­ sono i versi sulla copertina della se cercato la conoscenza attraver­ sero in vari paesi del mondo, senza Bianca numero 53, che introducono so il nominare le cose, cioè un pro­ 25 dimenticare ovviamente il Pasolini Il terzo libro di Giorgio Caproni, pub­ cesso di codificazione. Ed è proprio de “Il Pci ai giovani”, dall’altro gli blicato nello stesso anno di La parola qui che l’uso che Wilcock fa del lin­ anni ’60 per la poesia italiana della morte. Un libro strano che però già guaggio gli permette di entrarvi e seconda metà del Novecento in poi annuncia quello che verrà poi chia­ scavarlo, mettendo in scena non il sono più che emblematici. Certa­ mato da Caproni in “Controcanto”, nome ma il silenzio o i fili sfilacciati mente in questo libro di Wilcock, nel Conte di Kevenhuller (1986), ri­ che esso porta con sé. L’idea dun­ come in altri dello stesso periodo, facendosi ai primi versi della Com- que dell’uomo come detentore di c’è uno sguardo attento, critico e media, “morte della distinzione”: un linguaggio che gli possa aprire pessimista nei confronti dei cambia­ smantellamento e sgretolamento, mondi si sfarina, “la rottura del menti della società – il mutamento per dire con un termine caproniano patto tra parola e mondo”. antropologico detto da Pasolini –, e “frana” di alcune categorie. 22 23 24 26 22 “Wilcock rilegge i propri esordi spagnoli, senza più la lente – fantastica, anamorfica – del gusto borgesiano, di cui conserva, piuttosto, una componente allegorica. E reinventa se stesso come poeta dell’intelligenza, addomesticando i grandi temi lirici dell’amore e della morte a una sorta di saggismo morale, di satura dove confluiscono la passionalità dell’eros, la citazione, la sofferenza per il declino della civiltà contemporanea (quindi l’ironia e l’invettiva), la freddezza della meditatio mortis condotta sui binari del pensiero linguistico di Witt­ genstein: la “parola morte””, in Roberto Deidier, Stratigrafie poetiche: Dante, Eliot, Borges, op. cit, p. 79 23 Nel suo saggio già citato, dedicato ai rapporti di Wilcock com Borges, Florencia Ferrante sottolinea il fatto che la riflessione sul linguaggio il suo uso e la sua manipolazione diviene un problema sempre più caro allo scrittore italo­argentino. 24 George Steiner, Vere presenze, Garzanti, Milano 1998, p. 95. 25 Certamente il nome di Pasolini evoca di per sé una serie possibile di rapporti intellettuali e artistici con J. R. Wilcock, non solo per la partecipazione come Caifa al Vangelo secondo Matteo, ma anche per il suo Trasumanar e organizzar (1971) o per la recensione alla Sinagoga degli Iconoclasti, in Pasolini, Pier Paolo, “J. Rodolfo Wilcock, “La Sinagoga degli iconoclasti”, in Tempo, 14 gennaio 1973, poi in Descrizioni di descrizioni, a cura di G. Chiarcossi, Milano, Garzanti, 1979. Ma, purtroppo, in questa sede si vuole più che altro pensare a delle possibilità di incontri poetici che potranno in futuro avere un ulteriore sviluppo. 28 Nei testi raccolti in La parola zia: l’impossibilità di significare è nella pura natura / non ancora fo­ morte, il termine morte nelle sue ribadita poi nei due versi anaforici rata dal tarlo umano […]”30. variazioni (sia di classe gramma­ (“vuol dire morte”). A questo proposito si deve ri­ ticale che di numero) è forse fra i Se la facoltà di nominare le cose cordare della sua rubrica sul Pun- più ricorrenti. In queste pagine la è un tratto dell’umano, frutto della to, forse non casualmente intito­ tensione dovuta all’impossibilità di convenzionalità delle lingue, che ci lata La Biblioteca di Babele, in cui descrivere a parole ciò che fa parte distingue dagli animali, prima an­ Wilcock problematizza il tortuoso della natura umana non è poca.27 cora di questa raccolta che mette rapporto col linguaggio: “il lin­ Nella poesia numero 9 (“Amore è a fuoco uno dei principali temi fi­ guaggio non è uno specchio fede­ orbite piene di terra”), per esem­ losofici e poetici del XX secolo, c’è le del mondo reale”, continuando pio, tale difficoltà sgretola le paro­ bisogno di recuperare l’esperienza in questo testo del 1962: le nella seconda strofa di questo avviata con la rivista Intelligenza29, componimento, il cui primo verso diretta dallo stesso Wilcock, e che Il linguaggio non è più, come è composto da lettere: “A, bi, ci, di, ha avuto solo due numeri tra il 1962 siamo e, effe, gi, / vuol dire morte, / tra­ e il 1963, sulla quale sono usciti i un’elastica fodera che cinge sumanar significar per verba, / vuol versi de “I Tre Stati”: “Lo sguardo strettamente il mondo reale, dire morte.”28. Nel riprendere il fa­ si distoglie dal disordine / benché bensì un leggero quasi indi­ moso verso del primo Canto del Pa- nel voltarsi esso non possa / non pendente velo, appoggiato radiso, Wilcock se ne appropria, lo stendere sul caos qualche velo di alla meno peggio sulla realtà aggiorna e al contempo lo poten­ pace, / più che altro si compiace / tangibile e visibile. portati a credere, 26 Cfr. Enrico Testa, Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000. Einaudi, Torino, 2005. 27 A questo punto ci si confronta con un’altra aporia, cioè, se la lingua è ciò che definisce e determina l’uomo, essa è anche, a sua volta, modificata e determinata dall’uomo. Perciò, è fondamentale l’esperienza che si fa della lingua e, in tal senso, la poesia ha un ruolo fondamentale nel processo e divenir storico. 28 Juan Rodolfo Wilcock, Poesie, op. cit., p. 84. 29 Wilcock collaborerà e parteciperà ad altre iniziative in Il Mondo, Tempo presente in cui sostituisce Nicola Chiaromonte alla rubrica sul teatro, per non parlare di giornali come La Nazione di Firenze, L’Espresso, La Voce Repubblicana, Il Punto, Il Messaggero. Ed è appunto in questi anni, subito dopo il suo arrivo in Italia, che inizia la frequentazione e si inserisce in un tessuto letterario e intellettuale più che vivo: oltre al nome del già citato Chiaromonte si possono ricordare quelli di Elsa Morante, Alberto Moravia, Ennio Flaiano, Roberto Calasso, Ginevra Bompiani, tra gli altri. 30 Juan Rodolfo Wilcock, Poesie, op. cit., p. 68. 29 Non è allora una semplice do investighiamo verbalmente e, al contempo, è esso stesso coincidenza che nella terza parte il mondo, la risposta è sempre che ci uccide. Il moto insito di del poemetto “I Tre Stati”, pub­ una descrizione del linguaggio, questa poesia più che circolare blicato appunto nel 1963, sulle pa­ mai una descrizione del mondo” potrebbe essere quello della spi­ gine di Intelligenza, quindi prima (1965, Il Punto). rale delineante, un vortice che si de La parola morte, egli ci offra in muove labirinticamente. L’ordito questa prospettiva uno sguardo Noi fatti di parole e di null’altro, del linguaggio è una specie di ra­ obliquo: “Inoltre, esiste la paro­ noi fabbricati a caso da un linguaggio, gnatela alla quale gli uomini sono la, / con cui gli oggetti vengono ci domandiamo perché soltanto noi appesi come trapezisti, ci dice un nominati / e i concetti creati, / dobbiamo essere uccisi da un linguaggio, altro testo di La parola morte; il ciò che ci fa diversi dalle bestie, mentre le bestie vivono, le piante vivono rischio della morte, di cadere, è / un poco, ma non troppo”31. La e noi si muore grammaticalmente, continuo in questa danza di salti riflessione sul linguaggio ce ne ma anche le bestie e vivere sono parole, mortali e, se si vuole, di “legame riporta un’altra fondamentale nel né ci deve stupire che una parola musaico”. Lo sguardo per inqua­ suo laboratorio poetico e narra­ o gruppo di parole siano parole, drare i trapezisti va qui verso l’al­ tivo che è quella sulla “realtà”32: stupisce invece ch’io sia parola to, ma la vita “è sotto nel silen­ la certezza empirica viene messa o gruppo di parole dette dal niente zio / dei vegetali immortali e gli in dubbio così come dirà, in modi al niente, e come dette, e quando e dove? insetti / che senza tempo vivono diversi, che la stessa realtà non è ma come, quando e dove sono parole per sempre”34. Questa è la poe­ conoscibile attraverso il linguag­ […]33 sia da cui è stato tratto il titolo di questo intervento e che forse gio, perché esso nel momento in cui viene messo in moto fa altro. La sensazione di scompiglio espone il carattere paradossale e Nelle parole di Wilcock riportate si fa più che presente in questi aporetico del nostro aver luogo da Florencia Ferrante: “[…] quan­ versi, si è fatti di un linguaggio nel linguaggio. 31 Juan Rodolfo Wilcock, Poesie, op. cit., p. 71. 32 Il testo sul Punto, del 1965, dedicato alle scatole cinesi, affronta proprio questo rapporto col reale: “Perché se è stato osservato che tutto ciò che può essere pensato esiste, conviene aggiungere che nulla può essere pensato se non può essere detto, dunque la affermazione diventa: “tutto ciò che può essere detto, esiste””. Nelle parole di Florencia Ferrante, “Que­ sta è in chiusura, l’estrema conclusione wilcockiana: ciò che può essere detto (e, aggiungiamo noi, scritto), esiste. I voli del pensiero, che sono i voli della sintassi, non solo consentono di creare e immaginare altri mondi, ma la bellezza di quei mondi è proprio assoluta indipendenza dalle ristrettezze di una troppo angusta empirica, come dimostra in definitiva l’esistenza e la possibilità dei paradossi, delle scatole cinesi e degli scandagli logici.”, in Florencia Ferrante, “Paradossi, pulci cinesi, e altri scandali della logica: appunti per un percorso borgeano attraverso gli scritti giornalistici di Juan Rodolfo Wilcock”, in Rassegna iberistica, vol. 42, n. 111, giug. 2019, p. 113. 33 Juan Rodolfo Wilcock, Poesie, op. cit., p. 86. 34 Juan Rodolfo Wilcock, Poesie, op. cit., p. 87. 30 Chi non ha nome non può morire, to, e portano con sé anche il di­ re, ma colui che è immerso in la bestia ignora il proprio nome e vive, sincanto nei confronti del sentito un campo di forze e di tensioni. chi non ha la parola non perisce. progresso caotico. La lingua di Usare il linguaggio non è in que­ Wilcock è depotenziata , o per sta prospettiva un’esecuzione, Chi non ha la lingua non si scrive nel libro meglio dire inoperosa; esige cioè la messa in atto di un “ingranag­ che a alcuni metri dalla terra gli uomini la sua inoperosità dinanzi ad una gio”, ossia la maestria nell’ado­ scrivono, il libro delle defunzioni. (pp. 86­87) società che si presenta o si vuole perarlo, ma diviene uno sguar­ 35 più che “produttrice” , inciden­ do e un’istanza critica di questa Riflessioni in parallelo pos­ do nella lingua stessa; e, questa stessa operazione e dell’uso che so essere rintracciate nei libri di incisione­scissione non può esse­ se ne fa. Si potrebbe dire addi­ Giorgio Caproni e di Vittorio Se­ re che politica. Il poeta, infatti, rittura che certa apparente con­ reni di questi stessi anni, i quali rovescia i dispositivi del linguag­ traddittorietà sia la scintilla di hanno inoltre dedicato un’im­ gio, rimettendo in discussione il quest’operazione, che non è mai portante riflessione al linguaggio linguaggio stesso, che è forse l’u­ del tutto padroneggiata proprio nelle loro poesie. Alcuni momenti nica cosa che ci determina. perché ciò che rimane intrinse­ del Congedo, il carattere stranian­ Trattasi allora di un proces­ co ad essa è giustamente il suo te del Terzo libro, l’emblematico so continuo di appropriazione tratto dialettico36: “Ogni parola titolo degli Strumenti umani sono e disappropriazione, e proprio nome di una cosa / è un nome appunto dedicati a questa parola per questo l’artista non è colui singolare della morte / tranne la che scappa, che dissolve l’ogget­ in grado di creare e di realizza­ vita che non è parola”37. 35 “Lo scompiglio ludico del senso, con cui l’autore sistematicamente aggredisce le formule stereotipe che depotenziano la lingua e adulterano ogni forma di rivelazione verbale, ne riflette lo sguardo di lucido disincanto sulla società italiana del miracolo economico, affidato ad una pronuncia amaramente consapevole della degradazione in atto”, Katia Trifirò, Dell’uomo e di altri mostri. La drammaturgia di Juan Rodolfo Wilcock, Edizioni Sinestesie, 2019, p. 55. 36 C’è sempre uno stupore come indica Adorno: “Quanto più fittamente gli uomini (il che è altra cosa che lo spirito soggettivo) hanno involto tutto nella ragnatela categoriale, tanto più profondamente si sono disabituati dalla meraviglia provata per quell’alterità e con crescente fiducia si sono ingannati sull’alieno. Debolmente l’arte cerca di risarcire ciò, quasi con un gesto rapidamente staccantesi. A priori essa porta gli uomini a meravigliarsi.”, in Theodor W. Adorno, Teoria estetica, trad. E. De Angelis, Einaudi, Torino, 1977, p. 214. 37 Juan Rodolfo Wilcock, Poesie, op. cit., p. 88. 31 Domenico Vandelli in storie a fumetti. Un nuovo approccio metodologico nello studio della scienza moderna Ricardo Dalla Costa Nei primi anni Sessanta del XVIII secolo, un illu­ stre personaggio fece la differenza nelle questioni accademiche che coinvolgevano lo Stato e la scien­ za portoghese. Mi riferisco a Domenico Vandelli (1735­1816), un importante nome del sapere luso­ brasiliano. Di formazione medica e di storia natu­ rale, Vandelli nacque a Padova, nella penisola ita­ lica, e si radicò in Portogallo nel 1764, su invito del Marchese di Pombal (Sebastião José de Carvalho e Melo, 1699­1782), principale ministro del Re Dom José I, tra il 1750 e il 1777. Durante la sua permanenza in Portogallo, nel Collegio dei Nobili, il professore tenne conferen­ ze di scienze, matematica, chimica, fisica e storia naturale. Tuttavia, la resistenza e lo scarso en­ tusiasmo da parte dell’aristocrazia portoghese impedirono progressi in un moderno modello di insegnamento. Di fronte all’impasse delle proposte educative pombaline, assunse incarichi importanti, come la direzione del Museo di Storia Naturale (Real Mu­ seu) e del Giardino Botanico di Ajuda, nel 1768. Suc­ cessivamente, occupò la direzione del Laboratorio Chimico dell’Università fino al 1791. Nel 1772, divenne membro importante nella ri­ forma dell’Università di Coimbra e, il 17 maggio del 1774, assunse attività elettive e l’incarico di “lente proprietário” delle cattedre di chimica e di storia naturale per quasi vent’anni. Nel 1779, Vandelli collaborò alla fondazione dell’Ac­ cademia Reale e, come uomo di scienza, influenzò, fu 32 protagonista e ottenne rispetto fra i Figura 1 – L’Accademia soci nelle sue pubblicazioni. Metodologia a fumetti Studiare la scienza moderna nel contesto interdisciplinare della Sto­ ria della Scienza e della Storia Econo­ mica, è lo standard sperato agli occhi del lettore abituato al rigore dello scientismo; eppure, in questo ela­ borato, è presentata una proposta metodologica parallela e temeraria. Figura 2 – Stranieri felici Si tratta della tecnica del fumetto. A prima vista sembra sconcertante e strana, ma è la pura e semplice ma­ nifestazione dei messaggi sottintesi registrati nei fumetti, dell’essenza nel contesto e del piacere nel com­ prendere l’argomento. A proposito della storicità, lo svolgimento è tracciato su approc­ ci (parole, frasi o segmenti testua­ li) estratti da fonti documentali La Scienza Moderna ria”. La satira si trova nel susseguir­ correlate al contesto storico nella La figura 1 è una striscia che pre­ si delle informazioni (la lingua del forma di humor moderno, poiché senta informazioni che vanno oltre re) alla luce della scienza moderna non sempre il lettore è abituato alla a una satira, cioè, una storia reale (a esempio delle Memorie Econo­ letteratura e alla forma esibita nei alla fine del XVIII secolo portoghese. miche) alla fine del XVIII secolo. fumetti. Le illustrazioni sono state Nel primo riquadro, alcune La figura 2 illustra una parte sviluppate attraverso il sito Toon- “voci” risuonano dall’interno del di una corrispondenza fra Van­ doo1 in quanto rende disponibile castello (stemma stampato sui delli e il maestro Lineu (Carl von un’interfaccia grafica di facile utiliz­ Tomi dell’Accademia Reale delle Linné, 1707­78)3, pubblicata nella zo e con diversi diagrammi per cre­ Scienze di Lisbona) per tutti gli uo­ Memória Sobre Algumas Produções are le storie a fumetti. I personaggi mini di scienza, proferendo le se­ Naturais Deste Reino das Quais se saranno presentati mediante foto o guenti parole: emitte lucen tuam. Poderia Tirar Utilidade.4 approssimazioni figurate (porcella­ Nel secondo riquadro, Domeni­ Nel primo riquadro Vandelli ne, castelli, giullare di corte, re etc.) co Vandelli risponde: nisi utile est dice: “Mi sono ricordato, maestro per aiutare nell’ambientazione e/o quod facimus stulta est gloria2. Nel Lineu, che esclamava…”. Nel ri­ nello sfondo del disegno. Il meto­ terzo riquadro si trova la traduzio­ quadro seguente Lineu risponde do in sé non è innovativo, ma gli ne delle vulgate latine. Il re Dom in latino: Bonne Deus! Si Lufitani approcci rivelano nuove forme di João VI di Portogallo ripete: “ir­ nofcent fua bona nature, quam in- diffusione e materializzazione dei radia la tua luce”, e il suo suddito felices effent plerique alii, qui non lavori che in passato risvegliarono (Vandelli) risponde: “se non è utile poffident terras exoticas! la curiosità di lettori e ricercatori. ciò che facciamo, stolta è la glo­ Infine, nel terzo riquadro, il giul­ 1 Disponibile al sito <http://www.toondoo.com/>. 2 Questa vulgata si trova sul Frontespizio dei Tomi da I a V delle Memorie Economiche dell’Accademia Reale delle Scienze di Lisbona. 3 Botanico e creatore della nomenclatura binomiale e della classificazione scientifica. 4 VANDELLI, Domingos. Memória sobre algumas Produções Naturais deste Reino, das quais se poderia tirar utilidade. In: Memórias Econômicas da Academia Real das Ciências de Lisboa, tomo I, 1789, p. 181­2. 33 Figura 3 – Lettere fra naturalisti (Svezia) al Lineu a Lisbona (Portogal­ lo), congratulandosi per il capolavoro stampato nei suoi scritti, e ancora, dando ad una pianta il nome di Draca­ ena Vandelli, in onore al suo pupillo.5 Nel terzo riquadro, Vandelli, pieno di gioia, ringrazia, con molta rispettabilità, il maestro per l’ami­ cizia reciproca. L’ultima vignetta è una bozza di un albero, propriamente det­ to, che secondo Vandelli aveva un grande uso commerciale, poiché se ne estraeva vernice.6 La Figura 4 è l’estensione della Figura 3, mostrando nella prima vi­ gnetta il pensiero di Vandelli, e nel­ la seconda, l’albero reale in piena esuberanza in suolo portoghese. La Figura 5 illustra Vandelli e José Bonifácio de Andrada e Silva (1763­1838). José Bonifácio è co­ nosciuto in Brasile come Patriarca dell’Indipendenza (grazie alla sua laurea in Diritto e al suo contributo nella formazione della prima Costi­ tuzione del Brasile imperiale), ma lare di corte traduce ai non iniziati possiedono terre esotiche!” la scienza moderna: “Buon Dio! Se Un’altra corrispondenza fra gli uo­ i portoghesi e gli spagnoli conosce­ mini di scienza del Settecento è mo­ ranno i beni della tua natura, quan­ strata nella Figura 3. Nei primi due ri­ to infelici saranno gli altri, che non quadri, Lineu scrive lettere da Uppsala Figura 4 – Vandellia nel suo soggiorno in Portogallo e in alcuni paesi dell’Europa, venne conosciuto come un grande uomo di scienza (grazie alla sua forma­ zione di naturalista, e in particola­ re, in mineralogia). Così, in forma di satira, Bonifacio chiede al maestro se c’è qualcosa di utile nella “Terrinha” (riferendosi al Portogallo), e come risposta, nella seconda vignetta Vandelli risponde che c’è “espato fusivel”7, cioè, una denominazione della nomenclatu­ ra della chimica antica che mesco­ lata con argilla fornisce la materia prima di un certo tipo di porcellana. 5 VANDELLI, Domenico; LINNE, Carl von. De Linneu para Vandelli: Correspondência Entre Naturalistas. In: CAMARGO­MORO, Fernanda de et al. O Gabinete de curiosidades de Domenico Vandelli, v. 2. Rio de Janeiro: Dantes Editora, 2008, p. 19 e 88. 6 VANDELLI, Domenico. Memória Sobre Algumas Produções Naturais das Conquistas, as Quais ou São Pouco Conhecidas ou não se Aproveitam. In: Memórias Econômicas da Academia Real das Ciências de Lisboa, tomo I, 1789, p. 196­98 e VANDELLI, Domenico. Memória Sobre as Produções Naturais do Reino e das Conquistas, Primeiras Matérias de Diferentes Fábricas, ou Manufaturas. In: Memórias Econômicas da Academia Real das Ciências de Lisboa, tomo I, 1789, p. 225. 7 VANDELLI, Domingos. Memória sobre algumas Produções Naturais deste Reino, das quais se poderia tirar utilidade. In: Memórias Econômicas da Academia Real das Ciências de Lisboa, tomo I, 1789, p. 179. 34 Figura 5 – Stoviglie Vandelli Vandelli aveva due fabbriche di Figura 6 – Nostalgia dei maestri stoviglie, la prima a Rossio di San­ ta Clara, conosciuta come “Sto­ viglie di Vandelles”, che funzionò a Coimbra, dal 1784 al 1810, e la seconda, di Vila Nova di Gaia, che era conosciuta come Fabbrica del Cavaquinho.8 La terza vignetta illustra l’unico esemplare di stoviglia fabbricata in una delle sue aziende che scampò a un incendio nel 1810 e che rivela con esclusività il disegno del viso di Vandelli. E dato che non potrei lasciar passare quel momento nostalgico dei bei tempi dell’Accademia, la fi­ gura illustra la successione di gran­ di uomini di scienza, professori per generazioni. La prima vignetta mostra Dom Pedro II (1825­1891), imperatore del Brasile, ricordando in età avan­ zata la compagnia e la tutela dell’il­ di condurre le giovani intelligenze lustre José Bonifácio de Andra­ e preparare gli uomini del futuro” da al sapere della scienza moderna. da e Silva in tenera età. A questo Nella seconda vignetta, José Bo­ proposito, si fanno opportune le nifácio ricorda il maestro Vandelli. parole di D. Pedro II: “se non fos­ Nella terza vignetta Vandelli ricorda In mezzo a varie pubblicazioni si imperatore, desidererei essere il maestro Lineu, e infine, Lineu ri­ (alcune inedite, scritte a mano e professore. Non conosco missione corda il suo pupillo che fu nelle lon­ non pubblicate), emergono cinque più grande e più nobile che quella tane terre lusitane ad aprire la stra­ collezioni stampate nell’Accade­ Le Memorie Economiche nel Regno Lusitano 8 COSTA, Ricardo Dalla. Ciências Naturais e Econômicas na obra de Domingos Vandelli (1735-1816). 2017. 116f. Tese (Doutorado em História da Ciência) – Pontifícia Universidade Católica de São Paulo. São Paulo, 2017, p. 44. 35 mia Reale delle Scienze di Lisbona, Memória Sobre Algumas Pro- duçoes Naturais do Reino e das in cui l’autore contribuì nei primi duçoes Naturais Deste Reino das Quais Conquistas, Primeiras Matérias de quattro tomi. Infatti, furono undici se Poderia Tirar Utilidade: descrizione Diferentes Fàbricas ou Manufaturas: memorie economiche, delle quali dei vantaggi nell’arte dell’estrazione esposizione delle basi e delle diffi­ sei nel primo (1789), due nel secon­ dei beni minerali e della buona agri­ coltà nell’aumento della produzio­ do (1790), due nel terzo (1791) e coltura, oltre a sottolineare l’impor­ ne in Portogallo, alla fine del XVIII una nel quarto tomo (1812). tanza dei regni animale e vegetale; secolo; brevi appunti sulla bassa - Memória Sobre Algumas crescita demografica portoghese e, lo e la sinopsi delle memorie (econo­ Produçoes Naturais das Conquistas, di conseguenza, la mancanza di for­ miche) del primo tomo con rilevanza as Quais ou São Pouco Conhecidas ou za lavoro per la coltivazione di ali­ politica agraria con interpretazione não se Aproveitam: esposizione delle menti nel campo, la quale giustifica­ fisiocratica alla fine del XVIII secolo: ricchezze del Regno e delle conqui­ va la preferenza degli investimenti Memória Sobre a Ferru- ste, mostrando le fragilità dello sfrut­ in agricoltura anziché nell’industria; gem das Oliveiras: analisi sull’in­ tamento delle mine di oro, che non setto che riduce la produzione e la sempre erano possibili e, non rara­ cia que em Portugal se Deve Dar a qualità degli ulivi; mente, sorgevano casi di coltivazioni Agricultura Sobre as Fàbricas: enfasi Memória Sobre a Agricul- abbandonate. Mostrava che l’oppor­ sulla preferenza all’agricoltura an­ tura Deste Reino e das suas Conqui- tunità di coltivare una buona agricol­ ziché alle industrie, in Portogallo, stas: critica alle terre incolte e alla tura, rendeva possibile una maggior poiché non si sarebbe potuta pre­ mancanza di coltura in piante utili ricchezza fornita dalla natura; giudicare la forza lavoro utilizzata Così, per esempio, seguono il tito­ - - al commercio portoghese; - - Memória Sobre as Pro- - Memória Sobre a Preferen- nell’agricoltura con iniziative volte allo sviluppo di nuove fabbriche. Figura 7 – Memorie Economiche Sotto forma di satira, la figura 7 mostra i ricordi di Vandelli con una sorprendente lucidità: La presenza del pensiero fisio­ cratico, in Portogallo, portò riflessi nell’opera di Vandelli, con enfasi sia alle produzioni naturali più abbon­ danti nei territori lusitani, sia a quel­ le che esigevano lavoro agrario. Vandelli svolse un lavoro signifi­ cativo alla Corona portoghese con la spiegazione del migliore metodo di sfruttamento dei beni offerti dalla na­ tura per superare la crisi economica e politica che impattava il Portogallo, soprattutto nell’attività mineraria e nell’agricoltura. La sua collabora­ zione consolidò gli studi sulla storia naturale nel Regno e nelle Colonie, principalmente, in Brasile. La figura 8 illustra una classe, e in particolare, i sedici brasiliani che furono accademici a Coimbra sotto la direzione di Vandelli, come Vicen­ te Coelho da Silva Seabra e Telles (1764­1804), José Bonifácio de An­ 36 drada e Silva (1763­1838), Manuel da Silva Lisboa (Visconte di Cairu, non permette soltanto la revisione Ferreira da Câmara Bittencourt e Sá 1756­1781), Luís António Furtado de e il fissaggio dei documenti tratta­ (l’“Intendente Câmara”, 1762­1835), Castro Mendonça e Faro (6º Viscon­ ti, ma anche una forma parallela di Thomé Rodrigues Sobral (1759-1829) te di Barbacena, 1754­1830), José studiare e verificare l’importanza e Constantino Antônio Botelho de Álvares Maciel (1761­1804), Baltasar di un padovano in terre lusitane. Lacerda Lobo (1754­1820). da Silva Lisboa (1761­1840), Joaquim Studiare Domenico Vandelli e ve­ Oltre a questi, i naturalisti: Ale­ Veloso de Miranda (1750­1817), Ber­ rificare gli ammirevoli servizi che pre­ xandre Rodrigues Ferreira (1756­ nardino Antônio Gomes (1768­1823). stò nel Regno, nelle Colonie e per la 1815), João da Silva Feijó (1765­1815), In evidenza, la persona di José Bo­ scienza moderna, dà l’opportunità di José Vieira Couto (1752­1811), Frei nifácio de Andrada e Silva (1763­1838), uno studio di caso tra i più appropriati Manuel Arruda da Câmara (1752­ il discepolo più prolifico del maestro. per evidenziare la stretta relazione fra 1810), Frei José Mariano da Con­ Considerazioni finali i fattori politico­economici che prese­ ceição Veloso (1741/2­1811), José L’approccio in forma di fumetti ro forma negli scritti dell’autore. Figura 8 – Accademici brasiliani a Coimbra 37 Chi ruba il merito Quando un uomo privo di fantasia, ma molto ambizioso raggiunge una posizione di potere come fa a conservarla? Prima di tutto si circonda di persone mediocri che tiene legate a sé con il denaro, con i ricatti e con la paura. Poi creando ostacoli e impedimenti alle persone di valore e creative per rallentare la loro ascesa e costringerli a ubbidire ai suoi ordini. Il me­ diocre anche quando è potente, di fronte all’inventore, al creatore, prova un insopportabile sentimento di rancore e di invidia. Allora fa di tutto per ostacolarlo, per danneggiarlo, per umiliarlo. Il regista Forman ce lo ha rap­ presentato stupendamente nel film Amadeus, dove il compositore Salieri dedica la sua vita a odiare e a distruggere Mozart. Ma c’è il direttore di giornale invidioso del giornalista famoso, l’editore invidioso dello scritto­ re, il professore del suo allievo. E se, col tempo, il creatore, l’innovatore, ha tanta tenacia, tanta forza da affermarsi ugualmente allora il mediocre potente può decidere di cambiare strategia nei suoi riguardi. Anche le persone incapaci, infatti, per conservare il proprio potere e accre­ scerlo, hanno bisogno di gente creativa. Poiché non vogliono circondarsi di persone di valore che temono e invidiano, di solito comperano le loro prestazioni e poi se ne sbarazzano. Ma c’è anche chi non si fa comperare e allora il mediocre ambizioso decide di sedurlo con la lusinga, con l’ingan­ no. Avvicina l’individuo creativo che fino a quel momento ha osteggiato, lo corteggia, gli dice che ha capito il suo genio, che lo aiuterà, basta che si lasci guidare da lui. E si dà da fare, lo sostiene, lo finanzia, si presenta­ no insieme in pubblico, poi quando le cose sono avviate, ci va da solo e si prende il merito di ciò che hanno realizzato. Infine, quando l’opera è conclusa incomincia a trovargli dei difetti, a criticarlo, a denigrarlo finché non lo allontana, lo fa sparire e resta solo il suo nome. Molti monumenti commemorativi non ricordano il creatore, l’inventore, ma il potente che per molto tempo ha ostacolato l’inventore, poi lo ha sfruttato e, alla fine, è riuscito a farlo dimenticare e a prenderne il posto. Francesco Alberoni 38 PASSA TEMPO DIVERTIMENTO Le rondini che in primavera iniziano la loro migrazione verso il Nord Europa hanno scoperto una «scorciatoia». Per evitare i venti ancora freddi delle vette alpine, esse passano in Svizzera attraverso il tunnel del San Bernardo. PUZZLE CURIOSITÀ SOLUZIONI PUZZLE 39